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Autore: kenjina    29/04/2012    6 recensioni
Non fu il dolore fisico che gli procurò quello strazio assordante, né la carezzevole consapevolezza che sarebbe morto in pochi minuti. Morire significava liberarsi dal peso opprimente di un fardello che non era riuscito a sopportare e che ora lo stava schiacciando, per lasciarlo finalmente libero dalle angosce e dai tormenti. Aveva sempre immaginato la sua morte e sapeva che sarebbe stato in battaglia. Sarebbe caduto da soldato, davanti le mura della sua amata città, per difendere con onore il suo popolo dalle armate nemiche che giungevano come un'ombra da Est. La sua morte sarebbe servita per salvare le terre che lo avevano visto crescere, per dare una possibilità alle future generazioni di vivere una vita lontana dalle tenebre e dalle paure.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Boromir, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Foreste di Betulle; giardini di Pietra.'
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Buona domenica, lettori miei!

Ci avviciniamo ad un punto cruciale della storia e ammetto che non mi soddisfi molto il modo in cui l'ho reso.

Ho provato a riscrivere la prima parte di questo capitolo innumerevoli volte e, dopo innumerevoli tentativi, mi sembra di aver miseramente fallito.

Sperando che questa ultima versione vi piaccia, banale e scialba che sia, non esitate a bastonarmi, davvero.

Ogni vostra critica mi servirà per riscriverlo ancora una volta - sperando che sia l'ultima. :D

Buona lettura!

 

Betulla


06.

5 Marzo 3019 T. E.

 

"E tu, sciocca errante del Nord! Porti addosso il ricordo di un gesto vile, che recherà solo dolore e distruzione in animi già corrotti dall'ombra. Come puoi vivere con un tale fardello, nato dalla sciocchezza di un sogno? Tenti di recuperare ciò che hai perduto, di sistemare ciò che hai distrutto, ma non riuscirai a salvare niente, nessuno."

Quella voce penetrante aveva continuato a perseguitarla per il resto della giornata, incutendole timore, rabbia e vergogna. Sapeva che non avrebbe dovuto badare alle parole di Saruman, poiché proprio attraverso la sua voce riusciva a far capitolare chiunque non fosse munito di ingegno e forza di spirito; ma a lei quest'ultima dote mancava da tempo e non poté evitare di ripensare a quello che aveva sentito e fatto, e di maledirsi. Non aveva mai del tutto perso la speranza di recuperare la fiducia dei suoi più cari amici, ma ora non riusciva più a trovarla in quel mare di dubbi e timori.

E come se non bastasse, quel sogno che la stava tormentando era tornato a disturbare nuovamente la sua quiete instabile, mentre sonnecchiava prima della partenza. C'era sempre quel vuoto, quella battaglia di cui vedeva solo i contorni sfuocati, il riflesso di un cancello lucente e alto, da cui provenivano urla e orrore. E quel sangue, tutto quel sangue addosso a quella misteriosa figura, e su di lei. Il soldato ferito teneva in mano uno stendardo, che sventolava al vento: l'albero bianco era bello, lucente in tutto quel buio, e le sette stelle parevano gemme che brillavano di luce propria.

Aveva sbarrato gli occhi.

Lo stemma di Gondor!

Ma c'era un particolare che non si vedeva da anni: una corona alata.

Il Re era tornato!

Come le altre volte, si era svegliata sudata e lacrimante, ma con la consapevolezza di sapere che il pericolo risiedeva nel vicino e alleato regno del sud. Ma chi fosse il soldato non riusciva a comprenderlo.

Aveva fuggito qualsiasi sguardo, quel pomeriggio, così come aveva parlato poco. Neanche aver conosciuto quei due piccoli Hobbit, che banchettavano tra le rovine delle mura di Isengard come se fosse la normalità, l'aveva aiutata a risollevare il morale. Aragorn l'aveva controllata, notando quell'ombra sul suo viso stanco, e nella notte calata su Edoras, decise di avvicinarla, per la prima volta dopo mesi.

Brethil era seduta sul pendio sud del colle di Dol Baran, nella cui valle si erano accampati. Un vento gelido soffiava da nord e si avvolse nel suo manto grigio, rabbrividendo. Avvertì la presenza di qualcuno sentendo odore di tabacco. Pensò fosse Gandalf, o addirittura uno dei due Hobbit, ma mai avrebbe creduto di incontrare lo sguardo di Aragorn appena si voltò.

«Posso sedermi un po' accanto a te?» le domandò, in attesa. Lei annuì, ma non parlò.

Restarono in silenzio per parecchi minuti, come se fossero soli con i loro pensieri, e nessun'altro attorno. Gli amici e i soldati della scorta di Re Théoden dormivano, tranne qualche curioso che stava irrequieto sul suo letto di felci secche, pensando di giocare con la fortuna e con un oggetto che avrebbe fatto bene a tenere lontano da mani e occhi.

Poi il Ramingo spezzò il silenzio e non indugiò in inutili giri di parole. «Ho tentato di capire le ragioni di quel gesto che apparentemente non ne aveva. Ho tentato davvero, eppure non ci sono riuscito.» esordì l'Uomo, inspirando un po' di fumo, per soffiarlo poco dopo con calma. «È passato un anno. Perché torni ora?»

Brethil prese un respiro più profondo degli altri, prima di parlare. «Non sono tornata. Evidentemente era destino che ci rincontrassimo.»

«Strano destino, questo.» commentò lui, senza ironia. «Sei stata tu a decidere di scappare senza spiegazioni.»

