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Autore: Nezu    01/05/2012    0 recensioni
[Archy/Johnny] Ambientato prima del film, durante l'adolescenza di Johnny, alle prese con le prime droghe, con il rapporto conflittuale con Lenny e soprattutto con la sua cotta apparentemente non ricambiata per Archy. E sarà proprio Archy a fare di tutto per scoprire che fine ha fatto il ragazzo negli anni successivi alla sua fuga da casa.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Avvertimenti: slash, language, underage & one-sided (accenno), drugs, maltrattamento minori (accenno)
Note: Questa storia ha partecipato all'edizione 2011 di Big Bang Italia
Gifter: [info]faechan
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Il crackhead

 

Le vacanze invernali erano il periodo peggiore di tutto l’anno per Johnny: la chiusura delle scuole, anche se solo per pochi giorni, lo costringeva ad una periodica convivenza forzata con Lenny. Era difficile capire chi dei due fosse più dispiaciuto per la situazione, di certo l’uomo manifestava il suo disappunto in maniera più plateale, con scenate in pubblico, urla, imprecazioni, insulti e, più spesso di quanto in realtà non fosse necessario, sferzate di cinghia e manrovesci.

D’altro canto non si poteva certo dire che il piccolo Johnny si dimostrasse disposto a guadagnarsi la fiducia del patrigno e tenere una buona condotta. Le fughe notturne furono il primo passo verso la ribellione, un modo anche per tenere una certa distanza di sicurezza tra lui e l’uomo che lo odiava così tanto; poi vennero i furti, qualche oggetto di poco valore rubato al supermercato o a negozietti di chincaglierie: la refurtiva veniva accumulata durante tutto il periodo delle vacanze per essere poi rivenduta ai suoi compagni quando rientrava a scuola.

In quel modo, pian pianino ma con costanza, il ragazzino si era creato il suo gruzzolo, tenuto gelosamente nascosto tra le assi del suo letto, non perché ci tenesse più di tanto a quel denaro, ma perché sapeva che se Lenny l’avesse scoperto gliel’avrebbe confiscato subito; la sua mente non voleva neanche pensare a cosa poteva fare quel mostriciattolo con dei dollari in tasca.

Ed effettivamente quello che Johnny fece all’età di quattordici anni con quei soldi non gli piacque affatto.

Fu proprio durante le odiate vacanze invernali, con il vento carico di neve che sferzava impietoso la finestra della camera del ragazzo: questo non gli impedì di attuare il suo piano.

Era più che consapevole che uscire dalla porta principale sarebbe stato impossibile (era stato il suo primo tentativo, anni prima, ed era finito prima ancora che cominciasse, con uno dei gorilla di suo padre che lo trascinava con un certo riguardo per le scale, il suo braccio in una morsa d’acciaio), dunque l’unica opzione era la finestra stessa.

Indossò la felpa più pesante che trovò nel suo armadio, per fortuna suo padre non s’interessava troppo dei suoi abiti e gli era permesso di comprarsi quello che gli piaceva, tirò fuori i soldi dal nascondiglio e li infilò con cura nella tasca dei jeans; facendo ben attenzione a non fare troppo rumore vista l’ora tarda si avvicinò alla finestra e la spalancò.

Una folata di vento lo investì in pieno, facendolo rabbrividire e riempiendogli i capelli di fiocchi di neve; tirò fuori la lingua per catturarne un paio e si sporse dal davanzale: era al secondo piano, una decina o poco meno di metri lo separavano dal giardino.

Fortunatamente suo padre non aveva mai amato gli animali, ad eccezion fatta dei suoi gamberi killer, ma quelli non contavano, e non c’erano cani da guardia pronti ad abbaiare o tentare di dilaniare il suo corpicino tutto ossa e muscoli. Rifletté se fosse il caso di riprovare con il trucco delle lenzuola annodate per calarsi fin giù, ma dopo l’ultima volta Lenny aveva preso precauzioni, facendo in modo che non ci fossero ricambi di lenzuola alla sua portata.

Peccato che non avesse calcolato che la grata che sosteneva una pianta rampicante passava proprio accanto alla finestra del ragazzo e pareva abbastanza robusta da riuscire a reggere il suo peso; senza pensarci più di tanto Johnny si sporse in avanti e si aggrappò con una mano al sostegno. Tirò un poco per verificare che andasse bene e poi si appoggiò completamente alla grata, allungando una mano per accostare un po’ le ante della finestra, perché la sua fuga non fosse così evidente.

Scese in fretta, considerando che, se doveva cadere, tanto valeva essere più vicino possibile al terreno, ma il suo piano funzionò e toccò terra pochi secondi dopo, incolume.

Con un ghigno stampato in faccia sgattaiolò nell’ombra e scavalcò il cancello della residenza, mettendosi a correre a più non posso appena fu sul marciapiede; il suo buonumore aumentava ad ogni passo, consapevole di essere sempre più distante da quella casa da incubo e dal suo aguzzino personale.

Fece in modo di disperdere le proprie orme sulla neve mischiandole a quelle degli altri passanti e si diresse verso i bassifondi, le mani in tasca e il viso rosso per il freddo.

Aveva avuto modo di conoscere la zona nelle sue precedenti “escursioni” e quindi non gli ci volle molto per individuare il suo obbiettivo, un uomo magro all’angolo di una stradina, il volto scavato e gli occhi infossati come se la pelle tirasse sulle orbite e gli zigomi.

Lavorava per Cookie, gliel’aveva detto un barbone qualche mese prima, e questo poteva voler dire soltanto una cosa: quel tipo aveva ciò che Johnny cercava.

Gli si avvicinò senza guardarsi attorno, con passo deciso; quando se ne accorse l’uomo alzò lo sguardo su di lui e sbuffò scocciato.

< Gira al largo, ragazzino. Qui sto lavorando.> borbottò nascondendosi meglio nell’ombra.

< Lo so. – replicò il piccoletto – Sono qui per questo.>

Gli occhi dello spacciatore, fino a quel momento vacui e spenti, scintillarono di curiosità e di qualcos’altro che Johnny riconobbe come incredulità.

< Non dire idiozie, moccioso. Sai ancora di latte, ti conviene smammare.> cominciò, ma alla vista dei soldi che il ragazzo gli porgeva si interruppe.

< Posso pagare, come vedi.>

Se aveva altre obiezioni di coscienza da fare le ricacciò in fondo alla gola, perché gli vendette senza esitare qualche grammo di roba, poca cosa, ma tutto aveva un suo prezzo e lui non faceva sconti per i minorenni.

Ad ogni modo cinque minuti dopo Johnny vagava per le strade alla ricerca di un posto riparato dove potersi godere il proprio acquisto.

 

Il primo pensiero che attraversò la mente di Archy quando venne svegliato dal suo cellulare che squillava fu che Lenny era furioso e questo voleva dire semplicemente guai. Guai per Archy stesso, che avrebbe dovuto sbrogliarli.

Afferrò il telefonino e gettò un’occhiata alla sveglia, reprimendo un’imprecazione: erano le tre di notte.

< Archy.> borbottò con voce arrochita senza alzarsi dal letto.

< Archy! – la voce che gli urlò nelle orecchie lo rintronò, un principio di emicrania imminente – Quel bastardello è scappato! C’è una mina vagante che gira in città e quando esploderà sarà merda per me!>

Il braccio destro di Lenny represse uno sbadiglio e si mise seduto, strofinandosi gli occhi con la mano libera.

< Come ha fatto a scappare?>

< Dalla finestra! Quella piccola serpe si è calata lungo la pianta rampicante! Cristo, quel moccioso mi farà impazzire di questo passo!>

“Farà diventar matto anche me, se continua con questo andazzo” pensò l’uomo alzandosi e cercando a tentoni i propri vestiti.

< Esco per cercarlo.> disse con voce ferma, finalmente sveglio, ma Lenny continuava a gridare come un fiume in piena.

< Sì, bravo, esci! Riportami quel piccolo ingrato, gliela faccio passare io la voglia di calarsi dalla finestra! Dalla finestra, ti rendi conto, Archy? Porca puttana, era la volta che volava giù dal secondo piano e si sfracellava al suolo!>

Senza aggiungere altro il gangster chiuse la chiamata e si rivestì in fretta, consapevole che ogni secondo che passava aumentavano le possibilità che quel disastro ambulante avesse dato fuoco a qualcosa.

