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Autore: Mizar19    25/04/2012    4 recensioni
[Prima classificata al Nove d'amore contest indetto da Lefty su Writers Arena Rewind]
Una giovane spia viene mandata per la prima volta in missione sotto copertura: deve smascherare una coppia di facoltosi coniugi che con il loro impero industriale coprono un traffico di prostitute minorenni dell'Europa dell'est. Ciò che non si aspetta di trovare in quella casa è una persona che riporterà alla luce il suo passato...
[...]Sulla veranda incrociò Milagros intenta ad annaffiare i gerani.
«Quello non dovrebbe essere il mio lavoro?», scherzò cogliendola di sorpresa e la ragazza, come da previsione, trasalì.
«Oh, mi… mi hai spaventata», ridacchiò nervosamente; si schiarì la gola e si riprese in fretta: «No, questi gerani sono miei: ho portato i semi dal mio paese e li ho piantati, sono un pezzo di casa mia che ho voluto portare con me, anche se non è nulla di speciale…»
«Non dire così», mormorò Joanna improvvisamente acida. Lei non aveva vouto portare nulla con sé a Philadelphia quando era partita, quasi dieci anni prima; sarebbe stato troppo doloroso avere qualsiasi cosa che le ricordasse ciò che era successo.
[...]
Genere: Science-fiction, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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[Prima classificata al Nove d'amore contest indetto da Lefty su Writers Arena Rewind]


Titolo: L’unica bugia era il mio nome
Autore: Mizar19
Rating: Giallo
Tipologia: One-shot
Lunghezza: 8.897 (contatore di Word, titolo e specchietto esclusi)
Avvertimenti: Femslash
Genere: Azione, (Fantascienza)
Disclaimer: Personaggi, luoghi e trama appartengono soltanto a me.
Note dell’Autore: Come la storia lascia intravedere, essa è ambientata su un pianeta che è sempre la Terra, ma in un futuro indeterminato, diverso e al contempo simile a quello che siamo abituati a conoscere. Non viene mai esplicitamente indicato cosa sia successo a modificare il corso degli eventi, ma si sa che c’è un anno cosiddetto Tempo Zero dopo il quale tutto è cambiato. Il fatto di dare tutto ciò per scontato è voluto: i personaggi vivono nella loro epoca, non sentono il bisogno di giustificarla, di spiegarla.

 
 

L’UNICA BUGIA ERA IL MIO NOME

 
L’orologio a cipolla segnava le otto e sei minuti.
Posò la mano destra su un pannello bordato d’ottone e la massiccia porta in legno che le sbarrava la strada si spalancò con un sibilo.
Attraversò rapidamente la stanza silenziosa per raggiungere l’ufficio del direttore generale del Bureau, l’illustre Théotime Le Tinévant.
«Identificazione». L’assistente personale di Le Tinévant le si parò di fronte con una cartellina rigida e una stilografica.
«JK Stirling».
La donna premette un bottone rosso e dall’interno uno scatto fece aprire la porta. «Otto e otto minuti, prego, si accomodi».
Annuì sorridendo gentilmente per poi varcare la soglia ed entrare nell’ufficio del direttore.
«Agente Stirling, si sieda». La voce proveniva da una poltrona il cui schienale era rivolto verso l’ingresso, così da celare l’uomo che vi era seduto.
La donna prese posto su una elegante poltrona di pelle, pronta ad ascoltare.
«Il Team Falco ha una nuova missione, agente Stirling. Ora deve ascoltare attentamente». Théotime Le Tinévant fece ruotare su se stessa la poltrona per guardarla negli occhi. «Sarete sotto copertura e intendo affidare a lei il ruolo principale, il più importante, il più rischioso nonché il più vicino al nemico…»
L’agente si gonfiò d’orgoglio per essere stata selezionata e si preparò a ricevere istruzioni.
 
Mentre pedalava verso casa rimuginava infuriata. Le Tinévant era un approfittatore bastardo: lei era la più giovane del Team Falco, squadra numero uno del Bureau, e non aveva ancora preso parte ad una missione sul campo; l’esimio direttore si permetteva ora di scomodarla per un lavoro che nessuno dei preziosi membri del Falco era intenzionato a portare a termine. Victor Stone non si sarebbe mai abbassato a tanto, per non parlare di Megan Malanka o Adam Willard! Dunque, siccome le punte di diamante non avevano intenzione di rotolare nel fango, la missione sotto copertura come giardiniera era toccata a lei. Oltretutto l’avevano intortata gettandole negli occhi il fumo della gloria e dell’onore; si era così ritrovata ad accettare prima di sapere che il giorno dopo avrebbe dovuto suonare al campanello della villa degli Averell indossando una salopette di jeans e una maglia stazzonata, e presentarsi per il lavoro da giardiniera che i coniugi proprietari offrivano.
Si rintanò in casa dopo aver lasciato la bicicletta nella rimessa. Aprì lo scatolone sigillato che le avevano dato al Bureau: al suo interno conteneva diversi cambi di vestiti che avrebbe dovuto indossare per la missione, nonché documenti d’identità creati appositamente per lei. Klara Brinkworth, lesse sollevando la patente all’altezza dei suoi occhi azzurri; le avevano assegnato casualmente il nome di una sua prozia svedese, dunque Klara non le suonava troppo estraneo.
Loro avevano voluto umiliarla, ma lei non si sarebbe mostrata sconfitta per alcun motivo: avrebbe affrontato questa missione con professionalità e dedizione, e ovviamente avrebbe risolto il caso.
Joanna Kerstin Stirling doveva diventare Klara, e così sarebbe stato.
 
*
 
Aggiustò per l’ennesima volta i bottoni della salopette, poi premette l’indice sul bottone di metallo che risvegliò un potente trillo. La sua attesa durò pochi secondi.
«Buongiorno», la accolse un uomo che doveva essere il maggiordomo degli Averell.
«Buongiorno a lei. Sono Klara Brinkworth, per il lavoro da giardiniera», si introdusse. Non era stata scelta solamente in quanto membro più giovane del Team, ma anche perché una delle poche con competenze nel settore: mentre proseguiva l’addestramento necessario per entrare nei Servizi Segreti, Joanna aveva lavorato come giardiniera per arrotondare.
«Certo, Miss Brinkworth, da questa parte», le fece cenno di seguirla con aria neutra e assolutamente formale. L’agente Stirling sentì lo stomaco attorcigliarsi mentre posava la spessa suola degli stivali marroni sul sontuoso tappeto nell’ingresso: le dimensioni della casa erano imbarazzanti, avrebbe potuto ospitare un esercito intero con famiglie appresso. Seguì docilmente il maggiordomo, i sensi sempre all’erta, su per una elegante scala di legno antico fino ad uno studio illuminati solamente da luce artificiale che proveniva dalla piantana e dalla lampada da scrivania, entrambe d’ottone e piume.
«La prego di accomodarsi, l’incaricato delle assunzioni arriverà immediatamente», con un mezzo inchino l’uomo si dileguò. Joanna ebbe appena il tempo di posare le natiche sulla rigida sedia che un altro uomo spuntò dalla soglia. Capelli brizzolati, cappello a cilindro sul capo, fisico rilassato e sorriso stretto, si mosse rapidamente fino alla scrivania dietro la quale prese posto.
«Buongiorno, Miss Brinkworth. Io sono Joris Javier, incaricato delle assunzioni nonché della manutenzione esterna della mansione degli Averell», s’introdusse con tono sbrigativo.
«Molto lieta», replicò Joanna.
«Le mostrerò subito la dependance dove si trasferirà in settimana: qua c’è sempre qualcosa da fare, che siano le aiuole dell’ingresso o le siepi in fondo alla tenuta, dunque non si annoierà. I pasti le verranno serviti nella sala da pranzo della dependance alle otto, alle dodici e trenta e alle diciannove. Se dovesse aver fame fuori dai pasti dovrà provvedere autonomamente. Ha qualche domanda?»
«Mmh, no, è tutto chiaro».
«Bene, allora questo è il suo contratto». Joris Javier estrasse alcuni fogli da una cartellina di pelle per poi posarglieli sotto al naso. Prese poi una piuma d’oca e una boccetta d’inchiostro, premurandosi di svitare il tappo del contenitore, e li sistemò accanto al contratto. Joanna afferrò con due dita l’elegante piuma e la intinse con gesto sicuro nel liquido scuro. Firmò uno svolazzante Klara Brinkworth dove era necessario, dunque Joris Javier si ritenne soddisfatto e la invitò a seguirlo fino alla dependance.
«Dovrà condividerla, ma non penso sia un problema».
«Condividerla?»
«Non la stessa stanza, ovviamente, ma accanto a lei dormiranno altre due persone: la signorina Aguada e il signor Stone».
Tornarono nuovamente al pianterreno, attraversando il salone per ritrovarsi in una romantica veranda che si apriva su uno sconfinato giardino. Seguirono il sentiero lastricato di pietra fino alla dependance che poteva essere definita dignitosamente una casa vera e propria: due piani, mattoni crudi e infissi in legno scuro, per non parlare delle deliziose persiane dipinte.
«Secondo piano, prima porta a destra», la istruì Javier prima di darle le ultime istruzioni: sistemare le sue cose, ambientarsi e poi presentarsi nuovamente presso di lui nello studio per iniziare effettivamente a lavorare.
«La ringrazio per la disponibilità».
«È il mio lavoro, Miss», concluse prima di allontanarsi lasciando Joanna e la sua valigia impalate di fronte alla porta della dependance.
 