«Dimmi Aragorn.» fece lei, tentennando un poco, la voce tremante. «Dimmi, cambierebbe qualcosa se ti dicessi il motivo per cui liberai Gollum?»

Il Dùnadan si voltò a guardarla. «Cambierebbe tutto. E le cose sarebbero andate diversamente se me ne avessi parlato prima.»

«Aragorn, non cambierebbe niente, e tu lo sai. Non merito il tuo perdono.»

«Spetta a me decidere se lo meriti o meno. Mettiti alla prova.» Aragorn era sincero quando parlava. Desiderava davvero sapere le ragioni di quella che un tempo era una sua amica fidata, capire i suoi motivi e magari sostenerli, oppure condannarli. Ma aveva bisogno di sapere, per placare la sua curiosità e il suo rancore, che da troppo tempo ormai lo stavano consumando.

«Io... ho paura di mettermi in gioco.» confessò la donna, chinando il capo. «Mi hai dato così tanto nella vita e io ho rovinato tutto in pochi minuti. È una colpa troppo grande per metterla da parte e raccontarti ogni cosa, Aragorn. Non so neanche quale forza mi stia trattenendo dal muovere le gambe e scappare di nuovo.»

Il Ramingo l'afferrò per un braccio. «Basta scappare, Brethil. Non te lo permetto più.» La vide sospirare con stanchezza e si domandò quale fardello portasse dentro, come aveva detto anche lo Stregone traditore. Gli vennero in mente le parole che aveva sentito e chiese: «"...un tale fardello, nato dalla sciocchezza di un sogno". Che cosa voleva dire?»

Brethil si morsicò nervosamente l'interno del labbro inferiore. Sarebbe stato quello il momento in cui gli avrebbe rivelato tutto? Quello il momento in cui Aragorn le avrebbe voltato le spalle definitivamente? O sarebbe stato il momento del perdono e del ritrovo di due vecchi amici che troppo a lungo erano stati separati? Non sapeva trovare risposte, perché qualsiasi previsione tentasse di fare in quei brevi istanti di ragionamento finivano catastroficamente.

Si rese conto di stringere tra le dita un innocente ciuffo d'erba solo quando sentì dolore sul palmo della mano.

Non puoi scappare per sempre.

Così le aveva detto Boromir, giustamente. Non avrebbe potuto continuare a farlo. Non se Aragorn la fissava con decisione e non aveva intenzione di mollare la stretta al suo braccio. Brethil osservò la luna, ancora troppo alta in cielo. Nemmeno l'arrivo del nuovo giorno, che era ancora molto distante, avrebbe potuto salvarla quella volta.

«Molto bene, allora.» disse infine, con una fatica tale che pareva stesse trasportando sulle spalle le rovine delle Mura Fossato saltate in aria durante la battaglia. Fu così che gli raccontò dal principio l'intera faccenda, dal primo momento in cui il padre le aveva raccontato del suo sogno, fino a quando lei stessa lo aveva avuto, al limite della sopportazione. Ma, sebbene parlò con dovizia di dettagli proprio come aveva fatto con Boromir, quella volta decise di guardare il suo interlocutore in viso, occhi contro occhi, per dimostrargli tutta la sincerità di cui disponeva. Non avrebbe abbassato lo sguardo, non gli avrebbe dato un singolo motivo per dubitare della sua buona fede.

E Aragorn la ascoltò in silenzio, senza interromperla un solo istante, mentre la sua mente ricostruiva tutto quel mosaico di notizie apprese e celate che per mesi aveva tentato di ricomporre, senza riuscirci. Al termine del racconto continuò a tacere, fumando la sua pipa con lo sguardo perso sui cespugli neri che si disperdevano nella vallata. Quel momento di attesa fu massacrante per la donna, perché non riusciva a capire cosa gli stesse passando per la mente.

«Gandalf sapeva, dunque?» le domandò, atono. Brethil annuì e lui sollevò lo sguardo al cielo, incontrando la luce di Eärendil, la più luminosa delle stelle. «Ti ricordi cosa ti dissi quando tuo padre morì?»

«Sì. Saresti stato la mia stella guida, qualunque cosa fosse accaduta.»

«E allora dimmi, amica mia, ti sembrai un bugiardo quando feci quella promessa? Non mi hai parlato del tuo sogno perché non ti fidavi di me?»

La donna lo guardò con stupore, non solo per quelle parole che le sembravano senza senso, ma anche per come si era rivolto a lei. Amica mia. «Aragorn, questa è la sciocchezza più grande che abbia mai sentito venir fuori dalle tue labbra! Come puoi pensare che non mi fidassi di te? È solo che capii che non potevo chiederti di liberare Gollum dopo tutta la fatica che facesti per catturarlo. E io non potevo lasciar parlare quel sogno come se non mi turbasse ogni notte.»

«Avresti dovuto parlarmene comunque.» le disse, risentito.

Brethil chinò il capo. «Lo so. In ritardo, ma ora lo so. Mi dispiace, Aragorn, sebbene le mie scuse non possano cambiare il passato. Gollum è libero di scorrazzare ovunque, e così anche la mia stupidità.»

