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Autore: Ekerot    25/04/2012    1 recensioni
Questo non è un racconto. E' un soggetto cinematografico - il primo che scrissi, nell'ormai lontano 2003. Lo inserisco oggi nella ricorrenza del 25 Aprile perché affronta una delle tante tragedie della seconda guerra mondiale. E' ispirato al libro-inchiesta "Anatomia di un massacro". Si tratta pertanto di una storia vera, accaduta a pochi kilometri da dove sono cresciuto. Mi rendo conto non si tratti di una lettura agevole. Spero comuque possa essere spunto di riflessione.
Il protagonista aveva 20 anni. Un ragazzo, che in una notte dovette diventare uomo.
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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SOGGETTO ORIGINALE: “LA BALLATA DEL PARTIGIANO”

 

Il generale Alexander chiese agli italiani: “Uccidete i tedeschi e bloccate la loro ritirata”. Kesselring rispose: “Italiani fermatevi, o permetterò le rappresaglie contro di voi”.

Il parroco di Guardistallo, in data 19 Giugno 1944, parlò con il capo della “Gattoli”, distaccamento della brigata Garibaldi: “Per favore restate fermi. Rimanete ai vostri posti, nascondetevi. Non commettete pazzie. Vogliamo soltanto la pace”.

Dieci giorni dopo, sulle prime ore della notte, nascosto coi suoi uomini nella macchia, Virgilio, giovane ventiduenne con fazzoletto rosso attorno al collo, discute animosamente; c’è l’idea di occupare i colli vicini, prima dell’arrivo degli alleati: direttive del Partito e orgoglio partigiano spingono verso questa decisione.

La colonna armata della Luftwaffe sta transitando lungo la strada principale, bisognerà stare attenti (peraltro inizia a fare giorno), e così si decide di salire su a piccoli gruppi per facilitare i movimenti della squadra ed evitare spiacevoli sorprese. “Vittorio” arriva alle prime luci dell’alba sul ciglio della strada, ha già il fiatone e la fronte sudata; dalla curva spunta un blindato ed è costretto repentinamente a nascondersi dietro un cespuglio. Il blindato si ferma proprio davanti a lui, scendono due uomini. “Vittorio” ha la visuale coperta dai rovi, intravede soltanto il volto di un soldato tedesco che si avvicina; non si accorge che si sta sbottonando i pantaloni. Si sente braccato, toglie la sicura al mitra e prende la mira. Poi, una raffica, il soldato davanti a lui è colpito in pieno alla faccia e cade per terra; “Vittorio” non capisce se ha fatto lui stesso fuoco, non lo saprà mai. La risposta tedesca non si fa attendere, ed è violentissima. “Vittorio” prova a sparare ma la paura gli blocca il grilletto, la posizione dei suoi compagni, lì a qualche decina di metri, è molto pericolosa. Saremo accerchiati, pensa “Vittorio”, ed ha ragione. In pochi minuti tutti i partigiani si accorgono di non poter reggere per molto lo scontro; sono isolati l’uno dall’altro, qualche decina di giovani inesperti contro un migliaio di regolari, il panico cresce, i tiri dei cecchini nazisti si fanno più precisi. Presto verranno a cercarli nella macchia e allora non ci sarà scampo. Inutile restare a morire.

 

L’intera squadra fugge con la forza della disperazione, qualcuno si nasconde; nei volti appena sfiorati da qualche pelo di barba si accende il terrore, le gambe tremano, non tutti trovano le energie per seminare i tedeschi. Gli altri, i più fortunati, corrono. Corrono. Corrono alla rinfusa, talvolta travolgendo i compagni. Scappano verso la macchia, si rifugiano ancora trai rami e trai rovi, come l’ultima volta, sconfitti dal nemico. Ma adesso il fattaccio è compiuto. Virgilio, mentre guarda ancora scioccato il caricatore della rivoltella, pensa al discorso perentorio del prete. Merda è la parola che spontaneamente si rinfacciano l’un l’altro i partigiani. “Vittorio” è invece riuscito a nascondersi, acquattato come una lucertola: attorno a lui corrono da ogni parti questi bastardi che tirano fuori continuamente grugniti. Loro grugniscono, lui fa la lucertola.

