Buona domenica, lettori miei!
Ci avviciniamo ad un punto cruciale
della storia e ammetto che non mi soddisfi molto il modo in cui l'ho reso.
Ho provato a riscrivere la prima parte
di questo capitolo innumerevoli volte e, dopo innumerevoli tentativi, mi sembra
di aver miseramente fallito.
Sperando che questa ultima versione vi piaccia,
banale e scialba che sia, non esitate a bastonarmi, davvero.
Ogni vostra critica mi servirà per
riscriverlo ancora una volta - sperando che sia l'ultima. :D
Buona lettura!
Betulla
06.
5 Marzo 3019 T. E.
"E
tu, sciocca errante del Nord! Porti addosso il ricordo di un gesto vile, che recherà
solo dolore e distruzione in animi già corrotti dall'ombra. Come puoi vivere
con un tale fardello, nato dalla sciocchezza di un sogno? Tenti di recuperare
ciò che hai perduto, di sistemare ciò che hai distrutto, ma non riuscirai a
salvare niente, nessuno."
Quella voce penetrante aveva continuato
a perseguitarla per il resto della giornata, incutendole timore, rabbia e
vergogna. Sapeva che non avrebbe dovuto badare alle parole di Saruman, poiché
proprio attraverso la sua voce riusciva a far capitolare chiunque non fosse munito
di ingegno e forza di spirito; ma a lei quest'ultima dote mancava da tempo e
non poté evitare di ripensare a quello che aveva sentito e fatto, e di
maledirsi. Non aveva mai del tutto perso la speranza di recuperare la fiducia
dei suoi più cari amici, ma ora non riusciva più a trovarla in quel mare di
dubbi e timori.
E come se non bastasse, quel sogno che
la stava tormentando era tornato a disturbare nuovamente la sua quiete
instabile, mentre sonnecchiava prima della partenza. C'era sempre quel vuoto,
quella battaglia di cui vedeva solo i contorni sfuocati, il riflesso di un
cancello lucente e alto, da cui provenivano urla e orrore. E quel sangue, tutto
quel sangue addosso a quella misteriosa figura, e su di lei. Il soldato ferito
teneva in mano uno stendardo, che sventolava al vento: l'albero bianco era
bello, lucente in tutto quel buio, e le sette stelle parevano gemme che
brillavano di luce propria.
Aveva sbarrato gli occhi.
Lo stemma di Gondor!
Ma c'era un particolare che non si
vedeva da anni: una corona alata.
Il Re era tornato!
Come le altre volte, si era svegliata
sudata e lacrimante, ma con la consapevolezza di sapere che il pericolo
risiedeva nel vicino e alleato regno del sud. Ma chi fosse il soldato non
riusciva a comprenderlo.
Aveva fuggito qualsiasi sguardo, quel
pomeriggio, così come aveva parlato poco. Neanche aver conosciuto quei due
piccoli Hobbit, che banchettavano tra le rovine delle mura di Isengard come se
fosse la normalità, l'aveva aiutata a risollevare il morale. Aragorn l'aveva
controllata, notando quell'ombra sul suo viso stanco, e nella notte calata su
Edoras, decise di avvicinarla, per la prima volta dopo mesi.
Brethil era seduta sul pendio sud del
colle di Dol Baran, nella cui valle si erano accampati. Un vento gelido
soffiava da nord e si avvolse nel suo manto grigio, rabbrividendo. Avvertì la
presenza di qualcuno sentendo odore di tabacco. Pensò fosse Gandalf, o
addirittura uno dei due Hobbit, ma mai avrebbe creduto di incontrare lo sguardo
di Aragorn appena si voltò.
«Posso sedermi un po' accanto a te?» le
domandò, in attesa. Lei annuì, ma non parlò.
Restarono in silenzio per parecchi
minuti, come se fossero soli con i loro pensieri, e nessun'altro attorno. Gli
amici e i soldati della scorta di Re Théoden dormivano, tranne qualche curioso
che stava irrequieto sul suo letto di felci secche, pensando di giocare con la
fortuna e con un oggetto che avrebbe fatto bene a tenere lontano da mani e
occhi.
Poi il Ramingo spezzò il silenzio e non
indugiò in inutili giri di parole. «Ho tentato di capire le ragioni di quel
gesto che apparentemente non ne aveva. Ho tentato davvero, eppure non ci sono
riuscito.» esordì l'Uomo, inspirando un po' di fumo, per soffiarlo poco dopo
con calma. «È passato un anno. Perché torni ora?»
Brethil prese un respiro più profondo
degli altri, prima di parlare. «Non sono tornata. Evidentemente era destino che
ci rincontrassimo.»
«Strano destino, questo.» commentò lui,
senza ironia. «Sei stata tu a decidere di scappare senza spiegazioni.»
«Dimmi Aragorn.» fece lei, tentennando
un poco, la voce tremante. «Dimmi, cambierebbe qualcosa se ti dicessi il motivo
per cui liberai Gollum?»
Il Dùnadan si voltò a guardarla.
«Cambierebbe tutto. E le cose sarebbero andate diversamente se me ne avessi
parlato prima.»
«Aragorn, non cambierebbe niente, e tu
lo sai. Non merito il tuo perdono.»
«Spetta a me decidere se lo meriti o
meno. Mettiti alla prova.» Aragorn era sincero quando parlava. Desiderava
davvero sapere le ragioni di quella che un tempo era una sua amica fidata,
capire i suoi motivi e magari sostenerli, oppure condannarli. Ma aveva bisogno
di sapere, per placare la sua curiosità e il suo rancore, che da troppo tempo
ormai lo stavano consumando.