L'ombra di un sorriso apparve sul volto dell'Uomo, ma qualsiasi cosa stesse per dire Brethil non poté ascoltarla, perché la sensazione di gelo che provarono in quel momento li zittì entrambi. Poi udirono un urlo stridulo e un gran movimento provenire dall'accampamento, e non persero tempo a correre per controllare cosa stesse accadendo. Trovarono Gandalf chino su Pipino, gli occhi sbarrati e il tono imperioso che gli ordinava di confessare ciò che aveva visto nel palantír. Il sollievo di scoprire che lo Hobbit non avesse detto niente dei loro piani all'Oscuro Signore, ma avesse carpito invece un po' delle sue intenzioni, svanì nel terrore che li paralizzò sul posto quando un'ombra alata passò sopra le loro teste, oscurando le stelle e la luna. Il grido del Nazgûl soffocò quello dei soldati in panico, che si chinarono e si portarono le mani alle orecchie. La bestia roteò verso Orthanc, poi velocemente sparì verso nord.

Gandalf prese con sé Pipino e lo caricò su Ombromanto, pregando che gli altri lo seguissero più velocemente possibile, al riparo verso il Fosso di Helm. Brethil fu tentata di seguirlo, sperando di riuscire a stare al passo del suo destriero, ma lo Stregone era già lontano. Avrebbe voluto averlo accanto, ora che era nuovamente tornato, per consigliarla e rassicurarla con la sua saggezza. Chissà se lo avrebbe mai più rivisto?

Si misero in marcia poco dopo, Gimli dietro Legolas e Merry con Aragorn, e cavalcarono velocemente, per non perdere tempo. Ma un esploratore giunse dalle retrovie, avvisando il Re che fossero seguiti da un gruppo di cavalieri, così veloci che stavano per raggiungerli.

Aragorn e Brethil smontarono, estraendo le spade, pronti a combattere se ve ne fosse stato il bisogno, mentre i Rohirrim impugnarono le lance, in allerta. Le figure si avvicinavano velocemente, ora illuminati dalla luna, e parevano in numero eguale ai Cavalieri di Rohan, se non anche più numerosi. E allora Éomer gridò, affinché lo udissero e capissero dal suo tono ostile che non avessero voglia di perdere ulteriore tempo. E con stupore e gioia, si scoprì che quelli erano Raminghi del Nord, giunti da lontano in aiuto del loro Capitano Aragorn.

Brethil vide Halbarad abbracciare l'amico e chinò lo sguardo, nascondendo il viso sotto il cappuccio. Non era pronta ad affrontare anche lui, e tutti in una volta!

«Mae govannen, thêl.»

La donna si voltò verso uno dei due gemelli, senza riuscire a sopprimere un gemito di stupore nel vedere anche loro. Si trattava di Elladan, l'unico tra i due che la chiamava in quel modo. Sorella. E sorrise di gioia. «Mae govannen, mellonamin!»

Elrohir le si affiancò dalla parte opposta. «E così abbiamo dovuto viaggiare lungo tutta la Terra di Mezzo, per trovarti infine a Rohan.» L'occhiata che le regalò le fece capire che sapeva tutto e non aveva bisogno di giustificarsi in alcun modo. «Andiamo, cavalca accanto a noi, poiché molti sono i racconti che vorremo ascoltare e riferire.»

La donna annuì, improvvisamente più sollevata dalla loro presenza. Ma prima che potesse voltare le spalle ai Raminghi per mettersi in marcia, Halbarad la vide e la riconobbe. Rimasero a guardarsi per secondi che parvero ore, poi Aragorn gli mormorò qualcosa e l'altro parve sorridere tristemente, salutandola con un cenno del capo.

Cavalcarono per il resto della notte e i tre parlarono molto di ciò che avevano fatto in quel lungo periodo di lontananza. Elladan si preoccupò subito dei suoi allenamenti, temendo che senza le loro lezioni potesse aver perso la tecnica, ma Elrohir lo rimproverò bonariamente, perché sapeva per certo che la loro allieva prediletta non avrebbe mai dimenticato i loro consigli - ed effettivamente così era stato.

«Se avremo tempo a nostra disposizione sarò ben lieta di mostrarvi quanto ho dimenticato e quanto, invece, ricordo.» disse Brethil.

«Ahimè, temo che non avremo modo di rilassarci con gli allenamenti, ma ti prometto che appena le acque si calmeranno saremo a tua disposizione.» rispose Elrohir.

Proseguirono in silenzio per qualche tempo, ma i gemelli non avevano bisogno di parlare per capire che qualcosa in lei non andasse.

«C'è qualcosa che ti turba, thêl.» disse Elladan. «Me ne accorgo solo guardandoti negli occhi.»

Brethil sospirò. «In realtà molte cose mi turbano, ultimamente. Ma un pensiero che ricorre ogni notte mi sta spaventando. Avrei voluto chiedere consiglio a Gandalf, ma ahimè è partito chissà dove. E non voglio aggiungere preoccupazioni ad altre preoccupazioni nella mente di Aragorn.»

Elrohir le sorrise. «Non hai ancora compreso che non puoi nascondere i tuoi pensieri a quell'uomo? Saprà sempre quando avrai paura, o sarai felice, proprio come noi possiamo leggere il tuo cuore.»

«Per questo se necessiti di consiglio non esitare a parlarcene, thêl.» continuò Elladan.

La Dùnadan non poté far altro che confidarsi con loro. Halbarad, che cavalcava qualche metro più avanti, udì tutto e posò lo sguardo sullo stendardo che la Dama di Gran Burrone gli aveva affidato, ricamato dalle sue mani per l'Uomo che amava. E s'incupì.

«Dunque, la tua visione è a Gondor e avverrà presto, poiché lì la guerra giungerà per prima.» commentò Elrohir. «Temi per la vita di qualcuno?»