Nessuno si accorge che Sisto, il primo antifascista del paese, macellaio stalinista, è stato cancellato dalla faccia della terra da una bomba a mano. Attraversava la strada, non ha manco urlato.

 

“Vittorio” rintanato da quattro ore in mezzo ai rovi decide di uscire allo scoperto. Non percepisce più le voci dei crucchi, almeno nelle vicinanze; di spari se ne sono uditi a decine, assieme alle urla dei compaesani, e dentro di sé si sente mancare più volte. E’ giunta l’ora di sapere cosa sia successo. Facendo un ampio giro, riesce a portarsi verso il podere “Bacii” dove da lontano ha scorto un buon numero di soldati tedeschi e popolani, ma non può avvicinarsi troppo per paura di essere colto in flagrante dai cecchini e farsi seccare ora sarebbe stupido e inutile. Coperto dalla macchia, il partigiano, senz’armi sudato e sconfitto, vede perfettamente la scena di fronte a lui, anche se gli sfuggono le parole precise. Un ufficiale tedesco parla rabbiosamente col prete, e ancora una volta Don Raffaele è lì a contrattare; come si rende immediatamente conto, quei popolani non si trovavano appoggiati al muro per un caso, sono ostaggi. Ostaggi. La parola rimbomba nella sua testa. Attende, per conoscere la loro sorte, e non si rende neanche conto che trascorrono le ore sulle ore. Alla fine, il parroco la ottiene vinta, e i civili se ne vanno. “Vittorio” si sente rinfrancato. Ha fame e sete. Si rinchiude nel bosco e va alla ricerca di un rifugio, praticamente il sole è al tramonto.

Mario, stipato da dieci ore nel canna fumaria del camino, non regge più; i tedeschi sono andati via, almeno da casa sua, ha troppa paura ed impellente bisogno di liberare l’intestino. Non resiste, scende. La casa è deserta. Sull’uscio trova ancora le tracce del sangue del babbo, finito direttamente nella stalla e di sicuro morto. Giovanni aveva tentato di scappare, non sa se i successivi spari dei cecchini lo hanno risparmiato o no. Il recinto è vicino, una quindicina di metri soltanto, sta arrivando il buio e quella parte della casa è già in ombra; Mario non ha nemmeno il coraggio di augurarsi la protezione della Madonna o dei santi: con discrezione – o così sembra a lui – scende dalla finestra e corre. Come dirà a se stesso poi, il proiettile che doveva seccarlo non era in mano tedesca. Ha poco di che gioire, il fratello è stramazzato a pochi metri da lui, nascosto nell’erba alta del cortiletto. Non resta fermo pensando agli inseguitori, trova la forza di muovere le gambe anchilosate, la macchia è lì a due passi, la conosce a memoria e sa dove andarsi a nascondere in situazioni come queste.

Fortunatamente “Vittorio” lo becca prima della pattuglia tedesca, che è in ancora in giro per terrorizzare i contadini. Non ha trovato un rifugio, e Mario può indicarglielo.

Il ragazzetto ha paura per un attimo, poi vede in lui un viso conosciuto. Che ci fai qui? Mario non risponde, lo fissa. In questo momento, si risveglia in lui la paura: il rifugio. Posso venire con te? Nessuna risposta, prende a camminare.

Scostando un paio di cespugli sulla sinistra, libera una stradina nascosta dai cespugli che per giorni, dall’inizio dei bombardamenti, ha percorso col babbo, la mamma, Giovanni e Isa. Adesso è solo, con un partigiano. D’un tratto gli torna in mente il motivo che l’ha spinto a scappare dal camino; gli inizia a far male la pancia. Si gira verso il partigiano, abbracciandosi il ventre e piegandosi in due. “Vittorio” conosce quella posizione.

Si guarda attorno: trai pruni non è l’ideale. Lo solleva in braccio. Gli fa cenno di mantenere il silenzio. Mario lo guarda negli occhi. Non fiata nemmeno. Sente la camicia impregnata di sudore, vede il volto arrossato e graffiato come da unghie che non accenna mai ad un sorriso. Ascolta i veloci passi di lui che lo portano in un piccolo spiazzo riparato dagli alberi.

