Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo,
Malinconico, Slice of life
Personaggi Principali: Seiya
di Pegasu; Shiryu di Draco
Altri
Personaggi: Atena e Shun Rei come guest star; poi Hyoga di Cygnus, Shun di Andromeda e Ikki di Phenix, anche se solo nominati
Rating: Giallo
In proposito: “Manco poco ormai. Vero?”
“Un mese. Un mese e mezzo, al massimo.”
Il tea aveva un
profumo dolce. Saiya sorrise, mentre accennava alla figura di Shun Rei
oltre la finestra. Aveva il dou li
in testa e un cheongsam che non riusciva a
nasconderne l’avanzata gravidanza. E quell’energia che Seiya
le aveva sempre conosciuto, fra determinazione e consapevolezza.
Disclaimer: i personaggi sono diMasami
Kurumada; la situazione invece la rivendico mia^^
Note: one shot; missin
moments; post-Hade; Saint Seiya Omega
Cose: Precisando che, pur
seguendolo, non riesco ad innamorarmi di Saint Seiya Omega,
la fancition è nata comunque prendendo avvio da quel
contesto. Un miscuglio di elementi disseminati qua e là liberamente
reinterpretati dalla sottoscritta e alcune idee assolutamente personali che
definiscono la mia visione del mondo si Saint
Seiya nel post-Hade (e
prima della scoperta di Saint Seiya Omega). Non ho fatto riferimento ai cavalieri
d’oro, anche perchè in effetti
la realtà è ancora nebulosa nell’Omega.
É uno spaccato di
vita, un semplice incontro. Forse è un po’ azzardato, a quattro episodi
dall’inizio della nuova serie e con una cinquantina ancora in fase di
produzione; forse è un azzardo anche per tutte le fanfiction
che ho in sospeso. Comunque, questo è il risultato. Ho seguito l’estro di una
mezza giornata di malattia e la voglia che avrei (tempo permettendo) di tornare
a scrivere. C’è una storia che mi aspetta da oltre un anno, cui continuo a
lavorare. Prima o poi la finirò^^. Voi avrete
pazienza. Ne?
Per inciso, la
storia di Hyoga è una mia completa reinterpretazione
personale. L’idea della carica di Landvarnarmaðr attribuita a Hyoga non è mia, ma di Hilda e della sua bellissima storia
A chi mi segue;
e pazientemente
aspetta.
CRESCENDO
“Manco poco ormai. Vero?”
“Un mese. Un mese e
mezzo, al massimo.”
Il tea aveva un profumo dolce. Saiya
sorrise, mentre accennava alla figura di Shun Rei oltre la finestra. Aveva il dou li in testa e un cheongsam
che non riusciva a nasconderne l’avanzata gravidanza. E quell’energia che Seiya le aveva sempre conosciuto, fra determinazione e
consapevolezza.
Sorrise, di quel sorriso leggero che lo riportava indietro
di quasi dodici anni, a quando erano ancora ragazzi e a Goro-Ho
Seiya era arrivato con una borraccia di pelle e tante
speranze nel cuore. Per aiutare un amico; forse il più caro degli amici. Ma il tempo è passato: tempi di battaglie, di brevi riposi e
di ferite che segnano il corpo e ancor di più l’anima. Sono passate
anche le speranze e i sogni di quando aveva tredici anni e l’armatura gli
sembrava sempre leggera, anche se arrancava esausto dopo ogni scontro estremo.
Eppure. Eppure tutto aveva un senso: se
guardava Shun Rei, il suo ventre gonfio e
quell’espressione di dolce sicurezza, Seiya sapeva
che lo avrebbe rifatto. Avrebbe rivissuto ogni istante e ogni scelta pur di
rivederlo.
Anche la voce di Shiryu era
cambiata, più profonda e matura, come il volto più affilato, dai tratti più
marcati. Il suo modo di porsi no, con quel misto di discrezione e interesse che
te lo fa avvertire sempre come una presenza costante, anche se non invadente. Seiya non riusciva a elaborarlo ancora pienamente: sarà
padre.
