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Autore: Mish    23/11/2006    0 recensioni
Liberamente ispirato alle Avventure di Elric di Melniboné di M. Moorcock
Genere: Dark, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Con un bicchiere di brandy nella mano e la pipa stretta tra i denti, l’uomo sedeva davanti al camino. La rossa luce delle fiamme, che avvolgeva come un manto l’oscurità, si portava regolarmente sulle sue fattezze quasi aliene, mettendo in risalto ora gli zigomi sporgenti, ora il candore niveo della sua pelle, ora il rosso dei suoi occhi. La scienza moderna gli aveva affibbiato la definizione di albino: per un disturbo delle sue cellule era insolitamente debole, fragile di costituzione e suscettibile alla luce. La sua casa alle porte di Londra era da sempre la sua tana, la sua prigione, e allo stesso tempo la sua ragione di vita: un maniero immenso, proclamato tempo addietro monumento di stato, ultima vestigia della gloria e della nobiltà dei suoi avi. Anche se il titolo era rimasto nel suo nome, sir Alaric o’Burden non si sentiva affatto un baronetto, non più di quei musicisti che avevano ottenuto lo stesso titolo per la loro fama anni addietro. Costretto nelle mura della sua casa sin dalla tenera età, Alaric non aveva mai potuto godere dei privilegi dei suoi coetanei, né nell’infanzia né nell’adolescenza: troppo debole per giocare a football, troppo fragile per potersi cimentare nella corsa, troppo albino per tutto. Sapeva di non essere stato il solo della sua famiglia a sperimentare dette condizioni: troppe volte il sangue “maledetto” dall’albinismo aveva toccato suoi zii, bisnonni e parenti, tutti passati a miglior vita prima di poter generare una prole cui trasmettere forse la stesso maledizione. Spesso si soffermava a pensare, gli occhi rossi rivolti verso i quadri ad olio appesi ai muri logorati dal tempo, a tutti i suoi consanguinei dalla pelle chiara come l’osso, e si chiedeva se la scelta di andarsene senza avere eredi fosse stata dovuta a un’ennesima debolezza della loro carne o a una loro scelta, come per estinguere la parte albina degli o’Burden. O’Burden… un nome che già nelle sue poche lettere sottolineava il peso di quella condizione: il fardello dell’albinismo gravava sul suo corpo come la celebre spada di Damocle.

Mutilato nel corpo, Alaric aveva dato fondo alle sue capacità intellettive, concentrandosi il più possibile negli studi. Da solo aveva studiato la filosofia del mondo antico, del medioevo, e dei tempi recenti; da solo aveva studiato su infiniti libri le tragedie della storia, le innumerevoli battaglie che avevano marchiato di sangue il mondo; da solo aveva studiato, per puro interesse personale, il mondo dell’occultismo. La guerra civile nel suo paese, agli albori del ventunesimo secolo, aveva lasciato un marchio indelebile nel suo spirito: poteva ricordare l’angoscia di quei giorni, il timore di vedersi la casa invasa da chissà quali rivoluzionari guidati da chissà quale ideale, poteva ripetere nella sua mente le parole di tutti i telegiornali che la BBC trasmetteva. “Una guerra senza vincitori né vinti” l’avevano definita. Per Alaric era stata una tragedia immane, dal momento che fu proprio la guerra civile a portare via i suoi genitori, considerati “nemici” da chi si era nominato capo di stato dopo la fine della rivoluzione. Non aveva mai capito il perché di questo gesto, né aveva mai capito perché solo lui fosse stato risparmiato all’epurazione perorata da Francis Bacon, il nuovo Cancelliere di Stato. Non c’era più la monarchia, non c’era più un parlamento, niente House of Commons, solo una schiera di zeloti che nel nome di un “bene superiore” avevano imposto la legge di un uomo che, ironicamente, portava il nome di uno dei più grandi pensatori della storia. Da una decina d’anni il governo del nuovo Cancelliere aveva imposto il suo giogo sulla Gran Bretagna; da una decina d’anni a nessuno era più permesso di pensare al periodo antecedente alla guerra. Nel suo maniero, Alaric si struggeva ogni giorno, pensando a quanti approvassero realmente il nuovo governo – tanti, troppi, forse per timore, forse perché l’autarchia aveva reso più forte la Gran Bretagna, forse pervhè l’idealismo non andava più di moda.

