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Autore: Sybelle    30/04/2012    4 recensioni
"Tu sei diversa, vero? Ma in fondo sei uguale a me. Lo sai, lo sai di essere come me.
Abbiamo entrambi i piedi nel fango."
Uno scritto breve, uno squarcio, il racconto di una storia che poteva essere "per sempre felici e contenti" e che invece si è sciolta con la pioggia.
Poteva essere cielo ma è diventata fango.
Buona lettura,
Sybelle.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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nuvole e fango
Nuvole e fango

E forse è così che deve finire, sotto questa pioggia che pare fango e sopra questo fango che pare acqua.
E forse è così che ha sempre dovuto finire, tra la terra e il cielo, schiacciati da una volta celeste che celeste non è e da un prato che ora è palude. Io forse ti amavo.
 Lo sai? L’hai mai capito?
Ma certo che lo sai, tu capivi tutto di me: tu eri l’unica a soffermarsi su di me.
E credo che forse nessuno mi avesse mai guardato veramente, prima di te; neanche io mi ero mai veramente guardato. È sempre più facile tenere gli occhi chiusi.
Ma questo lo sai anche tu.
Io non credevo nell’amore... Non credevo nell’amore per me.
Beh, quando cresci in una stanza asettica con un nonno come il mio, come puoi anche solo sperarci? Non puoi, semplicemente.
Mia madre mi amò, mi amò davvero molto; ma io di quell’ardore ho un ricordo talmente vago...
Il mio corpo ne è rimasto marchiato nel profondo, ancora avverte il calore di quelle braccia bianche e morbide, è ancora inebriato da quel profumo soave e può ancora percepire il lieve tocco di lunghi e soffici capelli neri. I suoi baci sono rimasti sulle mie guance; lei non se ne è mai davvero andata.
Mi sforzo di crederlo.
E poi che altro dire? Mio padre mi ha abbandonato ed io sono rimasto solo. No, meglio: sono rimasto con mio nonno.
Sentirmi ripetere ogni giorno che ero solo un mostro, un rifiuto, un disgraziato...
Sentirmi rimproverare ogni giorno le mie ridicole debolezze.
E così sono cresciuto: in fretta, come piaceva a lui. Sono cresciuto perché per sopravvivere uno fa qualunque cosa, anche rinnegare tutto ciò che prova e rinunciare a tutto ciò che non ha mai provato. Ci si adegua, ci si soffoca.
Tu sei diversa, vero? Ma in fondo sei uguale a me. Lo sai, lo sai di essere come me.
Abbiamo entrambi i piedi nel fango.
Io non volevo conoscerti: non mi interessava affatto parlare con te, discutere con te, cercare di capire te, proprio te. Ma eri così stupenda e libera...!
Ma cos’è la libertà?
È per caso fare ciò che si vuole? Essere chi si vuole? Vivere come si vuole?
Io volevo essere libero, lo volevo davvero: e guardami ora. Sono libero, sì. Provo a ripeterlo masticando ogni lettera, prima di sputarla: s o n o  l i b e r o.
Doveva finire così, no? Dimmi che era l’unica scelta giusta.
Ma cos’è giusto? Essere liberi è giusto?
Tu eri libera; e ora? Quando salirai in groppa al tuo cavallo, la luce ti investirà e quasi supererai il vento, ti sentirai libera come ti sentivi una volta?
Mancherà qualcosa, lo sai.
Questo mondo non è adatto a gente come noi: siamo troppo intelligenti per essere felici. Noi non ci accontentiamo, non lo faremo mai. Sapremo sempre che esiste qualcosa di meglio e ci distruggeremo per ottenerlo.
Tu eri il mio meglio, lo sai? Ma certo che lo sai.
Ed io ero il tuo? Se davvero lo ero, perché abbassi lo sguardo ed affondi gli stivali nella terra bagnata?