“Ti ci vedo proprio, a fare il papà. Sai?”
“Già” sorrise Shiryu, abbassando
il viso sulla tazza fra le mani: aveva un bel riflesso ambrato. “In fondo, ho
avuto anni per fare pratica. Non credi?”
“Mmh. A chi ti riferisci?”
nicchiò Seiya, concedendosi quel momento di
infantilità. Atene era lontana; era lontano il cosmo
latente che aveva allarmato il Santuario e Saori-san
era al sicuro, fra le bianche colonne profumate di mirra. Lì, ai piedi della
cascata millenaria, c’era solo il profumo del muschio e dell’incenso. “Eravamo
così terribili?” ridacchiò.
“Shun no
di certo. Ma se tu e Hyoga vi mettevate a litigare…”
gli diede corda Shiryu, lasciando volutamente in
sospeso la frase nel sorriso che gli era comparso sulle labbra. La
risata di Seiya sembrava così spensierata, in quel
momento. Gli ricordava così tanto il ragazzino
impulsivo e avventato che li spronava; il ragazzino capace di farli
rivaleggiare con gli Dei.
“Già; lo avevo dimenticato” stava dicendo Seiya. “Però anche litigare con te
era pericoloso. Ne?”
Era tornato al giapponese, e Shiryu
provò un intimo piacere nel risentire quella cadenza quasi cantilenante, così
simile al suo dialetto e così diverso. Seiya era
cambiato anche in quello: ora, il suo accento, tradiva la mescolanza di varie
lingue, e passare da un idioma all’altro era diventato quasi naturale. Come per Hyoga.
Shiryu sospirò, scorgendo lo spicchio di
cielo oltre le listelle di bambù e lo spiovente della
veranda. Non vedeva Shun da alcuni mesi, e persino Ikki era andato a trovarlo, quasi un anno prima. Un’improvvisata di poche ore, il tempo di una cena e di alcune
parole scambiate nell’aria umida ai piedi della cascata. Hyoga no. Hyoga non lo vedeva da
troppo tempo, benché puntuali gli arrivassero le informazioni su di lui.
“Hyoga?” si decise a chiedere
alla fine, e la smorfia di Seiya fu già la risposta
più esauriente. Scrollò le spalle e prese una sorsata di tea ormai freddo. Buono.
“Sai com’è fatto” gli rispose
alla fine Seiya.
“Tu lo vedi, ogni tanto?”
“Sì; ogni tanto sì” si lasciò sfuggire con un sospiro
stanco. “Viene a trovare Anissa…Saori-san…Ma
si ferma sempre poco; non abbiamo mai avuto occasione di parlare davvero.”
Seiya incrociò le braccia dietro la
nuca, dondolandosi pigramente sulla sedia. La prima volta non lo aveva
riconosciuto: vestito con l’uniforme rossa di Ásgarðr,
i capelli più corti e un velo di barba a lambirgli il viso con gli zigomi
leggermente sporgenti e i lineamenti induriti, Hyoga
camminava eretto fra le colonne, facendo risuonare i chiodi sotto gli stivali
nei corridoi di marmo. Sapeva che sarebbe arrivato, ma si era aspettato di
vederlo vestire l’armatura del Cigno; o forse quei suoi soliti scaldamuscoli
laceri sopra i pantaloni stinti e la giacca di pelliccia a premere fastidiosa
sul braccio accaldato. Hyoga non ha mai sopportato il calore di Grecia
sorrise Seiya, e Shiryu lo
imitò, lambito dai ricordi che il compagno gli trasmetteva attraverso il cosmo.
Anche quello con il tempo era diventato naturale.