«Temo per la vita di molti, in tempi come questi.» sospirò Brethil. Il pensiero volò subito a Boromir, che entro quel giorno sarebbe dovuto giungere alla sua città, sperando che non avesse incontrato contrattempi lungo il cammino. Si chiese come stesse, se l'Ombra avesse ancora oscurato i suoi pensieri o se stesse lentamente tornando l'Uomo di sempre, in attesa del suo Re. Poi l'idea che potesse essere lui l'Uomo del sogno giunse improvvisamente e la spaventò. Chi altri poteva portare lo stendardo del Re di Gondor, se non il futuro Sovrintendente?

Elladan fece avvicinare il cavallo, osservandola bene. «Lle tyava quel, thêl? Naa rashwe?»

«No, nessun problema, sto bene. Pensavo ad un amico.» rispose Brethil, sorridendo per rassicurare il Mezzelfo. «L'ho salutato qualche giorno fa e mi chiedo come stia.»

«Si trova a Gondor?» domandò Elrohir, indovinando.

«Sì, credo di sì. Diretto finalmente verso la sua città.» La donna scacciò quel brutto presentimento, rivolgendosi ai suoi compagni di viaggio per domandare loro qualche altro racconto delle loro avventure al nord.

Quando raggiunsero i rilievi che proteggevano il Fosso di Helm mancava poco all'alba. Avevano il tempo di dormire fino all'ora di pranzo e riprendere le forze; poi sarebbe stata l'ora delle decisioni. Erkenbrand li accolse appena misero piede nel Trombatorrione. C'era ancora molto da fare - la voragine nelle mura era terrificante e un lavoro che avrebbe occupato molto tempo - ma i cadaveri del nemico erano stati bruciati, mentre quelli dei loro fratelli tumulati poco più avanti, nella Conca Fossato. I viaggiatori si distesero immediatamente sulle loro brande, stanchi e spossati, ma Brethil tardò un poco a prendere sonno. Lo Hobbit Merry era sdraiato accanto a lei e dormiva già profondamente, così come il russare del Nano rimbombava per tutta la stanza di pietra. Più volte Aragorn gli aveva tirato qualche gomitata per farlo smettere, ma riusciva a placarlo solo per qualche secondo.

Brethil osservò il soffitto, rigirandosi su un fianco e osservando Halbarad, poco più avanti. Aveva paura di chiudere gli occhi, perché temeva che quel buio tornasse a turbarla. E aveva bisogno di riposarsi e di tranquillizzarsi. Ma alla fine la stanchezza ebbe la meglio e neanche si rese conto di quando chiuse gli occhi.

Le sue paure divennero fondate ed ecco nuovamente quella furiosa battaglia, le grida, i rumori metallici di spade che cozzavano contro altre spade, scudi e armature. Rivide il soldato di spalle e lo stendardo che teneva in mano, mentre con l'altra reggeva la spada per difendersi. Quella che le era parsa come la chiglia di una nave, si rivelò essere una città bianca, di pietra, su più livelli.

Minas Tirith.

Qualcuno combatté contro il soldato e lo mantenne distratto, finché un'altra figura non calò un'ascia contro di lui. Prima che potesse vedere la morte dell'uomo l'immagine cambiò e tutto divenne nuovamente nero. Vide la sagoma di qualcuno giacere in terra, ricoperto del suo stesso sangue, ma non riuscì a scorgere il volto, né gli indumenti. E sbarrò gli occhi quando il viso di Boromir comparve disperato e in lacrime, sporco e con qualche ferita da taglio sulle guance.

«Boromir!»

Brethil si mise a sedere, allungando una mano verso il vuoto, come se potesse sperare di salvarlo. Ma l'Uomo non si trovava lì con lei, né quella era Minas Tirith. Si guardò intorno, con il fiato corto, temendo di aver svegliato qualcuno, ma fortunatamente i presenti erano troppo stanchi per badare ai suoi incubi. Incontrò subito lo sguardo di un Dùnadan, Elegost, che doveva aver dormito poco, in piedi sull'uscio della porta.

«Brethil, va tutto bene?» le chiese in un sussurro, avvicinandosi.

Lei scosse il capo. Sembrava terrorizzata.

«Vieni, ti faccio portare la colazione.» le disse, porgendole una mano per alzarsi.

«È tardi?»

«Mancano ancora un paio d'ore a mezzodì, non preoccuparti.»

Elegost la portò gentilmente nella sala principale, divisa da due file di colonne laterali, in cui erano stati allestiti dei tavoli in legno. Vi trovò alcuni Raminghi, tra cui Aragorn, Halbarad, Elladan ed Elrohir, che non avevano dormito se non poche ore. Elegost le portò delle mele, pane, burro e acqua, e si sedette accanto a lei, allo stesso tavolo dei quattro. Brethil mangiò in silenzio, mentre i gemelli discorrevano tra loro in elfico e i Raminghi rispondessero di quando in quando.

Aragorn osservò l'amica e si accorse che qualcosa non andasse. «Cosa ha turbato il tuo sonno?» le domandò.

La donna soppesò le parole, prima di parlare. Scambiò una veloce occhiata con i due Mezzelfi, che la incoraggiarono con un sorriso. «Temo che Boromir sia in pericolo.»

«Tutti noi lo siamo, lui compreso. La guerra è alle porte, Brethil.»

«Ho visto la sua morte.» disse in un sussurro, come se il solo pronunciare quella frase potesse oscurare il sole.

