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Autore: _zukky    28/04/2012    4 recensioni
“Tu non hai la più pallida idea di cosa sia l’intimità.”
“Perché non me lo dici tu, allora?”
Lei rise, di una risata aspra, che si seccava in gola priva di qualsiasi divertimento, e si infrangeva contro di lui come un’onda, quando l’acqua è talmente gelata da ferire come spilli acuminati.
[...]
“Non posso.” Rispose con una voce piccola e appena percettibile e lui seppe che era la verità, per una volta spoglia da qualsiasi sipario e burattino.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger | Coppie: Draco/Hermione
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Just there – where you would like to be











“È inutile che fingi di dormire, Granger.”
La sua voce era l’odore acre del fumo che le arrivava appena alle narici, fastidiosa, insinuante. Si voltò supina, fissando il soffitto bianco, leggermente scrostato lì dove la pittura non aveva potuto niente contro l’umidità. Forse la stessa che le scivolava nelle ossa, indolenzendone le attaccature, rendendole fragili e pesanti come quelle di una marionetta.
“So che non sai più farlo.”
Non c’era bisogno che girasse gli occhi verso di lui per immaginarselo poggiato alla testiera del letto, una sigaretta tra le mani e quell’espressione impassibile di chi guarderebbe il mondo crollare senza neanche troppo interesse.
“Tu non sai niente.”
Gli rispose continuando a tenere lo sguardo fisso sopra di sé, la voce brusca e distante, come brusca e distante era sempre lei, una superficie spezzata che graffiava la pelle al solo sfiorarla, angoli e spigoli appuntiti che si conficcavano a fondo, invitando, minacciando – implorando – di non avvicinarsi.
“Lo so, invece” ribatté lui, continuando a fumare tranquillo. “Ed è inutile che metti in atto questa scenetta ogni volta, risparmia le energie.”
“Non insceno proprio un bel niente.”
“Granger,” in uno sbuffo espirò l’ultima boccata di fumo. “Non stai parlando con i tuoi amichetti che credono a tutto quello che dici.”
Si voltò appena a guardarla, ma lei continuava a fissare il soffitto. “Se vuoi mentire impara a farlo meglio.”
I tuoi amichetti.
Era l’unico. Lui era l’unico a non fare finta di niente in sua presenza. Era l’unico che continuava a guardarla come aveva sempre fatto – disprezzo, derisione, superbia, desiderio –, non c’erano compassione, pena, commiserazione, come in coloro che la guardavano temendo di vederla crollare da un momento all’altro, scoppiare in lacrime, e non sapessero come gestirla, sempre talmente attenti da essere artificiali.
“Sei uno stronzo, Malfoy.”
(Lei attaccava – feriva – chiunque si avvinasse e lui non aveva mai avuto paura di difendersi.)
“Ovvio, Granger, è anche per questo che vieni a letto con me.”
Un’ostentazione di presunzione bella e buona.
Solo per questo.” Lo corresse, abbandonando finalmente quella macchia di umido e voltando lo sguardo verso di lui.
“Non farmi ripetere quanto tu sia poco brava a mentire.” Chiosò, continuando a mantenere quella calma tipica di chi è perfettamente in pace con se stesso e non ha nulla da temere.
Hermione non si degnò neanche di replicare, era inutile protrarre oltre quella schermaglia verbale, si mise a sedere scostando il lenzuolo, pronta a rivestirsi.
“E sei anche stupida.”
Una mano le afferrò poco delicatamente un braccio e si ritrovò strattonata indietro, il volto a pochi centimetri dal suo.
“Cos’è, Malfoy, ho ferito il tuo orgoglio maschile?” Lo sbeffeggiò, cercando di liberarsi inutilmente.
Invece di risponderle, lui ghignò e aumentò la presa portandosela per metà addosso, l’altra mano che ora indugiava sul suo fianco seguendo un percorso noto solo a lei.
Se ne accorse appena, intenta com’era a riprendere possesso del proprio braccio.
“Che diavolo vuoi?”
Scorse appena uno scintillio nel suo sguardo e non ebbe il tempo di interpretarlo che si ritrovò a boccheggiare tra le sue dita, i denti che correvano a mordere le labbra per non lasciar sfuggire un ansito sorpreso – orgogliosa fino in fondo, anche allora – che si tramutò inevitabilmente in un mugolio basso, di gola.
Non gli aveva concesso altro che il suo corpo e in quei mesi lui aveva imparato a conoscerlo meglio di quanto avrebbe creduto possibile.
“Cosa staresti cercando di dimostrare?” La voce si era incrinata e poi era diventata più acuta verso la fine, mentre avvertiva l’altra mano sciogliere il nodo intorno al braccio, solo per scivolare verso la pelle sensibile nella piega del gomito.
“Che sei una pessima bugiarda, Granger.” Le mormorò in viso e zittì qualsiasi ulteriore protesta, o forse solo il gemito che le stava risalendo la gola, rubandoglielo dalle labbra.