“È una persona importante, adesso. Sai?” riprese Seiya, cantilenando le parole anche se
sapeva inutili. Avrebbe potuto tranquillamente continuare a raccontare a Shiryu
con il cosmo, mostrandogli la mole maestosa della Tredicesima rifulgere nel
tramonto estivo. Ma il silenzio stava diventando
opprimente, e allora anche alcune parole gettare oltre il riverbero placido del
cosmo potevano servire. “Hilda lo ha
nominato…”Seiya incespicò nella parola dalla
pronuncia impossibile, maledicendo la sua poca attrazione per titoli e cariche.
“…qualcosa…del tipo protettore o guardiano…Non ricordo bene.”
“Landvarnarmaðr?”
indagò Shiryu, recuperando da uno sbuffo irrequieto del
cosmo del compagno la parola semisconosciuta. Era un titolo importante, forse il più importante
e il più alto cui il loro amico potesse aspirare. Era un onore, di certo; e per
Hyoga anche un onere. Altrettanto sicuro.
“Ha accettato.”
“Già. Lo conosci.”
Shiryu annuì. La risata di Shun Rei gli arrivò mescolata allo stormire delle foglie:
benché mancasse poco al parto, non riusciva a convincerla a restare a riposo,
così piena di vita ed energie. Anche in quel momento stata
intrecciando foglie di riso in un disegno complicato per completare la culla.
È felice pensò con un sorriso, e non potè evitare di ricordare un altro sorriso.
Hyoga seduto a quello
stesso tavolo una notte di marzo, con la brina sui vestiti pesanti e le mani
strette in grembo.
Shiryu aveva atteso in silenzio, paziente, finchè il cosmo freddo di Hyoga
lo aveva avvolto e trascinato oltre
Il bambino aveva pochi mesi, una peluria bionda sulla
testina. Shiryu lo aveva fissato. E poi aveva fissato
Hyoga, il sorriso assieme dolce e malinconico dei
suoi occhi, mentre si chinava a sfiorarlo con una carezza fredda di cosmo senza
davvero lambirlo. Lo aveva guardato; e aveva capito.
Ritrovarsi a Goro-Ho era stato
assieme doloroso e improvviso, un misto di sorpresa e nausea a stringergli lo
stomaco. E Hyoga era ancora lì, il respiro appena
accelerato sul viso leggermente arrossato per lo sforzo. Trasportare entrambi
con la mente e il cosmo ad Ásgarðr
era stato spossante, e sarebbe stato più semplice parlare. Ma
Hyoga era sempre stato insicuro nelle parole,
soprattutto per le questioni troppo personali. Allora: aveva preferito
mostrarglielo.
“È bello” era riuscito a sussurrare alla fine, ancora incerto sulla verità della sua intuizione.
“Da.
Bello.”
“Come si chiama?”chiese poi, umettandosi le labbra.
“Einar” soffiò Hyoga. “Einar Henrikson
Aesir. Primo principe di Ásgarðr”
“Ed è tuo
figlio.”
“Da” e non potrò mai chiamarlo così
avevano urlato i suoi occhi e quel sorriso assieme di orgoglio e di
rassegnazione. Non potrò mai chiamarlo
figlio. Perché Freja sedeva ora sul trono di Polaris; e accanto a lei un uomo che chiamava sposo; accanto a lei un uomo che le
sarebbe rimasto al fianco e avrebbe rischiato la vita per lei e per il loro
regno. Accanto a lei un uomo che per Hyoga provava
stima, e che aveva occupato di diritto un posto che lui non avrebbe mai potuto
rivendicare.
Shiryu allora aveva abbassato il viso,
incapace forse per la prima volta in vita sua di trovare le parole per
incoraggiarlo. Forse non c’era nemmeno bisogno di cercarle, quelle parole. Hyoga aveva scelto con consapevolezza e non aveva bisogno
di aiuto per proseguire su quella strada. Se fosse caduto, loro ci sarebbero stati
ad aiutarlo. Non chiedeva di più: di condividere un segreto senza alcun impegno
né obbligo. Condividerlo con i suoi più cari amici.
