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Autore: avalon9    30/04/2012    6 recensioni
“Manco poco ormai. Vero?”
“Un mese. Un mese e mezzo, al massimo.”
Il tea aveva un profumo dolce. Saiya sorrise, mentre accennava alla figura di Shun Rei oltre la finestra. Aveva il dou li in testa e un cheongsam che non riusciva a nasconderne l’avanzata gravidanza. E quell’energia che Seiya le aveva sempre conosciuto, fra determinazione e consapevolezza.
Post-Hade; Saint Seiya Omega: prequel
Forse un azzardo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Dragon Shiryu, Pegasus Seiya
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'Crescendo'
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Autore: Avalon9

Autore: Avalon9

Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life

Personaggi Principali: Seiya di Pegasu; Shiryu di Draco

Altri Personaggi: Atena e Shun Rei come guest star; poi Hyoga di Cygnus, Shun di Andromeda e Ikki di Phenix, anche se solo nominati

Rating: Giallo

In proposito: “Manco poco ormai. Vero?”

“Un mese. Un mese e mezzo, al massimo.”

Il tea aveva un profumo dolce. Saiya sorrise, mentre accennava alla figura di Shun Rei oltre la finestra. Aveva il dou li in testa e un cheongsam che non riusciva a nasconderne l’avanzata gravidanza. E quell’energia che Seiya le aveva sempre conosciuto, fra determinazione e consapevolezza.

Disclaimer: i personaggi sono diMasami Kurumada; la situazione invece la rivendico mia^^

Note: one shot; missin moments; post-Hade; Saint Seiya Omega

Cose: Precisando che, pur seguendolo, non riesco ad innamorarmi di Saint Seiya Omega, la fancition è nata comunque prendendo avvio da quel contesto. Un miscuglio di elementi disseminati qua e là liberamente reinterpretati dalla sottoscritta e alcune idee assolutamente personali che definiscono la mia visione del mondo si Saint Seiya nel post-Hade (e prima della scoperta di Saint Seiya Omega). Non ho fatto riferimento ai cavalieri d’oro, anche perchè in effetti la realtà è ancora nebulosa nell’Omega.

É uno spaccato di vita, un semplice incontro. Forse è un po’ azzardato, a quattro episodi dall’inizio della nuova serie e con una cinquantina ancora in fase di produzione; forse è un azzardo anche per tutte le fanfiction che ho in sospeso. Comunque, questo è il risultato. Ho seguito l’estro di una mezza giornata di malattia e la voglia che avrei (tempo permettendo) di tornare a scrivere. C’è una storia che mi aspetta da oltre un anno, cui continuo a lavorare. Prima o poi la finirò^^. Voi avrete pazienza. Ne?

Per inciso, la storia di Hyoga è una mia completa reinterpretazione personale. L’idea della carica di Landvarnarmaðr attribuita a Hyoga non è mia, ma di Hilda e della sua bellissima storia la La magnifica preda. Mi sono comunque documentata, e il titolo corrisponde ad un’antica carica norrena, che indicava il guerriero o i guerrieri incaricati della difesa di un territorio o di una città nella Svezia medievale e forse anche antico norrena, sostituendo a città il villaggio.

 

 

 

 

A chi mi segue;

e pazientemente

aspetta.

 

 

 

CRESCENDO

 

 

 

 

“Manco poco ormai. Vero?”

“Un mese. Un mese e mezzo, al massimo.”

Il tea aveva un profumo dolce. Saiya sorrise, mentre accennava alla figura di Shun Rei oltre la finestra. Aveva il dou li in testa e un cheongsam che non riusciva a nasconderne l’avanzata gravidanza. E quell’energia che Seiya le aveva sempre conosciuto, fra determinazione e consapevolezza.

Sorrise, di quel sorriso leggero che lo riportava indietro di quasi dodici anni, a quando erano ancora ragazzi e a Goro-Ho Seiya era arrivato con una borraccia di pelle e tante speranze nel cuore. Per aiutare un amico; forse il più caro degli amici. Ma il tempo è passato: tempi di battaglie, di brevi riposi e di ferite che segnano il corpo e ancor di più l’anima. Sono passate anche le speranze e i sogni di quando aveva tredici anni e l’armatura gli sembrava sempre leggera, anche se arrancava esausto dopo ogni scontro estremo.