«Io... ho paura di mettermi in gioco.»
confessò la donna, chinando il capo. «Mi hai dato così tanto nella vita e io ho
rovinato tutto in pochi minuti. È una colpa troppo grande per metterla da parte
e raccontarti ogni cosa, Aragorn. Non so neanche quale forza mi stia
trattenendo dal muovere le gambe e scappare di nuovo.»
Il Ramingo l'afferrò per un braccio.
«Basta scappare, Brethil. Non te lo permetto più.» La vide sospirare con
stanchezza e si domandò quale fardello portasse dentro, come aveva detto anche lo
Stregone traditore. Gli vennero in mente le parole che aveva sentito e chiese:
«"...un tale fardello, nato dalla sciocchezza di un sogno". Che
cosa voleva dire?»
Brethil si morsicò nervosamente
l'interno del labbro inferiore. Sarebbe stato quello il momento in cui gli
avrebbe rivelato tutto? Quello il momento in cui Aragorn le avrebbe voltato le
spalle definitivamente? O sarebbe stato il momento del perdono e del ritrovo di
due vecchi amici che troppo a lungo erano stati separati? Non sapeva trovare
risposte, perché qualsiasi previsione tentasse di fare in quei brevi istanti di
ragionamento finivano catastroficamente.
Si rese conto di stringere tra le dita
un innocente ciuffo d'erba solo quando sentì dolore sul palmo della mano.
Non
puoi scappare per sempre.
Così le aveva detto Boromir,
giustamente. Non avrebbe potuto continuare a farlo. Non se Aragorn la fissava
con decisione e non aveva intenzione di mollare la stretta al suo braccio.
Brethil osservò la luna, ancora troppo alta in cielo. Nemmeno l'arrivo del
nuovo giorno, che era ancora molto distante, avrebbe potuto salvarla quella
volta.
«Molto bene, allora.» disse infine, con
una fatica tale che pareva stesse trasportando sulle spalle le rovine delle
Mura Fossato saltate in aria durante la battaglia. Fu così che gli raccontò dal
principio l'intera faccenda, dal primo momento in cui il padre le aveva
raccontato del suo sogno, fino a quando lei stessa lo aveva avuto, al limite
della sopportazione. Ma, sebbene parlò con dovizia di dettagli proprio come
aveva fatto con Boromir, quella volta decise di guardare il suo interlocutore
in viso, occhi contro occhi, per dimostrargli tutta la sincerità di cui
disponeva. Non avrebbe abbassato lo sguardo, non gli avrebbe dato un singolo
motivo per dubitare della sua buona fede.
E Aragorn la ascoltò in silenzio, senza
interromperla un solo istante, mentre la sua mente ricostruiva tutto quel
mosaico di notizie apprese e celate che per mesi aveva tentato di ricomporre,
senza riuscirci. Al termine del racconto continuò a tacere, fumando la sua pipa
con lo sguardo perso sui cespugli neri che si disperdevano nella vallata. Quel
momento di attesa fu massacrante per la donna, perché non riusciva a capire
cosa gli stesse passando per la mente.
«Gandalf sapeva, dunque?» le domandò,
atono. Brethil annuì e lui sollevò lo sguardo al cielo, incontrando la luce di
Eärendil, la più luminosa delle stelle. «Ti ricordi cosa ti dissi quando tuo
padre morì?»
«Sì. Saresti stato la mia stella guida,
qualunque cosa fosse accaduta.»
«E allora dimmi, amica mia, ti sembrai
un bugiardo quando feci quella promessa? Non mi hai parlato del tuo sogno
perché non ti fidavi di me?»
La donna lo guardò con stupore, non
solo per quelle parole che le sembravano senza senso, ma anche per come si era
rivolto a lei. Amica mia. «Aragorn,
questa è la sciocchezza più grande che abbia mai sentito venir fuori dalle tue
labbra! Come puoi pensare che non mi fidassi di te? È solo che capii che non
potevo chiederti di liberare Gollum dopo tutta la fatica che facesti per
catturarlo. E io non potevo lasciar parlare quel sogno come se non mi turbasse
ogni notte.»
«Avresti dovuto parlarmene comunque.»
le disse, risentito.
Brethil chinò il capo. «Lo so. In
ritardo, ma ora lo so. Mi dispiace, Aragorn, sebbene le mie scuse non possano
cambiare il passato. Gollum è libero di scorrazzare ovunque, e così anche la
mia stupidità.»
L'ombra di un sorriso apparve sul volto
dell'Uomo, ma qualsiasi cosa stesse per dire Brethil non poté ascoltarla,
perché la sensazione di gelo che provarono in quel momento li zittì entrambi.
Poi udirono un urlo stridulo e un gran movimento provenire dall'accampamento, e
non persero tempo a correre per controllare cosa stesse accadendo. Trovarono
Gandalf chino su Pipino, gli occhi sbarrati e il tono imperioso che gli
ordinava di confessare ciò che aveva visto nel palantír. Il sollievo di
scoprire che lo Hobbit non avesse detto niente dei loro piani all'Oscuro
Signore, ma avesse carpito invece un po' delle sue intenzioni, svanì nel
terrore che li paralizzò sul posto quando un'ombra alata passò sopra le loro
teste, oscurando le stelle e la luna. Il grido del Nazgûl soffocò quello dei
soldati in panico, che si chinarono e si portarono le mani alle orecchie. La
bestia roteò verso Orthanc, poi velocemente sparì verso nord.