*




“Vediamo... Esattamente quarantadue minuti e trentasette secondi di ritardo.”
“Come sei pignolo, Malfoy.” Sbuffò, chiudendosi la porta alle spalle e srotolando la lunga sciarpa che le teneva riparato il collo. “Facciamo in fretta, ho una riunione tra meno di un’ora.”
Lui la guardò truce.
“Sai che non mi piace.” Un nota dura che esprimeva quanto fosse contrariato, quel rivestimento di superiorità e distacco che lo aveva sempre contraddistinto, che si era portato dietro come una seconda pelle, quando la sua, pallida e sottile, non bastava a difenderlo. La dismetteva tanto raramente da non sapere neanche bene come fare. Eppure l’aveva fatto: l’aveva dismessa quando l’aveva baciata la prima volta e le aveva impresso la sua voce bassa nella mente – la prima verità. La dismetteva quando la prendeva in giro e quando le parlava con tanta leggerezza da dimenticarsi per un momento di essere ancora lì, ancorati alla realtà, anche solo per farla arrabbiare, per edere un briciolo di quella scintilla che le accendeva lo sguardo lottare ancora da qualche parte dentro di lei, per consumare tutto quel gelo.
“Poche formalità, Malfoy,” Hermione lo ignorò, mentre si liberava delle scarpe per raggiungerlo sul letto, dove era semisdraiato con ancora i vestiti indosso.
“Ho detto che non mi piace,” non si fermava a specificare cosa, non l’avrebbe fatto, non le avrebbe concesso anche quello. “E lo sai.” Lo sottolineò, con un’occhiata che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto intimorirla o quanto meno richiamare la sua attenzione.
Ma lei continuò a ignorarlo “Potevi spogliarti nel frattempo, avremmo guadagnat-”
Il suo movimento fu talmente veloce e fluido che stentò a rendersene conto fin quando non si ritrovò con le sue mani che le inchiodavano le braccia ai lati della testa, il suo peso che le bloccava il respiro, i suoi occhi che le strozzavano le parole in gola.
“Mi ascolti, quando parlo?” sibilò.
“Perché dovrei?” si agitò solo per accomodarsi meglio agli spigoli e alle curve del suo corpo.
“Perché non sei la sola a dettare le regole di questo gioco.”
Il gioco a cui nessuno dei due avrebbe mai immaginato di partecipare, in cui c’era in ballo molto più di quanto fossero disposti ad ammettere, entrambi.
A Hermione non erano mai piaciuti particolarmente i giochi, non da quando aveva imparato a montare e smontare le parole come fossero il più appassionante e vasto – un mondo di infinite possibilità e variabili – dei puzzle.
Fin quando non le aveva abbandonate, le parole, o loro avevano abbandonato lei – non avrebbe saputo dirlo con sicurezza – e si era ritrovata con nient’altro che pagine da riempire senza sapere come fare, da dove cominciare, come andare avanti.
Non aveva mai capito esattamente come fosse arrivata a quel punto, quegli incontri erano strisciati silenziosi nella vuota ruotine della sua altrettanto vuota vita – fatta di virgole messe a caso e parentesi aperte e mai richiuse – e senza che neanche se ne accorgesse si ritrovava sulla porta di quell’appartamento più spesso di quanto avrebbe ritenuto accettabile lei stessa.
Aveva allontanato tutti, tanto silenziosamente che nessuno se n’era reso realmente conto fin quando non era stato troppo tardi. Troppo tardi per recuperare brandelli di rapporti di cui si erano persi i fili per tenerli insieme.
Si dedicava al lavoro con una dedizione pari solo all’amore che aveva lasciato tra le pagine di quei libri che le avevano riempito le dita e la testa, fin da quando aveva imparato a leggere.
Regolazione e Controllo delle Creature Magiche. Se non era in grado di frugare nella voragine che si era aperta dentro di sé, almeno poteva aiutare qualcuno più indifeso di lei, qualcuno che non era in grado di difendersi da solo.
Dopo la guerra, invece di stringersi gli uni agli altri, come tutti si sarebbero aspettati, lei aveva innalzato muri di freddezza e pareti di distacco, era stato più semplice di quanto si fosse aspettata farlo, mettendo reale distanza tra loro: era tornata a Hogwarts, loro non l'avrebbero più fatto, anche Ginny non sarebbe più tornata.
Era tornata a Hogwarst perché era l’unico posto dove potesse rifugiarsi, l’unico posto da chiamare casa che le fosse rimasto.
E si era accontentata di quel surrogato di rapporto umano, l’unico che si concedeva, ma a cui non cedeva mai più del suo corpo.
“Spogliami e sta’ zitto, Malfoy.”
“Decido io quando spogliarti.”
“Vuol dire che sarò costretta a fare da sola.” Non le diede neanche il tempo di provare a divincolarsi che la stretta sui suoi polsi si fece più decisa, imperiosa.