«Un sogno premonitore?» domandò Halbarad, parlando per la prima volta dal loro incontro.

Brethil annuì, chiedendosi se avesse udito la discussione di quella notte con i gemelli. E se soprattutto Aragorn gli avesse raccontato la sua versione dei fatti. Fu esortata da entrambi a raccontare del suo sogno, e lei lo fece, sebbene riluttante. Non potevano prendere sul serio quello che stava dicendo, soprattutto dopo quello che aveva fatto: non c'erano prove, infatti, che i suoi sogni fossero realmente collegati con avvenimenti che prima o poi sarebbero accaduti. Alla fine del racconto si sentì infinitamente stupida e chinò lo sguardo sulla sua colazione.

«Hai visto Minas Tirith, eppure non ricordo che ci sia mai andata.» commentò Halbarad.

«Infatti è così. Boromir me la descrisse. Solo vedendola con i miei occhi potrei dire se la mia visione sia veritiera o meno.» Brethil si mordicchiò un labbro, nervosamente, e Halbarad le sorrise, portando una mano sulla sua.

«Non temere il mio giudizio. So tutto. In realtà, l'ho sempre sospettato.» le disse.

Aragorn si strinse nelle spalle vedendo gli occhi sbarrati di lei. «Abbiamo avuto molto di cui discutere, questa notte. E il tempo stringe, non potevo lasciarlo all'oscuro.»

«Conoscendoti, thêl, avresti atteso un altro anno per confidarti anche con lui.» disse Elladan, sereno.

«Tuo padre mi aveva parlato del suo sogno.» le confessò Halbarad. «E avevo capito da tempo che anche tu fossi turbata da qualcosa. Quando quel giorno ti vidi ferita sul viso capii che avevi portato a termine ciò che ti aveva raccontato Aeglos, o che magari anche tu avessi avuto la stessa premonizione. Non ne feci parola con nessuno, neanche con Aragorn, sebbene mi facesse male vedere come avesse accolto la notizia del tuo gesto. Ma non potevo tradire la segretezza promessa a tuo padre.»

Brethil prese un respiro profondo, cercando di calmare il battito impazzito del suo cuore. «Allora voi... voi  mi perdonate?»

«Non c'è niente da perdonare.» Halbarad chinò lo sguardo, cercando le parole migliori. «Tranne il fatto che te ne sia andata. Quello non posso dimenticarlo facilmente. Ho atteso di rivederti ogni giorno e non ho mai perso la speranza che tornassi, prima o poi. Ho atteso inutilmente, ma alla fine ti ho trovata comunque.»

La donna trattenne a stento uno singhiozzo, ma le lacrime le bagnarono comunque gli occhi e il viso. «Mi dispiace così tanto, io...» disse, nascondendosi il volto tra le mani. «Io vorrei poter rimediare, davvero, io...»

«Basta lacrime, basta colpe.» la interruppe Aragorn, cingendole le spalle con un braccio. «Che tutto questo ti serva da lezione, è la punizione migliore che possa meritarti. Che ti serva per farti capire che non devi temere i nostri pensieri, né i tuoi.»

E così Brethil pianse tutte quelle lacrime che non aveva versato in quel lungo anno e fu come liberarsi definitivamente da quelle catene che la tenevano imprigionata tra le paure e gli errori. Fu come rivedere la luce del sole dopo mesi di oscurità, come riprendere a camminare dopo troppo tempo chiusi in una cella troppo piccola per muoversi. Mai aveva osato sperare una simile reazione e avere il loro appoggiò le diede l'illusione che avesse fatto la cosa giusta.

Si alzò, guardando i quattro con gli occhi rossi, ma con un sorriso sulle labbra. «Permettetemi di servirvi ancora una volta. Permettetemi di cavalcare al vostro fianco, fino alla morte. Voglio rinnovare il mio giuramento, su tutto ciò che ho di più caro al mondo.» Tolse Celeboglinn dalla fodera e, inginocchiandosi, la porse al Capitano dei Raminghi del Nord. «Se con la vita o con la morte posso servire te e la Stella di Arnor, allora io, Brethil figlia di Aeglos, lo farò.»

Aragorn sorrise, chinandosi per prenderla per un braccio e farla sollevare. «È un diritto che non ti ho mai sottratto, Brethil; ma sono felice che tu lo abbia rinnovato. Eppure sento che le nostre strade si dovranno dividere ancora una volta, forse l'ultima, chissà! Temi per Boromir e io, dopo aver ascoltato il tuo racconto, mi preoccupo con te. Ahimè, se solo Gandalf avesse atteso qualche ora prima di partire, forse lui avrebbe potuto portargli l'avvertimento.»

Brethil capì dove volesse giungere con le parole. E sebbene lei volesse recarsi a Minas Tirith per metterlo in guardia, non poteva ora lasciare la sua famiglia, i Dúnedain, in un momento come quello. Lo avrebbe rimpianto per il resto dei suoi giorni.

«La nostra strada porta verso la Città Bianca di Gondor, ma per un altro percorso, più lungo e pericoloso.» disse Halbarad.

«Vi seguirei anche tra il fuoco di un drago.»

«Lo so, non ne dubito.» fece Aragorn, posando le mani sulle sue spalle. «Ma mi hai promesso di badare a Boromir, ricordi? I tempi bui non sono terminati, per lui, e sarei più tranquillo se fossi accanto a lui.»

«Aragorn, non puoi chiedermi di andarmene proprio ora.» tentò la donna, con voce roca per il pianto.