Dopo l’ultima sbuffata di fumo e l’ultimo sorso di brandy, Alaric si alzò dalla sua poltrona, con malcelato sforzo. Per avere solo trent’anni, si sentiva un ottantenne. “Maledetto albinismo”, si ripeté nella mente, mentre scendeva lungo le scale che portavano al piano inferiore della sua casa: solo sottoterra, nei sotterranei della sua magione si sentiva realmente al sicuro. Il famigliare odore di muschio entrò nelle sue narici,ed Alaric lo assaporò, considerandolo come un suo amico fraterno. Passo dopo passo, appoggiandosi al corrimano, Alaric scese uno per volta i gradini della sua casa. Ad un certo punto, di fronte a lui comparve una strana, bizzarra creatura: una lepre, dal pelo bianchissimo, con gli occhi rossi come fiamme che lo scrutavano come se lo conoscessero da sempre. Alaric si fermò, convinto che la stanchezza, il brandy e le ore passate sui libri avessero definitivamente intaccato la sua ragione, e chiuse gli occhi per un istante, sperando di avere immaginato tutto. Quando li riaprì, la lepre stava allontanandosi, dritta verso un muro. Spinto dalla curiosità, Alaric la seguì di corsa, ansimando ad ogni passo, sentendosi stranamente simile a quella creatura. Una bestemmia gli scivolò fra le labbra quando vide la lepre saltare contro un altro muro – attraverso un altro muro. Le sue mani si appoggiarono alla parete, come se una parte della sua mente non potesse accettare di avere avuto un’illusione. Eppure niente, la parete di nuda roccia era reale come i gradini su cui aveva appena camminato, e il contatto con la fredda pietra suscitò in lui un misto di preoccupazione e sbigottimento. Possibile che avesse immaginato tutto? “Forse domani dovrò chiamare un medico”, penso tra sé e sé, mentre un sorriso beffardo spuntò sul suo volto. Con lo sguardo ancora rivolto a terra, Alaric riprese a scendere le scale. Ma quando rialzò i suoi occhi cremisi, vide l’inaspettato: un uomo, identico a lui, in tutto e per tutto. I suoi occhi avevano lo stesso colore della brace che aveva visto troppe volte nello specchio, la sua pelle aveva lo stesso candore delle nuvole, ma il suo abbigliamento era decisamente fuori luogo: un armatura, nera come la pece, e un elmo con un drago pronto al volo intagliato nel ferro. Al suo fianco, una spada nera più della notte, che sembrava quasi riempire l’aria col suo sussurro. Aveva letto nei racconti medievali di spade che avevano un loro canto… Pensò che l’illusione di prima stesse proseguendo e che anche il suo doppio fosse solo un parto della sua mente, creato ad arte sull’immagine di un sé medievaleggiante, guerriero in mille battaglie, forse persino esperto nella negromanzia. Alaric chiuse gli occhi anche stavolta.. e anche stavolta, l’essere bizzarro sembrava essere rimasto al suo posto. “È solo un sogno”, pensò. Ma in quell’istante, il suo gemello, con lo sguardo colmo della saggezza di mille anni, protese la mano verso il muro, premendo su una qualche pietra nascosta. Alle spalle di Alaric, una parte della parete di pietra si mosse, lasciando lo spazio sufficiente a infilare una mano. Senza una parola, il suo gemello indicò ad Alaric di infilare la mano nella fessura. Qualcosa di freddo, di antico, di senziente rispose al contatto della mano dell’albino. Con una forza inusitata, Alaric tirò fuori dall’incavo nella parete un oggetto. Una spada, avvolta in un feretro, che sembrava sussurrare qualcosa nella mente del nobile decaduto. Senza pensarci, Alaric estrasse la spada dal suo fodero. Rune rosse brillavano di una luce malevola sulla spada, identica in tutto e per tutto a quella che l’uomo in armatura aveva al suo fianco. Improvvisamente, Alaric comprese di non essere in un sogno; comprese che quella spada era vera, che la lepre che aveva visto, che il suo gemello in armatura erano reali, sebbene incredibili. Ma quando si girò, il suo gemello era scomparso, così come era venuto.

La spada gli mormorò il suo nome – Tetrafalce, un nome foriero di oscuri presagi, di dolore, di morte. Millenni di storia si riversarono come un torrente in piena nella mente di Alaric. L’intelligenza della spada gli stava raccontando di guerre combattute in altre dimensioni, di una razza decaduta, dell’esistenza di un multiverso composto da milioni di esseri identici diversi nel tempo e nello spazio. Alaric immaginò scontri di uomini in armatura, di cavalieri sulle spalle di rettili enormi, immaginò magie antiche, parole arcane in lingue che non conosceva ma che gli risultarono stranamente famigliari. Sollevò la spada al soffitto, sentendosi riempito da un’energia empia che cancellò tutti i suoi dolori, che gli fece dimenticare di essere albino, che lo rese forte anche senza dover ricorrere alle medicine che lo avevano sempre aiutato. E nell’atto di sollevare la spada, sentendo il suo acciaio cantare un’oscura canzone, un’ennesima frase ignota si formò nella sua mente, per liberarsi dalle sue labbra prima che lui potesse intenderne il senso.

“Arioch! Arioch! Sangue e anime per il mio signore Arioch!”


Da qualche parte nel multiverso, seduto sulla spiaggia vicino alla sua città, Elric di Melniboné, il principe albino, il signore dei draghi, il lupo bianco, quattrocentoventottesimo ed ultimo sovrano della ormai caduta Ymrryr, la Città Sognante, si lasciò scappare un sorriso, mentre la sua mano andava a cercare al suo fianco Tempestosa, la spada di cui era sia padrone che servo.

  
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