L’aveva sempre spogliata lui, per primo, come prima cosa, fin dalla prima volta. – si era crogiolato nella soddisfazione di essere stato il primo a privarla dei vestiti, di tutti i vestiti, e aveva ricevuto in risposta un’occhiata gelida... Prima o poi l’avrebbe spogliata anche di quella (del gelo che l’avvolgeva). Le sue mani erano sotto il suo maglione nel momento esatto in cui le labbra erano sulle sue, e lei le aveva respinte entrambe, le mani e le labbra.
Stavano parlando – be’, parlando era una parola grande per loro due – come erano arrivati a quel punto?
“Che cavolo stai facendo?”
“Ti bacio e ti spoglio, mi sembra abbastanza chiaro, o vuoi che ti sia prima spiegato a chiare lettere?”
“Fai almeno finta di aver voglia di baciarmi quanta ne hai di spogliarmi.”
I corridoi di Hogwarts echeggiavano ancora delle carezze di troppe maledizioni, di sospiri che cercavano di sfuggire alla morte, quell’ultimo anelito di vita dedicato a chi si è amato di più. Nonostante l’apparenza, le mura erano ancora pregne delle grida di paura e dell’odore della disperazione.
L’Hermione che ripercorreva lo stesso suolo che l’aveva vista viva più che mai si portava negli occhi tutto quello.
Era tornata.
Era tornata per allontanarsi da tutti. Per impedire che glielo leggessero addosso che si era persa.
Era tornata per evitare che cercassero invano di ritrovarla. Era tornata perché non conosceva altro posto dove andare.
Seguiva le lezioni, studiava quanto e più di prima, adibiva ai suoi doveri di Caposcuola, litigava con Draco Malfoy.
Voleva ignorarlo. Aveva tutte le intenzioni di fingere che non esistesse, così come faceva con tutti gli altri, ma ogni volta che si incrociavano, lui trovava un pretesto per infastidirla. Le faceva saltare i nervi come solo lui sapeva fare e si era ritrovata a pensare a quegli scontri come l’unica parvenza di normalità che le era rimasta. L’unica briciola di un passato andato perso per sempre.
Quello che non poteva immaginare era che Draco Malfoy l’aveva vista e l’aveva riconosciuta: la ferita che portava nello sguardo era la stessa che vedeva riflessa nel suo da fin troppo tempo. E ogni volta che discuteva con lei sprofondava nel baratro che erano i suoi occhi scuri, un gelo di perdita, disperazione, paura che le si dipingeva nei tratti, nella voce, nello sguardo.
“Cosa vuoi?” Gli aveva chiesto continuando a tenerlo lontano quel tanto che bastava perché non riassalisse il suo maglione.
Una pausa infinitesimale, una pausa che aveva visto passare attraverso i suoi occhi, come quelle parentesi vuote che avevano riempito quegli ultimi mesi. “Solo sentirti.”
Per la prima volta non aveva risposto. Non aveva una risposta per quello. Non quando quelle parole, sussurrate con voce talmente bassa da sentirle appena, si insinuavano tanto a fondo arrivando a spogliarla per un secondo della sua freddezza – lì dove aveva rinchiuso tutta se stessa.
Lui aveva preso il suo silenzio come un assenso e le sue mani erano ritornate sotto i suoi vestiti – quelli che era sicuro di riuscire a privarle, il resto gliel’avrebbe reso dopo, poco alla volta, a costo di strapparglielo da sotto la pelle –, la bocca sulla sua gola, e poi su a cancellarle quella linea dritta e supponente dalle labbra.