“È stato stupido” buttò fuori Seiya
senza pensare, ricordando a sua volta le sensazioni provate quando Hyoga gli aveva rivelato il segreto. Dapprima era stato
euforico; poi si era arrabbiato. E avevano litigato; violentemente. Si erano
lasciati con parole che non avrebbero mai voluto pronunciare, e tanta delusione
in corpo. Tuttavia, Seiya non aveva mai rivelato
nulla, e Hyoga, nel voltargli le spalle, aveva sempre
avuto quella consapevolezza.
“Sì. Stupido”
concordò Shiryu, prima di concedersi una piccola
smorfia. “Ma è proprio da Hyoga. Non trovi?”
“Già. Proprio da Hyoga.”
Il silenzio calò con naturalezza, lasciandoli ognuno
smarrito in pensieri e ricordi. Di Shun che si
arrabbia più di quanto non avesse fatto Seiya; di Ikki che semplicemente guarda Hyoga
e gli tende una mano, in una strana complicità fatta di gesti spicci e di un
affetto ruvido e schietto. Forse Ikki era davvero
l’unico che avesse compreso a fondo Hyoga; forse era
l’unico che semplicemente aveva accettato quella confidenza senza provare a
farlo ragionare e cambiare le cose.
“Tu non me lo farai, vero, uno
scherzo del genere?” indagò Seiya, con un mezzo sorriso
provocatorio in faccia. Ancora per un
poco si disse, mentre guardava il cielo scurirsi oltre l’orizzonte. Ancora per un poco.
“No. Puoi stare
tranquillo” stette al gioco Shiryu, percependone la
sottile inquietudine e avvertendo sulla pelle il cambiamento dell’aria, più
fresca e umida, assieme al sapore della menta che Shun
Rei stava pestando nel mortaio. “Niente sorprese.”
“Bhè, sai come si dice. Mater certa, pater…”
“Seiya!”
Seiya rise, spostandosi leggermente di
lato per evitare la mano del compagno che era scattata ad afferrarlo. Si
ritrovò in piedi dall’altro lato del tavolo, divertito della reazione che aveva
provocato e pronto a ricominciare quel gioco che lo trascinava indietro nel
tempo. A quegli anni senza adolescenza che adesso tanto gli mancavano; alla
facilità con cui poteva chiudere gli occhi e percepire la presenza dei suoi
compagni accanto a sé. Non si erano mai realmente separati, e i loro cosmi
continuavano a gravitare gli uni sugli altri. Tuttavia, erano cresciuti: erano cresciute le priorità ed erano cresciuti i doveri. Avevano
preso strade diverse sotto il nome di Atena, rincorrendosi per il mondo con
parole veloci per assicurarsi di essere ancora quello che erano un tempo. Si
era allontanati, ma Seiya voleva pensare che non si
sarebbero mai persi: Saori-san li attirava, li faceva
gravitare attorno a sé come comete libere dagli schemi, ma
incapaci di allontanarsi definitivamente. Era il loro modo di servirla, di sottolineare a lei, a se stessi e agli altri quello che
erano stati in passato e che sarebbero sempre rimasti: Shiryu
a Goro-Ho, dove la sua cecità lo costringeva e dove
aveva ripreso sulla torre degli Spectre; Hyoga fra
“Saiya.” La voce di Shun Rei lo riportò alla realtà. “Ti
fermi a cena? È quasi il tramonto.”
Il tramonto.
Il tempo era scaduto; doveva tornare. Non c’erano pericoli
imminenti, ma lo aveva promesso a Saori-san: solo una
giornata. Senza che lei gli chiedesse nulla o lo costringesse a nulla. Era
diventata forte Saori-san negli anni. Tanto forte e
tanto fragile, avvolta dalla Dea che cercava di far sopravvivere la donna. Ed
era bello, alla sera, restare con lei a parlare nei giardini
del Tempio, sotto le stelle che si potrebbero toccare. Era bello, un ginocchio
a terra e l’elmo sottobraccio, discutere con lei di ogni piccolo insignificante
particolare. Come quando erano ragazzi e le si affiancava;
come quando erano ragazzi e le stringeva la mano dopo ogni battaglia.