«Joke Team Falco dodici», sussurrò Joanna attivando tramite un piccolo ingranaggio la minuscola ricetrasmittente dal segnale irrintracciabile.
«Joke Falco, qua Romeo Falco». Perché le stava rispondendo Romaric Mécrinard? Le Tinévant le aveva assicurato che la sera si sarebbe confrontata con lui; dentro di sé ribolliva come un pentolone di minestra.
«Sono dentro. Dov’è il Capo?»
«Impegnato, devi fare rapporto a me», le ordinò Mécrinard, che era anche il vicedirettore del Bureau.
«Situazione stabile. Inserimento iniziato. Nessun ostacolo, nessun rilevamento interessante», riportò Joanna sbloccando il doppiofondo della sua valigia. Due rotelle d’ottone ruotarono silenziosamente su loro stesse finché lo scomparto segreto venne fuori: l’interno custodiva materiale tecnologico di supporto per la missione.
«Cimici e telecamere, Joke, entro la fine della settimana».
«Signorsì, signore».
«Riceverai altre istruzioni quando avremo qualcosa di concreto. Buon lavoro. Interrompere comunicazione». Con uno ronzio metallico, la linea cadde e l’agente Stirling poté estrarre la ricetrasmittente dall’orecchio e riporla nel doppiofondo.
Erano quasi le sette, doveva presentarsi nella sala da pranzo della dependance per la cena. Passò in rassegna gli abiti che le erano stati concessi per la missione: scelse i jeans meno consunti che poté trovare e una camicia arancione a quadri, ai piedi calzava i soliti stivali marroni dalla suola spessa; legò i capelli biondi in una coda alta, poi scese al piano di sotto.
«Buonasera, Miss», la salutò sollevando appena il cappello a cilindro un uomo sulla quarantina con ricci capelli scuri e la carnagione olivastra. Indossava una camicia bianca con gilet di pelle nera, nel cui taschino si nascondeva un orologio a cipolla.
«Buonasera, io sono Klara Brinkworth», si introdusse inclinando il busto in avanti di alcuni centimetri.
«Onorato, Miss Brinkworth. Io sono il tuttofare di casa Averell, Stanley Stone», le prese la mano tra le sue per sfiorarle il palmo con le labbra. Joanna sorrise accondiscendente.
«Miss Aguada ci raggiungerà tra qualche minuto», la rassicurò notando il suo sguardo indugiare sulla terza sedia sistemata attorno al tavolo.
«Certo, certo, nessun problema», sorrise accomodandosi a tavola assieme a Stanley Stone.
L’ambiente non sembrava per nulla minaccioso e il signor Stone le ispirava una maggiore fiducia paragonato a Joris Javier e ai suoi modi bruschi. Ora attendeva di scoprire l’identità di Miss Aguada, poi avrebbe avuto un quadro completo della situazione.
«Eccomi!». La ragazza non poteva avere più di venticinque anni, era di media altezza e piuttosto magrolina, con lunghi e mossi capelli castano scuro, quasi neri. Indossava una lunga gonna a strati blu scuro, una camicetta bianca senza maniche e un corpetto di cuoio finemente lavorato, decorato da ingranaggi metallici.
«Mi permetta di presentarmi, sono Klara Brinkworth, il nuovo giardiniere». Joanna si alzò in piedi voltandosi verso l’ultima arrivata.
«È un piacere, io sono Milagros Aguada, ospite degli Averell come ragazza alla pari», mormorò a mezza voce inclinando leggermente il busto in avanti. Joanna le prese la mano e ne baciò il palmo.
Svolte le cortesie di rito, i tre presero definitivamente posto a tavola e una donna di mezza età portò loro la cena su un tavolino con ruote, poi la servì nei loro piatti senza dire una parola.
«Grazie, Ivana», disse il signor Stone. La donna si limitò ad annuire socchiudendo gli occhi, poi ritornò da dove era venuta. «La poverina è muta», spiegò Stanley Stone a beneficio di Joanna, che annuì con aria comprensiva.
«Buon appetito Mister Stone, buon appetito Miss Brinkworth», mormorò Milagros Aguada afferrando la forchetta.
«Oh, chiamatemi Klara, suvvia. Comunque, buon appetito anche a voi», poi anche lei iniziò il suo pasto.
 