Quando uscì si strinse di più nel cappotto, il freddo che gli gelava le ossa: si chiese dove potesse essere finito Johnny con quel clima polare. Era notte fonda ed era poco raccomandabile passare al setaccio tutta la città, non avrebbe finito prima di ventiquattr’ore e lui aveva tutte le intenzioni di riportare a casa il ragazzino e tornarsene a letto per la sua sacrosanta dormita.

Deciso a chiudere quell’affare il prima possibile, appena entrato in macchina tirò fuori il cellulare e chiamò l’unico uomo che sapeva in tempo reale qualsiasi cosa fosse successa a Londra, dalla foglia caduta sul marciapiede all’omicidio dietro l’angolo: lo Strizza per sua fortuna non lo fece attendere molto.

< Pronto?>

< Strizza, sono Archy.>

< Archy! Cosa posso fare per te?>

Esitò per un istante, indeciso se rivelare tutto al segugio o mantenere un po’ di discrezione, ma alla fine si rese conto che, con ogni probabilità, non c’era niente da rivelare che lo Strizza non sapesse già.

< Sto cercando Johnny, il figliastro di Lenny Cole. Sai dove si trova?>

Sentì mugugnare qualcosa dall’altra parte e attese, impaziente di ottenere una risposta.

< Da quanto ne so… – disse lentamente il pozzo d’informazioni – meno di un quarto d’ora fa si aggirava nel pressi dello Speeler. Se fossi in te guarderei lì.>

< Perfetto. Ti farò avere i soldi domani mattina.>

< Non c’è fretta, Archy, non c’è fretta.>

“Vicino allo Speeler” rifletté lui mentre chiudeva la chiamata e metteva in moto l’auto. Uno dei posti peggiori dove il ragazzino poteva cacciarsi, i bassifondi più bassi di tutta Londra.

Arrivò lì guidando come un pazzo, temeva di perdere l’unica pista che aveva; una volta davanti al locale smontò, affondando nella neve fino alle caviglie.

Borbottando imprecazioni contro Johnny, e un po’ anche contro Lenny e la sua dannata mania di svegliarlo nel pieno della notte, cominciò a cercare in ogni angolo, ogni fottuto vicoletto secondario, ogni anfratto, ogni riparo, ma del moccioso neanche l’ombra.

Se non l’avesse conosciuto da quando era alto meno di un metro avrebbe iniziato a preoccuparsi per la sua vita, la città era un covo di violenza, bastava un attimo per far sparire uno spudorato quattordicenne dalla vista e non farne più trovare il corpo; peccato che conoscesse Johnny da una vita, come avrebbe detto Lenny quella piccola vipera non poteva morire, doveva restare in vita per il solo gusto di torturare onesti uomini d’affari come lui.

Finalmente, quando ormai Archy poteva sentire le proprie dita staccarsi per il freddo, lo vide in lontananza, addossato ad una scala d’emergenza di un locale, abbastanza riparato da non essere coperto di neve, ma comunque esposto alle intemperie.

Si preparò ad un inseguimento all’ultimo respiro come già ne erano capitati in precedenza, ma con sua grande sorpresa il ragazzo non voltò neanche la testa per guardarlo quando gli si avvicinò piano.

< Johnny-boy?>

Ancora nessuna risposta, né movimento né altro. Ora si che cominciava a preoccuparsi, eppure era di certo sveglio, aveva gli occhi aperti e, Cristo, respirava, era cosciente, non stava male.

Si chinò davanti a lui per portarsi al suo stesso livello e lo fissò negli occhi: erano vacui e trasognati, lo fissavano senza vederlo realmente. Non ci volle molto per fare due più due.

< Cristo… Che cazzo hai fatto, ragazzino?!>

Un sorriso ebete apparve sulle labbra del mocciosetto.

< Ah, sei tu, zio Archy? Sei così strano…>

Se non avesse saputo che se ne sarebbe occupato molto volentieri Lenny più tardi, l’avrebbe picchiato; lo sollevò di peso per un braccio cercando di farlo stare in piedi, ma quello barcollò fino a riaccasciarsi per terra.

< Che cazzo hai preso, Johnny?> chiese nuovamente, ma ciò che ottenne fu solo una risatina spenta.

Ingoiando altre imprecazioni e parole poco piacevoli si guardò attorno con circospezione, poi si concentrò nuovamente sul ragazzino ai suoi piedi, sospirando: non aveva scelta.

Lo afferrò con entrambe le mani e lo prese di peso, trasportandolo fino alla macchina; il ragazzino non sprecò l’occasione di strofinare la guancia sul petto di Archy e avrebbe cercato di nascondersi anche nell’incavo del suo collo se l’uomo non l’avesse scaricato malamente sul sedile anteriore, allacciandogli in fretta la cintura e sbattendo la porta con rabbia.

Montò in macchina e si affrettò a bloccare le porte prima che al moccioso potesse venire l’insana idea di gettarsi fuori dall’auto in corsa; voleva sapere come si era procurato la roba, chi gliel’avesse venduta, ma si rendeva conto che sottoporre Johnny ad un interrogatorio non avrebbe portato alcun frutto, men che meno nelle condizioni in cui versava.

Mentre era impegnato a guidare gli gettò un’occhiata di sfuggita, il piccolo stava ancora ridacchiando tra sé e sé.

< Cosa c’è di tanto divertente?> chiese giusto per tenerlo occupato, in modo che non potesse architettare un nuovo, distruttivo piano.

L’altro continuò a ridacchiare, ma un movimento improvviso della mano ed un eloquente “click” gli fecero capire che si era slacciato la cintura.

< Rimettiti la cintura, Johnny.> ordinò senza staccare gli occhi dalla strada.

< Uhm, non ne ho voglia.>

Prima che potesse minacciarlo di dargli una sberla, una di quelle che non avrebbe dimenticato facilmente, il ragazzino non era più sul suo sedile, ma stava cercando di salirgli sulle ginocchia superando con qualche difficoltà la leva del cambio e il freno a mano.

Preso in contropiede Archy tentò d’inchiodare, ma la macchina slittò di qualche metro su un lastrone di ghiaccio costringendolo a tenere il piede sull’acceleratore e guidare mentre il moccioso, chiaramente incapace di intendere e di volere, si sistemava meglio sulle sue gambe, strusciando la guancia sulla sua camicia.

< Johnny…>

Il ringhio che uscì dalla sua gola non era da lui, ma era convinto che chiunque altro non sarebbe stato pronto ad una situazione del genere; allungò una mano per afferrare il ragazzo per la collottola e sbatterlo al suo posto, ma quello si avvinghiò con le unghie, dimenandosi per evitare la presa.

“Dannazione” si disse riuscendo per un pelo a non andare fuori strada con quel diavolo che gli si agitava addosso.

< Cristo, Johnny, sta fermo!>

Il ragazzo incredibilmente ubbidì, ma Archy non era sicuro se fosse stato per il suo ordine o perché aveva smesso di cercare di afferrarlo. Per grazia divina erano finalmente arrivati davanti alla casa di Lenny, alla cui vista però il quattordicenne non reagì affatto bene.

Artigliando la giacca dell’uomo sotto di lui ficcò il viso nell’incavo del collo e si rifiutò di collaborare quando il gangster gli intimò di uscire dalla macchina; l’uomo poteva sentire il fiato caldo sulla pelle che articolava parole apparentemente senza senso, ma quando tese l’orecchio si accorse che suonava più o meno tutte come “non portarmi là, ti prego, non portarmi là”.

Se non fosse stato veramente fedele a Lenny Cole in quell’esatto istante avrebbe rimesso in moto la macchina e cercato un alloggio alternativo per quella povera anima in pena, ma la sua lealtà andava a quell’uomo e a nessun’altro. Però un po’ di pietà per quello che era poco più di un bambino ai suoi occhi la provò: sapeva – sarebbe stato da stupidi negarlo – che Lenny come padre era decisamente un disastro, bé, forse non solo come padre… in poche parole non era un asso nei rapporti umani, al di là di quelli di lavoro in cui si dimostrava un adulatore lecchino come pochi.