Io di te non ricordavo neanche il nome; eri la ragazza bionda che stava nella scuderia, per me; eri quella che ogni tanto addestrava i rapaci e che ogni tanto partecipava alle gare ippiche.
Poi sei diventata la ragazza bionda dell’est, quella che alle volte montava a cavallo e si dedicava alla falconeria da lì; in seguito, sei diventata la moldava, quella che viveva lì in Francia ormai da anni e che era un’esperta degli animali dell’allevamento.
Vivevi da mia nonna: pensa un po’ quale circostanza, che io avessi proprio una nonna francese che, dopo il divorzio da mio nonno, era tornata in patria ad allevare animali in campagna! E che circostanza che tu, orfana e straniera, fossi capitata proprio lì.
Ed io, poi, che volevo soltanto essere di passaggio e rimanere non più di qualche settimana...
Ma ho prolungato la mia permanenza, perché tutti insistevano e mi volevano lì, senza alcuna malizia: anche tu insistevi.
Il tuo nome era Madalina, lo ricordai alla fine. Improvvisamente non fosti più la ragazza bionda; diventasti Madalina che si arrampica sugli alberi, Madalina che spezzetta quaglie, pulcini e conigli e li dà nel becco alle aquile senza alcun disgusto. Madalina che quando sorride i denti dell’arcata superiore sporgono più in avanti. Madalina con le mani piene di graffi e le unghie cortissime. Madalina con gli occhi troppo blu e la pelle sempre leggermente abbronzata.
Madalina che non può stare senza il suo cavallo neanche per due giorni.
E non lo so, mi piacesti. Mi piacesti perché non avevi paura di ciò che era sporco e brutto; tu non avresti mai avuto paura di me.
Mi sorridesti ed il sole splendette un po’ di più.
Ora piove: è così che finirà? Sembra di sì. I cavalli scalpitano nella stalla, nitriscono e sbuffano; lo sanno anche loro che non è normale che la pioggia sembri terra.
Te ne ricordi, vero? Ricordi quella corsa sfrenata sotto l’acqua? Ricordi che ci abbracciammo? Ricordi che le nostre fronti si sfiorarono?
Sì, te ne ricordi: sennò la pioggia ora non ti ferirebbe a tal punto.
Non guardarmi così.
Parlando, scoprimmo di avere molte cose in comune: a entrambi piacevano le lucciole, perché sono brutte ma brillano; ci piacevano gli animali, perché li capivamo; ci piacevamo noi, perché i nostri occhi si specchiavano a perfezione tra loro.
E poi tu eri l’unica che mi trattava come avrei sempre voluto essere trattato: come uno che capita nel mondo per caso, che non ha un passato e non ha nessuna ferita nella valigia. Uno che potrebbe essere chiunque o che potrebbe essere speciale, ma che in realtà è solo uno di tanti.
Mi piaceva essere il tuo uno dei tanti.
Sentirsi normale, poter camminare in mezzo alle persone con la consapevolezza che, in fondo, si è tutti uguali; con la consapevolezza che forse i mostri non esistono per davvero, se anche uno come me poteva essere amato.
L’aria si fa stretta: sto respirando? Non ne sono tanto sicuro. Questa acqua sporca mi sta rubando l’ossigeno, è una ladra: ladra di bei momenti, ladra di bei sentimenti.
Se oggi ci fosse stato il sole sarebbe stato diverso? Ci saremmo sorrisi e ci saremmo detti “ciao”?