Eppure. Eppure tutto aveva un senso: se guardava Shun Rei, il suo ventre gonfio e quell’espressione di dolce sicurezza, Seiya sapeva che lo avrebbe rifatto. Avrebbe rivissuto ogni istante e ogni scelta pur di rivederlo.

Anche la voce di Shiryu era cambiata, più profonda e matura, come il volto più affilato, dai tratti più marcati. Il suo modo di porsi no, con quel misto di discrezione e interesse che te lo fa avvertire sempre come una presenza costante, anche se non invadente. Seiya non riusciva a elaborarlo ancora pienamente: sarà padre.

“Ti ci vedo proprio, a fare il papà. Sai?”

“Già” sorrise Shiryu, abbassando il viso sulla tazza fra le mani: aveva un bel riflesso ambrato. “In fondo, ho avuto anni per fare pratica. Non credi?”

Mmh. A chi ti riferisci?” nicchiò Seiya, concedendosi quel momento di infantilità. Atene era lontana; era lontano il cosmo latente che aveva allarmato il Santuario e Saori-san era al sicuro, fra le bianche colonne profumate di mirra. Lì, ai piedi della cascata millenaria, c’era solo il profumo del muschio e dell’incenso. “Eravamo così terribili?” ridacchiò.

Shun no di certo. Ma se tu e Hyoga vi mettevate a litigare…” gli diede corda Shiryu, lasciando volutamente in sospeso la frase nel sorriso che gli era comparso sulle labbra. La risata di Seiya sembrava così spensierata, in quel momento. Gli ricordava così tanto il ragazzino impulsivo e avventato che li spronava; il ragazzino capace di farli rivaleggiare con gli Dei.

“Già; lo avevo dimenticato” stava dicendo Seiya. “Però anche litigare con te era pericoloso. Ne?

Era tornato al giapponese, e Shiryu provò un intimo piacere nel risentire quella cadenza quasi cantilenante, così simile al suo dialetto e così diverso. Seiya era cambiato anche in quello: ora, il suo accento, tradiva la mescolanza di varie lingue, e passare da un idioma all’altro era diventato quasi naturale. Come per Hyoga.

Shiryu sospirò, scorgendo lo spicchio di cielo oltre le listelle di bambù e lo spiovente della veranda. Non vedeva Shun da alcuni mesi, e persino Ikki era andato a trovarlo, quasi un anno prima. Un’improvvisata di poche ore, il tempo di una cena e di alcune parole scambiate nell’aria umida ai piedi della cascata. Hyoga no. Hyoga non lo vedeva da troppo tempo, benché puntuali gli arrivassero le informazioni su di lui.

Hyoga?” si decise a chiedere alla fine, e la smorfia di Seiya fu già la risposta più esauriente. Scrollò le spalle e prese una sorsata di tea ormai freddo. Buono.

“Sai com’è fatto gli rispose alla fine Seiya.

“Tu lo vedi, ogni tanto?”

“Sì; ogni tanto sì” si lasciò sfuggire con un sospiro stanco. “Viene a trovare AnissaSaori-san…Ma si ferma sempre poco; non abbiamo mai avuto occasione di parlare davvero.”

Seiya incrociò le braccia dietro la nuca, dondolandosi pigramente sulla sedia. La prima volta non lo aveva riconosciuto: vestito con l’uniforme rossa di Ásgarðr, i capelli più corti e un velo di barba a lambirgli il viso con gli zigomi leggermente sporgenti e i lineamenti induriti, Hyoga camminava eretto fra le colonne, facendo risuonare i chiodi sotto gli stivali nei corridoi di marmo. Sapeva che sarebbe arrivato, ma si era aspettato di vederlo vestire l’armatura del Cigno; o forse quei suoi soliti scaldamuscoli laceri sopra i pantaloni stinti e la giacca di pelliccia a premere fastidiosa sul braccio accaldato. Hyoga non ha mai sopportato il calore di Grecia sorrise Seiya, e Shiryu lo imitò, lambito dai ricordi che il compagno gli trasmetteva attraverso il cosmo. Anche quello con il tempo era diventato naturale.