Ma per il resto del tempo era effettivamente un uomo complicato, difficile, e di certo non era in grado di trattare con i bambini senza ricorrere alla sua cintura.

Aveva appena deciso di attendere che Johnny-boy si calmasse prima di portarlo dentro in casa quando ecco che il piccoletto ricominciò a muoversi, ma non come pochi minuti prima.

Il corpo di Archy si fece di ghiaccio quando si rese conto che il ragazzino si stava strusciando contro di lui.

< Archy…>

A quel mugolio qualcosa nella testa dell’uomo scatto e con un gesto improvviso afferrò il più giovane per i capelli scostandolo da sé con forza, mandandolo a sbattere contro il volante. Un colpo breve di clacson risuonò nell’aria.

Johnny avrebbe voluto dire qualcosa, magari una frase intelligente che gli permettesse di non essere scaraventato fuori dalla macchina: voleva restare ancora un po’ vicino al cane di suo padre, come lo chiamava per scherno ogni tanto, ma dal volto furente di quest’ultimo capì che le sue speranze erano vane.

< Non farlo mai più.> scandì l’uomo, la voce come un sibilo che sferzava l’aria.

Avrebbe davvero voluto picchiarlo, specie per quel dannato ghigno saputello che gli era apparso sulle labbra e, Cristo, non voleva continuare a fissarlo, voleva solo ignorare il fatto che era ancora sulle sue ginocchia, le gambe aperte in una posizione oscena e quel fottuto scintillio negli occhi…

Prima che la situazione potesse degenerare, perché con Johnny lì accanto non poteva che accadere, smontò dalla macchina trascinando con sé il ragazzo, ben attento a non allentare la stretta sul suo braccio.

Mai il giardino della villetta di Lenny gli era sembrato così grande, mai il sentiero da percorrere così lungo; nessuno dei due disse una parola, ma c’era ancora tensione tra di loro, molta più di quanto Archy era disposto a sopportare.

Fu un sollievo poter scaricare il ragazzino nelle mani di un Danny molto assonnato, con l’ordine di portare quel flagello di Dio dritto dritto da suo padre. Una vocina nella sua testa gli disse che Lenny avrebbe preferito che glielo portasse Archy di persona, ma l’idea di sopportare padre e figlio contemporaneamente (e soprattutto dover ascoltare nuovamente gli insulti e le grida di Cole) gli era insostenibile.

Girò sui tacchi e fece per andarsene, gettando un’ultima occhiata verso la porta d’ingresso.

L’ultima cosa che vide prima che questa si chiudesse fu lo sguardo di Johnny, ancora annebbiato per la droga, terrorizzato all’idea della punizione che lo attendeva, esultante ed eccitato per la scarica di adrenalina.

Ad Archy non restò che imprecare sottovoce e tornarsene finalmente a letto.

 

Quella fu la punizione più lunga che il piccolo Johnny avesse mai ricevuto: confinato nella sua stanza fino alla fine delle vacanze. Probabilmente il signor Cole avrebbe voluto tenerlo rinchiuso anche per più tempo, ma poi aveva riflettuto sul fatto che era meglio che quella peste se ne stesse a scuola piuttosto che in casa sua, dove avrebbe potuto architettare, riflettere e tentare di mettere in atto i suoi piani distruttivi.

Così il ragazzo passò le successive giornate tra le quattro pareti di camera sua, la finestra sigillata e con le sbarre all’esterno, l’unica sua distrazione era lo stereo che teneva a tutto volume, guadagnandosi spesso diverso frustate di cinghia.

Il giorno dopo la sua ultima bravata udì la voce di Archy fuori dalla sua porta e si mise ad origliare: stava parlando con Lenny e, da quanto poté capire, pareva che l’uomo che gli aveva venduto la roba, lo spacciatore dagli occhi infossati, ora giacesse sul fondo del Tamigi con delle belle scarpe di cemento a tenergli compagnia.

Non si sentì in colpa per quell’uomo né lo sfiorò l’ipotesi che fosse stato lui la causa della sua morte: ognuno faceva il suo lavoro a proprio rischio e pericolo, questo era chiaro a tutti.

Sperò invece che il cagnolino di papà entrasse in camera sua, magari per picchiarlo per la volta scorsa, o sgridarlo o semplicemente parlargli; aveva una voglia matta di rivederlo, di sentire il suo odore, anche di beccarsi la sua famigerata sberla se questo significava avere un qualsivoglia contatto con lui.

Ma Archy parve tenersi ben distante da lui, quasi avesse intuito il problema.

Si rividero solo mesi dopo, per la pausa estiva, e dallo sguardo che gli lanciò Johnny capì che non aveva dimenticato il loro ultimo incontro, anzi, probabilmente era un pensiero che l’aveva tormentato per lunghe notti insonni e questo riempì di soddisfazione il ragazzino.

Essere sempre nella mente di quell’uomo era più di quanto avesse sperato inizialmente e non poteva che essere felice; anche quando, col tempo, gli sguardi di Archy si andarono addolcendo, se guardava bene in fondo a quegl’occhi poteva leggere la consapevolezza che stava ancora pensando a quella notte in macchina.

 

Il giorno del diciottesimo compleanno di Johnny tutti si aspettavano una spettacolare fuga dalla casa del patrigno, magari accompagnata da qualche furto o danno collaterale, giusto per rivendicare la propria libertà e il controllo sulla sua vita ora che aveva finalmente raggiunto la maggiore età.

Ma stranamente in quell’afosa giornata di agosto non si mosse una foglia nei pressi di casa Cole; i gorilla del gangster si guardavano stupiti l’un l’altro, appostati com’erano dietro ogni porta e ogni colonna.

Avevano ricevuto ordini precisi e scrupolosi dal loro capo – ad essere sinceri, li aveva istruiti Archy, ma tutti sapevano che l’organizzatore vero e proprio era il signor Cole – eppure sembrava che si fosse trattato di un falso allarme, perché il disastro ambulante di nome Johnny non pareva intenzionato a lasciare la propria camera, né dalla porta né per vie traverse.

Non che Lenny intendesse impedirgli la fuga, per carità!, era una benedizione potersi finalmente liberare di quel moccioso così problematico, ma avrebbe preferito lasciarlo andare senza immolare alla causa i suoi preziosi vasi di porcellana o gli antichi dipinti e arazzi che ricoprivano le pareti della sua maestosa dimora.

Dopo ore di surreale silenzio Danny e gli altri uomini cominciavano davvero a preoccuparsi; proprio quando stavano confabulando tra loro se continuare o meno la guardia Archy entrò dal portone principale, intento a chiudere l’ennesima chiamata di quella giornata terribilmente intensa.

< Archy…>

< Che succede qui?>

Lo sguardo smarrito dei suoi sottoposti non lo confortava più di tanto e neanche quell’innaturale silenzio che avvolgeva tutta la casa.

< Ecco… il signorino Johnny non si è visto…>

< Non è mai uscito dalla sua stanza… non un segno di vita, neanche un po’ di musica… e la finestra è ancora sigillata.>

Questo era davvero preoccupante; l’uomo si bloccò per un istante, non osava neanche pensare cosa potesse passare per quella mente malata in quei terribili secondi di silenzio. Probabilmente la fine del mondo era vicina.

< Che… che facciamo, Archy?>

Gli ci volle solo un momento per immaginare cosa avrebbe voluto Lenny – che ormai conosceva talmente bene da poter anticipare i suoi desideri – e metterlo in pratica.

< Restate di guardia fino a nuovo ordine. Io andrò a riferire a Lenny.>

Non che si aspettasse di ottenere un qualche tipo di indicazione da un patrigno che meno sapeva del proprio figliastro più era contento, ma era più una questione di formalità.