Eri bella, per me. Per gli altri forse no, forse per loro quel tuo corpo così magro e quei tuoi denti un po’ sporgenti, quel tuo viso deciso e quel carattere forte non erano abbastanza femminili o affascinanti.
Io invece non mi sentivo del tutto a mio agio: sei sempre stata sicura del fatto che ti meritassi?
Anche se ho questi capelli strani e questi occhi cupi? Anche se sono pallido e scontroso, odio parlare e divento violento facilmente? Anche se l’orgoglio mi brucia le viscere e l’ambizione mi acceca?
Anche se sono un... mostro?
Sì, tu eri sicura.
E quasi mi pento di essere arrivato a questo punto: se ti urlassi forte che ti amo, che ti amo e ti amo e ti amo, tu correresti verso di me e mi salteresti addosso, aggrappandoti alle mie spalle, come una volta?
Io ti afferrerei, lo sai. Ma certo che lo sai.
Eri in gamba, lo eri davvero: ti osservavo e non mi capacitavo; mi chiedevo come potesse essere così felice una persona che non ha niente, né una famiglia né delle origini. Una persona in un paese straniero, in una famiglia straniera con una cultura diversa ed un passato ben più ricco.
Tu eri come me ed eri felice. Io ero come te ed ero triste.
Lo sai, no, avere quell’assurda e perforante sensazione di essere completamente soli anche in una stanza piena di persone che conosci? Capire che qualunque cosa tu faccia, qualunque cosa tu dica, non sarà mai quello che vuoi veramente. Comprendere che il te che si muove e che parla non è il te che vive nel tuo corpo.
E soffrire, soffrire atrocemente per quest’eterna condizione di estraneità ed alienazione! Essere alieni sul proprio pianeta, estranei tra i propri amici.
Non avere neanche un appiglio.
Credere allora che lo sport sia la soluzione, ma non vincere mai; e vivere, sudare, respirare solo per raggiungere quel dannato obbiettivo, quell’unica vittoria, almeno per una volta, e non raggiungerla mai, perché c’è sempre qualcuno che distrugge i tuoi sforzi e ti rigetta nel baratro!
Lo sai, no, sentirsi orgogliosi di qualcosa ma non avere nessuno intorno a complimentarsi con te. Ma certo che lo sai.
Poi sei arrivata tu. Sei arrivata e mi hai detto che ero davvero un grande atleta, che ero io il più forte, senza alcun dubbio; sei venuta da me e mi hai detto che secondo te ero davvero una bella persona.
Mi hai stretto la mano e mi hai detto che eri davvero orgogliosa di me. Che eri fiera di me.
Perché tu ti interessavi davvero a me, non lo facevi solo per noia: ti preoccupavi, ti importava; mi facevi tante domande e poi altre ancora. Io molte volte non ti rispondevo, allora facevi in modo di arrivarci da sola.
E poi mi lusingavi, dicendomi che io potevo vantare talenti che tu neanche ti sognavi: anche tu ti sentivi sola pure nelle stanze più affollate, anche tu ti sentivi sempre così insignificante.
Allora toccava a me consolarti, ma io con le parole non sono bravo: così ti baciavo, anche se ancora non stavamo neanche insieme; ma andava bene così, era normale. Quindi ti baciavo e ti stringevo a me, perché mi sembrava la cosa più naturale: perché era così che mi piaceva trattarti. E poi dopo ogni bacio tu sorridevi, tanto che a volte veniva voglia di sorridere anche a me.
E ancora mi ostinavo a dire che non era amore: a me l’amore non sarebbe mai capitato, ne ero convinto.
Lo iniziai a sperare, almeno. Perché legarmi per davvero a te sarebbe stata la mia fine.
Se ora ti urlassi di rientrare in casa, lo faresti senza esitazioni? Penseresti che in effetti stare sotto a questa pioggia è stupido e correresti al riparo? Mi dimenticheresti con la facilità con cui un bambino dimentica una caduta a terra, o un capriccio? E se io, invece che salire in macchina, venissi a coprirti col cappotto? Anche in quel caso sarebbe impossibile sorridermi?
Temevo che stare con te avrebbe compromesso la mia libertà: non volevo affezionarmi a quel posto e a quelle persone, perché in me c’è l’anima del vagabondo; ma non riuscii a resisterti.
Eri la donna giusta per me. Lo sai questo? Eri la donna che avrei desiderato vedere affianco a me nel letto ogni mattino della mia vita; e ti avrei accarezzato una guancia ed ogni futuro risveglio felice mi avrebbe fatto dimenticare un risveglio triste passato.
Ma si vede che doveva finire così, mentre i capelli si appiccicano alla fronte e la visuale diventa sempre meno chiara: sei più vicina o più lontana adesso?

Mi insegnasti a cavalcare, o almeno ci provasti: ma non ne ero capace, non quanto te; così mi dedicai anche io ai falchi, ai gufi ed alle aquile. E lì me la cavavo decisamente meglio.  Mi spiegasti come comportarmi con gli allocchi, come con i barbagianni, come con le aquile e come con i gufi; mi illustrasti poi la differenza tra falchi e poiane, svelandomi che queste ultime erano gli unici rapaci in grado di riconoscere le persone e di scegliere da chi andare.
E le poiane mi scelsero: le chiamai e vennero da me, una dopo l’altra. Tu mi dicesti: “Incredibile!”
Il tuo mondo mi aveva accolto, avvolto in un abbraccio di aria tiepida; il mio mondo assunse dei confini, finiva là dove iniziava il tuo sorriso. Finiva là dove mi carezzavano le tue mani.
Ma io non avevo mai voluto dei confini. Io volevo essere libero; libero di essere me stesso sia nei momenti di felicità sia nei momenti di dolore, di essere me stesso nella noia e nell’euforia, in qualunque paese ed in qualunque momento; volevo essere un eremita errabondo, da solo ma immerso nella gente.
Non avevo mai progettato di legarmi a qualcuno, né tantomeno di adeguare i miei ritmi e i miei umori a quella persona: non pensavo che ci sarebbero stati orari precisi da rispettare, o incombenze, o doveri, o responsabilità. A che ora dovrò svegliarmi? Cosa dovrò fare? Con chi dovrò relazionarmi?
Queste erano domande che non avrei mai voluto dovermi porre.
Io volevo essere libero.
Decisi di fidanzarmi con te perché anche tu volevi essere libera: mi dissi che insieme avremmo superato tutti quei limiti. Ma tu... tu eri troppo legata a ciò che ci circondava: troppo alla casa, troppo a mia nonna, troppo agli amici e agli animali.
Se ti dicessi che mi dispiace, che avevi ragione su tutto e che sto facendo l’errore più grande di tutta la mia vita, mi perdoneresti? Se ti dicessi che sono pronto a cambiare, mi crederesti?
No, io non posso cambiare. Lo sai, purtroppo lo sai.
Io ti amo.
Madalina, io ti amo. Sei l’unica persona che potrei scegliere. Lo sai.
E amo questa casa. Amo queste persone, questi amici, mia nonna. Amo tutti i nostri animali.
Io vi amo tutti.
Ma non posso cambiare: forse non lo sapevate; forse avreste preferito non saperlo. Io ci ho provato, lo dirai tu agli altri? “Lui c’ha provato.”
Lo dirai, so che lo dirai; e sorriderai, i denti sporgeranno un po’ in fuori e forse ti scapperà qualche lacrima.
Tremerai tutta e inizierai a piangere, perché anche tu, forse, mi ami.
Mi ami, Madalina?