Gandalf prese con sé Pipino e lo caricò
su Ombromanto, pregando che gli altri lo seguissero più velocemente possibile,
al riparo verso il Fosso di Helm. Brethil fu tentata di seguirlo, sperando di
riuscire a stare al passo del suo destriero, ma lo Stregone era già lontano.
Avrebbe voluto averlo accanto, ora che era nuovamente tornato, per consigliarla
e rassicurarla con la sua saggezza. Chissà se lo avrebbe mai più rivisto?
Si misero in marcia poco dopo, Gimli
dietro Legolas e Merry con Aragorn, e cavalcarono velocemente, per non perdere
tempo. Ma un esploratore giunse dalle retrovie, avvisando il Re che fossero
seguiti da un gruppo di cavalieri, così veloci che stavano per raggiungerli.
Aragorn e Brethil smontarono, estraendo
le spade, pronti a combattere se ve ne fosse stato il bisogno, mentre i
Rohirrim impugnarono le lance, in allerta. Le figure si avvicinavano
velocemente, ora illuminati dalla luna, e parevano in numero eguale ai
Cavalieri di Rohan, se non anche più numerosi. E allora Éomer gridò, affinché
lo udissero e capissero dal suo tono ostile che non avessero voglia di perdere
ulteriore tempo. E con stupore e gioia, si scoprì che quelli erano Raminghi del
Nord, giunti da lontano in aiuto del loro Capitano Aragorn.
Brethil vide Halbarad abbracciare
l'amico e chinò lo sguardo, nascondendo il viso sotto il cappuccio. Non era
pronta ad affrontare anche lui, e tutti in una volta!
«Mae govannen, thêl.»
La donna si voltò verso uno dei due
gemelli, senza riuscire a sopprimere un gemito di stupore nel vedere anche
loro. Si trattava di Elladan, l'unico tra i due che la chiamava in quel modo. Sorella. E sorrise di gioia. «Mae govannen, mellonamin!»
Elrohir le si affiancò dalla parte
opposta. «E così abbiamo dovuto viaggiare lungo tutta la Terra di Mezzo, per
trovarti infine a Rohan.» L'occhiata che le regalò le fece capire che sapeva
tutto e non aveva bisogno di giustificarsi in alcun modo. «Andiamo, cavalca
accanto a noi, poiché molti sono i racconti che vorremo ascoltare e riferire.»
La donna annuì, improvvisamente più
sollevata dalla loro presenza. Ma prima che potesse voltare le spalle ai
Raminghi per mettersi in marcia, Halbarad la vide e la riconobbe. Rimasero a
guardarsi per secondi che parvero ore, poi Aragorn gli mormorò qualcosa e
l'altro parve sorridere tristemente, salutandola con un cenno del capo.
Cavalcarono per il resto della notte e
i tre parlarono molto di ciò che avevano fatto in quel lungo periodo di
lontananza. Elladan si preoccupò subito dei suoi allenamenti, temendo che senza
le loro lezioni potesse aver perso la tecnica, ma Elrohir lo rimproverò
bonariamente, perché sapeva per certo che la loro allieva prediletta non
avrebbe mai dimenticato i loro consigli - ed effettivamente così era stato.
«Se avremo tempo a nostra disposizione
sarò ben lieta di mostrarvi quanto ho dimenticato e quanto, invece, ricordo.»
disse Brethil.
«Ahimè, temo che non avremo modo di
rilassarci con gli allenamenti, ma ti prometto che appena le acque si
calmeranno saremo a tua disposizione.» rispose Elrohir.
Proseguirono in silenzio per qualche
tempo, ma i gemelli non avevano bisogno di parlare per capire che qualcosa in
lei non andasse.
«C'è qualcosa che ti turba, thêl.» disse Elladan. «Me ne accorgo
solo guardandoti negli occhi.»
Brethil sospirò. «In realtà molte cose
mi turbano, ultimamente. Ma un pensiero che ricorre ogni notte mi sta
spaventando. Avrei voluto chiedere consiglio a Gandalf, ma ahimè è partito
chissà dove. E non voglio aggiungere preoccupazioni ad altre preoccupazioni
nella mente di Aragorn.»
Elrohir le sorrise. «Non hai ancora
compreso che non puoi nascondere i tuoi pensieri a quell'uomo? Saprà sempre
quando avrai paura, o sarai felice, proprio come noi possiamo leggere il tuo
cuore.»
«Per questo se necessiti di consiglio
non esitare a parlarcene, thêl.»
continuò Elladan.
La Dùnadan non poté far altro che
confidarsi con loro. Halbarad, che cavalcava qualche metro più avanti, udì
tutto e posò lo sguardo sullo stendardo che la Dama di Gran Burrone gli aveva
affidato, ricamato dalle sue mani per l'Uomo che amava. E s'incupì.
«Dunque, la tua visione è a Gondor e
avverrà presto, poiché lì la guerra giungerà per prima.» commentò Elrohir. «Temi
per la vita di qualcuno?»
«Temo per la vita di molti, in tempi
come questi.» sospirò Brethil. Il pensiero volò subito a Boromir, che entro
quel giorno sarebbe dovuto giungere alla sua città, sperando che non avesse incontrato
contrattempi lungo il cammino. Si chiese come stesse, se l'Ombra avesse ancora
oscurato i suoi pensieri o se stesse lentamente tornando l'Uomo di sempre, in
attesa del suo Re. Poi l'idea che potesse essere lui l'Uomo del sogno giunse
improvvisamente e la spaventò. Chi altri poteva portare lo stendardo del Re di
Gondor, se non il futuro Sovrintendente?