“È una persona importante, adesso. Sai?” riprese Seiya, cantilenando le parole anche se sapeva inutili. Avrebbe potuto tranquillamente continuare a raccontare a Shiryu con il cosmo, mostrandogli la mole maestosa della Tredicesima rifulgere nel tramonto estivo. Ma il silenzio stava diventando opprimente, e allora anche alcune parole gettare oltre il riverbero placido del cosmo potevano servire. “Hilda lo ha nominato…”Seiya incespicò nella parola dalla pronuncia impossibile, maledicendo la sua poca attrazione per titoli e cariche. “…qualcosa…del tipo protettore o guardiano…Non ricordo bene.”

Landvarnarmaðr?” indagò Shiryu, recuperando da uno sbuffo irrequieto del cosmo del compagno la parola semisconosciuta. Era un titolo importante, forse il più importante e il più alto cui il loro amico potesse aspirare. Era un onore, di certo; e per Hyoga anche un onere. Altrettanto sicuro.

“Ha accettato.”

“Già. Lo conosci.”

Shiryu annuì. La risata di Shun Rei gli arrivò mescolata allo stormire delle foglie: benché mancasse poco al parto, non riusciva a convincerla a restare a riposo, così piena di vita ed energie. Anche in quel momento stata intrecciando foglie di riso in un disegno complicato per completare la culla. È felice pensò con un sorriso, e non potè evitare di ricordare un altro sorriso.

Hyoga seduto a quello stesso tavolo una notte di marzo, con la brina sui vestiti pesanti e le mani strette in grembo. Shiryu aveva atteso in silenzio, paziente, finchè il cosmo freddo di Hyoga lo aveva avvolto e trascinato oltre la Siberia, fra le mura antiche di Ásgarðr. Aveva camminato con la mente per i corridoi silenziosi, la neve e il ghiaccio ad arabescare le finestre piombate. Corridoi percorsi in un soffio, stanze sconosciute e sale fin troppo note. Attraversare la porta di pesante quercia era stato come passare attraverso un velo sottilissimo di rugiada. Hyoga lo aspettava accanto ad un lettino.

Il bambino aveva pochi mesi, una peluria bionda sulla testina. Shiryu lo aveva fissato. E poi aveva fissato Hyoga, il sorriso assieme dolce e malinconico dei suoi occhi, mentre si chinava a sfiorarlo con una carezza fredda di cosmo senza davvero lambirlo. Lo aveva guardato; e aveva capito.

Ritrovarsi a Goro-Ho era stato assieme doloroso e improvviso, un misto di sorpresa e nausea a stringergli lo stomaco. E Hyoga era ancora lì, il respiro appena accelerato sul viso leggermente arrossato per lo sforzo. Trasportare entrambi con la mente e il cosmo ad Ásgarðr era stato spossante, e sarebbe stato più semplice parlare. Ma Hyoga era sempre stato insicuro nelle parole, soprattutto per le questioni troppo personali. Allora: aveva preferito mostrarglielo.

“È bello” era riuscito a sussurrare alla fine, ancora incerto sulla verità della sua intuizione.

Da. Bello.”

“Come si chiama?”chiese poi, umettandosi le labbra.

Einar” soffiò Hyoga. “Einar Henrikson Aesir. Primo principe di Ásgarðr

“Ed è tuo figlio.”

Dae non potrò mai chiamarlo così avevano urlato i suoi occhi e quel sorriso assieme di orgoglio e di rassegnazione. Non potrò mai chiamarlo figlio. Perché Freja sedeva ora sul trono di Polaris; e accanto a lei un uomo che chiamava sposo; accanto a lei un uomo che le sarebbe rimasto al fianco e avrebbe rischiato la vita per lei e per il loro regno. Accanto a lei un uomo che per Hyoga provava stima, e che aveva occupato di diritto un posto che lui non avrebbe mai potuto rivendicare.