Falla qui, non t’azzardare a parlare, e stai giù, capito?

Per pudore, gira attorno all’albero. Ne approfitta anche lui, la vescica gli tira da mezzogiorno; si abbassa per fare meno rumore possibile. Ce l’hai un fazzoletto, per piacere? “Vittorio” si cerca addosso, vede il suo foulard rosso di campione comunista, senza pensarci troppo glielo passa, salvandosi la vita. Un improvviso scrocchio di rami, lo riporta al presente. Mario dietro di lui smette di ansimare. “Vittorio” cerca la rivoltella e si immobilizza, pensando subito al peggio. E fa bene.

I pesanti scarponi sugli aghi di pino appartengono ad un tedesco in solitaria ricerca; sta annusando la traccia di qualche partigiano: non ha visto affatto il bambino. Si aggira lì nei dintorni col mitra piantato in mano. “Vittorio” e Mario girandosi contemporaneamente verso destra se lo vedono innanzi. Il nazista resta sbigottito, è una scena che non si aspetta: il bambino lo guarda sbiancato nel viso, non gli esce un filo d’aria dalla bocca ingessata, non prova neanche a cercare lo sguardo del compagno di sventura, finché uno strano rumore lo inquieta, e deve voltarsi verso l’altro. “Vittorio” si accorge, nel momentaneo silenzio che precede la gracidante risata del crucco, di tremare come un fuscello, dalle mani fino ai denti: questi iniziano a sbattere l’uno contro l’altro, provocandogli un tormento terribile. Un attacco di panico improvviso, tutt’altro che sorprendente, dato lo stato di nervi del partigiano; ma di quel momento gli resta soltanto il riflesso di spontaneo terrore che vede negli occhi di Mario. Poi, la risata.

Nonostante quanto racconterà il ragazzo più tardi, non è affatto spaventosa. Senza togliersi di mano il mitragliatore, si sfila di tasca un fazzoletto bianco, non propriamente lindo. Lo tira in faccia a “Vittorio”, che non riconosce come comunista; commenta con un’altra risata e altre sillabe gutturali. Si allontana. Sparisce. “Vittorio” riesce appena in tempo a levarsi il cencio dal volto, a guardare i lineamenti di un nazista sconfitto ma ancora in grado di umiliarlo. Quegli ultimi passi che lo rimboscano gli restano impressi a fuoco tra la memoria e il disonore.

Non c’è tempo per meditare, bisogna trovare il rifugio. Adesso è Mario, ancora stordito, a spingere via l’altro, che forse vorrebbe piangere, urlare, sparare e invece se ne resta ammutolito. In cinque minuti, raggiungono la botola di legno. Sono Mario. Poi la apre: occhi tremolanti lo mirano. Una signora lo chiama per nome e lo abbraccia appena scende la scaletta; la stanza è illuminata da un paio di lanternini, c’è puzza di chiuso e sudore. Dov’è tua mamma, dove sta Isa? Un diniego col capo. Il rumore di scarponi sulle assicelle di castagno, un giovane tutto sporco di terra appare ai contadini; qualcosa subito si accende nell’aria. Mi ha salvato la vita. “Vittorio” ancora non fiata. Quella strana tensione creatasi all’improvviso lo spinge a tacere, a non fare troppe presentazioni. Mario, assieme a tutti gli altri, lo guarda fisso. Un cinquantenne robusto come un toro fa un passo in avanti, con voce rotta quasi senza corde lo incalza: “Chi sei?”. “Bianco”. “Partigiano?”. Uno dopo l’altro lo puntano le facce stanche e sconvolte delle ragazze e delle donne, che per la prima volta gli appaiono come possibili vedove. Un moto gli cresce dentro, e con voce esageratamente alta per la risposta, “sì”.