“Granger.” Un avvertimento. Strinse ancora di più sui suoi polsi e si poggiò completamente su di lei, per impedirle di muoversi.
Granger.
Non l’aveva più chiamata Mezzosangue. Non aveva più pronunciato quella parola, né come un insulto, né come un’invocazione. Quasi avesse paura di risvegliare vecchi orrori, quasi avesse paura di rivivere vecchi incubi.
L’ultimo giorno a Hogwarts le aveva messo tra le mani un bigliettino ed era sparito, il sole che gli accendeva i capelli di luce.
Un indirizzo. A Londra.
Non accennavano mai a prima. Non avrebbero accennato a niente fosse stato per Hermione, ma Malfoy a fasi alterne mostrava picchi di loquacità disturbanti, con lo scopo unico e preciso di irritare il prossimo. E il prossimo più vicino era lei.
Avrebbe voluto strapparlo, quel biglietto, e strapparsi di dosso qualunque cosa ci fosse tra loro, ma la solitudine era insidiosa e i ricordi crudeli... Voleva lasciare tutto fuori – fuori dalla sua testa, fuori dal suo cuore -, almeno per qualche ora – loro due, a formare una parentesi vuota.
E il tempo sfumò nel momento esatto in cui la presa sui suoi polsi tramutò in una carezza e il peso del suo corpo nell’oppressione, dolce e necessaria, che la teneva ancorata a se stessa.
Loro due, a formare una parentesi vuota.
“Mi hai fatto perdere la riunione, maledetto Malfoy.”


*




“Tu non hai la più pallida idea di cosa sia l’intimità.”
“Perché non me lo dici tu, allora?”
Lei rise, di una risata aspra, che si seccava in gola priva di qualsiasi divertimento, e si infrangeva contro di lui come un’onda, quando l’acqua è talmente gelata da ferire come spilli acuminati.
Durante i suoi anni a Hogwarts, aveva conosciuto il senso profondo del non detto, quello che va ben oltre le parole, quella sensazione che terresti stretta qualunque cosa accada ed è più di un ti voglio bene, è la sicurezza e la gioia e la paura di comprendersi fin troppo al di là, e di esserci insieme, in ogni circostanza.
L’intimità.
L’esserci l’uno per l’altra oltre le cose e le circostanze: girare felici per Hogsmeade senza una meta precisa, quando la reciproca compagnia era l’unica cosa che contava; rifugiarsi ai Tre Manici di Scopa per ripararsi dal freddo, o in Sala Comune cercando di finire i compiti; affiancarsi in missioni sempre troppo grandi per loro età, guidati dall’istinto e da quel profondo senso di complicità che non poteva essere catalogato.
E lei li aveva persi. Aveva perso Harry, e poi Ron, e aveva perso il senso dell’intimità. Le sfuggiva il significato, la portata, e ciò che le faceva sentire.
“Non posso.” Rispose con una voce piccola e appena percettibile e lui seppe che era la verità, per una volta spoglia da qualsiasi sipario e burattino.