Elladan fece avvicinare il cavallo, osservandola
bene. «Lle tyava quel, thêl?
Naa rashwe?»
«No, nessun problema, sto bene. Pensavo
ad un amico.» rispose Brethil, sorridendo per rassicurare il Mezzelfo. «L'ho salutato qualche giorno fa e mi chiedo come
stia.»
«Si trova a Gondor?» domandò Elrohir,
indovinando.
«Sì, credo di sì. Diretto finalmente verso
la sua città.» La donna scacciò quel brutto presentimento, rivolgendosi ai suoi
compagni di viaggio per domandare loro qualche altro racconto delle loro
avventure al nord.
Quando raggiunsero i rilievi che
proteggevano il Fosso di Helm mancava poco all'alba. Avevano il tempo di
dormire fino all'ora di pranzo e riprendere le forze; poi sarebbe stata l'ora
delle decisioni. Erkenbrand li accolse appena misero piede nel Trombatorrione.
C'era ancora molto da fare - la voragine nelle mura era terrificante e un
lavoro che avrebbe occupato molto tempo - ma i cadaveri del nemico erano stati
bruciati, mentre quelli dei loro fratelli tumulati poco più avanti, nella Conca
Fossato. I viaggiatori si distesero immediatamente sulle loro brande, stanchi e
spossati, ma Brethil tardò un poco a prendere sonno. Lo Hobbit Merry era
sdraiato accanto a lei e dormiva già profondamente, così come il russare del
Nano rimbombava per tutta la stanza di pietra. Più volte Aragorn gli aveva
tirato qualche gomitata per farlo smettere, ma riusciva a placarlo solo per
qualche secondo.
Brethil osservò il soffitto,
rigirandosi su un fianco e osservando Halbarad, poco più avanti. Aveva paura di
chiudere gli occhi, perché temeva che quel buio tornasse a turbarla. E aveva
bisogno di riposarsi e di tranquillizzarsi. Ma alla fine la stanchezza ebbe la
meglio e neanche si rese conto di quando chiuse gli occhi.
Le sue paure divennero fondate ed ecco
nuovamente quella furiosa battaglia, le grida, i rumori metallici di spade che
cozzavano contro altre spade, scudi e armature. Rivide il soldato di spalle e lo
stendardo che teneva in mano, mentre con l'altra reggeva la spada per
difendersi. Quella che le era parsa come la chiglia di una nave, si rivelò
essere una città bianca, di pietra, su più livelli.
Minas
Tirith.
Qualcuno combatté contro il soldato e lo
mantenne distratto, finché un'altra figura non calò un'ascia contro di lui.
Prima che potesse vedere la morte dell'uomo l'immagine cambiò e tutto divenne
nuovamente nero. Vide la sagoma di qualcuno giacere in terra, ricoperto del suo
stesso sangue, ma non riuscì a scorgere il volto, né gli indumenti. E sbarrò
gli occhi quando il viso di Boromir comparve disperato e in lacrime, sporco e
con qualche ferita da taglio sulle guance.
«Boromir!»
Brethil si mise a sedere, allungando
una mano verso il vuoto, come se potesse sperare di salvarlo. Ma l'Uomo non si
trovava lì con lei, né quella era Minas Tirith. Si guardò intorno, con il fiato
corto, temendo di aver svegliato qualcuno, ma fortunatamente i presenti erano
troppo stanchi per badare ai suoi incubi. Incontrò subito lo sguardo di un
Dùnadan, Elegost, che doveva aver dormito poco, in piedi sull'uscio della
porta.
«Brethil, va tutto bene?» le chiese in un
sussurro, avvicinandosi.
Lei scosse il capo. Sembrava
terrorizzata.
«Vieni, ti faccio portare la colazione.»
le disse, porgendole una mano per alzarsi.
«È tardi?»
«Mancano ancora un paio d'ore a
mezzodì, non preoccuparti.»
Elegost la portò gentilmente nella sala
principale, divisa da due file di colonne laterali, in cui erano stati
allestiti dei tavoli in legno. Vi trovò alcuni Raminghi, tra cui Aragorn, Halbarad,
Elladan ed Elrohir, che non avevano dormito se non poche ore. Elegost le portò
delle mele, pane, burro e acqua, e si sedette accanto a lei, allo stesso tavolo
dei quattro. Brethil mangiò in silenzio, mentre i gemelli discorrevano tra loro
in elfico e i Raminghi rispondessero di quando in quando.
Aragorn osservò l'amica e si accorse
che qualcosa non andasse. «Cosa ha turbato il tuo sonno?» le domandò.
La donna soppesò le parole, prima di
parlare. Scambiò una veloce occhiata con i due Mezzelfi,
che la incoraggiarono con un sorriso. «Temo che Boromir sia in pericolo.»
«Tutti noi lo siamo, lui compreso. La
guerra è alle porte, Brethil.»
«Ho visto la sua morte.» disse in un
sussurro, come se il solo pronunciare quella frase potesse oscurare il sole.
«Un sogno premonitore?» domandò
Halbarad, parlando per la prima volta dal loro incontro.