< Sarà la volta buona che quel piccolo ingrato si è ammazzato. Già ce lo vedo, impiccato con un cazzo di lenzuolo, le gambe per aria a ciondolare avanti e indietro, uno dei suoi fottutissimi strumenti ancora in mano. Scommetto che vuole farmi un dispetto, quel bastardo, lasciarmi un morto in casa per dover pulire tutta la merda che ci ha lasciato. E magari il suo dannatissimo fantasma ha anche intenzione di perseguitarmi, ricordarmi che non mi libererò mai di lui!>

Archy dovette trattenersi per non alzare gli occhi al cielo, quell’uomo era un melodramma vivente.

< In definitiva che dobbiamo fare?>

< Ma lasciate che si ammazzi, quel moccioso irritante! Solo, continuate a sorvegliare la mia roba anche questa notte, non vorrei che quell’odioso terremoto approfittasse del buio per distruggermi la casa.>

Gli ordini era ordini e gli uomini rimasero appostati tutta la notte, ma non un solo rumore uscì dalla stanza di Johnny; Archy, nonostante preferisse spararsi piuttosto che ammetterlo, stava davvero cominciando a preoccuparsi.

Dopo che anche la mattina seguente non si udì alcun rumore dalla camera, l’uomo decise che era ora di vedere che diamine stava combinando quel ragazzino.

Bussare era una prassi che Archy non riusciva a mettere da parte, ma al discreto suono delle sue nocche su quella porta non seguì alcuna risposta. Deciso ad entrare provò la maniglia, anche se si aspettava di dover buttare giù la porta a calci.

Invece, con sua grande sorpresa, la maniglia si abbassò con uno scatto secco e gli permise di entrare.

< Johnny-boy.>

Appena messo un piede dentro la stanza Archy si chiuse la porta alle spalle, più per impedire ad altri di vedere cosa succedeva lì dentro che per bloccare quella comoda via di fuga; gli ci volle una manciata di secondi prima di individuare il ragazzo, intento a gettare oggetti vari in un borsone stracolmo.

< Ah, zio Archy.>

Era incredibile come quel giovane potesse apparire così calmo dopo aver svuotato la sua stanza di tutti i suoi oggetti personali e vestiti ed essere riuscito a ficcare il tutto in una borsa da sport per fuggire dalla casa infestata di incubi e brutti ricordi da dimenticare. Ed era riuscito a fare tutto questo senza emettere un solo suono.

Aveva dell’incredibile.

Archy non era certo se avanzare nella sua direzione fosse la mossa più saggia, perciò si limitò a fissarlo da quei quattro metri di distanza; il ragazzo buttò nella sacca un vecchio cubo di Rubik a cui in passato aveva staccato tutte le facce reincollandole una ad una, poi si voltò completamente, pronto per fronteggiare il suo vecchio zio.

< Credevo saresti scappato ieri.> mormorò quest’ultimo guardando quella camera ormai spoglia.

< Avrei voluto, zio Archy, davvero! Ma vedi, è così difficile trovare un alloggio al giorno d’oggi per noi giovani… ho dovuto contattare più gente del previsto e ho perso tempo… ma come puoi notare, ora sono pronto per levare le tende.>

Quasi intendesse quell’espressione in maniera letterale, lo sguardo di Archy corse alle tende temendo di vederle strappate dal loro sostegno, ma per fortuna erano ancora lì, intatte. Probabilmente una mossa strategica, Johnny era al corrente del gorilla appostato sotto la sua finestra e non voleva che quello potesse vedere cosa stava succedendo nel suo vecchio rifugio.

< Allora, zio, sei venuto a fermarmi?>

Più che preoccupata o in apprensione la voce del ragazzo pareva eccitata dal dover affrontare l’amato cagnolino di papà per ottenere la libertà, un pensiero che irritava il più vecchio nel profondo.

< Ero venuto a controllare che tu fossi ancora vivo. Il fatto che tu sia stato così silenzioso era… allarmante.>

Il ghigno compiaciuto del giovane era disarmante.

< Preoccupato per me?>

< Più per la tappezzeria, il sangue è difficile da levare.>

Con una risatina soddisfatta Johnny si chinò a chiudere la zip della borsa e ad appoggiare il pesante carico sul letto.

< Bene, direi che allora è arrivato il momento di dire addio…>

Archy non sapeva se doveva sentirsi sollevato per la notizia o ancor più preoccupato: quel ragazzo poteva anche essere un terremoto ambulante, la causa scatenante della prossima guerra mondiale o quel che gli pareva, ma alla fine era solo un ragazzo.

Lo conosceva da quando non gli arrivava neanche a mezza coscia e aveva assistito alla sua vita, a quel lento processo che l’aveva reso pericoloso, incosciente, una mina vagante; un processo inarrestabile che Archy avrebbe davvero voluto fermare. E forse quella era la sua ultima occasione per farlo.

< Sei sicuro di quello che fai, Johnny? Dove pensi di andare una volta fuori di qua? Cosa credi di poter fare?>

Johnny scoppiò nuovamente in una breve risata mentre con passi lenti e un po’ barcollanti colmava lo spazio tra di loro.

< Allora sei preoccupato per me!>

< Sto solo cercando di farti riflettere, dato che non sembri in grado di farlo di tua spontanea volontà.> replicò seccato l’uomo, colto in fallo. Ma in verità avrebbe davvero preferito morire piuttosto che ammettere che ci teneva a quel grattacapo vivente e che voleva aiutarlo.

< Ho i miei progetti, zio Archy. Non puoi pensare sinceramente che io voglia restare a marcire in questa casa per il resto della mia vita! Il paparino non sembra molto contento di me e credo sia meglio per tutti e due che io tagli la corda.>

Il più vecchio non se la sentiva di dargli torto, non una parola che aveva pronunciato era oggettivamente sbagliata, ma il ricordo di quella notte d’inverno, di come si era gettato sulle droghe nonostante la sua giovane età, lo faceva tremare.

Un tossico è un tossico, quasi impossibile da recuperare: quella merda ti cala in un buco nero da cui non si può più uscire.

Archy si irrigidì quando si rese conto di quanto vicino si era fatto Johnny, che stava invadendo il suo spazio personale in maniera plateale, con una sfacciataggine incredibile e il solito ghignetto soddisfatto sulle labbra.

< Sai, zio, sono felice che tu sia venuto da me. Avevo voglia di vederti almeno un’ultima volta prima di andarmene.>

Se Archy non l’avesse considerato troppo avventato addirittura per lui, avrebbe giurato che il ragazzo gli aveva strizzato l’occhio come i giovani facevano per adescare qualche bella ragazza. Ma doveva essere stata un’illusione ottica, forse il troppo stress, perché era davvero troppo anche per Johnny.

< Dove andrai?> chiese con un tono leggermente scontroso, più che altro per l’assurdo corso dei suoi pensieri.

< Bé – ora Johnny aveva oltrepassato ogni limite andandogli quasi addosso, meno di cinque centimetri tra i due – perché non provi a scoprirlo da solo? Certe cose bisogna guadagnarsele…>

Un suono seccò risuonò nell’aria, seguito da un debole gemito.

Archy abbassò la mano, sconvolto per aver reagito senza neanche darsi il tempo di immagazzinare le parole udite e pensare di conseguenza: ma non per questo il suo gesto era stato meno voluto e decisamente spontaneo.

Johnny si teneva la guancia offesa con una certa teatralità, anche se il dolore nei suoi occhi era evidente ed autentico: se la sberla di Archy era famosa in tutti gli ambienti malavitosi di Londra un motivo c’era.

< Vedi di non montarti la testa, ragazzino. E renditi conto con chi stai parlando.> ringhiò in un soffio a pochi centimetri dall’orecchio del giovane.

Nonostante la sberla era ancora terribilmente vicini l’un l’altro.

In tutta risposta Johnny fece quello che nessuno si sarebbe aspettato, a meno che non lo avesse conosciuto da parecchio tempo: scoppiò a ridere, gli occhi che gli lacrimavano per il dolore e la guancia gonfia e arrossata.

Archy conosceva Johnny da parecchio tempo, perciò non si scompose più di tanto: era un comportamento molto “da Johnny”, in un certo senso prevedibile.

Il più giovane continuò a ridere per un paio di minuti, asciugandosi le lacrime con una mano e chinandosi sempre di più verso l’uomo.