*
 
La radiosveglia compatta di legno e ottone iniziò a starnazzare un buongiorno ai lavoratori che per le seguenti otto ore si sarebbero spaccati la schiena; Joanna la ignorò, alzandosi lentamente dal letto con un enorme sbadiglio.
«Come si sentono i nostri eroi oggi?», cinguettò la speaker.
«Di merda», borbottò la donna spalancando le due finestre della stanza per permettere ai raggi del sole di illuminarle la strada. Si svestì ammucchiando il pigiama sul copriletto, poi zampettò fino al bagno per lavare via sotto la doccia gli ultimi residui di sonno ancorati alle sue palpebre.
«Every time that I come near her, I just lose my nerve as I’ve done from the start», cantavano i Police alla radio, e Joanna con loro: era un ottimo stratagemma per ingannare eventuali persone in ascolto, troppo silenzio avrebbe destato attenzione indesiderata. China sul doppiofondo della valigia, stava cercando una scatola nera dentro la quale erano state riposte le telecamere e i microfoni, prodotto di un’avanzata tecnologia microscopica; li avrebbe sistemati per la casa – possibilmente senza farsi beccare con le mani nel sacco – nell’arco della giornata, sfruttando ogni occasione che non destasse sospetti.
«Buongiorno, Klara», la salutò con un caldo sorriso Milagros, che stava servendo in tavola pancakes caldi.
«Buongiorno. Li hai fatti tu?», domandò indicandoli con aria un po’ sorpresa.
«Sì, spero siano di tuo gradimento».
«Ah, ehm… non volevo dire che mi stupisce il fatto che tu sappia… cucinare. Ero solo… non me l’aspettavo», borbottò imbarazzata Joanna sedendosi davanti al suo piatto. Cercò con lo sguardo lo sciroppo d’acero.
«Eccolo». Milagros le sventolò davanti al naso il contenitore in vetro. «L’avevo dimenticato sul portavivande», si giustificò.
«Be’, grazie mille!»
Joanna si verso un’abbondante dose di sciroppo sui pancakes: il liquido ambrato scivolò sinuosamente sulla sua colazione allargandosi in sottili ruscelli, osservato dall’affamata donna i cui occhi si andavano spalancando man mano che quello spillava dal contenitore.
«Sono davvero deliziosi!», esclamò Joanna osservandoli estasiata dopo aver inghiottito il primo boccone; Milagros ridacchiò tentando di ridimensionare il suo merito.
«No, insisto, sei meravigliosa. Posso chiederti cosa studi?», le domandò riempiendosi di nuovo la bocca. Aveva bisogno di informazioni su Milagros Aguada: il fascicolo riportava solamente la sua condizione di ragazza alla pari, ma non specificava la tipologia di studi, né l’età.
«Sono al mio ultimo anno di scienze internazionali».
«Ed è tanto che sei qua? Parli bene inglese…», indagò con genuina curiosità.
«Questo è il mio terzo anno! Gli Averell sono molto gentili, mi trovo bene con loro. I lavori che mi affidano non sono eccessivamente onerosi e ho tutto il tempo per studiare e svagarmi. Io vengo dalla Spagna, da un piccolo paesino del sud», spiegò Milagros.
«Ah, l’Europa… anch’io sono originaria del Vecchio Continente».
«Davvero? Pensavo fossi americana, ma con il senno di poi noto che effettivamente hai un accento un po’ strano…», Milagros si sedette di fronte a Joanna, aggiungendo a sua volta lo sciroppo d’acero sui pancakes.
«Be’, mia mamma era norvegese e mio padre inglese, io sono cresciuta nel Galles», e questa era la verità: anche Joanna Stirling, come Klara Brinkworth, aveva trascorso i primi vent’anni della sua vita a Port Talbot, per poi trasferirsi a Philadelphia, ma solo Joanna si era arruolata nei servizi segreti.
«L’Inghilterra…», sospirò Milagros con aria trasognata. «Il mio sogno è andare a Londra e fare quelle cose che… non lo so, quelle che fanno tutti i turisti», rise.
«Non sei mai stata a Londra?», domandò Joanna un po’ stupita, questa volta senza preoccuparsi nemmeno di aver inghiottito il boccone.
«No, purtroppo no, non sono mai uscita dalla Spagna. Be’, ovviamente solo per venire qua».
«Riuscirai a visitarla, prima o poi», la incoraggiò Joanna prima di mandar giù in un solo sorso il suo succo d’arancia. «Non so come ringraziarti per la colazione, ma io ora avrei un lavoro da sbrigare. Ti auguro buona mattina, suppongo c’incroceremo più tardi». Si alzò controvoglia dal tavolo e afferrò con delicatezza la mano della ragazza per baciarne il dorso, come la buona educazione voleva. Lei ridacchiò, augurandole a sua volta di trascorrere una mattinata piacevole.
Finalmente libera, Joanna si diresse nella piccola dependance dalle pareti in mattoni e la porta di lucido metallo pitturato di verde che fungeva da deposito per gli attrezzi predisposti alla cura del giardino. Aveva dato un’occhiata il giorno precedente e aveva visto immediatamente che le siepi di bosso andavano potate.
 
Osservando i movimenti della casa, aveva notato che in quel momento – undici e trenta, ora locale – il salone avrebbe dovuto essere libero dunque decise di avventurarvisi; nel caso l’avessero sorpresa in casa, la stanza era vicina alla cucina e poteva addurre la scusa di un bicchiere d’acqua.
Come previsto, tutto era silenzioso. Sapeva dai documenti contenenti le informazioni fondamentali per la riuscita della sua copertura che gli Averell avevano un sistema di telecamere a circuito chiuso sia interno che esterno, che però non registrava ma si limitava a mostrare sui monitor le immagini filmate. Era dunque molto improbabile che ci fosse qualcuno dietro quei monitor, Joanna l’aveva imparato con l’esperienza: erano più che altro uno spauracchio per i lavoratori, che, convinti di essere osservati, temevano d’essere colti in castagna ad oziare.
L’agente Stirling osservò a lungo la stanza, tentando di individuare le collocazioni ideali per la sua microtecnologia: il lampadario sarebbe stato un ottimo punto strategico per le telecamere, mentre per i microfoni le diverse cassettiere antiche ospitavano sulla loro superficie orizzontale una quantità spropositata di paccottiglia. Avrebbe semplicemente dovuto posizionarle senza che venissero spazzate via per sbaglio dagli addetti alle pulizie.
Decise di cominciare con i microfoni: si avvicinò ai soprammobili e valutò di piazzarne uno tra le finte pagine di un libro che una statuetta intagliata reggeva tra le mani, poi si spostò più avanti e individuò un vaso dall’imboccatura stretta che nessuno si sarebbe mai sognato di pulire internamente (come poté constatare quando estrasse l’indice della mano destra coperto di polvere nera). Continuò così seguendo un percorso ideale su un lato della stanza. Ripeté la medesima operazione sul lato destro, in quei punti che il lato sinistro non copriva.
Il problema più gravoso era rappresentato dal lampadario: siccome non voleva rischiare di essere sorpresa in cima ad una scala con le mani tra le gocce di cristallo, decise di attendere il prossimo momento opportuno.
Sulla veranda incrociò Milagros intenta ad annaffiare i gerani.
«Quello non dovrebbe essere il mio lavoro?», scherzò cogliendola di sorpresa e la ragazza, come da previsione, trasalì.
«Oh, mi… mi hai spaventata», ridacchiò nervosamente; si schiarì la gola e si riprese in fretta: «No, questi gerani sono miei: ho portato i semi dal mio paese e li ho piantati, sono un pezzo di casa mia che ho voluto portare con me, anche se non è nulla di speciale…»
«Non dire così», mormorò Joanna improvvisamente acida. Lei non avl
eva vouto portare nulla con sé a Philadelphia quando era partita, quasi dieci anni prima; sarebbe stato troppo doloroso avere qualsiasi cosa che le ricordasse ciò che era successo.
«Mmh. Ho detto qualcosa che non va?», domandò la ragazza un po’ stupita, reclinando la testa di lato.
«No, scusami, sono solo un po’… stanca, non ho dormito molto bene questa notte. Suppongo di dovermi ancora ambientare». Joanna recuperò immediatamente il suo smalto sfoderando un enorme sorriso.
Milagros dischiuse le labbra come per parlare ma decise di tacere e allargò a sua volta le labbra in un sorriso.
«Anch’io i primi tempi faticavo a dormire: la casa è così grande, mi faceva un po’ paura», confessò; l’agente apprezzò il suo tentativo di empatia, di metterla a suo agio, e la ringraziò posandole una mano sul capo, gesto comune che significava apprezzamento verso l’altra persona.
«Torno a lavorare, ci vediamo a pranzo!»
 