*




“Non è tardi? Tornatene dalla tua futura moglie.”
Si bloccò, il bicchiere di succo di zucca a mezz’aria, mentre la guardava uscire dal bagno, i capelli ancora umidi. Poi si poggiò al ripiano della cucina e le rivolse un sorriso sarcastico.
“Non vuoi proprio vedere.”
Nella piega delle sue labbra Hermione lesse in appendice uno spazio lasciato vuoto, vi ritrovò il retrogusto amaro della tristezza e per un attimo i propri occhi cedettero.
Lui non la vide mai barcollare, decise che le aveva mostrato abbastanza – le aveva dato abbastanza –, le diede le spalle pronto ad andare via.
“Cosa dovrei vedere?” La voce di lei non aveva l’eco di chi si trova sull’orlo del baratro – nonostante fosse consapevole di esserci. Rimaneva quella di sempre, ancora – sempre – restia a spogliarsi di quella freddezza almeno quanto facilmente si faceva privare dei propri vestiti.
“Niente.” Le lanciò uno sguardo da sopra la spalla, prima di lasciare la stanza e lei si sentì quasi in colpa, colpita dal pensiero improvviso e altrettanto assurdo che le sue parole avrebbero potuto ferirlo davvero.
“Niente che tu voglia vedere.”
Era sempre stato quello il problema tra loro, non si capivano.
Non potevano capirsi che con le parole e usavano due alfabeti troppo differenti per comprendersi davvero. Fin quando non avessero voluto. Fin quando lei non avesse voluto davvero, fin quando non si sarebbe messa in gioco davvero, in quel gioco a cui non aveva mai avuto intenzione di partecipare, le cui regole erano cambiate senza che se ne accorgesse.
“Per la cronaca, non c’è nessuna futura moglie. Dovresti imparare a chiedere prima di parlare, Granger.”
Si era chiuso l’ultima parola dietro le spalle come la porta di quella casa, lasciandola lì a non sapere che fare.
Tutto quello la stava destabilizzando, barcollava tra le mille parole non dette, e aveva l’impressione – bruttissima, come lo stomaco preda delle fiamme – che lui le avesse teso una mano per tirarla fuori da lì, ma aveva finto non vederla, e ebbe il timore che, andandosene, lui l’avesse ritirata.
In quel momento, dolorosa e improvvisa, arrivò la consapevolezza che fin dall’inizio non era mai stato solo quello, quel surrogato di rapporto umano – definizione a cui si era aggrappata con tutte le sue forze. Non poteva esserlo. Non quando era stato lui a tirarla in piedi dopo la battaglia finale – la vittoria finale: se ne stava sgraziatamente seduta, le mani tra le macerie della scuola e tra pezzi di vita ormai perduti, lo sguardo fisso nel vuoto che le si era spalancato nel petto, e lui l’aveva afferrata per un braccio.
“Andiamo.”
Non c’era delicatezza nella sua presa, come non ce n’era nella sua voce, probabilmente se ci fosse stata non l’avrebbe riscossa – tanti, troppi, avevano cercato di convincerla ad alzarsi da lì, con lusinghe, parole ragionevoli, ma non era valso a nulla. L’aveva seguito in silenzio.
Non era mai stato solo quello e lo capiva solo in quel momento.
Ancora una volta, come in passato – esserci l’uno per l’altra oltre le cose e le circostanze –, ma in modo così diverso, si ritrovava lì a non riuscire a catalogare cosa la legasse a lui. era qualcosa a cui non sapeva dare un nome e andava oltre le parole più di qualsiasi cosa avesse mai provato, le si attorcigliava dentro e – in quel momento – la terrorizzava a morte.