Brethil annuì, chiedendosi se avesse
udito la discussione di quella notte con i gemelli. E se soprattutto Aragorn
gli avesse raccontato la sua versione dei fatti. Fu esortata da entrambi a
raccontare del suo sogno, e lei lo fece, sebbene riluttante. Non potevano
prendere sul serio quello che stava dicendo, soprattutto dopo quello che aveva
fatto: non c'erano prove, infatti, che i suoi sogni fossero realmente collegati
con avvenimenti che prima o poi sarebbero accaduti. Alla fine del racconto si
sentì infinitamente stupida e chinò lo sguardo sulla sua colazione.
«Hai visto Minas Tirith, eppure non ricordo
che ci sia mai andata.» commentò Halbarad.
«Infatti è così. Boromir me la
descrisse. Solo vedendola con i miei occhi potrei dire se la mia visione sia
veritiera o meno.» Brethil si mordicchiò un labbro, nervosamente, e Halbarad le
sorrise, portando una mano sulla sua.
«Non temere il mio giudizio. So tutto.
In realtà, l'ho sempre sospettato.» le disse.
Aragorn si strinse nelle spalle vedendo
gli occhi sbarrati di lei. «Abbiamo avuto molto di cui discutere, questa notte.
E il tempo stringe, non potevo lasciarlo all'oscuro.»
«Conoscendoti, thêl, avresti atteso un altro anno per confidarti anche con lui.»
disse Elladan, sereno.
«Tuo padre mi aveva parlato del suo
sogno.» le confessò Halbarad. «E avevo capito da tempo che anche tu fossi
turbata da qualcosa. Quando quel giorno ti vidi ferita sul viso capii che avevi
portato a termine ciò che ti aveva raccontato Aeglos, o che magari anche tu avessi
avuto la stessa premonizione. Non ne feci parola con nessuno, neanche con
Aragorn, sebbene mi facesse male vedere come avesse accolto la notizia del tuo
gesto. Ma non potevo tradire la segretezza promessa a tuo padre.»
Brethil prese un respiro profondo,
cercando di calmare il battito impazzito del suo cuore. «Allora voi... voi mi perdonate?»
«Non c'è niente da perdonare.» Halbarad
chinò lo sguardo, cercando le parole migliori. «Tranne il fatto che te ne sia
andata. Quello non posso dimenticarlo facilmente. Ho atteso di rivederti ogni
giorno e non ho mai perso la speranza che tornassi, prima o poi. Ho atteso
inutilmente, ma alla fine ti ho trovata comunque.»
La donna trattenne a stento uno
singhiozzo, ma le lacrime le bagnarono comunque gli occhi e il viso. «Mi
dispiace così tanto, io...» disse, nascondendosi il volto tra le mani. «Io
vorrei poter rimediare, davvero, io...»
«Basta lacrime, basta colpe.» la
interruppe Aragorn, cingendole le spalle con un braccio. «Che tutto questo ti
serva da lezione, è la punizione migliore che possa meritarti. Che ti serva per
farti capire che non devi temere i nostri pensieri, né i tuoi.»
E così Brethil pianse tutte quelle
lacrime che non aveva versato in quel lungo anno e fu come liberarsi
definitivamente da quelle catene che la tenevano imprigionata tra le paure e gli
errori. Fu come rivedere la luce del sole dopo mesi di oscurità, come
riprendere a camminare dopo troppo tempo chiusi in una cella troppo piccola per
muoversi. Mai aveva osato sperare una simile reazione e avere il loro appoggiò
le diede l'illusione che avesse fatto la cosa giusta.
Si alzò, guardando i quattro con gli
occhi rossi, ma con un sorriso sulle labbra. «Permettetemi di servirvi ancora
una volta. Permettetemi di cavalcare al vostro fianco, fino alla morte. Voglio
rinnovare il mio giuramento, su tutto ciò che ho di più caro al mondo.» Tolse Celeboglinn dalla fodera e,
inginocchiandosi, la porse al Capitano dei Raminghi del Nord. «Se con la vita o
con la morte posso servire te e la Stella di Arnor, allora io, Brethil figlia
di Aeglos, lo farò.»
Aragorn sorrise, chinandosi per
prenderla per un braccio e farla sollevare. «È un diritto che non ti ho mai sottratto,
Brethil; ma sono felice che tu lo abbia rinnovato. Eppure sento che le nostre
strade si dovranno dividere ancora una volta, forse l'ultima, chissà! Temi per
Boromir e io, dopo aver ascoltato il tuo racconto, mi preoccupo con te. Ahimè,
se solo Gandalf avesse atteso qualche ora prima di partire, forse lui avrebbe
potuto portargli l'avvertimento.»
Brethil capì dove volesse giungere con
le parole. E sebbene lei volesse recarsi a Minas Tirith per metterlo in
guardia, non poteva ora lasciare la sua famiglia, i Dúnedain, in un momento
come quello. Lo avrebbe rimpianto per il resto dei suoi giorni.
«La nostra strada porta verso la Città
Bianca di Gondor, ma per un altro percorso, più lungo e pericoloso.» disse
Halbarad.
«Vi seguirei anche tra il fuoco di un
drago.»
«Lo so, non ne dubito.» fece Aragorn,
posando le mani sulle sue spalle. «Ma mi hai promesso di badare a Boromir,
ricordi? I tempi bui non sono terminati, per lui, e sarei più tranquillo se
fossi accanto a lui.»
«Aragorn, non puoi chiedermi di
andarmene proprio ora.» tentò la donna, con voce roca per il pianto.
«Non ti chiedo di andartene, infatti.
Ti chiedo di prendere un cammino diverso dal mio. Ci incontreremo nuovamente in
guerra, amica mia. E allora gioirò nel vedere due delle persone più importanti
della mia vita combattere al mio fianco.»