Shiryu allora aveva abbassato il viso, incapace forse per la prima volta in vita sua di trovare le parole per incoraggiarlo. Forse non c’era nemmeno bisogno di cercarle, quelle parole. Hyoga aveva scelto con consapevolezza e non aveva bisogno di aiuto per proseguire su quella strada. Se fosse caduto, loro ci sarebbero stati ad aiutarlo. Non chiedeva di più: di condividere un segreto senza alcun impegno né obbligo. Condividerlo con i suoi più cari amici.

“È stato stupido” buttò fuori Seiya senza pensare, ricordando a sua volta le sensazioni provate quando Hyoga gli aveva rivelato il segreto. Dapprima era stato euforico; poi si era arrabbiato. E avevano litigato; violentemente. Si erano lasciati con parole che non avrebbero mai voluto pronunciare, e tanta delusione in corpo. Tuttavia, Seiya non aveva mai rivelato nulla, e Hyoga, nel voltargli le spalle, aveva sempre avuto quella consapevolezza.

“Sì. Stupido” concordò Shiryu, prima di concedersi una piccola smorfia. “Ma è proprio da Hyoga. Non trovi?”

“Già. Proprio da Hyoga.”

Il silenzio calò con naturalezza, lasciandoli ognuno smarrito in pensieri e ricordi. Di Shun che si arrabbia più di quanto non avesse fatto Seiya; di Ikki che semplicemente guarda Hyoga e gli tende una mano, in una strana complicità fatta di gesti spicci e di un affetto ruvido e schietto. Forse Ikki era davvero l’unico che avesse compreso a fondo Hyoga; forse era l’unico che semplicemente aveva accettato quella confidenza senza provare a farlo ragionare e cambiare le cose.

“Tu non me lo farai, vero, uno scherzo del genere?” indagò Seiya, con un mezzo sorriso provocatorio in faccia. Ancora per un poco si disse, mentre guardava il cielo scurirsi oltre l’orizzonte. Ancora per un poco.

“No. Puoi stare tranquillo” stette al gioco Shiryu, percependone la sottile inquietudine e avvertendo sulla pelle il cambiamento dell’aria, più fresca e umida, assieme al sapore della menta che Shun Rei stava pestando nel mortaio. “Niente sorprese.”

Bhè, sai come si dice. Mater certa, pater…”

Seiya!”

Seiya rise, spostandosi leggermente di lato per evitare la mano del compagno che era scattata ad afferrarlo. Si ritrovò in piedi dall’altro lato del tavolo, divertito della reazione che aveva provocato e pronto a ricominciare quel gioco che lo trascinava indietro nel tempo. A quegli anni senza adolescenza che adesso tanto gli mancavano; alla facilità con cui poteva chiudere gli occhi e percepire la presenza dei suoi compagni accanto a sé. Non si erano mai realmente separati, e i loro cosmi continuavano a gravitare gli uni sugli altri. Tuttavia, erano cresciuti: erano cresciute le priorità ed erano cresciuti i doveri. Avevano preso strade diverse sotto il nome di Atena, rincorrendosi per il mondo con parole veloci per assicurarsi di essere ancora quello che erano un tempo. Si era allontanati, ma Seiya voleva pensare che non si sarebbero mai persi: Saori-san li attirava, li faceva gravitare attorno a sé come comete libere dagli schemi, ma incapaci di allontanarsi definitivamente. Era il loro modo di servirla, di sottolineare a lei, a se stessi e agli altri quello che erano stati in passato e che sarebbero sempre rimasti: Shiryu a Goro-Ho, dove la sua cecità lo costringeva e dove aveva ripreso sulla torre degli Spectre; Hyoga fra la Siberia e Ásgarðr, a mediare i rapporti non ancora distesi e a preservare l’accesso artico ad Atlantide; Shun nel Tibet, a costruire un nuovo luogo di allenamento, un palestra per futuri cavalieri, con l’ingenua speranza di non doverli mai schierare in battaglia; Ikki per il mondo, in movimento costante come il fuoco della Fenice. E lui in Grecia, alla destra della Dea come cavaliere di Sagitter.

Saiya.” La voce di Shun Rei lo riportò alla realtà. “Ti fermi a cena? È quasi il tramonto.”

Il tramonto.