*




Voleva solo chiudere gli occhi e non pensare più a niente, lasciar infrangere nell’oblio l’onda dei ricordi che quel giorno minacciava di travolgerla. Ma lui non gliel’avrebbe permesso, se ne accorse dal modo in cui la incalzava, non cercando di sopraffarla, di averla vinta – quelle vittorie conquistate una per una sul suo corpo, il luccichio nel suo sguardo quando comprendeva quanto potere esercitavano le sue mani su di lei, quanta brama accendevano le sue labbra sulla sua pelle, come e in quanti modi era in grado di farle perdere l’equilibrio solo per non avere altro a cui aggrapparsi che lui –, ma solo di farla parlare.
Aveva temuto che non tornasse, dopo essere andato via accusandola di non voler capire – e proprio in quel momento lei aveva realizzato con terrore quanto c’era in gioco.
Non avrebbe sopportato di perdere anche lui.
Ma lui era tornato. La sua vista le aveva scatenato una reazione violenta, a metà tra il sollievo e la disperazione, vecchie paure che tornavano a crearle il vuoto nello stomaco e a farle mancare il respiro.
Doveva avere un’espressione stravolta, ma Draco non le aveva chiesto nulla, si era solo avvicinato e l’aveva toccata.
Piano, le aveva sfiorato il viso riavviandole una ciocca di capelli, era sceso lungo il collo, sulle spalle, lungo le braccia, all’interno dei polsi.
Come a rassicurarla che lui era davvero lì.
L’aveva presa per mano e l’aveva accompagnata sul letto, dove si era seduto accanto a lei non lasciandola un attimo senza il tocco delle sue mani – nella piega del ginocchio, sul polpaccio, lungo i fianchi –, solo quando le aveva sollevato il viso per guardarla, si era resa conto, sorpresa e spaventata, di avere gli occhi pieni di lacrime.
Non aveva pianto, non c’era riuscita, non aveva voluto riuscirci. Non aveva pianto quando l’aveva visto lì, supino, il volto pallido quanto un cielo che promette la morbidezza e il gelo della neve e gli occhiali storti sul naso. Quel particolare l’avrebbe tormentata nelle notti in cui il buio non era tanto clemente da accordarle l’oblio del sonno: ricordi di serate accompagnate dal chiacchiericcio basso e piacevole della Sala Comune, quando i più piccoli si erano già rifugiati tra le coperte e rimaneva solo qualche coraggioso ancora chino sui libri e chi di dormire non ne voleva proprio sapere, intavolando discorsi troppo stanchi per avere un senso, o una placida partita a scacchi. Quante volte, in quelle stesse serate, si era addormentato con il viso schiacciato sul bordo di una poltrona, le guance accese dal fuoco e quante volte ancora, con una tenerezza talmente naturale e spontanea che avrebbe riservato solo a lui, gli aveva sfilato gli occhiali, storti sul naso, e lo aveva lasciato dormire ancora per qualche minuto.
Ricordi di partite di Quidditch, di stupide risse, di scontri combattuti fianco a fianco, di colazioni sonnacchiose, quando la testa era fin troppo pesante per reggersi da sola.
“Harry, aggiustati gli occhiali, dobbiamo andare a lezione.”
E la sua mano correva senza neanche bisogno di pensarci a sistemarglieli – ogni volta –, ricevendo in cambio quello sguardo di genuina gratitudine che andava oltre quel semplice gesto, e lei lo sapeva, quello sguardo, ancora innocente nonostante tutto quello che lui aveva vissuto, consapevole e caldo, che la ringraziava anche quando non ce n’era bisogno, tipico di chi stenta ancora ad abituarsi al fatto che qualcuno si preoccupi per lui.
Non aveva pianto al funerale, tra le parole smozzicate tra i singhiozzi di chi cercava di commemorarlo nel migliore dei modi – il suo sarebbe rimasto muto, dentro di sé, chiuso in quell’anfratto talmente privato che si era rifiutata categoricamente di parlarne. Tutti avevano pensato che avesse avuto paura di non farcela, ma lei non aveva voluto e basta, non voleva dare i suoi ricordi in pasto ai giornalisti e a chi lo considerava semplicemente come il Salvatore del Mondo Magico, non voleva macchiare la bianca immagine che aveva di lui – bianca come la bara su cui aveva tenuto lo sguardo fisso, immobile e vitreo, durante tutta la cerimonia – con il chiacchiericcio ammirato e curioso di chi non lo conosceva affatto.
Lo avrebbe protetto, fino alla fine, come aveva sempre fatto.
Aveva ucciso le lacrime e con esse – con Harry – era morta una parte di lei.
Fu percorsa da un brivido che ebbe il potere di scuoterla e istintivamente si gettò tra le sue braccia, scoppiando a piangere.