 

“Sì, parto partigiano”. Sei sicuro? Babbo e mamma davanti agli occhi. Prime ore del giorno, sei mesi prima, con aria mista tra il dolore e l’orgoglio, soprattutto il babbo, comunista dal ’21, uno di quelli “ha da veni’ baffone”. Bianco non ha scelto il suo nome di battaglia, sente soltanto di dover partire, la ragazza non ce l’ha ancora, e con la guerra ha perso pure la voglia di studiare. Il partigiano liberatore della patria è un bel mestiere, ti fa bene all’animo, ma non basta il cuore; ci ripensa ora, mentre Mario si è accucciato vicino a lui. Mario che l’ha difeso. Gli frizzano ancora sul volto i graffi della donna che gli è saltata addosso, sotto nel rifugio: l’hanno scacciato come un cane, e per tutta la nottata gli rimbombano nelle orecchie gli spari uditi nel dannato cespuglio. Ma non doveva essere lui a combattere, a morire per gli altri? Invano, nel tormentato e interrotto dormiveglia, ricostruisce il fattaccio del tedesco morto cercando di ricordarsi se il grilletto l’ha premuto o no. Dove cazzo sono finiti i compagni? Poi si addormenta stringendo tra le mani il cencio bianco.

Nella macchia non si sente più alcun rumore, i nazisti sono andati via durante le prime ore della notte. Al primo ripiegarsi delle ombre, gli Americani hanno occupato tutta la zona.

 

Al “Bacii” si scava di nuovo la fossa comune. Don Raffaele si affretta da ogni parte cercando di tradurre alle famiglie di disgraziati la lingua incomprensibile di altri ufficiali pieni di mostrine. La tensione palpita, mentre tutt’intorno passano e ripassano i blindati degli Alleati, qualcuno trai contadini sa già cosa si troverà davanti; e non occorre neanche troppa fantasia per capirlo. Nel giro di pochi minuti, la tensione diventa un coro misto, quasi tutto al femminile, di grida e pianti: le vanghe iniziano a mostrare arti e musi gonfiati fino all’inverosimile, dopo un’ora ritornano alla luce una cinquantina di cadaveri. Sono irriconoscibili, e trascorsa neanche una giornata, fanno orrore. Gli stessi familiari hanno paura di gettarsi addosso a quei corpi per paura di ritrovarvi lineamenti noti. I graduati stranieri, armati di quaderni e taccuini, tentano di far capire l’urgenza di spostarli al più presto nel cimitero. La calca di spettatori aumenta ogni poco, qualcuno ritrova ed abbraccia la famiglia perduta la mattina precedente, qualcuno sa di certo che un padre, un fratello o un figlio si trovano lì coperti dal terriccio: i tedeschi hanno avuto l’animo di risparmiare le donne. Una vedova si strugge sul cadavere del marito e di un disgraziato cane che ha avuto in sorte di poter seguire il padrone all’altro mondo. Qualcuno scatta delle foto.

“Vittorio” arriva con Mario sul posto abbastanza presto, prima dei paesani che ancora, su a Guardistallo, non sanno niente. Si confonde tra la moltitudine. Poi si avvicina alla fossa: hanno già rinvenuto i corpi di cinque suoi compagni, tutti figli di contadini del posto. Nessuno con la tempia spappolata dalla rivoltella d’ordinanza che finisce i giustiziati, solo ferite al collo o alle spalle, sono morti nello scontro. Qualcuno inizia a parlare ad alta voce. E’ colpa dei partigiani, hanno sparato per primi, li ho visti e li avevo anche avvertiti dei tedeschi. Bell’eroe a uccidere un tedesco che sta pisciando.