«Non ti chiedo di andartene, infatti. Ti chiedo di prendere un cammino diverso dal mio. Ci incontreremo nuovamente in guerra, amica mia. E allora gioirò nel vedere due delle persone più importanti della mia vita combattere al mio fianco.»

Brethil guardò i gemelli e Halbarad, per trovare il consenso nei loro occhi, e infine annuì. «Se è questo il tuo volere, lo farò. Partirò oggi stesso.»

«Molto bene.» Aragorn sorrise, abbracciandola. «Buona fortuna, amica mia.»

«Ci rivedremo presto, thêl.» fece Elladan, che la strinse tra le braccia dopo il gemello.

La donna salutò per ultimo Halbarad, che le sussurrò poche parole all'orecchio. Sembrava tanto un addio, piuttosto che un arrivederci, ma Brethil evitò di pensarlo, altrimenti non sarebbe riuscita a partire. Elegost cercò lo sguardo della giovane Dùnadan, per salutarla un'ultima volta, ma non lo trovò. Senza voltarsi, Brethil andò a cercare Éomer, poiché il Re era ancora nei suoi alloggi a riposare, e lo trovò con Gamling e l'Hobbit di nome Merry, mentre chiacchieravano un po' in tranquillità prima della tempesta.

«Brethil, già in piedi?» le domandò l'Uomo. Si accorse subito che avesse qualcosa di importante da comunicargli e la esortò a parlare.

«Devo partire per Minas Tirith il prima possibile, Éomer. Ti prego di darmi il permesso e di avvisare il tuo Re.»

Éomer corrugò la fronte. «Nessun giuramento ti lega alla corona di Rohan.»

«Lo so, ma trovo corretto chiedere il consenso, prima di sparire nel nulla, senza lasciar detto niente.» rispose lei. «Non partirei se non fosse strettamente necessario, ora più che mai vorrei rimanere con la mia gente. Ma ho un urgente affare da compiere, a Gondor.»

«Ebbene, allora vai e non perdere ulteriore tempo in spiegazioni, amica mia.» Éomer si chinò per salutarla. «Numerosi e grandi sono stati i tuoi servigi, non lo dimenticheremo. Spero di rivederti presto e in circostanze migliori.»

«Così spero anche io, Éomer.» Brethil abbracciò anche lui e salutò con un cenno del capo l'altro Uomo e lo Hobbit, che la fermò prima che si potesse recare al suo cavallo.

«Mia signora, scusami se rubo il tuo prezioso tempo, ma... vorrei domandarti un favore, se fosse possibile.» esordì Merry, sollevando lo sguardo verso la donna.

«Chiedi pure, mastro Meriadoc, e vedrò se potrò aiutarti.»

«Ecco, io non so dove siano andati Gandalf e Pipino, ma se dovessi rivedere mio cugino prima di me potresti mandargli un mio messaggio?» Brethil sorrise e annuì. «Digli che non deve aver paura e che sono sicuro che renderà onore all'avventatezza dei Tuc. E che gli voglio bene.»

«Riferirò parola per parola, puoi starne certo. Buona fortuna, messer Hobbit! Magari un giorno tornerò nella tua bella Contea e tu e tuo cugino mi farete da guida.»

«Lo spero, mia signora!»

Brethil corse ora alle stalle, trovando subito Nerian che la salutò con uno sbuffo. «Amico mio, devi volare per i prossimi quattro giorni. Ci fermeremo solo per farti riposare un poco.»

Lasciò il Fosso di Helm a tutta velocità, sotto lo sguardo di Aragorn e Halbarad che non la lasciarono andare finché non divenne un puntino nero disperso nella vegetazione.

 

6 Marzo 3019 T. E.

 

La muraglia del Rammas Echor fu ben visibile ai suoi occhi alle prime luci del mattino e Boromir sentì un rassicurante calore al cuore nel rivedere le mura più esterne della sua città. C'erano molti Uomini al lavoro sulla parete nord, intenti a riparare una parte del muro, in vista dell'imminente guerra, ma fermarono tutte le loro attività quando scorsero il cavaliere giungere a gran velocità verso di loro. Il capo di quel gruppo di persone si fece avanti, alzando una mano per intimargli di fermarsi. Ingold, così si chiamava l'Uomo, scrutò il viaggiatore, stentando a riconoscerlo, d'un primo momento.

«Salute, mio buon Uomo. Permetti ad uno stanco soldato di raggiungere la sua città?» chiese Boromir.

Ingold sgranò gli occhi appena vide il corno spezzato in due pendere su un fianco e la sua lama possente nella fodera. «Mio signore, Boromir! Perdonami, ma oscure notizie circa la tua morte sono giunte in città. Troppo tempo passò dalla tua partenza e nessuna notizia circa la tua avventura è mai giunta.»

«Eppure sono qui, vivo e desideroso di rivedere la mia famiglia e di aiutare il mio popolo. Non ti biasimo per non avermi riconosciuto: cavalco un destriero di Rohan, mi ricopro con un mantello di fattura elfica e devo avere un viso invecchiato di dieci anni, ormai! Suvvia, fammi passare, cosicché possa riposarmi e tu possa continuare il tuo lavoro.»