< Sai, zio… - bofonchiò con il volto praticamente appoggiato alla sua spalla e il gangster si irrigidì – credo che mi mancherà anche questo. La mia vita senza le tue famose sberle perderà un bel po’ di senso.>

< Sei un caso disperato, Johnny-boy.>

Sembrava impossibile levare quel ghigno idiota dalla sua faccia mentre inspirava a fondo l’odore del suo improvvisato sostegno.

< Credo sia arrivato il momento di dirci addio.> mormorò strofinando la guancia offesa contro il colletto inamidato della camicia. L’uomo lo guardò dubbioso, un sopracciglio inarcato denunciava il suo scetticismo.

Il ragazzo sbuffò quando l’altro non fece alcun movimento.

< Non sono sicuro di essere io il caso disperato.> gli soffiò nell’orecchio prima di sporgersi ancora un po’.

Archy successivamente tentò di giustificarsi tenendo presente il fatto che era stato preso in contropiede, era troppo vicino per poter reagire in maniera consona e che Johnny era decisamente incontrollabile.

Ma nonostante tutte le sue inutili scuse, quando Johnny appoggiò le sue fredde labbra sulle sue non si tirò indietro, non lo spintonò, non cercò di ristabilire un’adeguata distanza tra i loro corpi.

A suo favore poteva però affermare di non aver neanche risposto a quel contatto, anche quando il ragazzo aveva premuto con più forza su di lui, la lingua che gli leccava il labbro inferiore prima che questo venisse mordicchiato.

Per tutto il tempo l’uomo restò immobile, fino a che finalmente Johnny non si staccò.

< Bé, non è malaccio come regalo d’addio.> mormorò e senza aggiungere altro gli diede la schiena, si caricò la borsa sulle spalle ed uscì in silenzio.

Archy rimase lì in piedi per un paio di minuti, la mente ancora bloccata da quanto era successo. Non che essere baciato fosse così sconvolgente, ma l’essere baciato da Johnny sì. Forse non era più il ragazzino minorenne che gli si strusciava addosso rischiando di farlo finire in galera per atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minore, specie perché con ogni probabilità Lenny non avrebbe gradito l’idea della suo uomo più fidato che si faceva il suo odiato figliastro.

Forse Johnny era cambiato, di certo era cresciuto, ma agli occhi del più vecchio rimaneva sempre il suo solito Johnny-boy.

Scosse la testa, incredulo, e l’occhio gli cadde sulla sua spalla sinistra: si vedeva perfettamente il tessuto stropicciato dove la mano di Johnny si era aggrappata per restare in equilibrio in punta di piedi.

Un sorriso amaro salì alle labbra di Archy e senza pensare ad altro uscì dalla stanza ormai vuota.

 

Nonostante avesse cercato in ogni modo di rimuovere dalla mente le parole di Johnny, quelle non facevano che tornare e ritornare a tormentarlo: “perché non provi a scoprirlo da solo?”.

E ci aveva provato davvero.

Aveva cercato quel combinaguai ovunque, in lungo e in largo, aveva sguinzagliato gli uomini di Lenny per tutta la città, chiesto allo Strizza, chiesto a tutti coloro che potevano sapere qualcosa su di lui, spacciatori, tossici, gentaglia dei bassi fondi, ma nulla: il ragazzo pareva sparito nel nulla.

Eppure, dopo due anni dalla sua partenza, Archy teneva ancora gli occhi bene aperti, pronti a cogliere la minima traccia che avrebbe potuto ricondurlo a Johnny.

Le sue speranze però, dopo tutto quel tempo, cominciavano ad affievolirsi; e come spesso succede, quando non ci speri più ciò che desideri ti si para davanti agli occhi.

Proprio lì, ad uno sporco tavolino dello Speeler, il luogo più ovvio, più banale dove andarsi a cacciare ed anche il meno sicuro visto che era frequentato da gente che aveva le mani in pasta negli affari di Lenny. E Archy in quel luogo ci andava di tanto in tanto a fare una partitina.

Così quando lo vide lì seduto, da solo, a bersi un orribile cocktail con più merda che altro dentro, quasi non credette ai suoi occhi: certo, i capelli erano più corti di due anni prima e i vestiti che indossava… bé, di certo Lenny Cole non gli avrebbe mai permesso di portarli sotto il suo tetto, questo era certo.

Lo stesso discorso valeva per quei terribili occhiali da sole con cui si stava atteggiando in quel momento.

Prima che potesse fare una sola mossa, un minimo tentativo di fuga, Archy gli fu accanto, una mano sulla spalla per tenerlo ancorato lì, bloccato fino a quando non l’avesse deciso lui.

< Johnny-boy.>

Gli bastò un’occhiata per capire che quell’incontro non era un caso: lo stava aspettando, era lì per quello.

L’uomo si sedette e lo fissò dritto negli occhi, ma tutto ciò che la sua espressione interrogativa ottenne in risposta fu un sorriso sornione.

< Ti vedo bene, zio Archy. Papino non ti schiavizza più come ai vecchi tempi?>

In un istante il più vecchio si ricordò quanto irritante e sfacciato potesse essere quel dannato ragazzino, ma a dispetto di ciò sorrise; non l’avrebbe mai ammesso, ma gli era mancata quella faccia tosta.

< Che ci fai qui, Johnny-boy?> domandò mentre con un cenno ordinava a Fred il solito.

L’altro si puntellò sui gomiti e piegò leggermente la testa.

< E’ da un pezzo che non ci vediamo. Ero preoccupato, temevo che tu ti stessi trascurando. Non sei più un giovincello, zietto.>

< Non solo due anni a fare la differenza.>

< Oh, ti assicuro che possono farla. E tanto anche.>

Continuarono a parlare senza dire nulla di particolare, Johnny era un maestro nel tenere conversazioni prive di capo e coda; a cose serie Archy non si arrischiava ad accennare, c’erano troppe orecchie indiscrete in quel posto.

Peccato che forse non avrebbe avuto altre occasione di chiacchierare liberamente col ragazzo.

< Non sono riuscito a trovarti. – ammise tutto d’un tratto – Da nessuna parte.>

Il classico ghigno più che soddisfatto apparve subito su quel volto scavato.

< Sono bravo a nascondermi, vero? Bé, credo che dovrai sforzarti ancora un po’, zietto. Non ho intenzione di aiutarti troppo.>

Fino a due anni prima l’avrebbe colpito con una delle sue famigerate sberle, ma per quella volta non lo fece; odiava se stesso per essersi lasciato coinvolgere in quel perverso nascondino, ma in fondo in fondo gli piaceva, era divertente.

Archy non ricordava quand’era stata l’ultima volta che si era divertito, forse da ragazzo durante una bravata tra amici; ma ora Johnny lo stava facendo davvero divertire.

Per questo non lo fermò quando finì il suo orribile cocktail e si alzò con un ghigno.

< Allora ti aspetto presto, zio Archy.>

Quella era una sfida che non poteva rifiutare.

 

Effettivamente aveva dovuto spremersi le meningi, impiegare ogni attimo libero dagli impegni di Lenny per rintracciare quel moccioso e sfruttare tutte le sue conoscenze: non si era certo risparmiato, aveva metaforicamente messo a ferro e fuoco tutta la città.

Ancora una volta per riuscire in quell’impresa lo Strizza era stato fondamentale, perché la tana di quel ratto era fuori da ogni giurisdizione, da ogni ambiente umanamente abitabile. Il nascondiglio perfetto, senza ombra di dubbio.

La dea Fortuna li aveva aiutati parecchio per ritrovare il ragazzo, anche se Archy non era così pronto ad escludere che certe tracce fossero state lasciate volontariamente dal giovane scapestrato; come quell’annuncio, quel volantino che per vie traverse era arrivato tra le mani dell’informatore.

Un concerto clandestino in un locale abbandonato.

Grande star della serata: Johnny Quid.

Lo Strizza si era precipitato ad avvertire il suo amico e cliente fisso, il piccolo problema era che sul volantino non c’era scritto quale cazzo fosse il locale in disuso. Ma Archy non si era lasciato abbattere da quei dettagli secondari: lo spettacolo era rivolto a quell’ammasso disordinato di drogati, tossici e gentaglia impasticcata che frequentava gli stessi ambienti di Johnny.