Iniziai a chiamarti Mad, perché “mad” in inglese vuol dire matta. E tu eri proprio tutta matta: ti divertivi a sporcarti, a farti male cadendo dagli alberi, a pulire la sporcizia dei tuoi adorati animali. Ti divertivi a correre nei campi, ad aiutare in casa.
E ridevi sempre, ridevi tantissimo...! La ragazza più furba e dispettosa di questo mondo, senza dubbio.
E per uno triste e serio come me era davvero una gran cosa...
Imparare a ridere, grazie a te. Capire che la mia vita poteva offrirmi di più, grazie a te.
...
Ero felice?
Ero felice, sì. Lo ero moltissimo.
E tu? Sono riuscito a renderti felice? Nonostante i miei difetti, i miei malumori, il mio essere talmente in contrasto con me stesso da litigare per qualunque sciocchezza, il mio non essere in grado di darti il meglio, di essere semplicemente ciò che sono...
Nonostante ogni giorno ti ripetessi che volevo assolutamente andarmene, che il mio unico sogno era poter viaggiare in eterno e non fermarmi mai; ti facevo soffrire dicendolo, lo so. Ma non potevo mentire a me stesso, non potevo reprimere ciò che ero: così mi sfogavo su di te, sperando che tu potessi sacrificare tutto per seguirmi. Sono stato egoista e insensibile, ma era davvero il mio più grande desiderio.
Sono riuscito a farti capire che per me sei importante? Tanto importante che ora vorrei solamente piangere.
Se ti gridassi: “Ehi Mad, ho cambiato idea! Rimarrò qui! Presto, rientriamo, domani sarà una giornata lunga!”
Ecco, se te lo urlassi con tutto il fiato che ho in corpo, tu mi prenderesti per mano e mi porteresti al coperto?
Se ti dicessi che tutto ciò che ci siamo detti non ha più alcun significato, se ti dicessi che la libertà è stare con te, solo con te, sotto al sole, nel letto, in campagna, a tavola... Tu mi risponderesti che per te è lo stesso?
Non lo so, purtroppo non lo so. Ci siamo urlati addosso talmente tanta rabbia, negli ultimi tempi. Ci siamo riempiti di talmente tanta melma. Ferendoci per non ricordarci di noi.
Questo fango mi taglia, mi brucia, mi inghiotte; la macchina mi sta aspettando.
Tu sei fradicia, bagnata come certe attrici che, sotto alla pioggia, quando recitano la scena clou, sanno che tutto si concluderà solo quando potranno baciare l’altro attore. Ma tu non mi bacerai.
“Siamo troppo diversi.”
L’hai detto tu, lo sai.
“Cerchiamo qualcosa che non possiamo trovare insieme. Io voglio sentirmi libera di rimanere qua senza rimpianti; tu no, tu vuoi viaggiare. Lo sapevamo che non sarebbe durato.”
Certo, lo sapevamo.
E’ la vita che ci siamo scelti, vero? Tu qui ed io dovunque, purché non sia sempre lo stesso posto.
Tu hai scelto di fare solo questo lavoro, di avere solo questa casa, di innamorarti solo di qualcuno che rimanga al tuo fianco. Io... io pensavo di volere qualunque altra cosa che non fosse questa.
Ma ora, mentre salgo in macchina, mentre ti vedo cadere in ginocchio e scioglierti in singhiozzi, sempre più lontana, sempre più, mentre la pioggia si infittisce e la strada svolta per sempre, separandomi definitivamente dai due anni di unica vera vita che io abbia mai vissuto...
... Abbiamo sbagliato tutto, Mad. Per orgoglio, per paura, per chissà quale altro stupido motivo.
Lo so che è così, ora lo so. E tu? Lo sai?
Purtroppo lo sai.

Fine



Ringrazio chiunque leggerà e chiunque avrà voglia di spendere due minuti per darmi una sua opinione.
Ringrazio chi si immedesimerà e chi dirà: “Ma perché doveva finire proprio così?”
Ringrazio la mia sorellona che ha letto prima di tutti e che prima di tutti mi ha detto: “Voglio vederla finita!”
Ringrazio la mia sorellona per avermi fatto decidere di trasformarla in un’originale.
E ringrazio Negramaro e Jovanotti per aver creato una canzone meravigliosa quale è “Cade la pioggia”.

Sybelle
   
 
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