Joanna chiuse a chiave la porta alle sue spalle, poi si fiondò sulla valigia e recuperò il microfono e l’auricolare: doveva fare rapporto.
«Joke Team Falco dodici», si identificò.
«Joke Falco, qua Timeo Falco». Finalmente Le Tinévant si degnava di farsi vivo.
«Rapporto, signore. Microfoni piazzati nei quadranti Uno e Due, copertura totale», riferì, la piantina della casa sotto il naso.
«Telecamere?»
«Negativo, signore. Collocazione individuata, attendo».
«Attendo rapporto successivo, Joke», le disse con voce tagliente, il tono che usava nei rapporti ufficiali.
«Ricevuto, signore».
«Zero sviluppi da comunicare da parte nostra. Passo e chiudo». La trasmissione s’interruppe e Joanna ripose l’attrezzatura nel doppiofondo della sua fida valigia.
Emise un profondo sospiro sedendosi sul bordo del letto, i gomiti sulle ginocchia e il volto appoggiato alle mani. Non ci pensava da anni, e gli anni sono davvero tantissimo tempo, eppure Milagros era stata in grado di rimuovere il tappo che aveva sigillato quella memoria in un barattolo di vetro nel fondo della sua coscienza. Non l’aveva aperto del tutto, ma svitato quel tanto che bastava per liberarne una minima seppur dolorosa parte.
Raggiunse il lavandino e immerse le mani tremanti sotto l’acqua gelida. Lentamente, riprese il controllo di se stessa: si sciacquò il viso, pettinò i capelli, spruzzò una goccia d’acqua profumata al limone sui polsi. Era stato solo un piccolo crollo, gestibile e breve, certamente.
Riacquistata la spavalderia poté raggiungere Stanley Stone e Milagros Aguada nella piccola sala da pranzo al pianterreno della dependance. Ivana, l’inserviente muta, era appena arrivata con il carrello del pranzo, le pietanze disposte con eleganza su vassoi lucidi.
«Klara», la salutò Stanley alzandosi in piedi e baciandole il dorso della mano.
«Buongiorno anche a lei, Mister Stone», ricambiò la formalità con un accenno di inchino, come richiedeva la buona educazione. Anche Milagros si mise in posizione eretta e reclinò il busto in avanti, Joanna le afferrò la mano e a sua volta la baciò.
Vivevano in società cerimoniosa, dove ogni gesto doveva essere studiato e calibrato, con un suo preciso significato e uno specifico utilizzo. Joanna lo detestava.
«Direi che è tempo di consumare il pasto», decretò il signor Stone riprendendo posto.
Ivana servì loro arrosto con contorno di patate al forno, cipolline e carote: era delizioso.
«Allora, Miss Brinkworth… cioè, Klara», corresse il tiro dopo un’occhiata eloquente della ragazza. «Come si trova presso di noi? Ha già avuto il piacere di incontrare Miss e Mister Averell?».
Joanna registrò mentalmente come il galante tuttofare avesse nominato prima la signora del padrone di casa, nonché portatore del cognome che firmava il suo impero miliardario.
«Purtroppo no, non ancora. Spero di poter parlare con loro in serata».
«Oh, sono proprio brave persone: Mister Averell è così educato e rispettoso, una persona di buon cuore, per non parlare della Miss, sempre elegante, tanto raffinata quanto decisa, non è sicuramente una donna a cui puoi mettere i piedi in testa», si lanciò in queste sperticate lodi il signor Stone.
«Lieta d’apprenderlo», sorrise posata Joanna, per poi tornare al suo arrosto. Con la coda dell’occhio notò come Milagros s’era tenuta fuori dalla discussione ingozzandosi con il contorno: decise che più tardi le avrebbe parlato, possibilmente in privato.
 
Non vi era stato un solo attimo propizio durante il giorno per piazzare quelle famose telecamere sul lampadario, dunque si era dovuta rassegnare e attendere il giorno seguente per una nuova occasione. Aveva un piano d’azione preciso secondo il quale entro la fine della settimana avrebbe sistemato la maggior parte delle telecamere e dei microfoni, così che la magione degli Averell fosse interamente sorvegliata. Stava per estrarre la valigia per un secondo rapporto giornaliero prima di immergersi nella vasca da bagno, quando qualcuno bussò alla porta.
«Arrivo!», esclamò attutendo la voce con una mano davanti alla bocca di modo da far intendere a chi fosse fuori dalla sua stanza che lei si trovava in bagno. Attese alcuni attimi, poi si decise a raggiungere la porta.
«Buonasera, spero di non disturbare». Sulla soglia c’era Milagros Aguada che reggeva tra le braccia tre asciugamani candidi e odorosi di bucato fresco.
«Ehm, buonasera! A cosa devo l’onore?»
«Asciugamani puliti», spiegò sventolandoglieli davanti alla faccia.
«Ah… sì, grazie! Non pensavo ti occupassi di… della biancheria», borbottò Joanna liberandole la braccia.
«Mi limito a distribuire quella pulita e raccogliere quella sporca», indicò con l’indice il carrello che si portava appresso.
«Allora aspetta, ti porto gli asciugamani. Se vuoi entrare, fai pure», la invitò cortesemente l’agente Stirling. Non vi era nulla di sospetto in vista e di sicuro un’ospite non si sarebbe messa a frugare sotto al suo letto proprio in quel momento.
«Che solerzia nel cambiare la biancheria», scherzò Joanna lasciando cadere i tre asciugamani usati nel carrello.
«Gli Averell pretendono un’igiene massima, sono molto schizzinosi da questo punto di vista», spiegò Milagros alzando le spalle, la camicetta si raggrinzì piacevolmente sul suo petto. «Oddio, è bellissimo!», esclamò un istante dopo precipitandosi sulla scrivania, dove Joanna aveva poggiato una cornice in legno che racchiudeva un paesaggio norvegese, tanto per dare più spessore al personaggio di Klara Brinkworth.
«Sono i fiordi», spiegò Joanna avvicinandosi lentamente. La ragazza stava contemplando con occhi luminosi le verdi acque norvegesi, nelle quali si tuffavano le montagne coperte di boschi. «Non ci sei mai stata, vero?», intuì Joanna avvicinandosi all’ospite, che continuava a scrutare attentamente quel suggestivo panorama nordico.
«No, come ti ho detto non sono mai uscita dalla Spagna, e là non abbiamo ambienti simili», mormorò riponendo la cornice con scrupolosa attenzione, riallineandola perfettamente nella sua posizione iniziale. Joanna gliene fu grata.
«In quali paesaggi sei cresciuta?», le domandò Joanna curiosa, facendole cenno di sedersi alla scrivania se lo desiderava. Milagros scrollò le spalle, come a suggerirle che non era un fastidio restare in piedi; le descrisse distese di terra brulla, punteggiata di cardi e piante grasse, sterpaglie e alberi secchi, bianche case squadrate si ergevano nel torrido sole che gravava costantemente sul paesino. Le uniche pennellate di colore erano conferite all’immobile paesaggio dai panni stesi sui tetti. «Per fortuna non eravamo molto lontani dal mare: con la corriera potevamo raggiungere la spiaggia nel giro di mezz’ora…»
Joanna rise: «Siamo cresciute in ambienti decisamente opposti e lontani! Io tra i freddi ghiacci della Norvegia, prima, e nelle piovose colline inglesi poi; tu figlia del sole e della terra arida».
Milagros le rivolse un sorriso che la diceva lunga: «E si vede!»
«In… in che senso?»
«Tu sei bianca come la panna, io sono dorata», disse indicando i fini capelli biondi dell’agente, per poi sollevare una delle sue more ciocche arrotolate. Sembrava una bambina curiosa all’esplorazione del mondo: era sinceramente meravigliata da quella fotografia, come dai racconti di Joanna. Aveva conosciuto sole e screpolata terra ocra dalla nascita, l’orizzonte che alle spalle si srotolava su una tremolante linea rosso fuoco, davanti ai proprio occhi si spezzava in schegge dorate sulla superficie azzurra del mare; dunque ora, di fronte a gelide acque verdi che bagnavano i piedi di lussureggianti montagne, non poteva trattenersi dal sognare quei luoghi.
«Ci torni spesso?», domandò improvvisamente Milagros.
«Prego?», domandò Joanna perplessa: si era persa nel filo dei pensieri dell’altra ragazza.
«In Norvegia, dico. Ci torni spesso?»
«No, da quando sono nei Nuovi Stati Uniti non ho più rimesso piede nel Vecchio Continente».
Milagros colse all’istante quel tono amaro che ancora una volta era salito alle labbra di Klara Brinkworth e decise che sarebbe stato opportuno proseguire il suo giro.
«Grazie per la disponibilità, per… la chiacchierata! Devo finire il giro, altrimenti i coniugi Averell s’arrabbieranno. Ci vediamo più tardi». Detto ciò sparì oltre la porta, lasciando Joanna e la sua fredda Norvegia dentro la stanza.
 