Se non era stato messo il luogo esatto voleva dire che tutti sapevano quale fosse oppure che tutti sapevano a chi chiedere. E c’era un solo punto di riferimento fisso per i crackhead.

Cookie era seduto al solito tavolo allo Speeler quando l’uomo più fidato di Lenny Cole gli si avvicinò posandogli possessivamente una mano sulla spalla; lo spacciatore per poco non si soffocò con il suo stesso drink.

< Archy… A cosa devo la visita?>

Il volantino incriminato venne sbattuto violentemente sulla superficie del tavolino.

< Il posto. Ho bisogno di sapere qual è.>

L’occhiataccia sospetta che gli rivolse Cookie diceva chiaramente che avrebbe preferito fare compagnia ai gamberi killer nel letto del Tamigi piuttosto che rivelarglielo, ma lo sguardo di Archy era di gran lunga più temibile di un paio di gamberi americani.

E così il gangster si era ritrovato in quel luogo dimenticato da Dio – anzi, probabilmente Dio non l’aveva mai visto in vita sua – a cercare di infiltrarsi tra la folla di giovani dagli occhi vitrei; in cuor suo pregò perché Johnny non fosse già arrivato a quello stadio.

Per non destare troppo sospetto si era vestito in maniera assolutamente informale, maglietta e jeans come tutti, ma probabilmente l’anello al dito e il portamento da uomo realizzato lo tradivano più di qualsiasi completo giacca e cravatta; ragazzini che dovevano essere di gran lunga più giovani di Johnny lo guardavano male e bisbigliavano tra loro indicandolo, altri, troppo sfatti per badarlo, gli passavano accanto senza degnarlo di uno sguardo.

Il locale era gremito di gente che fumava, rideva sguaiata, si dondolava sul posto; qualcuno vomitava agli angoli della strada, la musica usciva già dalla porta, il concerto era iniziato. Archy si fece largo a spintoni fino a trovare un posto che gli permettesse di vedere perfettamente il palco rimanendo sufficientemente nascosto dal mare di teste perché la rockstar non potesse individuarlo.

Quando Johnny salì sul palco ci fu un boato, a quanto pareva nei bassifondi aveva acquisito una buona fama. Il più vecchio non aveva mai apprezzato particolarmente i generi che ascoltava il ragazzo, ma era in grado di giudicare oggettivamente se un artista era bravo o meno.

E doveva ammettere che il moccioso se la cavava fin troppo bene.

Sul palco poi sembrava fosse a casa sua, si muoveva in una maniera così naturale che era evidente come fosse perfettamente a proprio agio; la folla non lo intimoriva, le urla lo eccitavano ancora di più.

Archy fu costretto a muoversi, accennare un po’ di ballo, dimenarsi come gli altri per non venire sballottato qua e là e soprattutto per non dare ancor di più nell’occhio, Johnny infilava un pezzo dopo l’altro senza scomporsi, fresco come se avesse appena cominciato.

Il suo amato zietto non poteva che restare a bocca aperta mentre quelle luci psichedeliche metteva in evidenza il suo profilo, i muscoli del torace che risaltavano mentre a petto nudo continuava a cantare, Poi avvicinò la bocca al microfono e ad Archy quasi venne un infarto.

Era la maniera in cui lo sfiorava, muoveva le labbra attorno alla testa senza però toccarlo, cantando come se niente fosse, la sua faccia di bronzo in bella mostra; solo un lampo nei suoi occhi poteva far capire l’ambiguità e la malizia nei suoi movimenti, ma probabilmente quel branco di fattoni che assistevano alla scena non si accorgeva minimamente dello spettacolo mozzafiato che aveva davanti.

Il sottile velo di sudore rifletteva le luci su quel corpo scarno, ma ben delineato che veniva esibito dalla cintura in su come un trofeo.

Archy cercò di riprendere il controllo di sé e gli ci volle tutta la sua determinazione per non farsi largo tra la folla e salire sul palco per fare non sapeva neanche lui cosa, forse picchiarlo, trascinarlo per un orecchio fuori da quel posto e riportarlo a casa o forse buttarlo a terra e fotterlo come se non avesse aspettato altro da quella sera che il moccioso, ancora quattordicenne, si era messo a strusciarsi contro di lui.

Ma come tutte le torture, per quanto piacevoli, finì anche quella.

Johnny svanì dal palco, dietro le quinte e i tossici cominciarono a farsi largo verso l’uscita, più rintronati di prima; Archy si rese conto che quella era la sua sola occasione: sgusciò tra i giovani e raggiunse in fretta e furia l’uscita posteriore, quella che, ne era certo, avrebbe usato il signor Quid.

Aveva avuto modo di studiare la struttura dell’edificio e sapeva che quella era la via più discreta e più pratica per far perdere le proprie tracce. Non gli restava che appoggiarsi al muro, un poco riparato rispetto all’uscita, e attendere che il moccioso uscisse.

Non dovette attendere molto perché Johnny uscisse con una birra in mano, quel fottuto ghigno trionfante sulle labbra; c’erano altri due ragazzi con lui e Archy preferì non farsi vedere fino a che quelli là non fossero spariti.

La priorità era sempre quella di non dare troppo nell’occhio, non osava nemmeno pensare a quale sarebbe stata la reazione di Lenny Cole se avesse saputo che il suo uomo migliore si era mischiato con quella feccia dei tossici per cercare di recuperare i contatti con quella disgrazia ambulante che era il suo figliastro.

No, davvero, Archy non ci teneva a far scoppiare il putiferio.

I pedinamenti non erano mai stati nel suo stile, ma se la cavava a sufficienza per stare dietro a tre ragazzotti ubriachi e fatti fino al midollo; mentre li osservava non poté fare a meno di irrigidirsi nel vedere come i due sconosciuti davano pacche sulle spalle a Johnny, gli sfioravano la schiena, cercavano di toccarlo il più possibile.

Si appuntò mentalmente di scoprire i loro nomi e tranciare personalmente quelle loro manacce schifose, oppure lasciarli in pasto ai famigerati gamberi killer, ma non appena si rese conto dell’idiozia dei suoi pensieri si riscosse, tentando invano di attribuire il suo assurdo rimuginare a quel paio di bicchieri che aveva bevuto prima di andare al concerto.

Scusa misera dato che riusciva a reggere perfettamente l’alcol, ma in quel momento gli bastava per tenere la coscienza a posto.

Arrivati ad un alto fabbricato dall’aria assolutamente inabitabile i due ragazzi si incamminarono per un’altra strada e Johnny barcollò verso l’ingresso, sfondando con un calcio la porta che pareva essersi bloccata: nessun portiere, nessun controllo e neanche un paio d’occhi indiscreti a guardarli. Di più Archy non poteva chiedere.

Entrò anche lui facendo ben attenzione a non fare rumore; il locale in cui viveva il giovane, anche se definire locale quell’infimo buco era più che un eufemismo, era una piccola topaia ricoperta di polvere e ragnatele, lattine vuote e sigarette sparse per il pavimento.

Aspettò qualche minuto in silenzio, il suo naso si stava abituando a quella puzza disgustosa.

Quando uscì dal suo nascondiglio Johnny era steso sul divano, un braccio sopra gli occhi e l’altro che ciondolava su un cuscino; pareva profondamente addormentato.

L’uomo non riuscì a trattenere un sorriso nel vedere quell’espressione così beata, così simile a quella che aveva da bambino; gli diede le spalle, preferendo esplorare un poco quel buco piuttosto che fissare imbambolato quel moccioso.

 

Lo svegliò il rumore della teiera che bolliva e dei passi poco distanti da lui; aprì un occhio e il profilo di Archy entrò nella sua visuale, la linea rigida delle spalle e le mani che preparavano con cura due tazze e i cucchiaini.

Un click e l’uomo si trovò puntata contro la propria schiena la canna di una pistola.

< Ben svegliato, Johnny-boy.>

L’alito che sentì sul collo non era esattamente tranquillizzante, ma stranamente Archy non si sentiva in pericolo. Si voltò per esaminare meglio l’arma premuta contro di sé ed incontrò quegli occhi infossati circondati da profonde occhiaie; a vederlo così da vicino era più magro, molto più magro di quanto non fosse prima della sua fuga e non che fosse mai stato grasso.