Il tempo era scaduto; doveva tornare. Non c’erano pericoli imminenti, ma lo aveva promesso a Saori-san: solo una giornata. Senza che lei gli chiedesse nulla o lo costringesse a nulla. Era diventata forte Saori-san negli anni. Tanto forte e tanto fragile, avvolta dalla Dea che cercava di far sopravvivere la donna. Ed era bello, alla sera, restare con lei a parlare nei giardini del Tempio, sotto le stelle che si potrebbero toccare. Era bello, un ginocchio a terra e l’elmo sottobraccio, discutere con lei di ogni piccolo insignificante particolare. Come quando erano ragazzi e le si affiancava; come quando erano ragazzi e le stringeva la mano dopo ogni battaglia.

Non siamo più ragazzi.

E Saori-san era Anissa, anche se Seiya non riusciva ad accettare quell’etichetta che lo soffocava. Anche se aspettava con impazienza che Saori gli concedesse di smettere il suo atteggiamento e sedersi sull’erba accanto a lei. E lo faceva: quando la vedeva corrucciata e tesa; quando la vedeva smarrita in pensieri che le oscuravano gli occhi ormai azzurri, Seiya dimenticava il ruolo e le distanze e le sedeva accanto, stringendola fra le braccia di un uomo e non di un cavaliere. E Saori-san tornava solo Saori, senza veli e senza pudori, con un muto ringraziamento negli occhi chiari.

Gli occhi di Atena. Gli occhi di Saori-san. Azzurri. Azzurri come il cielo di Grecia e il mare più profondo. Azzurri come tranquillità che sapevano infondere con antica risolutezza. Azzurri come s’incendiavano di riflessi iridescenti nei bagliori del cosmo divino. Azzurri da quando Atena aveva rivestito la sua armatura e Hade era stato sconfitto. Azzurri come solo il tempo li aveva trasformati, sciogliendo la patina scura che li celava e rivelandola per quello che era davvero.

Seiya riveriva quegli occhi, ma non li amava. Gli occhi che continuava a vedere erano gli occhi di una ragazzina, pieni di domande e con poche conoscenze. Occhi scuri dai riflessi d’oro; occhi profondi come la notte piena di stelle. Occhi infiniti e scuri, da conquistare. Eppure Saori restava bella; e lo stava aspettando al Tempio.

“Mi dispiace, Shun Rei. Devo tornare” le rispose risitemandosi gli abiti e richiamando a sé l’armatura che fino a quel momento aveva riposato dimenticata in un angolo della stanza. Ora, rivestito dell’oro di Sagitter, una lunga fascia di bisso bianco a fluttuare leggera fra il vento e l’alito del cosmo, Seiya appariva come l’uomo che era diventato, la determinazione sul viso serio privo di ogni ingenuità infantile. Appariva come l’uomo che le battaglie e il ruolo avevano plasmato. “Ma verrò a trovarvi presto” la rassicurò subito, per scusarsi. E di nuovo il sorriso gli restituì la leggerezza dei tredici anni. “In fondo, avrò diritto a vedere il mio nipotino. Ne?

Shiryu lo accompagnò per un tratto, nella notte silenziosa che stava avanzando, fino a quando la casa alle sue spalle fu il rettangolo di luce della porta. Camminava sciolto e naturale, come se la cecità non costituisse un problema; non aveva mai costituito un vero problema, in fondo.

“Dovrò andare da Shun, a breve” ruppe il silenzio Seiya, quasi non sopportando più il leggero clangore delle ali di Sagitter. “Dal Tibet alla Fonte della vita ci metterei poco. Che ne dici? Potrei…”

“No.”

Ma.”

“No, Seiyaripetè Shiryu. “Se è scritto che guarirò, allora così sarà. Ma tu non dovrai più tornare alla Fonte. L’hai giurato.”

Seiya sbuffò: se voleva, Shiryu era più testardo di lui. Comunque, un giorno di più o un giorno di meno non avrebbe fatto la differenza e una scusa per arrivarci l’avrebbe trovata, prima o dopo. Ne era sicuro. C’è ancora tempo.

“Salutami Shun, quando lo vedrai. E anche Ikki.”