Brethil guardò i gemelli e Halbarad,
per trovare il consenso nei loro occhi, e infine annuì. «Se è questo il tuo
volere, lo farò. Partirò oggi stesso.»
«Molto bene.» Aragorn sorrise,
abbracciandola. «Buona fortuna, amica mia.»
«Ci rivedremo presto, thêl.» fece Elladan, che la strinse tra
le braccia dopo il gemello.
La donna salutò per ultimo Halbarad,
che le sussurrò poche parole all'orecchio. Sembrava tanto un addio, piuttosto
che un arrivederci, ma Brethil evitò di pensarlo, altrimenti non sarebbe
riuscita a partire. Elegost cercò lo sguardo della giovane Dùnadan, per
salutarla un'ultima volta, ma non lo trovò. Senza voltarsi, Brethil andò a
cercare Éomer, poiché il Re era ancora nei suoi alloggi a riposare, e lo trovò
con Gamling e l'Hobbit di nome Merry, mentre chiacchieravano un po' in
tranquillità prima della tempesta.
«Brethil, già in piedi?» le domandò
l'Uomo. Si accorse subito che avesse qualcosa di importante da comunicargli e
la esortò a parlare.
«Devo partire per Minas Tirith il prima
possibile, Éomer. Ti prego di darmi il permesso e di avvisare il tuo Re.»
Éomer corrugò la fronte. «Nessun
giuramento ti lega alla corona di Rohan.»
«Lo so, ma trovo corretto chiedere il consenso,
prima di sparire nel nulla, senza lasciar detto niente.» rispose lei. «Non
partirei se non fosse strettamente necessario, ora più che mai vorrei rimanere
con la mia gente. Ma ho un urgente affare da compiere, a Gondor.»
«Ebbene, allora vai e non perdere
ulteriore tempo in spiegazioni, amica mia.» Éomer si chinò per salutarla.
«Numerosi e grandi sono stati i tuoi servigi, non lo dimenticheremo. Spero di
rivederti presto e in circostanze migliori.»
«Così spero anche io, Éomer.» Brethil
abbracciò anche lui e salutò con un cenno del capo l'altro Uomo e lo Hobbit,
che la fermò prima che si potesse recare al suo cavallo.
«Mia signora, scusami se rubo il tuo
prezioso tempo, ma... vorrei domandarti un favore, se fosse possibile.» esordì
Merry, sollevando lo sguardo verso la donna.
«Chiedi pure, mastro Meriadoc, e vedrò
se potrò aiutarti.»
«Ecco, io non so dove siano andati
Gandalf e Pipino, ma se dovessi rivedere mio cugino prima di me potresti
mandargli un mio messaggio?» Brethil sorrise e annuì. «Digli che non deve aver
paura e che sono sicuro che renderà onore all'avventatezza dei Tuc. E che gli
voglio bene.»
«Riferirò parola per parola, puoi
starne certo. Buona fortuna, messer Hobbit! Magari un giorno tornerò nella tua
bella Contea e tu e tuo cugino mi farete da guida.»
«Lo spero, mia signora!»
Brethil corse ora alle stalle, trovando
subito Nerian che la salutò con uno sbuffo. «Amico mio, devi volare per i
prossimi quattro giorni. Ci fermeremo solo per farti riposare un poco.»
Lasciò il Fosso di Helm a tutta
velocità, sotto lo sguardo di Aragorn e Halbarad che non la lasciarono andare
finché non divenne un puntino nero disperso nella vegetazione.
6 Marzo 3019 T. E.
La muraglia del Rammas Echor fu ben
visibile ai suoi occhi alle prime luci del mattino e Boromir sentì un rassicurante
calore al cuore nel rivedere le mura più esterne della sua città. C'erano molti
Uomini al lavoro sulla parete nord, intenti a riparare una parte del muro, in
vista dell'imminente guerra, ma fermarono tutte le loro attività quando
scorsero il cavaliere giungere a gran velocità verso di loro. Il capo di quel
gruppo di persone si fece avanti, alzando una mano per intimargli di fermarsi. Ingold,
così si chiamava l'Uomo, scrutò il viaggiatore, stentando a riconoscerlo, d'un
primo momento.
«Salute, mio buon Uomo. Permetti ad uno
stanco soldato di raggiungere la sua città?» chiese Boromir.
Ingold sgranò gli occhi appena vide il
corno spezzato in due pendere su un fianco e la sua lama possente nella fodera.
«Mio signore, Boromir! Perdonami, ma oscure notizie circa la tua morte sono
giunte in città. Troppo tempo passò dalla tua partenza e nessuna notizia circa
la tua avventura è mai giunta.»
«Eppure sono qui, vivo e desideroso di
rivedere la mia famiglia e di aiutare il mio popolo. Non ti biasimo per non
avermi riconosciuto: cavalco un destriero di Rohan, mi ricopro con un mantello
di fattura elfica e devo avere un viso invecchiato di dieci anni, ormai!
Suvvia, fammi passare, cosicché possa riposarmi e tu possa continuare il tuo
lavoro.»