Non siamo più ragazzi.
E Saori-san era Anissa, anche se Seiya non
riusciva ad accettare quell’etichetta che lo soffocava. Anche se aspettava con
impazienza che Saori gli concedesse di smettere il
suo atteggiamento e sedersi sull’erba accanto a lei. E lo faceva: quando la
vedeva corrucciata e tesa; quando la vedeva smarrita
in pensieri che le oscuravano gli occhi ormai azzurri, Seiya
dimenticava il ruolo e le distanze e le sedeva accanto, stringendola fra le
braccia di un uomo e non di un cavaliere. E Saori-san
tornava solo Saori, senza veli e senza pudori, con un
muto ringraziamento negli occhi chiari.
Gli occhi di Atena. Gli occhi di Saori-san.
Azzurri. Azzurri come il cielo di Grecia e il mare più profondo. Azzurri come
tranquillità che sapevano infondere con antica risolutezza. Azzurri come
s’incendiavano di riflessi iridescenti nei bagliori del cosmo divino. Azzurri
da quando Atena aveva rivestito la sua armatura e Hade
era stato sconfitto. Azzurri come solo il tempo li aveva trasformati,
sciogliendo la patina scura che li celava e rivelandola per quello che era
davvero.
Seiya riveriva quegli occhi, ma non li
amava. Gli occhi che continuava a vedere erano gli
occhi di una ragazzina, pieni di domande e con poche conoscenze. Occhi scuri dai riflessi d’oro; occhi profondi come la notte piena
di stelle. Occhi infiniti e scuri, da conquistare. Eppure Saori restava bella; e lo stava aspettando al Tempio.
“Mi dispiace, Shun
Rei. Devo tornare” le rispose risitemandosi
gli abiti e richiamando a sé l’armatura che fino a quel momento aveva riposato
dimenticata in un angolo della stanza. Ora, rivestito dell’oro di Sagitter, una lunga fascia di bisso bianco a fluttuare
leggera fra il vento e l’alito del cosmo, Seiya
appariva come l’uomo che era diventato, la determinazione sul viso serio privo
di ogni ingenuità infantile. Appariva come l’uomo che le battaglie e il ruolo
avevano plasmato. “Ma verrò a trovarvi presto” la
rassicurò subito, per scusarsi. E di nuovo il sorriso gli restituì la
leggerezza dei tredici anni. “In fondo, avrò diritto a vedere
il mio nipotino. Ne?”
Shiryu lo accompagnò per un tratto,
nella notte silenziosa che stava avanzando, fino a quando la casa alle sue
spalle fu il rettangolo di luce della porta. Camminava sciolto e naturale, come
se la cecità non costituisse un problema; non aveva mai costituito
un vero problema, in fondo.
“Dovrò andare da Shun, a breve”
ruppe il silenzio Seiya, quasi non sopportando più il
leggero clangore delle ali di Sagitter. “Dal Tibet
alla Fonte della vita ci metterei poco. Che ne dici? Potrei…”
“No.”
“Ma.”
“No, Seiya” ripetè
Shiryu. “Se è scritto che guarirò,
allora così sarà. Ma tu non dovrai più tornare
alla Fonte. L’hai giurato.”
Seiya sbuffò: se voleva, Shiryu era più testardo di lui. Comunque, un giorno di più
o un giorno di meno non avrebbe fatto la differenza e
una scusa per arrivarci l’avrebbe trovata, prima o dopo. Ne era sicuro. C’è ancora tempo.
“Salutami Shun,
quando lo vedrai.
E anche Ikki.”
“E quando lo vedi, quello? È sempre in giro!”