“E quando lo vedi, quello? È sempre in giro!”

Shiryu rise; la sensazione del cosmo del compagno nell’aria e l’odore metallico dell’armatura sapevano di nostalgia. Il Dragone riposava sotto la cascata millenaria, a curarsi ferite che nemmeno le vestigia divine avevano potuto evitare. Ma la sensazione rimaneva, ed era un richiamo suadente.

“Vorrei essere con te. In Grecia.”

Seiya non rispose; si limitò ad annuire e alzare lo sguardo alle stelle. Capiva Shiryu; capiva quel senso di smarrimento che ogni tanto li attraversava, l’insicurezza che non era loro mai appartenuta e che raccoglievano nei momenti di riposo adesso che si erano trovati, poco più che bambini, a ricostruire un regno in rovina; dopo che si erano risvegliati fra macerie e speranza da rinsaldare. E le avevano ricreate, quelle speranze; qualcosa per cui valesse ancora la pena di lottare, se di nuovo fossero stati costretti a scendere in campo. L’eredità dei Cavalieri d’oro era tutta lì: nel riso del figlio di Hyoga; nel ventre gonfio di Shun Rei; negli occhi pieni di amore di Saori-san.

“Hai già deciso il nome?”

Ryuho.”

Ryuho?” ripetè Saiya, assaporandolo sulle labbra. “Sì; proprio adatto. Gli starà bene” rise. “Non dovrai addestrarlo. Vedrai. Non ce ne sarà bisogno.”

Shiryu annuì, incerto nel suo cuore. L’aveva avvertito anche lui quel cosmo latente strisciare verso il Santuario. Debole, ma carico di presagi funesti. Dei del cielo, fate che non sia pregò, alzando gli occhi ciechi alla costellazione del Dragone, che riverberò in muta risposta.

“Tornerai?” chiese alla fine, quando avvertì il cosmo di Sagitter intensificarsi e quel calore ardente lambirlo in un abbraccio. E dentro quel calore la prepotenza libera di Pegasus pulsare vivida. Era inutile: Seiya aveva accettato Sagitter, ma sarebbe sempre stata Pegasus la sua armatura.

“Guarda che non è facile liberarsi di me” gli rispose Seiya. “Non ci sono riusciti neanche gli Dei. Ne?

“Presuntuoso” Shiryu rise, liberando il suo cosmo per accompagnarlo ancora per un tratto di strada. Non sono di cristallo sembrò rimproverarlo bonariamente, frenando le proteste di Seiya. Eppure, in cuor suo sperò che fosse davvero così; che quell’arroganza infantile davvero fosse la garanzia che tutto sarebbe rimasto come sempre. Sei ingenuo si rimproverò, ma in quel momento volle crederci. Mentre Sagitter sfrecciava verso il cielo, lasciandosi alle spalle una promessa sorridente.

“Tornerò.”

 

 

 

 

 

 

 

1) Il dou li è il nome cinese del tipico cappello di paglia originario del sud-est asiatico, di forma conica e viene fissato mediante una stringa di tessuto che passa sotto il mento, spesso di seta; all'interno è presente un'altra fascia che non lo fa muovere sulla testa. Questo cappello viene usato essenzialmente come protezione dal sole e dalla pioggia, specialmente da chi lavora nei campi di riso.

 

2) Il cheongsam è il tradizionale abito femminile cinese, consistente in un unico pezzo, generalmente molto aderente, a maniche lunghe o corte. Segno distintivo del cheongsam è il colletto alto in stile coreano, abbottonato con alamari e bottoni che scendono in diagonale dalla base del collo fino all'ascella. La gonna può essere di lunghezza variabile ed è generalmente molto stretta e dotata di spacchi laterali molto profondi. I modelli tradizionali del cheongsam sono generalmente realizzati in seta in un colore unico, o a fantasie, ed a volte bordato in un colore differente da quello del resto dell'abito.[

 

3) Anissa, traslitterazione bizantina dell’epiteto greco antico anassa, significa signora ed è un epiteto spesso accostato, assieme a potnia, ad Atena e alle divinità guerriere in generale.

 

 

  
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