Ingold chinò il capo e portò una mano
sul petto per salutarlo, dando ordine di aprire il cancello. Boromir attraversò
il Pelennor velocemente, notando con desolazione che i campi coltivati non
fossero più animati dai mandriani e dai fattori come un tempo, segno che molti
preferissero rimanere al sicuro dietro le mura della città, piuttosto che
fuori, quando il male giungeva da ogni direzione. Circa dieci miglia dovette
percorrere prima di giungere al Grande Cancello di Minas Tirith, dove incontrò
sorpresa e gioia. Lo salutarono con tutti gli onori del caso, ringraziando la
sorte che gli aveva permesso di tornare a casa e rallegrati dalla speranza che
la sua vista portò. Con Boromir nuovamente a capo della Torre Bianca c'era
ancora il miraggio della salvezza. Ripercorrere i sette livelli della città fu
emozionante e doloroso, poiché poche erano le persone e i canti che si vedevano
e udivano lungo le strade di pietra. Capì che l'ombra era ormai sopra le loro
teste e la tempesta stava per giungere e liberare tutta la sua forza contro di
essi. Giunse alla Cittadella, dopo aver recitato le parole d'ordine di ogni
cancello, e lasciò il cavallo ad un soldato, mentre un altro lo accolse
immediatamente.
«Mio Capitano, quale gioia poterti
rivedere in giorni così funesti!» esclamò Beregond, della Terza Compagnia della
Cittadella. «Temevamo che le terre del nord ti avessero rapito e che mai più
avresti fatto ritorno a casa. Poi udimmo il flebile suono del tuo corno e il
nostro cuore raggelò dalla paura.»
«Non nego di aver incontrato in più
occasioni la morte, l'ultima volta essa mi aveva quasi braccato. Ma sono
tornato, perché avevo promesso che non avrei lasciato la mia città in preda
alla disperazione e ai supplizi. Molte cose saranno cambiate, dalla mia
partenza, e ho bisogno di ricevere tutti gli aggiornamenti possibili. Dove è Faramir?»
«Si trova nell'Ithilien del Nord, mio
signore. Sire Denethor lo ha mandato per bloccare le incursioni degli Haradrim.
È partito cinque giorni fa. Un messaggero ha riferito che i loro avamposti
stiano indebolendo il nemico, ma sono gruppi troppo numerosi e ben equipaggiati
per poterli disperdere tutti.»
Boromir annuì, mentre camminavano
frettolosamente nel Cortile della Fontana, verso la Casa del Re. Diede una
breve occhiata all'Albero Bianco ormai morto da secoli e si chiese se, con
l'arrivo di Aragorn, sarebbe rifiorito come un tempo.
«Mio padre?»
«Sire Denethor è stato avvisato del tuo
arrivo, ti attende nella Sala del Trono, mio signore.»
Boromir entrò nell'imponente e scarno salone,
diviso da alte colonne nere in tre ampie navate. Gli unici elementi di decoro
che raccontavano la storia di quel luogo erano le alte e silenziose figure dei
Re, poste in fila lungo il cammino ad osservare i passanti. Al centro della
stanza, sull'estremità opposta al portone d'ingresso, stava il Trono del Re, sollevato
da numerosi scalini, mentre accanto, più in basso, c'era quello nero e
disadorno del Sovrintendente, che stava seduto a capo chino. Appena sentì i
passi riecheggiare per il salone, Denethor sollevò lo sguardo e incontrò quello
felice del primogenito.
«Mio figlio! Mio figlio è tornato!»
esclamò, alzandosi in piedi e allargando le braccia, in attesa che Boromir lo
raggiungesse. Si abbracciarono con forza, ridendo sollevati. «Sapevo che
saresti tornato, sapevo che non avresti deluso tuo padre.»
Il volto di Boromir si rabbuiò. «Sarei
ben felice di dirti che saresti fiero di me, padre, ma ci sono molte cose che
dovrò raccontarti e, ahimè, credo che rimarrai scontento del tuo debole
figlio.»
«Debole? Non dire sciocchezze, Boromir.
Di quali crimini ti sei macchiato, per parlare così? Suvvia, sediamoci dietro
un tavolo e facciamo colazione insieme. Molte sono le notizie che voglio che mi
racconti, così come molte sono quelle che io devo raccontare a te. Ma ora vieni,
figlio mio. Ah, figlio mio!»
Erano mesi che Denethor non sorrideva
così gioviale. Cattivi presagi e la tempesta proveniente da est erano tutti
buoni motivi per incupirlo di giorno in giorno; vedeva lontano, lui, cose che
gli altri non potevano immaginare, cose che avrebbero turbato anche il più
temerario degli Uomini. Ma ritrovare il figlio favorito, che temeva di
incontrare solo dopo la morte, fu una luce contro qualsiasi oscurità. E Boromir
si dispiacque ripensando a ciò che aveva fatto, perché era più che sicuro che
suo padre lo avrebbe disprezzato come mai in vita sua, quando avrebbe scoperto
del suo momento di debolezza. Così, tra una coppa di vino rosso, verdure e
carne, Denethor esortò il primogenito a parlargli del suo lungo e periglioso
viaggio, dal momento in cui aveva lasciato Gondor fino all'arrivo a Imladris. E
Boromir gli raccontò dei tre, infiniti mesi a cavallo, solo con i suoi dubbi;
gli parlò degli Elfi e di ciò che aveva appreso riguardo il sogno di Faramir,
del Mezzuomo che portava il Flagello di Isildur, ma senza rivelargli la
decisione del Consiglio, poiché un giuramento di segretezza lo legava; ma
quando parlò di un altro Uomo, alto e fiero,
un Ramingo!, presente a Imladris, il Sovrintendente interruppe il racconto,
poiché aveva capito di chi stesse parlando.