Le mamme e le sorelle dei combattenti caduti non hanno neanche la forza di replicare, “Vittorio” come un ebete resta in silenzio, sconvolto e confuso dallo spettacolo che si trova davanti. Ecco spiegati gli spari sentiti mentre da buon partigiano faceva la lucertola. Non aveva osato immaginare tanto. Trovano altri cinque col fazzolettone rosso, stavolta senza genitori a piangerli: i loro si trovano a Modena, Bologna, Firenze. Non sente le grida quasi tumultuose, né i “biquait” dei ufficiali americani che vogliono soltanto riappacificare gli animi e proseguire, mentre si trovano nelle mani una mezza strage da spiegare. Soltanto il prete intuisce da subito che tra quelle urla di disperati si sta battezzando, col sangue di una mezza ecatombe, una faida pericolosa. “Vittorio” vede sopraggiungere due compagni, li segue con gli occhi mentre si chinano sui cadaveri dei compagni già accatastati da parte, uno si fa il segno della croce l’altro scorge lui e lo chiama: si fa assemblea, Virgilio sta parlando alla brigata, bisogna andare a sentire. Ma come, si lasciano soli in questo modo? E indica la ressa. Bisogna andare a sentire. “Vittorio” si incammina, Mario fa per seguirlo, non l’ha abbandonato un minuto. Poi vede la mamma arrivare con Isa, e corre sfogando ore di patema.

Sono una cinquantina, vociferanti, messi in cerchio in un piccolo spiazzo, ovviamente imboscati. Appena arriva, il silenzio. Di solito lo salutavano, stavolta qualcuno lo aggredisce subito: hai sparato tu al tedesco? Le ghigne e i musi di certi compagni non sembrano propriamente amichevoli. Virgilio, uno dei pochi con ancora il fazzoletto rosso, s’incazza subito. Zitti, Non è colpa sua, Né di nessun altro, Solo un disgraziato incidente, poteva succedere a chiunque. “Vittorio” vorrebbe sapere come fanno ad essere così certi su di lui.

Si è cacato sotto, non doveva partecipare alla missione se non si sentiva pronto. Balle, Bianco è sempre stato uno dei più in gamba. Il piano era una vaccata, non c’era neanche da partire o da fare i ganzi, i tedeschi stavano andando via: per tentare di fregare gli Americani su in paese hanno fatto una strage. Già ci insultano.

Inizia a fare caldo e le mosche non aiutano a mantenere la concentrazione. “Vittorio” intuisce che hanno discusso molto, forse sono lì dalla mattina prima, ci sono i resti di due bivacchi. Non perde d’occhio il comandante, lo vede alzarsi in piedi e spiegazzare il cappello, conosce quella posa, ora parlerà. Vuole sentirlo, per conforto.

Liberiamo il nostro paese dal bastardo invasore, non ci stiamo a chinare il capo, e allo stesso tempo evitiamo che dopo i tedeschi ci comandino gli Americani. Se lottiamo con loro, invece di starci a grattare, riscatteremo una vigliacca condotta di guerra e il governo dei fascisti. Alla fine, perché siamo alla fine, ci verrà data la parola. Stavolta non è andata bene, ci hanno lasciato la pelle degli innocenti, ma anche i nostri. Noi siamo qui per rischiare la vita, ogni giorno. Gli Americani ci hanno chiesto di combattere contro i tedeschi. E noi lo facciamo. Lassù alle “Cerretelle” eravamo troppo pochi per resistere, non serviva a niente farsi ammazzare come bestie.

 

Se si fossero consegnati, non li avrebbero ammazzati come bestie. Almeno non tutti e cinquanta. Ma fosse stato salvato anche solo un ostaggio, era loro dovere arrendersi. Li avevo avvertiti dieci giorni fa. Son tutti comunisti, e hanno la testaccia dura. Non c’ha colpa chi ha sparato per primo, avevano sbagliato a trovarsi lì, non aveva senso partire quella mattina. Lo capisco che la reazione dei tedeschi è stata disumana, ma si sapeva tutti qui in paese, anche i partigiani, che erano diventati bestie. Su loro non si discute. Resta comunque un errore terribile: scegliere di fare gli eroi in fondo alla guerra, è inutile.

Ogni tanto Don Raffaele si blocca, l’interprete ha bisogno di spiegazioni, il generale inglese non fa che annuire ed annotare. Non gli racconta di quando ha fatto finta di riconoscere un suo parrocchiano nel secondo gruppo di ostaggi, mentre si trattava di un partigiano. Si stanno interrogando tutti. Dopo il parroco spetta a “Vittorio”, che aspetta snervato e stanco. Virgilio gli ha chiesto esplicitamente di non esagerare nei dettagli dello scontro, fornendogliene degli altri. Sono venuti a chiamarli verso il tocco, e lui è il primo della lista: in paese devono aver già parlato in molti. Si era appena sciolta la “Gattoli” per insufficienza di uomini, quasi nessuno se la sentiva di continuare, quasi tutti avevano da ricucire lo strappo con i civili. Virgilio ha proposto, a chi voleva, di partire con lui sui blindati americani in serata, per riunirsi con gli altri partigiani della brigata Garibaldi. C’è ancora molto da fare.