Joanna strinse con enfasi i lacci del corpetto, per poi annodarli rapidamente: si era resa più elegante per il fatidico incontro con i coniugi Averell, durante il quale avrebbe dovuto porre alcune domande mirate e osservarli nel loro ambiente naturale. Portava addosso, incastonata al centro del gioiello che decorava il nastro di velluto nero stretto attorno al suo collo, una cimice che avrebbe trasmesso in diretta la loro conversazione.
Si spostò davanti allo specchio per osservarsi attentamente: diede un’ulteriore sistemata al gioiello che portava alla gola, assicurandosi ancora che la cimice fosse perfettamente mimetizzata; si portò i capelli dietro le orecchie, poi sospirò, annuendo con forza per incoraggiarsi.
«Joke Team Falco dodici», si identificò quando dopo aver attivato la sua fida trasmittente, estratta precedentemente dal doppiofondo della valigia.
«Joke Falco, qua Romeo Falco. In posizione?», domandò Romaric Mécrinard, armeggiando con qualcosa al di là della trasmissione, Joanna avvertiva il fruscio di carte e il regolare impulso di alcuni comandi elettronici.
«Pronta, cimice attivata… ora», comunicò l’agente, premendo con il polpastrello del dito indice il retro della gemma.
«Travestimento?»
«Effettuato, pertinente».
«Vada, Joke, abbiamo video e audio. Buona fortuna», le augurò Mécrinard.
«Chiudo», terminò la comunicazione Joanna: a partire da quel  momento, alla base avevano ogni dato disponibile in tempo reale, vedevano ciò che vedeva lei e sentivano ciò che lei sentiva. Sapeva che il Team Falco era interamente radunato dietro quegli schermi, forse stavano partecipando anche alcuni membri del Team Corvo, tutti pronti a captare il minimo indizio che potesse incriminare gli Averell.
Joanna uscì dalla stanza e si diresse con andatura rilassata e noncurante verso la dimora della coppia. Il giardino era silenzioso: gettò un’occhiata alle ortensie che aveva potato proprio quella mattina, erano di un bellissimo rosa intenso.
«Ah, Miss, i signori Averell la attendono nel loro studio. La prego di seguirmi». Il maggiordomo le aveva aperto la porta, già informato dello scopo di quella visita. Joanna annuì, seguendo quell’uomo su per la scalinata in legno, ma questa volta si mantennero sulla sinistra, proseguendo lungo un corridoio con il soffitto a volta da cui pendevano una serie di decorazioni metalliche e scintillanti che dondolavano placidamente urtandosi di tanto in tanto producendo una cascata di soffici tintinnii. Joanna rimase affascinata da quel soffitto, tant’è che lo fissò per tutto il tragitto; su entrambi i lati del corridoio vi erano porte chiuse e cosa celavano continuava ad essere un mistero perché la ragazza non aveva ancora setacciata quell’ala della casa.
«Qui dentro». I maggiordomo s’arrestò di colpo, indicandole con il braccio sinistro una porta pitturata di bianco priva di maniglia. Joanna si stava appunto domandando dove fosse il comando d’apertura, che il maggiordomo premette una sporgenza nell’intricata decorazione in legno che ornava lo stipite. Passarono alcuni secondi, poi la serratura scattò e la porta scivolò lateralmente: un’ampia stanza dai toni scuri si aprì davanti a loro, enormi finestre si spalancavano sul giardino, permettendo alla luce di filtrare pienamente nell’ambiente; i tendaggi erano di pesante broccato finemente lavorato, e sicuramente preziosissimi.
«Salve, Miss Brinkworth, è un piacere poterla finalmente incontrare». La voce della signora Averell era acuta e penetrante, una melodia leziosa impressa in ogni parola: di statura media, sovrastava completamente il marito con il suo ego, relegandolo nell’ombra dello studio. La donna era avvolta in un abito di velluto scuro, che sottolineava morbidamente le sue curve abbondanti, le spalle strette in una giacca di cuoio dall’alto collo rigido; il marito si appoggiava con eleganza ad un bastone da passeggio di lucida vernice nera, signorile e composto in quel completo inamidato, ma quando Joanna incrociò i suoi occhi scuri si rese conto dell’espressione bonaria dipinta sul suo volto. Quell’uomo dovrebbe essere la mente criminale che gestisce un traffico di prostitute minorenni? Le sembrava quasi impossibile.
Svolsero le cortesie di rito in cerimonioso silenzio, poi l’uomo le si rivolse con tono gioviale, rimuovendo la tuba dal capo e posandola sulla scrivania.
«Miss, lei sta facendo un lavoro incantevole, i nostri fiori sono radiosi», la lusingò accennando con una mano guantata alle grandi finestre che si affacciavano sul giardino.
«La ringrazio, Mister Averell, lei è troppo gentile, sto solamente svolgendo le mansioni che mi sono state affidate», replicò Joanna con tono pacato e cortese.
«Andiamo, non si sminuisca, siamo molto soddisfatti di come ha salvato la nostra Aiuola Sud. L’uomo che la preceduta è stato licenziato per quel disastro!», ricordò il signor Averell con un profondo sospiro di sollievo.
«Non trascuri gli alberi da frutta, signorina», le comunicò rigidamente la signora Averell, sfiorandosi con la punta delle tozze dita una delle piume nere che ornavano la sua acconciatura elaborata.
«Non capiterà, Miss».
«Suvvia Cassarah, la sua linea di lavoro sembra scostarsi molto da quella di Benton, sono certo che non ci deluderà. Miss Brinkworth, siamo molto affezionati a questa casa: è stata costruita dal mio bisnonno, fondatore dell’impero Averell che io mi occupo di mandare avanti…», Joanna non poté non notare il glaciale sguardo della moglie, che costrinse l’uomo a cambiare rotta tossicchiando: «Che mi occupo di mandare avanti con il prezioso aiuto di questa splendida donna!»
«La vostra dimore è squisita, amo soprattutto il giardino e sarà quindi un onore per me prendermene cura». L’agente aveva molte informazioni su cui lavorare ed era ansiosa di andarsene: «Con il vostro permesso, tornerei ai miei alloggi per riposare, domani mi aspetta molto lavoro».
«Gli alberi da frutta, mi raccomando», le ricordò la signora Averell con un sorriso sibillino.
«Certamente, Miss, vi ringrazio ancora per la disponibilità», si profuse in un inchino profondo.
 
Correva qualcosa di molto sospetto tra i due: lui, il proprietario del capitale e dell’impero, così dolce e affabile, lei acida e dispotica. Che fosse una facciata? Che il signor Averell recitasse una parte? Eppure la moglie non pareva affatto un’attrice, o se lo era, possedeva un talento innato perché quel disprezzo non poteva che essere autentico. Ciò che Joanna sapeva era che aveva bisogno di prove concrete della loro colpevolezza: se appoggiavano un traffico di prostituzione minorile, di sicuro nascondevano qualcosa in quella casa; purtroppo per lei, l’abitazione dei coniugi era enorme, quindi avrebbe impiegato più tempo del previsto per setacciarla. Domani avrebbe ricominciato a disseminare microfoni e telecamere, avevano bisogno di…
«Ehi…». Joanna trasalì violentemente quando una mano le sfiorò la schiena accompagnata da quel sussurro. Si voltò di scatto per ritrovarsi di fronte una Milagros dall’espressione tenera e compiaciuta allo stesso tempo. «Non volevo spaventarti», ridacchiò rivelando apertamente che quella era stata fin da subito la sua intenzione.
«Non… cioè, sono un po’ nervosa», si giustificò Joanna, destreggiandosi tra l’imbarazzo.
«Senti, volevo… volevo parlarti un momento».
«Certamente, tanto io stavo rientrando, possiamo fare la strada assieme», la invitò Joanna, poi si ricordò della cimice ancora attiva: fingendo si sistemarsi il gioiello, premette il bottone di spegnimento celato contro la sua gola. Ora poteva restare davvero sola con Milagros Aguada.
«Bene… Ecco, volevo chiederti… Aspetta, ti chiedo scusa in anticipo se sembrerò ficcanaso ed invadente…». L’agente la interruppe, avendo già intuito dove la ragazza volesse andare a parare. Joanna allungò una mano per sfiorarle la spalla, trattenendo un sospiro – e una fuga a gambe levate, ma d’altronde cosa le costava darle un’occasione? – poi posò il braccio sulle spalle.
«Vuoi sapere perché non sono più tornata in Norvegia. Vuoi sapere cosa è rimasto là che mi impedisce di tornarci».
«Messa così suona… male», mormorò Milagros, improvvisamente meno sicura di volerlo sapere.
«Perché tale è».
«Se non vuoi, non devi… Io volevo solo… magari esserti d’aiuto, ascoltarti, mi sembri molto… triste, Klara», sussurrò la ragazza spagnola alzando i grandi occhi scuri verso il volto dell’altra.
«È solo che è passato molto tempo dall’ultima volta che ne ho parlato». Lo sguardo di Joanna seguiva le ombre del giardino, che tremolavano nella notte.
«Allora non farlo se non sei pronta».
«No, ma…»
Milagros la zittì: «Niente ma, ora taci e andiamo a dormire».
 