“Non piangere Draco, gli uomini non piangono.”
Aveva solo tre anni, la prima volta che se lo sentì dire.
E ora si ritrovava lì, e non sapeva come gestire le sue lacrime, lui che aveva imparato ad ingoiarle tanto in fretta da aver ingoiato insieme alle lacrime anche la sua infanzia.
Quelle lacrime erano forse la prima e più intima parte di lei che gli mostrava e lui non sapeva come maneggiarla, non sapeva da che parte prenderla, per paura di avere mani troppo scontate e parole troppo maldestre da offrile. E fece l’unica cosa che fosse in grado di fare.
La baciò. Le soffocò un singhiozzo in gola, come se non avesse alcun diritto di essere lì a farla tremare in quel modo tra le sue braccia, vinse la debole protesta di chi non è abituato a condividere una parte tanto privata di sé con qualcun altro, e spalancò gli occhi, affondandoli nei suoi, scuri, liquidi, la sofferenza e la dignità e il baluginare, lontano e appena percettibile, di qualcosa che gli diede una scossa violenta, le mani che si stringevano con più forza nelle sue braccia strappandole un mugolio. Imparò che sapore aveva il dolore nella sua bocca, lui che l’aveva sempre soffocato nella parte più nascosta di sé, e capì, in quel momento, mentre lei si abbandonava in un ansito al suo abbraccio e al suo bacio, che forse era quello che aveva fatto anche lei in quegli ultimi anni, aveva soffocato il dolore e con esso aveva soffocato se stessa, la parte più importante, quella che era sempre stata.
Quando non ebbe più fiato per rubarle quella sofferenza dalle labbra si separò da lei, sentì un altro singhiozzo scuoterla e allora seppe che fare, le chiuse le braccia intorno – se non poteva proteggerla da tutto quel dolore, poteva almeno sorreggerla, tenerla insieme e non farla crollare in pezzi (che rimanesse lì, intera) – e stette in silenzio, per quello che gli sembrò un tempo lunghissimo.

“Malfoy, perché non hai ancora provato a spogliarmi?”
Aveva la voce distorta dal sale che le si era incastrato in gola, residuo di quel dolore che le si era incastrato nel cuore, ma quando la guardò negli occhi – nonostante fossero rossi e gonfi e pesti, e avesse il viso distorto ancora nella smorfia di un singhiozzo trattenuto – vi trovò il lampo di un’ironia che non vedeva da tempo e quieto, in sottofondo, ancora quel baluginio. Allora rise, abbracciandola di slancio e facendo cadere entrambi distesi sul letto.
Quando quella risata si spense, si accorse che lei aveva smesso di singhiozzare e se ne stava buona tra le sue braccia, persa nei suoi pensieri. Stettero in silenzio a lungo, poi Hermione alzò gli occhi nei suoi. Fu allora che cominciò a parlare. Sottovoce, con parole smozzicate e discorsi spesso incoerenti, si accorse che continuava a seguire il filo dei suoi pensieri e lui non la interruppe mai. Le asciugò le lacrime che le parole riportarono con sé e attese paziente mentre cercava di riprendere il controllo della voce. Solo alla fine, la strinse più forte e, sentendola aggrapparsi a lui, il viso nascosto nel suo collo, le labbra sulla sua pelle, le sussurrò.
“Io non ti lascio.”


*




Del giorno in cui per la prima volta Draco l’aveva accompagnata lì ricordava solo le mani affondate nella terra e la vista offuscata dalle lacrime. Dopo un tempo infinito lui l’aveva sollevata – come sempre era lui a strapparla a quei momenti di estraniamento – e portata via.
La volta successiva era andata meglio, si era seduta e aveva parlato con Harry. Gli aveva detto tutto quello che si era arrotolata nella mente per tutto quel tempo. Gli aveva parlato e aveva pianto. Poi aveva guardato Draco e aveva pianto ancora, nascondendosi tra le sue braccia e tra le pieghe di quella comprensione che le stava restituendo un pezzo alla volta se stessa.
“Grazie.” Aveva sussurrato soltanto.
Un pezzetto un po’ storto, uno non messo proprio al posto giusto. Ma chi diceva che il suo posto non fosse proprio quello? A incastrarsi con quelli di lui.
Stava piangendo tutte le lacrime che aveva soffocato.
Lui si limitò solo a sollevarla nascondendosela tra le braccia e riportarla lì dove stava desiderando di essere. A casa.