Entrando, vede subito una macchina fotografica appoggiata per terra. L’inglese è d’altezza imponente, fuma una sigaretta e ha avuto il tempo si sbarbarsi a modo. Tu sei quello che ha sparato? Sentendo di nuovo questa frase, “Vittorio” non la regge più. Dopo tante ore di silenzio, riesce a liberarsi.

Lui non ha sparato, cioè non lo sa bene, ci vedeva male, è rimasto nascosto per molte ore sentendo nel frattempo spari e grida. Non si è spinto in avanti, era solo e sinceramente non sapeva cosa fare. Sì, non sapeva proprio cosa fare. Era un partigiano da poco, ma nella Gattoli si trovavano solo giovani, pochi riuscivano a sparare: lui, credeva di farcela. Molti si arruolavano per scampare alla leva, figli di contadini, legati alla famiglia, due di loro avevano anche lasciato per pietà tre soldati tedeschi presi prigionieri. Mentre i nazisti, il primo partigiano catturato lo avevano massacrato di botte. A pensarci ora, non gli pare più un’idea brillante quella di aver pensato di occupare i colli vicini. Ma Virgilio ci credeva fermamente, e così lui, altrimenti non sarebbe stato in prima linea.

Lo scontro è durato poco, forse meno di un’ora. Quasi tutta la prima squadra è scappata abbandonando fucili, mitra, zaini, fazzoletti rossi. Qualcuno non è neanche ritornato al quartier generale. Sono undici i morti? L’inglese fece un cenno col capo.

Mi dispiace, io gli spari e le grida di quei disgraziati contadini li ho pure sentiti. Che potevo fare? Che dovevo fare? Ero solo, rincarcato come un animale dentro i pruni, e senz’armi. Su in paese, mi credevano uno dei più coraggiosi. “Vittorio” si tocca i graffi sul viso. Ma se non possiamo sparare ai tedeschi che ci stiamo a fare?

Confuso più di prima, esce dal podere. Il sole lo acceca. Si ricorda che non dorme da quasi tre giorni, e avrebbe anche fame. Un soldato americano gli offre un panino e una birra. Ci vuole un momento di calma, un po’ di quiete. Forse gli serve anche un luogo per sfogarsi quel grumo di rabbia e pianto bloccato in gola.

Un rombo del motore lo sveglia verso il tramonto. C’è ancora un po’ di vento, ma il caldo afoso è passato. Si è addormentato su una brandina alleata, scomoda come quelle italiane, ma di questi tempi ben più sicura. Virgilio lo ha cercato qualche ora prima per portargli il nuovo equipaggiamento, per fortuna ritorna entro breve. Saliranno su una camionetta inglese per cinque chilometri, poi di nuovo nella macchia, perché verso nord la resistenza tedesca non è stata ancora fiaccata. “Vittorio” non reagisce a questa proposta, il comandante ha già deciso per lui. Parla sempre bene Virgilio, capisce cose che a lui sfuggono e probabilmente di fronte al generale inglese ha fatto un’ottima figura.

Bisogna partire. “Vittorio” si sente chiamare. Mario accorre verso di lui, ha qualcosa chiusa in un pugno. Vai via? “Vittorio” lo prende in braccio, si inebria di quel calore umano che da tempo non riceve. Lo bacia in fronte. Fai il bravo. Mario, come al solito non risponde. Poi, si fa coraggio. La mamma un vole che stia qui. Lo vuoi? Era del babbo. Gli apre la mano due volte più grande e la richiude senza fare vedere cosa ha messo. “Vittorio” sente ancora pianti disperati provenire dal cimitero, mentre Don Mazzetto sta preparando l’estrema unzione per quei disgraziati. Devo andare. Un ultimo saluto. La camionetta è pronta, Virgilio è dietro che sorride al bambino con quei due baffetti da sparviero. “Vittorio” sale su. Com’è che ti chiami tu? Bianco. Forse ti torno a trovare.