Almeno il ghigno era quello di sempre, constatò quando il ragazzo alzò la canna della pistola dal petto verso il suo mento.

< Ce l’hai fatta alla fine, zio Archy.>

< Non è stato poi così complicato… Mister Rockstar Johnny Quid. Dovresti trovarti un palco un po’ più appropriato per una star del tuo calibro.>

Quel ghigno era più malato di quanto ricordava ad essere sincero e non poté non seguire con gli occhi la canna della pistola che si allontanava un poco dal suo mento di qualche centimetro.

Non riuscì a reprimere uno scatto quando Johnny premette il grilletto: una piccola fiammella si sprigionò dall’arma, così vicina alla sua pelle da sentirne il calore.

< Originale.>

< Vero? Ci ho messo un pezzo per recuperarla.>

L’uomo si voltò senza riuscire a trattenere un sorriso.

< Ti va un the?>

Il ragazzo ciondolò verso una sedia e si lasciò crollare su di essa.

< Visto che l’hai già preparato.>

 

Non se lo sarebbe mai immaginato fino a qualche minuto prima, ma stava davvero prendendo un fottutissimo the all’inglese con il vecchio zio Archy; non era normale, assolutamente no. Insomma, per quanto non fosse esattamente un estraneo, a parte sberle, scappellotti e qualche pacca sulla spalla non è che avesse passato veramente tanto tempo da solo con il fedele cane di suo padre.

Si era dovuto limitare a guardarlo da lontano, con la coda dell’occhio, e ogni contatto fisico era un sollievo, una memoria in più da conservare, fosse anche la pelle ruvida delle sue mani, delle nocche che sbattevano impietose contro la sua guancia e i suoi zigomi.

Se c’era una cosa che Lenny Cole era riuscito perfettamente a fare era impedire al figliastro di avere qualsivoglia contatto umano: lo aveva costretto a passare la sua intera infanzia isolato nella propria stanza e così era cresciuto, non un amico, non un compagno, niente se non quelle quattro mura e la sua musica.

La scuola era stata in qualche maniera astrusa e complicata la sua unica salvezza, quell’appiglio che gli aveva permesso di non crollare, di non impazzire.

Era riuscito a trovare altri ragazzini, così simili a lui eppure totalmente diversi sotto ogni aspetto, e grazie a tutto questo era cresciuto senza troppi problemi – anche se a sentire chi lo conosceva di problemi ne aveva fin troppi.

In realtà durante quelle terribili vacanze, estive ed invernali, non c’erano compagni di giochi o altri ragazzini con cui condividere il proprio tempo e Lenny non lo lasciava neanche chiacchierare con i suoi uomini.

Non che quei gorilla avessero molta intenzione di passare il loro tempo a scambiare opinioni col figlioccio del loro capo, tranne Archy ovviamente: lui era l’unico che aveva un po’ più di classe, un po’ più di cervello, di umanità.

Era l’unico che quando lo guardava sembrava che non vedesse solo il figlio del proprio capo, ma un ragazzo; rimaneva sempre e comunque professionale, in ogni suo movimento, ma semplicemente perfetto e umano.

Si era sentito sempre un po’ legato a lui, nonostante le distanze che lo separavano, e c’era voluto poco per passare dall’ammirazione a qualcos’altro. Ed ora, per la prima volta, si trovava in una situazione del tutto pacifica con accanto il suo zio Archy.

< Per quanto tempo hai intenzione di restare in questo buco?>

Sorseggiò il suo the, il migliore che avesse mai bevuto.

< Fino a che non troverò qualcosa di meglio.>

Si guardarono per un istante e Johnny ne approfittò per osservare attentamente com’era conciato l’altro, in quella tenuta così casual.

< Stai bene in maglietta. Credevo che quel completino in giacca e cravatta fosse attaccato alla tua pelle.>

Il più vecchio scosse la testa, ignorando deliberatamente il commento insulso.

< Cosa fai per guadagnarti da vivere, Johnny? Show? Spettacolini di terzo tipo per racimolare qualche centesimo?>

< Suvvia, zio Archy, non essere così pignolo. In fin dei conti non devo far fronte a troppe spese… sigarette… qualche bicchiere…>

< La droga.>

Gli occhi del gangster erano duri, cattivi: non poteva sopportarlo, vedere quel moccioso così giovane buttare via la propria vita in questa maniera.

Il ragazzo ingollò quel che restava del the e si sporse all’indietro, in equilibrio sulle gambe posteriori della sedia; era tutto meno che impressionato.

< Che ci vuoi fare, zietto? Sono fatto così, amo viaggiare. Non faccio del male a nessuno, sono innocente come un agnellino, no? Credi che potrei fare del male a qualcuno, zio Archy?>

Detto da uno che solo pochi minuti prima gli aveva puntato contro una pistola, anche se finta, tutto il discorso aveva un tono decisamente ironico, ma il più vecchio non si stava affatto divertendo.

Era sempre stato uno dei tanti problemi di Johnny, quello di non prendere mai nulla seriamente: tutto era un gioco, se sparavi a qualcuno quello si sarebbe rialzato, se gettava dalla finestra i milioni di suo padre in cinque minuti si sarebbe recuperato tutto il malloppo. Se ti puntavano una pistola alla testa e sparavano bastava inserire un’altra monetina per ricominciare il livello dall’ultimo salvataggio.

< Potresti trovarti un’alternativa a tutto questo, Johnny.>

< Ah, davvero? Mi stai chiedendo di tornare a casa di papino? O mi offri un letto a casa tua? In quest’ultimo caso accetterei volentieri l’offerta, posso assicurartelo.>

Non che quell’opzione non gli fosse balenata nell’anticamera del cervello, anzi, Dio solo sapeva quante volte Archy ci aveva rimuginato sopra, un continuo filmino mentale che si ripeteva sempre uguale e sempre con la realistica, tragica fine: Lenny che scopriva che il suo uomo più fidato dava riparo al suo incubo vivente, cercava di proteggerlo, nasconderlo alla sua vista, ed il capo non la prendeva affatto bene.

Due pallottole in testa, una in gola per Johnny, questo era scontato.

Forse due in gola, per essere più sicuri.

Stessa sorte per se stesso, forse un po’ più dolorosa per rimarcare il suo tradimento.

Diciamo che fare una fine di quel tipo, e soprattutto farla fare a Johnny, non era esattamente al primo posto nella lista delle priorità.

< Sai che non è possibile, Johnny-boy. Non porterebbe a nulla di buono.>

< Bé, però almeno saremmo insieme. Non ti piacerebbe se vivessimo assieme, zio Archy?>

Approfittare di quelle parole ad effetto per alzarsi dal proprio posto e avvicinarsi pericolosamente all’altro era molto da Johnny, che infatti non si fece sfuggire affatto l’occasione per sfiorare la mano del gangster, un gesto quasi innocente che strideva da morire con il ghigno tutt’altro che casto che gli si dipinse sulle labbra.

< Johnny.>

Doveva suonare come un avvertimento, ma la voce gli uscì troppo roca, troppo bassa, e c’era una nota in sottofondo che sembrava quasi soddisfatta della piega che stavano prendendo le cose; doveva essere l’effetto ritardato dell’alcol prima del concerto, magari unito a qualcosa di poco sano nel the che aveva preparato (chissà cosa contenevano quelle bustine, non avrebbe dovuto fidarsi affatto di qualcosa proveniente dalla “casa” di una persona inaffidabile quale era il ragazzo).

Non bastarono le labbra di Johnny a sfiorare le proprie per fargli capire cosa stava succedendo e cosa sarebbe capitato di lì a poco: prima che la sua razionalità tornasse a bloccare il suo istinto e lo costringesse con dolore a colpire quel viso sfatto, quella guancia dura, con gli zigomi sporgenti, prima di ferire quegli occhi incassati, brillanti, profondi, prima di commettere il più grande sbaglio della sua vita Archy ricambiò quello strofinarsi di labbra.

Cercò Johnny, la sua pelle, la sua lingua, anche i denti andavano bene: approfondì quel dannato bacio e per un attimo tutto ciò che sentì fu il sapore di tabacco, di alcol, cibo precotto e the alla menta.