*




Tutto era iniziato con l’odore del caffè che l’aveva svegliata, una mattina. C’era voluto più di qualche minuto per rendersi conto che quello non era il suo letto, quella non era la sua casa, quello era un odore – mischiato al profumo di sonno, di lenzuola, di lui – che percepiva come risvegliato da un sogno. Conosciuto ed estraneo, la sensazione di averlo conosciuto da sempre – quell’ odore che rincorri per tutta la vita – e averlo trovato solo in quel momento.
Familiarità. Intimità.


Draco non sapeva esattamente come fosse riuscito a tenerla lì, ma ogni mattina lei seguiva l’odore del caffè e lo raggiungeva in cucina. La prima volta che l’aveva vista spuntare dalla camera da letto, solo una maglietta a coprirle la pelle, aveva un’espressione tanto disarmata e bella e sorpresa – come non l’aveva mai vista – che gli aveva fatto morire il fiato in gola. La tenerezza a tenergli inchiodato il cuore e un senso di terrore, così sottile da non riuscire a vincerlo, a serrargli lo stomaco, il terrore che dopo averla restituita a se stessa non avrebbe più avuto bisogno di lui.
“Hai una faccia orribile, dovresti dormire di più la notte”
Lei lo aveva soppesato con sguardo assonnato e poi aveva sorriso, mentre si arrampicava su uno sgabello della cucina rubandogli la tazza di caffè dalle mani. Un sorriso spontaneo e genuino, di quelli semplici da fare e difficili da ottenere, un sorriso che aveva fatto sembrare, per un momento, i suoi timori mere fantasie. Così lo aveva tenuto stretto, e quel sorriso assonnato era divenuto un’abitudine.
“Malfoy, il tuo caffè è orribile.” L’aveva sentita biascicare, dopo averne bevuto un sorso dalla sua tazza.
“Nessuno ti ha detto di berlo.” Aveva cercato di riprendersi la tazza – quella che poi gli avrebbe sottratto ogni mattina –, ma lei aveva continuato a reggerla, ostinata.
E anche quel caffè era diventato un’abitudine: ne prendeva un sorso e rimaneva lì, quieta, con la tazza a riscaldarle le mani, e un senso di appartenenza – a quel momento, a quel luogo, a lui – talmente profondo da farla sentire proprio lì dove avrebbe voluto essere.
“Però profuma.” L’aveva detto mentre le circondava ancora le mani, cercando di riavere il suo meritato caffè mattutino. L’aveva guardato negli occhi e lui aveva dovuto bloccarsi. Perché l’aveva vista anche questa volta, quella parte intima e nascosta che gli stava mostrando con discrezione, ma senza più timore. E in quel momento aveva avuto la certezza che anche lei voleva restare.
L’aveva sentito anche lui, quel profumo, quando lei aveva posato la tazza, e rimanendo con le mani nelle sue si era alzata in punta di piedi e l’aveva baciato.



















Questa storia ha una lunga storia XD L'ho iniziata poco meno di un anno fa - la storia vera è propria è partita con la morte di Harry, povero caro, ma è stata un'illuminazione da sonnellino pomeridiano in piena sessione estiva non potevo ignorarla XD A dicembre circa, era conclusa, ma è rimasta a luuungo spezzattata e piena di commenti idioti (che la Ligia si è divertita a leggere, suggerendo anche una nuova modalità di "scrittura interattiva", tra una risata e l'altra. Thanks darling ♥), fin quando non mi sono decisa a collegare i pezzi e limarla un po'.
Ringrazio anche Violetbow che l'ha betata ed è stata carinissima. La ringrazio non solo per la correzione di qualche errore qua e là, ma soprattutto per quello che ha detto sui personaggi e sulla storia, mi ha rincuorato molto. :)
Be', diciamo che questa storia si è sorbita un po' tutto il periodo in cui è stata scritta e anche lasciata lì, sono stata altrettanto a lungo indecisa se postarla, ma questa è e va bene così. :)


   
 
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