Cinque minuti dopo, apre la mano. C’è un fazzoletto rosso. Mario non si vede più. La macchia è lì, già bella nera, dietro l’angolo.

 

Il blindato sbanda come un ubriaco su quella strada quasi sterrata. Dentro fa un caldo tremendo, benché il sole debba ancora farsi vedere. Stefan sente l’urgenza di fermarsi, dietro la curva c’è un piccolo spiazzo. Frantz lo accompagna fuori, anche lui già sudato. Da lassù si nota un bellissimo quadro naturale delle colline toscane, e i due si incantano per qualche secondo, il sergente chiama, Stefan si sbottona i pantaloni. Per un attimo gli par di notare qualcosa nel cespuglio di fronte a lui, forse un luccichio; è l’ultima sua visione.

Cinque minuti dopo il comando nazista si è già bloccato lungo la strada. Escono dal nulla quasi un migliaio di soldati, una decina di mitraglie e un paio di carrarmati. Un cecchino lancia una bomba. I partigiani sbagliano mira con una facilità impressionante e in poco tempo due o tre di loro rantolano trai rovi, mentre il resto si sparpaglia e qualcuno fugge più veloce dei proiettili tedeschi. In mezz’ora l’area è stata conquistata, c’è stato un solo tedesco ammazzato: Stefan, con la faccia crivellata dai colpi. L’alto ufficiale si è impietosito di fronte al suo cadavere, ed ordina un rastrellamento nei poderi circostanti, cercare i partigiani e i civili che li aiutano. Ma i partigiani sono scappati tutti, tranne uno talmente ben nascosto da sfuggire alla loro caccia per sei ore. I contadini no, si sono svegliati e tremano abbracciati a mogli e figli nei casolari. Qualcuno è riuscito a raggiungere i rifugi, gli altri pensano di non aver fatto niente di male a vivere così vicino al luogo dello scontro.

 

Nel giro di due ore alcune pattuglie abbattono porte e si introducono dentro le abitazioni, falcidiando di colpi, a seconda degli umori, il disgraziato primo venuto. Si perquisiscono gli anfratti, botole, armadi, stanze, stalle alla ricerca dei soldati comunisti, ma nessuno salta fuori. I maschi, giovani o vecchi, vengono presi e portati via, raramente uccisi sul posto. Li portano al “Bacii”, con loro ci sono sei partigiani. Non sono un partigiano, sono uno sfollato, sono un contadino; è la frase che questi poveracci urlano in continuazione, mentre ogni tanto qualche grido femminile si alza assieme al giorno. Nel numero di 46 vengono giustiziati, poi finiti con il colpo di sicurezza dall’alto ufficiale, che adesso si sente decisamente vendicato. Diverse famiglie hanno assistito da lontano, su verso la strada che conduce in paese. Al momento regnano l’orrore e il silenzio.

L’alto ufficiale, accaldato e indispettito per il contrattempo, mentre qualche sfortunato contadino è costretto a seppellire alla buona quei cinquanta cadaveri, entra in una casa vicina. C’è una donna ancora sconvolta, appena diventata vedova, che forse non si ripiglierà mai. Chiede la colazione. Poggia la rivoltella sul tavolo e si leva gli scarponi, sorride ai suoi soldati, adora il vino italiano. Si scusa per aver sporcato il tavolo di sangue con la pistola, così con un tovagliolo lo pulisce; vede al muro una cartolina di Livorno. Si alza immediatamente, contento per la scoperta; in perfetto italiano parla alla signora che ha versato almeno mezzo litro di rosso fuori dal bicchiere. Ha fatto le gare di automobilismo, da giovane, vicino Livorno; bellissimo periodo, tanto sole, grandi abbuffate. Alla finestra vede un uomo supino sulla strada, vicino alla macchia; pare salutarlo.

È Sisto Longa, che sta arrovellando al sole.

  
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