Era sgusciata silenziosa come un’ombra all’interno della magione degli Averell per diverse notti consecutive: nessuno presidiava i monitor di giorno, men che meno durante la notte, inoltre poteva lavorare con molta più tranquillità senza temere l’improvvisa comparsa di qualche cameriere o tecnico. Nel giro di due settimane aveva mappato l’intera casa, intrufolandosi in ogni stanza, dietro ad ogni porta. Tutte tranne la camera da letto degli Averell, situata nel corridoio opposto rispetto a quello in cui si trovava il loro ufficio: per ovvi motivi dal tramonto all’alba era inaccessibile, e durante il giorno non era mai riuscita ad avvicinarsi. Per tre volte aveva tentato di avvicinarvisi: la prima volta era stata sorpresa in quel corridoio dal maggiordomo, che le aveva gentilmente domandato cosa stesse facendo costringendola ad inventare su due piedi una scusa poco credibile, ma pareva non essersene preoccupato troppo; la volta successiva era stata fermata sulle scale da Joris Javier che l’aveva trascinata con i soliti modi bruschi fino al suo ufficio, dove alcune petunie un tempo violacee stavano agonizzando; l’ultimo suo tentativo era stato nuovamente interrotto nel fatidico corridoio da una cameriera che l’aveva preceduta, entrando nella stanza dei coniugi per sostituire le lenzuola e la biancheria del bagno.
Inoltre voleva intrufolarsi nella stanza di Milagros: si sentiva davvero una ladra, ma voleva scoprire qualcosa in più su di lei senza essere costretta a chiederglielo direttamente. Da quando avevano parlato in seguito all’incontro di Joanna con i coniugi Averell, si erano evitate e cercate allo stesso tempo: Joanna sfuggiva il suo sguardo durante i pasti per poi seguirla di nascosto in giardino, senza accorgersi che Milagros si comportava allo stesso modo. Non voleva che capitasse di nuovo, ma era passato così tanto tempo che non ricordava nemmeno esattamente cosa.
Milagros era nel complesso principale, probabilmente a quell’ora di dedicava ai suoi studi nella biblioteca principale, dunque Joanna scivolò all’interno della dependance, fino alla stanza della ragazza spagnola. Rimuginò alcuni istanti, una mano sulla fredda maniglia in ottone lucido, poi piegò il polso per abbassarla ed entrò nella stanza.
La prima cosa che la colpì fu il dolce aroma dell’incenso e delle candele. Chiuse gli occhi e inspirò con forza quella fragranza così familiare che le strappò un sorriso. Oltrepassò la soglia, scandagliando con lo sguardo tutto ciò che saltava all’occhio: candele spente, quadretti a inchiostro alle pareti, mappe del Vecchio Continente, una ventina di cuscini blu sparsi per tutta la stanza, una sedia a dondolo in legno scuro, pile di libri sul pavimento in fondo al letto… Doveva uscire, doveva uscire immediatamente.
Il cuore non smise di martellarle nel petto nemmeno quando si inginocchiò nell’erba tiepida di fronte all’Aiuola Nord, tripudio di rose: non avrebbe dovuto violare la sua privacy, non avrebbe dovuto appropriarsi di quelle informazioni.
 
Nemmeno sotto la trapunta calda, nemmeno dopo il rapporto giornaliero al Bureau, nemmeno dopo il bagno caldo il suo senso di colpa si affievolì. Chiuse gli occhi, premendo la guancia contro il cuscino, ma la sua mente iniziò a proiettarle ricordi di sua madre, il cui volto si fondeva in quello arcigno di Cassarah Averell. Cambiò posizione, rotolando prona, le mani sotto al cuscino. Questa volta fu il volto di Milagros a disegnarsi davanti a lei; non ebbe il tempo di sospirare, né di pensare qualsiasi cosa che esso divenne il volto di Grethe: s’irrigidì immediatamente, raggomitolandosi in posizione fetale. Decise repentinamente di fare una cosa molto sciocca e impulsiva: calciò le coperte in fondo al letto, nervosa, poi sgattaiolò nel corridoio per raggiungere la stanza di Milagros.
«Chi è?». Joanna intravide la figura della ragazza mettersi di scatto a sedere sul letto.
«Sono io… Klara», aveva esitato, stava per rivelare il suo nome.
«Hai… hai bisogno?»
Joanna non rispose, non avrebbe saputo come giustificarsi. Si sedette sul letto, per poi poggiare la fronte contro la spalla di Milagros; avvertì la mano della ragazza carezzarle la schiena.
«Sei venuta per…», osò domandare Milagros.
«Dormire, stare con… te», sussurrò Joanna, vergognosa.
«Va bene, va bene…»
«Grazie, sei… grazie mille, davvero». Joanna sollevò il capo, per poi abbracciarla con forza, con necessità; allungò le dita tra i capelli castani dell’altra, lunghi e arruffati, setosi. Poi scoppiò a piangere.
Un crollo era l’ultima cosa di cui aveva bisogno, anzi, era l’ultima cosa che si aspettava. Milagros non disse una parola, si limitò a massaggiarle gentilmente la schiena, a cullarla tra le braccia. Si coricarono abbracciate sotto alle coperte blu, circondate dai cuscini della ragazza, Joanna con i ricordi confusi e la mente in subbuglio, Milagros con la sua silenziosa perplessità e l’intimo piacere di avere Klara nel suo letto.
 