Shiryu rise; la sensazione del cosmo del
compagno nell’aria e l’odore metallico dell’armatura sapevano di nostalgia. Il
Dragone riposava sotto la cascata millenaria, a curarsi ferite che nemmeno le
vestigia divine avevano potuto evitare. Ma la
sensazione rimaneva, ed era un richiamo suadente.
“Vorrei essere con te. In Grecia.”
Seiya non rispose; si limitò ad annuire
e alzare lo sguardo alle stelle. Capiva Shiryu; capiva quel senso di smarrimento che ogni tanto li
attraversava, l’insicurezza che non era loro mai appartenuta e che
raccoglievano nei momenti di riposo adesso che si erano trovati, poco più che
bambini, a ricostruire un regno in rovina; dopo che si erano risvegliati fra
macerie e speranza da rinsaldare. E le avevano ricreate, quelle speranze;
qualcosa per cui valesse ancora la pena di lottare, se di nuovo fossero stati
costretti a scendere in campo. L’eredità dei Cavalieri d’oro era tutta lì: nel
riso del figlio di Hyoga; nel ventre gonfio di Shun Rei; negli occhi pieni di amore di Saori-san.
“Hai già deciso il nome?”
“Ryuho.”
“Ryuho?” ripetè
Saiya, assaporandolo sulle labbra. “Sì;
proprio adatto. Gli starà bene” rise. “Non
dovrai addestrarlo. Vedrai. Non ce ne sarà bisogno.”
Shiryu annuì, incerto nel suo cuore.
L’aveva avvertito anche lui quel cosmo latente strisciare verso il Santuario. Debole, ma carico di presagi funesti. Dei del cielo, fate che non sia pregò, alzando gli occhi ciechi alla
costellazione del Dragone, che riverberò in muta risposta.
“Tornerai?” chiese alla fine, quando avvertì il cosmo di Sagitter intensificarsi e quel calore ardente lambirlo in
un abbraccio. E dentro quel calore la prepotenza libera di Pegasus
pulsare vivida. Era inutile: Seiya aveva accettato Sagitter, ma sarebbe sempre stata Pegasus
la sua armatura.
“Guarda che non è facile liberarsi di me” gli rispose Seiya. “Non ci sono riusciti neanche gli Dei. Ne?”
“Presuntuoso” Shiryu rise,
liberando il suo cosmo per accompagnarlo ancora per un tratto di strada. Non sono di cristallo sembrò
rimproverarlo bonariamente, frenando le proteste di Seiya.
Eppure, in cuor suo sperò che fosse davvero così; che quell’arroganza infantile
davvero fosse la garanzia che tutto sarebbe rimasto come sempre. Sei ingenuo si rimproverò, ma in quel
momento volle crederci. Mentre Sagitter sfrecciava
verso il cielo, lasciandosi alle spalle una promessa sorridente.
“Tornerò.”
1) Il dou li è il nome
cinese del tipico cappello di paglia originario del sud-est asiatico, di forma
conica e viene fissato mediante una stringa di tessuto
che passa sotto il mento, spesso di seta; all'interno è presente un'altra
fascia che non lo fa muovere sulla testa. Questo cappello viene
usato essenzialmente come protezione dal sole e dalla pioggia, specialmente da
chi lavora nei campi di riso.
2) Il cheongsam è il
tradizionale abito femminile cinese, consistente in un unico pezzo,
generalmente molto aderente, a maniche lunghe o corte. Segno distintivo del cheongsam è il colletto alto in stile coreano, abbottonato
con alamari e bottoni che scendono in diagonale dalla base del collo fino all'ascella.
La gonna può essere di lunghezza variabile ed è generalmente molto stretta e
dotata di spacchi laterali molto profondi. I modelli tradizionali del cheongsam sono generalmente realizzati in seta in un colore
unico, o a fantasie, ed a volte bordato in un colore
differente da quello del resto dell'abito.[
3) Anissa, traslitterazione
bizantina dell’epiteto greco antico anassa, significa signora
ed è un epiteto spesso accostato, assieme a potnia, ad Atena e alle divinità
guerriere in generale.