Un sapore imprevedibile, assurdo e contradditorio proprio come quel moccioso che spezzò la tensione scoppiando a ridere, passando le braccia attorno al collo di Archy, tornando a baciarlo, strofinando la guancia su quella dell’altro.

< Lo sapevo che non ero l’unico a volerlo.> mormorò con la bocca premuta sull’incavo del collo, intento a respirare a pieni polmoni un odore finalmente sano, buono, non come il puzzo di sigarette, di vomito e inquinamento.

Sapeva di dopobarba, uno di quelli buoni, e Johnny non poté che approvare la scelta. Ricordava di aver sentito quell’odore anni prima, quando in preda agli effetti della sua prima volta con la droga si era trovato, senza sapere bene come, pigiato contro il corpo solido dell’uomo. In seguito si era pentito di non essere stato completamente in sé per poter gustare ogni sfumatura di quella situazione, i suoi ricordi erano alquanto sconnessi e poco attendibili, logorati dalla droga e dal tempo.

Ma questa volta comunque non si sarebbe lasciato sfuggire nulla, non uno sguardo, un battito di ciglia, un sorriso appena accennato, un respiro più profondo: non poteva garantire di essere al momento completamente sobrio e in sé, ma di certo lo era a sufficienza per non dimenticare, al contrario di quel loro momento di intimità di anni prima.

Non sarebbe finita con lui trascinato fuori da una macchina e gettato tra le grinfie di suo padre (non ce l’aveva con Archy per questo, era il suo lavoro e se ne rendeva perfettamente conto); aveva ancora sulla schiena qualche cicatrice lasciata dalla fibbia della cintura del signor Lenny Cole, un monito silenzioso, ma che poteva tastare quando voleva, allungando semplicemente la mano verso la scapola destra.

Oh, non l’aveva mai visto così arrabbiato come quella volta, neanche quando gli aveva bruciato circa un milione di sterline nel forno per vendicarsi del suo piccolo sassofono che era stato spaccato in due per una nota musicale troppo alta nel momento sbagliato.

La mente di Lenny ragionava in maniera strana, sopportava con un atteggiamento più stoico l’essere derubato o il perdere denaro che un qualcosa che macchiasse la sua reputazione. Meglio perdere un milione che scoprire che il proprio figliastro è un fottutissimo crackhead, un tossico, uno di quegli stronzi fumati che sboccano agli angoli delle strade e rubano tutto quello che gli capita sotto mano, l’ultimo gradino della scala sociale di qualsiasi paese, dal più ricco al paesino sperduto del terzo mondo.

Il vecchio era convinto che suo figlio non avrebbe avuto successo neanche come dannato sciamano di un villaggio dell’Africa.

Ma questo non importava più di tanto, non ora che Johnny era fuori da quella casa, lontano anni luce dal marito di sua madre, ben nascosto, protetto e con Archy che non pareva intenzionato a lasciar andare le sue labbra.

< Ti conviene non chiacchierare troppo, Johnny-boy, o potrei cambiare idea nel frattempo.>

Non che il ragazzo avesse bisogno di un incoraggiamento a quel punto, anche perché quando la mano dell’uomo afferrò con forza i suoi capelli, stando ben attento a non esagerare, i pochi freni che il giovane poteva ancora vantare andarono senza alcuno sforzo a puttane.

 

Il primo pensiero che passò per la mente di Archy quando si svegliò la mattina dopo fu che Johnny avrebbe davvero dovuto cambiare divano o la sua schiena non avrebbe potuto sostenere una replica di quanto avevano fatto quella notte. Una vocina nella sua testa insinuò in lui il dubbio che il ragazzo preferisse quei luoghi assolutamente scomodi per lasciarsi andare, il che era assolutamente verosimile; in quel caso il caro e vecchio zio Archy avrebbe potuto anche adattarsi.

Doveva essere a causa dei ricordi della sera prima e della sensazione di spossato benessere (Cristo, non voleva neanche ricordare a quanto tempo prima risaliva l’ultima volta che l’aveva fatto... tutta colpa di Lenny e degli orari di lavoro massacranti che gli toccava fare per lui), ma ci mise un po’ troppo per i suoi standard ad accorgersi che qualcosa o qualcuno mancava in quel momento.

Non c’era quel peso fin troppo leggero al suo fianco, nessun corpo dalle ossa sporgenti a premerlo contro lo schienale del divano, non un ombra di quell’odore di tabacco che Johnny portava sempre con sé.

Archy spalancò gli occhi e si tirò in fretta a sedere: il ragazzo non era lì accanto a lui, dove avrebbe dovuto essere.

Bastò un’occhiata veloce a quel bugigattolo di cucina e al bagno per rendersi conto che il moccioso non era neanche lì; era uscito, come un fil di fumo esce in silenzio da una finestra socchiusa. L’uomo cercò di non farsi prendere prematuramente dal panico e aspettò, ispezionando nel frattempo quel luogo polveroso: tutto era esattamente al suo posto, tutto meno che la finta pistola e il pacchetto di sigarette con l’accendino.

E probabilmente quelle poche banconote di cui Johnny disponeva.

Apparentemente il ragazzo poteva essere uscito e basta, un giretto per il quartiere, magari a comprarsi della roba o scroccare bicchieri ad un malfamato bar nelle vicinanze, ma Archy se lo sentiva, lo sapeva che non era così.

Johnny era quello che, se lasciato a se stesso, non si schiodava dal letto prima delle tre di pomeriggio, era quello che passava ore ed ore chiuso in casa, che in compagnia del suo amato zietto gli si attaccava ai pantaloni e non voleva sentir ragioni di scrostarsi da lui. Quello era Johnny e non si sarebbe di certo allontanato da lui dopo aver finalmente ottenuto quello che desiderava da tanto tempo.

Il gangster imprecò sottovoce e si rivestì in fretta, controllò che la sua pistola (quella vera, funzionante e perfettamente carica) fosse al suo posto, e per grazia divina lo era. Appoggiò una mano sul divano, sul lato dove aveva dormito il ragazzo: era freddo.

Uscì per strada con la consapevolezza che non sarebbe riuscito a incontrare il moccioso, non se lui non voleva farsi trovare. Si chiese se quello era stato solo un gioco, perché suonava tutto troppo da Johnny e aveva paura di aver colpito nel segno, ma qualcosa dentro di lui lo rassicurò, certo che non era stata una presa in giro.

A conferma di quello nella sua mente fluttuarono espressioni, risate, ricordi della notte appena passata.

No, non poteva essere stato un gioco.

Era certo che il giovane non sarebbe tornato nel suo vecchio rifugio, ma diede comunque l’ordine ad un paio di uomini di controllarne l’entrata giorno e notte per le settimane a seguire: nulla, non un ombra, non un nome, niente.

Johnny pareva sparito, evaporato, eclissato, come se non fosse mai esistito; il fedele cane di Lenny Cole si mise a cercare, ma né il suo fiuto infallibile né l’aiuto dello Strizza né Cookie né qualche altro conoscente poterono aiutarlo a trovare quel ragazzino.

Era semplicemente svanito nel nulla, inghiottito dalla città e dalle strade grigio fumo.

Inghiottito dalla droga, dai suoi viaggi, da quel mondo fantastico che lo salvava dalla realtà.

Archy non poteva sopportarlo, non poteva pensare a quel ragazzo intento a sfondarsi l’anima con il crack, l’eroina, l’alcol, tutto quello su cui poteva mettere le mani.

Avrebbe voluto salvarlo, davvero, avrebbe dato qualsiasi cosa per aiutarlo, ma il moccioso era scomparso e man mano che il tempo passava e le settimane diventavano mesi e poi anni la rabbia prendeva il sopravvento.

Se se lo fosse trovato davanti con ogni probabilità l’avrebbe picchiato, una bella sberla come si doveva e poi dritto a casa di Archy, dove li attendevano infinite notti da recuperare.

E, nonostante il gangster odiasse ammetterlo, non vedeva l’ora di trovarsi di fronte il ghigno sfrontato del suo Johnny-boy.

   
 
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