Ingold chinò il capo e portò una mano sul petto per salutarlo, dando ordine di aprire il cancello. Boromir attraversò il Pelennor velocemente, notando con desolazione che i campi coltivati non fossero più animati dai mandriani e dai fattori come un tempo, segno che molti preferissero rimanere al sicuro dietro le mura della città, piuttosto che fuori, quando il male giungeva da ogni direzione. Circa dieci miglia dovette percorrere prima di giungere al Grande Cancello di Minas Tirith, dove incontrò sorpresa e gioia. Lo salutarono con tutti gli onori del caso, ringraziando la sorte che gli aveva permesso di tornare a casa e rallegrati dalla speranza che la sua vista portò. Con Boromir nuovamente a capo della Torre Bianca c'era ancora il miraggio della salvezza. Ripercorrere i sette livelli della città fu emozionante e doloroso, poiché poche erano le persone e i canti che si vedevano e udivano lungo le strade di pietra. Capì che l'ombra era ormai sopra le loro teste e la tempesta stava per giungere e liberare tutta la sua forza contro di essi. Giunse alla Cittadella, dopo aver recitato le parole d'ordine di ogni cancello, e lasciò il cavallo ad un soldato, mentre un altro lo accolse immediatamente.

«Mio Capitano, quale gioia poterti rivedere in giorni così funesti!» esclamò Beregond, della Terza Compagnia della Cittadella. «Temevamo che le terre del nord ti avessero rapito e che mai più avresti fatto ritorno a casa. Poi udimmo il flebile suono del tuo corno e il nostro cuore raggelò dalla paura.»

«Non nego di aver incontrato in più occasioni la morte, l'ultima volta essa mi aveva quasi braccato. Ma sono tornato, perché avevo promesso che non avrei lasciato la mia città in preda alla disperazione e ai supplizi. Molte cose saranno cambiate, dalla mia partenza, e ho bisogno di ricevere tutti gli aggiornamenti possibili. Dove è Faramir?»

«Si trova nell'Ithilien del Nord, mio signore. Sire Denethor lo ha mandato per bloccare le incursioni degli Haradrim. È partito cinque giorni fa. Un messaggero ha riferito che i loro avamposti stiano indebolendo il nemico, ma sono gruppi troppo numerosi e ben equipaggiati per poterli disperdere tutti.»

Boromir annuì, mentre camminavano frettolosamente nel Cortile della Fontana, verso la Casa del Re. Diede una breve occhiata all'Albero Bianco ormai morto da secoli e si chiese se, con l'arrivo di Aragorn, sarebbe rifiorito come un tempo.

«Mio padre?»

«Sire Denethor è stato avvisato del tuo arrivo, ti attende nella Sala del Trono, mio signore.»

Boromir entrò nell'imponente e scarno salone, diviso da alte colonne nere in tre ampie navate. Gli unici elementi di decoro che raccontavano la storia di quel luogo erano le alte e silenziose figure dei Re, poste in fila lungo il cammino ad osservare i passanti. Al centro della stanza, sull'estremità opposta al portone d'ingresso, stava il Trono del Re, sollevato da numerosi scalini, mentre accanto, più in basso, c'era quello nero e disadorno del Sovrintendente, che stava seduto a capo chino. Appena sentì i passi riecheggiare per il salone, Denethor sollevò lo sguardo e incontrò quello felice del primogenito.

«Mio figlio! Mio figlio è tornato!» esclamò, alzandosi in piedi e allargando le braccia, in attesa che Boromir lo raggiungesse. Si abbracciarono con forza, ridendo sollevati. «Sapevo che saresti tornato, sapevo che non avresti deluso tuo padre.»

Il volto di Boromir si rabbuiò. «Sarei ben felice di dirti che saresti fiero di me, padre, ma ci sono molte cose che dovrò raccontarti e, ahimè, credo che rimarrai scontento del tuo debole figlio.»

«Debole? Non dire sciocchezze, Boromir. Di quali crimini ti sei macchiato, per parlare così? Suvvia, sediamoci dietro un tavolo e facciamo colazione insieme. Molte sono le notizie che voglio che mi racconti, così come molte sono quelle che io devo raccontare a te. Ma ora vieni, figlio mio. Ah, figlio mio!»

Erano mesi che Denethor non sorrideva così gioviale. Cattivi presagi e la tempesta proveniente da est erano tutti buoni motivi per incupirlo di giorno in giorno; vedeva lontano, lui, cose che gli altri non potevano immaginare, cose che avrebbero turbato anche il più temerario degli Uomini. Ma ritrovare il figlio favorito, che temeva di incontrare solo dopo la morte, fu una luce contro qualsiasi oscurità. E Boromir si dispiacque ripensando a ciò che aveva fatto, perché era più che sicuro che suo padre lo avrebbe disprezzato come mai in vita sua, quando avrebbe scoperto del suo momento di debolezza. Così, tra una coppa di vino rosso, verdure e carne, Denethor esortò il primogenito a parlargli del suo lungo e periglioso viaggio, dal momento in cui aveva lasciato Gondor fino all'arrivo a Imladris. E Boromir gli raccontò dei tre, infiniti mesi a cavallo, solo con i suoi dubbi; gli parlò degli Elfi e di ciò che aveva appreso riguardo il sogno di Faramir, del Mezzuomo che portava il Flagello di Isildur, ma senza rivelargli la decisione del Consiglio, poiché un giuramento di segretezza lo legava; ma quando parlò di un altro Uomo, alto e fiero, un Ramingo!, presente a Imladris, il Sovrintendente interruppe il racconto, poiché aveva capito di chi stesse parlando.