«Joke Team Falco Dodici», s’identificò.
«Joke Falco, qua Magika Falco», era Megan Malanka questa volta a ricevere il suo rapporto dall’altra parte della linea.
«Rapporto, signora. Ho individuato movimenti sospetti dei coniugi Averell», informò la collega.
«Sì, Joke, li abbiamo notati anche noi. È incredibile come quei due puzzino di marcio eppure appaiano così innocenti e angelici: mai una parola di troppo, mai un accenno alla faccenda. Inizio a credere che questi sei mesi siano stati inutili», sibilò frustrata Malanka.
«Forse ora qualcosa sta cambiando: la signora Averell si sta esponendo maggiormente, sembra molto suscettibile, da alcuni giorni a questa parte».
«Potrebbe fare qualcosa di stupido, Joke, di sicuro le prostitute minorenni ne gioiranno», ringhiò l’agente numero Tre del Team Falco, non solo perché quello della prostituzione era per lei un tasto dolente, ma perché era combinato con la svendita del corpo di bambine appena tredicenni, piccole bambole bionde e angeliche strappate alle loro famiglie in Russia con la promessa di trovare lavoro nei Nuovi Stati Uniti e di poter presto spedire soldi alla famiglia rimasta indietro. Ovviamente ciò non si verificava mai: le bambine venivano cedute senza alcuno scrupoli ai cartelli del narcotraffico, a bordelli clandestini che ancora infestavano i bassifondi di diverse metropoli, persino a privati che ne facevano richiesta. E ovviamente tutto il guadagno andava ai loro aguzzini. Gli Averell erano sospettati di favorire l’ingresso nei Nuovi Stati Uniti delle minorenni, ma fino a quel momento non avevano mai trovato una prova schiacciante che lo dimostrasse, erano solo voci, mormorii e confessioni strappate a persone totalmente inaffidabili. Eppure tutti i membri del Team Falco odoravano il puzzo di colpa avvicinando il pensiero a quella coppia e al loro impero industriale.
«Potrebbe scoprirsi. Forse qualche affare ultimamente è andato storto, la signora Averell mi pare piuttosto sottosopra».
«Abbiamo rilevato movimenti sospetti all’interno della camera da letto degli Averell: la donna vi entra la mattina presto dopo la colazione e spesso vi resta chiusa fino all’ora di cena. Cosa combina lì dentro? Joke, è essenziale che tu lo scopra, magari quello che stiamo cercando si trova lì, le prove, la loro colpevolezza… tutto», insistette Megan Malanka.
«Ci proverò, Magika, come vi ho già detto e come avete potuto constatare voi stessi, la camera da letto principale è praticamente inaccessibile o a causa della presenza dei coniugi all’interno, o perché qualcuno si trova sempre su quel piano, soprattutto il maggiordomo».
«È essenziale che tu lo scopra, non che tu ci debba rimettere la copertura… o la vita, Joke. Passo e chiudo».
«Chiudo…»
Due colpi decisi alla sua porta la fecero trasalire.
«Un momento», gracchiò riponendo rapida l’attrezzatura nel doppiofondo della valigia e spingendola sotto al letto. Andò poi alla porta, una mano sulla chiave una sulla maniglia.
«Klara, sono io». Era la voce frizzante di Milagros.
«Entra», la invitò con cortesia Joanna spalancandole l’uscio.
Non avevano più parlato di quella notte, di quel crollo nervoso, di quella cosa che le impediva di tornare in Norvegia; in silenzio, Joanna si era infilata nel suo letto molte altre notti, indescrivibilmente grata alla ragazza spagnola che l’accoglieva benvolente e senza domande, perché ormai aveva capito che nel momento in cui la bionda fosse stata pronta lei avrebbe saputo l’intera storia.
«Oggi c’è la casa tutta per noi!», esultò afferrando le mani della giardiniera e saltellando con un gran sorriso sul volto.
«Come mai?», domandò Joanna perplessa.
«Vacanza generale dei dipendenti, è la Festa del Lavoro. I signori Averell sono al piano di sopra, c’è Stanley Stone che dorme come un ghiro e poi ci siamo noi due. Volevo chiederti se… se ti va di fare due passi in giardino con me», propose Milagros arrossendo ma senza distogliere lo sguardo.
«Certamente», annuì Joanna, riflettendo che aveva l’intera giornata per provare ad avvicinarsi alla stanza da letto degli Averell, doveva solo attendere che s’allontanassero per un pasto o per qualche altro motivo, poi avrebbe fatto irruzione.
«Ah, accidenti… Mi sono dimenticata che devo prima lavare i piatti e la cucina, dammi un’oretta, okay?!», rise Milagros, con un sorriso dispiaciuto, per poi posarle le mani sulle guance e schioccarle un bacio sulla punta del naso. Joanna rimase interdetta, l’aria trasognata, ad udire l’eco della risata di Milagros nonostante questa si fosse già allontanata, presumibilmente verso la cucina.
Joanna si scosse, decise che non sarebbe rimasta improduttiva ad attenderla, poteva sempre togliersi qualche… sfizio. Ad esempio l’ufficio dei signori Averell: vi era entrata per il primo colloquio con loro, ma vi si era intrufolata una volta soltanto per sistemare microfoni e telecamere. Quel luogo la attirava, la porta senza maniglia anzitutto.
Nell’atrio udì distintamente la voce melodiosa di Milagros provenire dalla cucina: stava canticchiando qualcosa nella sua lingua madre, della quale Joanna non capiva una parola. Salì le scale in punta di piedi, non una mosca volava nell’assordante silenzio del piano superiore. Trattenne il fiato.
Imboccò svelta il corridoio fino all’ufficio della coppia, poi premette la sporgenza legnosa; trascorsi alcuni secondi, la porta scivolò di lato e la ammise allo studio.
Si dedicò alla contemplazione della stanza, osservandola attentamente: la scrivania in legno antico poteva celare qualche segreto dunque inizio a frugare tra nei cassetti, tra le carte, cercò doppifondi o combinazioni segrete, ma nulla: pareva effettivamente una comune scrivania. Si spostò dunque verso l’enorme mobile straripante libri, per la maggior parte antichi e polverosi, alcuni potevano addirittura risalire al Tempo Zero. Diede un’occhiata ai titoli stampati a caratteri dorati sul dorso: La macchia umana, Il signore degli anelli, Guerra e pace, Il mastino di Baskerville… Tutti libri del Tempo Zero, tutti libri che cadevano a pezzi, sarebbe stato impossibile leggerli senza un paio di pinzette, guanti e mascherina sul volto.
Poi qualcosa catturò la sua attenzione: una decorazione del legno sporgeva e si ripiegava su se stessa come quella che, fuori dalla stanza, ne permetteva l’ingresso. Respirò a fondo, improvvisamente nervosa, poi decise che non aveva tempo per esitare: spinse quella decorazione verso la parete. Il fatto che essa fosse rientrata nel legno della libreria fece ben sperare Joanna: forse avevano finalmente trovato qualcosa. Dopo alcuni istanti, una parte della libreria venne spinta in avanti, verso l’agente, per poi scivolare lateralmente davanti al resto del mobile. Joanna notò immediatamente che subito davanti a lei il pavimento era polveroso, eppure la stanza pareva essere tutt’altro che abbandonata.
Una stanza di circa dieci metri quadrati che ospitava una serie di computer per l’intera lunghezza di una delle pareti; vi era un tavolo rotondo al centro, sovraccaricato di fogli e pergamene, documenti. Joanna si avvicinò a quel tesoro cartaceo: sulla maggior parte dei fogli le scritte erano in cirillico, ottimo. Frugando tra i documenti ne trovò finalmente uno in inglese, che attestava il passaggio di proprietà di una delle ragazze ad un uomo di mezz’età di Los Angeles. Aveva le prove che le servivano: sapeva che i suoi colleghi al Bureau sapevano di quella stanza, sapevano che lei era lì dentro anche se non potevano vederla esattamente. Joanna uscì premurandosi di richiudere quella porta segreta, poi si avvicinò ad uno dei microfoni e sussurrò: «Joke Team Falco Dodici. Preso».
Sapeva che presto sarebbero giunti i suoi colleghi ad arrestare gli Averell. Era euforica: finalmente il caso era stato risolto, ora avrebbe potuto stare con Milagros in pace e… Uno sparo rimbombò nella casa.
Joanna si pietrificò sul posto, immobile: proveniva dall’altra ala della casa, dove si trovava la famigerata camera da letto della coppia. Si portò una mano al petto: la pettorina della salopette nascondeva una tasca interna, dove lei portava il kit per le emergenze; il corridoio era silenzioso e subito le venne l’affanno di dover necessariamente sapere dove fosse Milagros, cosa stesse facendo.
Stava per avventurarsi lungo il corridoio quando un altro sparo la paralizzò. No, non poteva fermarsi: scivolò come un gatto fino all’incrocio dei due imponente corridoi, all’altezza dello scalone con balconata sull’atrio. Milagros stava ancora cantando, probabilmente indossava un paio di cuffie sulle orecchie ad un volume tale che le aveva impedito di sentire gli spari. Chi stava sparando? Ma soprattutto, a chi?
Una porta venne sbattuta con violenza tale che subito l’agente pensò fosse stata sfondata brutalmente. Passi secchi stavano venendo nella sua direzione, qualcuno si stava avvicinando. Prima che potesse vederla, si nascose dietro ad un enorme vaso ornamentale, accucciandosi e premendosi contro la parete.
La persone si fece sempre più vicina, finché la direzione dei suoi passi cambiò: stava scendendo le scale.
Milagros! Fu l’unico pensiero di Joanna: non doveva morire, non adesso che… Adesso che, cosa? Che si era innamorata di lei? Che aveva tutte le più serie intenzioni di portarla in Norvegia, proprio in quella baita sui fiordi dove era successo?
Allungò la testa oltre il vaso: l’uomo con la pistola le dava le spalle ma lei lo riconobbe immediatamente, perché nessun altro indossava un completo nero elegante di quel tipo e aveva quei fini capelli biondi.
Come scendere senza farsi vedere? Ma non poteva restare lassù, doveva tentare il tutto per tutto.
«Ecco il grazioso uccellino esotico», lo sentì ghignare. Si era fermato in mezzo all’atrio, la pistola ancora in mano.
Joanna iniziò a scendere le scale senza produrre il minimo rumore: era in quel momenti che ringraziava profondamente il gusto per i velluti e i tappeti pesanti dei signori Averell, che avevano ricoperto la parte centrale delle scalinate di tessuto rosso. Il maggiordomo non pareva accennare l’intenzione di voler entrare in cucina, si limitava a restare lì, ritto nell’atrio, a tenere il tempo della canzone di Milagros con il piede.
Le mancavano tre scalini per poter raggiungere finalmente il pianterreno che l’uomo evidentemente si stancò dell’attesa e marciò verso l’uccellino esotico.
Joanna balzò a terra senza che lui se ne accorgesse e lo pedinò come un’ombra fino alla cucina.
«Hai finito di cantare, uccellino», sibilò sollevando il braccio armato e allungando l’indice sul grilletto.
«No!», strillò Joanna piombandogli addosso. Il colpo partì ugualmente, ma anziché freddare la ragazza spagnola alla schiena le si conficcò in un polpaccio. Lei si strappò le cuffie e gridò, cadendo a terra.
Joanna era riuscita a strappare la pistola di mano all’uomo e a dargli una possente botta con il calcio sulla testa, lui parve cedere allo stordimento.
«Milagros, stai calma!», le urlò nella colluttazione. Le mani dell’uomo si chiusero sui suoi polsi, cercando di strapparle la pistola. Lei si dimenò, gli rifilò una possente ginocchiata nello stomaco per poi costringerlo a sbattere una testata contro il pavimento.
«Tu… togliti», ringhiò il maggiordomo, tentando di rovesciare le loro posizioni.
«Cosa… cosa è successo?!»
«Nulla… che… ti riguardi», ansimò l’uomo, assestando un pugno deciso che colpì Joanna allo zigomo. Il suo occhio destro si spense all’improvviso poi esplose di colori e dolore.
«Ragazzina, me la pagherai», sibilò furibondo: Joanna continuava a reggere saldamente la pistola, ma in maniera sfavorevole e nel tempo che avrebbe impiegato ad impugnarla correttamente, lui gliel’avrebbe strappata di mano. Lo colpì nuovamente, questa volta con un gancio mancino che si schiantò sul suo naso.
Con un urlo poderoso l’uomo la scalciò via, scaraventandola contro il tavolo; la pistola scivolò sul pavimento lucido, andando a infilarsi sotto il refrigeratore. Joanna urtò la schiena contro una delle gambe e la testa contro una sedia, ma non chiuse gli occhi nonostante il dolore.
«Lasciala stare!», trovò il coraggio di gridare Milagros tra le lacrime. Joanna alzò gli occhi su di lei e la vide reggersi la gamba ferita con entrambe le mani, ormai viscide di sangue come il pavimento sotto di lei.
«Stai zitto, uccellino, non sei nella posizione di contestare».
Joanna si rialzò in piedi a fatica, una mano sulla testa come a voler contenere il capogiro; l’occhio destro stava tornando lentamente a mettere a fuoco la stanza, un’ottima cosa.
«Ora voi due state brave mentre io vi tappo la bocca per sempre». Aveva appena finito di ringhiare quelle parole, che Joanna aveva estratto il mini-espulsore caricato a sedativi. Premette il grilletto e l’ago si conficcò nella spalla del maggiordomo.
«Cosa… mi… chi…», barcollò l’uomo, improvvisamente senza forze. Si accasciò a terra quasi istantaneamente.
«Klara… Klara…», la chiamò Milagros spaventata.
«Stai tranquilla, stanno arrivando», mormorò Joanna carezzandole i capelli, seduta accanto a lei.
«Chi? Chi arriva?», mormorò lei, che ormai aveva smesso di piangere e stava diventando sempre più pallida.
«I miei colleghi, Milagros», sospirò l’agente.
«Colleghi? Klara, quali…»
«Il mio nome è Joanna, sono… ero qua sotto copertura per smascherare un traffico di prostituzione minorile degli Averell e poi è successo… questo. Non so cosa significhi, non ne ho idea…»
«Traffico… di… Joanna, no. Il maggiordomo… è morto?», balbettò spalancando gli occhi.
«No, è solo sedato», aveva appena finito di parlare che avvertì l’ululare delle sirene del Bureau: erano venuti con i mezzi pesanti.
«Eccoli, ora ti porteranno al Nosocomio», mormorò Joanna baciandole le guance.
«Joanna… Joanna… tu, i fiordi… Erano una bugia?»
«L’unica bugia era il mio nome, Milagros, tutto il resto era vero», sussurrò l’agente posandole un bacio sulle labbra.
 