«Thorongil, si faceva chiamare, ai
tempi di mio padre, Ecthelion II. Diceva di essergli devoto, e grande si faceva
nel ricordare che avesse servito anche Thengel, Re di Rohan, pur non essendo un
Rohirrim, e che avesse viaggiato a lungo nella sua tetra vita. Ma io ho sempre
sospettato su di lui e sulla sua vera identità, e indovinai anche! Lui e
Mithrandir hanno sempre tentato di soppiantarmi, oscurandomi anche a mio padre.
Come può essere quel Ramingo l'erede di Isildur? C'è più sangue dell'Ovesturia
nelle mie vene, che in quelle di quell'Uomo.»
«Permettimi di dissentire, padre,
poiché ho potuto conoscere l'Uomo di cui parli e lo tengo in grande
considerazione. È un amico fidato e più nobile di quanto il suo aspetto possa
raccontare. E non credo che abbia mai voluto rivaleggiare con te, né con nessun
altro. Egli ha rispetto per la Casa dei Sovrintendenti e, sebbene io stesso gli
abbia chiesto di tornare immediatamente a Gondor, per prendere il trono che gli
spetta di diritto, ha rifiutato. Prima di rivendicare ciò che è suo vuole aiutarci,
padre. Un Uomo che desidera solo una corona sul capo non avrebbe atteso così
tanto a lungo, e anzi! Non avresti potuto toccare lo scettro bianco del
Sovrintendente, se avesse voluto.»
Denethor rimase in silenzio, dubbioso
eppure colpito dalle parole del figlio. Boromir sembrava fidarsi di quell'Uomo,
più di quanto non facesse con le parole del padre. Forse c'era del vero in
tutta quella storia, oppure Mithrandir aveva soggiogato al suo volere anche il
suo primogenito, dopo avergli rubato la mente di Faramir?
Boromir continuò il racconto, parlando
del viaggio di ritorno compiuto con altri otto compagni. Non si riferì mai alla
Compagnia dell'Anello, né alla loro destinazione; e ancor meno gli parlò di ciò
che aveva fatto ad Amon Hen. Così saltò a piè pari l'accaduto, raccontandogli
dell'attacco degli Uruk-hai e del suo vano tentativo di salvare i suoi piccoli
amici.
«Figlio mio, il cuore mi dice che mi
nascondi qualcosa. Ma non voglio tediarti con le domande di un vecchio, se
queste ti portano dolore. Magari nei giorni seguenti soddisferai tutte le mie
curiosità. Mi parlasti di vergogna e disonore, eppure per ora ho sentito solo
di coraggio e dignità. Ma vai pure avanti e raccontami di come hai ucciso tutti
quei nemici con la tua sola forza!»
Boromir sorrise, senza allegria. «Mi
sopravvaluti, padre. Più frecce mi colpirono e nonostante tentai di non
soccombere, alla fine caddi e la vista mi si annebbiò. Non potevo fare più
niente per i miei amici, niente per la mia anima. Poi arrivò lei, la mia
salvezza. È grazie a lei che sono qui, padre.»
«Chi? Di chi parli?»
«Brethil, figlia di Aeglos, cara amica
di Aragorn, e ora anche mia. Mi salvò dalla morte e dalle tenebre. Pensai che
fosse vergognoso essere guarito e protetto da una donna, ma lei è diversa. Ha
combattuto per tutta la vita, e serve Re Théoden da qualche tempo. Ha difeso le
terre al Nord dal male, insieme ai Raminghi, poiché anche ella è una
discendente di Númenor. Avrei voluto presentarti la donna che ha salvato tuo
figlio, ma la guerra l'ha chiamata verso Isengard e non so se sia ancora su
questa terra.»
Denethor chinò il capo. «Non vi è
disonore nell'essere caduti dopo una battaglia come la tua, figliolo. Non
temere il mio rimprovero. E non vi è disonore neanche nell'essere accuditi da
qualcuno, sia esso uomo o donna.» Gli sorrise benevolo, e Boromir vide in quel
viso stanco più rughe di quante ne ricordasse. Il Male dell'Est lo stava
consumando così velocemente che lo spaventò. «Ora sei tornato a casa, è ciò che
più conta. Gondor ha bisogno di te.»
«E io sono pronto a dare il mio aiuto,
padre. Non aspettavo altro. Ora raccontami tutto quello che è successo in mia
assenza, cosicché possa aggiornarmi e iniziare oggi stesso con il mio lavoro.»
Padre e figlio discussero per le due
ore successive, con l'ordine che nessuno osasse interromperli.
«Ho inviato un messaggero a Rohan affinché
si muova velocemente per rendere onore all'antica amicizia che ci lega, e darò
ordine di accendere i fuochi su Amon Dîn. Il tempo stringe, Boromir, la guerra
incalza. Sauron sta preparando un esercito senza pari: Orchi, Uruk-hai,
Haradrim e Uomini delle Terre Selvagge, mannari e mûmakil attraverseranno il
Nero Cancello. Abbiamo bisogno di tutto l'aiuto possibile. Tra due giorni
arriveranno anche i nostri vicini, Forlong di Lossarnach e il nostro amico e
parente Imrahil, Principe di Dol Amroth. E altri arriveranno dal Morthond, dall'Anfalas e dal Lamedon. Ma
temo che non saranno sufficienti.»
«Il coraggio è l'arma migliore, in
momenti come questi.» disse Boromir. «Saremo in numero inferiore, ma la nostra
forza sarà triplicata dalla voglia di difendere il mondo che conosciamo.»
Denethor sorrise. «Ben detto, figlio
mio. Ora terminiamo la nostra colazione. Una lunga giornata ci attende.»
*
Grazie
a tutti i lettori!
A
presto,
Marta.