«Thorongil, si faceva chiamare, ai tempi di mio padre, Ecthelion II. Diceva di essergli devoto, e grande si faceva nel ricordare che avesse servito anche Thengel, Re di Rohan, pur non essendo un Rohirrim, e che avesse viaggiato a lungo nella sua tetra vita. Ma io ho sempre sospettato su di lui e sulla sua vera identità, e indovinai anche! Lui e Mithrandir hanno sempre tentato di soppiantarmi, oscurandomi anche a mio padre. Come può essere quel Ramingo l'erede di Isildur? C'è più sangue dell'Ovesturia nelle mie vene, che in quelle di quell'Uomo.»

«Permettimi di dissentire, padre, poiché ho potuto conoscere l'Uomo di cui parli e lo tengo in grande considerazione. È un amico fidato e più nobile di quanto il suo aspetto possa raccontare. E non credo che abbia mai voluto rivaleggiare con te, né con nessun altro. Egli ha rispetto per la Casa dei Sovrintendenti e, sebbene io stesso gli abbia chiesto di tornare immediatamente a Gondor, per prendere il trono che gli spetta di diritto, ha rifiutato. Prima di rivendicare ciò che è suo vuole aiutarci, padre. Un Uomo che desidera solo una corona sul capo non avrebbe atteso così tanto a lungo, e anzi! Non avresti potuto toccare lo scettro bianco del Sovrintendente, se avesse voluto.»

Denethor rimase in silenzio, dubbioso eppure colpito dalle parole del figlio. Boromir sembrava fidarsi di quell'Uomo, più di quanto non facesse con le parole del padre. Forse c'era del vero in tutta quella storia, oppure Mithrandir aveva soggiogato al suo volere anche il suo primogenito, dopo avergli rubato la mente di Faramir?

Boromir continuò il racconto, parlando del viaggio di ritorno compiuto con altri otto compagni. Non si riferì mai alla Compagnia dell'Anello, né alla loro destinazione; e ancor meno gli parlò di ciò che aveva fatto ad Amon Hen. Così saltò a piè pari l'accaduto, raccontandogli dell'attacco degli Uruk-hai e del suo vano tentativo di salvare i suoi piccoli amici.

«Figlio mio, il cuore mi dice che mi nascondi qualcosa. Ma non voglio tediarti con le domande di un vecchio, se queste ti portano dolore. Magari nei giorni seguenti soddisferai tutte le mie curiosità. Mi parlasti di vergogna e disonore, eppure per ora ho sentito solo di coraggio e dignità. Ma vai pure avanti e raccontami di come hai ucciso tutti quei nemici con la tua sola forza!»

Boromir sorrise, senza allegria. «Mi sopravvaluti, padre. Più frecce mi colpirono e nonostante tentai di non soccombere, alla fine caddi e la vista mi si annebbiò. Non potevo fare più niente per i miei amici, niente per la mia anima. Poi arrivò lei, la mia salvezza. È grazie a lei che sono qui, padre.»

«Chi? Di chi parli?»

«Brethil, figlia di Aeglos, cara amica di Aragorn, e ora anche mia. Mi salvò dalla morte e dalle tenebre. Pensai che fosse vergognoso essere guarito e protetto da una donna, ma lei è diversa. Ha combattuto per tutta la vita, e serve Re Théoden da qualche tempo. Ha difeso le terre al Nord dal male, insieme ai Raminghi, poiché anche ella è una discendente di Númenor. Avrei voluto presentarti la donna che ha salvato tuo figlio, ma la guerra l'ha chiamata verso Isengard e non so se sia ancora su questa terra.»

Denethor chinò il capo. «Non vi è disonore nell'essere caduti dopo una battaglia come la tua, figliolo. Non temere il mio rimprovero. E non vi è disonore neanche nell'essere accuditi da qualcuno, sia esso uomo o donna.» Gli sorrise benevolo, e Boromir vide in quel viso stanco più rughe di quante ne ricordasse. Il Male dell'Est lo stava consumando così velocemente che lo spaventò. «Ora sei tornato a casa, è ciò che più conta. Gondor ha bisogno di te.»

«E io sono pronto a dare il mio aiuto, padre. Non aspettavo altro. Ora raccontami tutto quello che è successo in mia assenza, cosicché possa aggiornarmi e iniziare oggi stesso con il mio lavoro.»

Padre e figlio discussero per le due ore successive, con l'ordine che nessuno osasse interromperli.

«Ho inviato un messaggero a Rohan affinché si muova velocemente per rendere onore all'antica amicizia che ci lega, e darò ordine di accendere i fuochi su Amon Dîn. Il tempo stringe, Boromir, la guerra incalza. Sauron sta preparando un esercito senza pari: Orchi, Uruk-hai, Haradrim e Uomini delle Terre Selvagge, mannari e mûmakil attraverseranno il Nero Cancello. Abbiamo bisogno di tutto l'aiuto possibile. Tra due giorni arriveranno anche i nostri vicini, Forlong di Lossarnach e il nostro amico e parente Imrahil, Principe di Dol Amroth. E altri arriveranno  dal Morthond, dall'Anfalas e dal Lamedon. Ma temo che non saranno sufficienti.»

«Il coraggio è l'arma migliore, in momenti come questi.» disse Boromir. «Saremo in numero inferiore, ma la nostra forza sarà triplicata dalla voglia di difendere il mondo che conosciamo.»

Denethor sorrise. «Ben detto, figlio mio. Ora terminiamo la nostra colazione. Una lunga giornata ci attende.»

 

 

 

 

*

 

Grazie a tutti i lettori!

A presto,

Marta.

   
 
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