*
 
«Sono così... sollevata», mormorò Milagros saltellando fino alle vetrate. «Posso?», domandò indicando la terrazza che si affacciava sull’abisso.
«Sì, ma fai… attenzione». La voce di Joanna si era spezzata sull’ultima parola.
«Vieni con me», la invitò con dolcezza Milagros. Uscirono all’aria aperta, dove spirava una brezza frizzante che rinfrescava il loro corpo, e anche la loro mente.
Mai mettersi contro la mafia russa, questo Joanna l’aveva capito: la signora Averell non avrebbe dovuto entrare in affari con loro, e soprattutto non avrebbe dovuto permettere che il marito venisse a conoscenza dei suoi loschi traffici. Perché era proprio come Joanna aveva sospettato: il marito era un bonaccione, un uomo semplice e rilassato, che si fidava ciecamente della moglie, così ciecamente da non accorgersi di cosa combinava lei sotto al suo naso con il nome della sua azienda. Il loro maggiordomo, Gorislav Varfolomeyij, altri non era che un infiltrato della mafia russa, mandato a controllare i movimenti degli Averell: nel momento in cui Percival Averell aveva smascherato i crimini della moglie, le aveva imposto di finirla immediatamente perché lui non avrebbe tollerato che ciò potesse essere collegato al suo nome e alla sua buona reputazione. Ma una volta entrati nel giro non è così facile venirne fuori: Gorislav Varfolomeyij sapeva tutto, non avrebbe permesso agli Averell di ritirarsi tanto facilmente, soprattutto perché costituivano il loro trampolino migliore. La discussione era degenerata, finché il maggiordomo aveva estratto la pistola e freddato prima il signor Averell e poi la moglie.
«È davvero molto alto, Jo», sussurrò Milagros, avvicinatasi alla ringhiera. «È successo qui?»
«No, lì…», Joanna indicò una delle pile in pietra agli angoli della terrazza. Rivide chiaramente i piedi nudi di Grethe salire su quella pietra fredda, i lunghi capelli color corteccia che svolazzavano nella brezza dell’alba e il suo vestitino bianco che pareva rosa. L’aveva guardata impotente, in lacrime, pregandola di scendere, mentre lei si sporgeva protendendosi in punta di piedi verso il vuoto. Grethe le aveva sorriso, voltandosi indietro per l’ultima volta, prima di spiccare un balzo verso l’abisso, le braccia spalancate come un angelo.
«Mi dispiace tanto, Joanna», mormorò Milagros contemplando le verdi acque che scivolavano in basso, sotto di loro.
«È stato tanto tempo fa…»
«Ma tu l’amavi, lei non aveva il diritto di…». Joanna la interruppe posandole un bacio sulle labbra: «Ognuno ha il diritto di fare ciò che vuole, siamo noi che non abbiamo il diritto di smettere di vivere».
Milagros sorrise, poi si appoggiò alle spalle dell’altra e tornarono nel salotto, dove lei si lasciò cadere sul divano, allungando la gamba ingessata su un morbido pouf.
«Te la meriti questa vacanza, e anche quella stellina d’oro», sorrise radiosa indicando la scatola blu appoggiata sopra al camino.
«Sono un’agente coraggioso e valoroso», scherzò Joanna con tono pomposo. «La verità è che senza di te sarei rimasta bloccata», le confidò un momento dopo, il tono di voce bruscamente fattosi intimo e tiepido.
«E senza di te io non avrei mai visto la Norvegia».
Si sedette accanto alla ragazza spagnola e la abbracciò, posando il capo sulla sua spalla e lasciando che le carezze di Milagros scacciassero le ombre del passato.
 
   
 
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