Note: Questa storia ha partecipato all'edizione 2011 di Big Bang Italia
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Il
crackhead
Le
vacanze invernali
erano il periodo peggiore di tutto l’anno per Johnny: la
chiusura delle scuole,
anche se solo per pochi giorni, lo costringeva ad una periodica
convivenza
forzata con Lenny. Era difficile capire chi dei due fosse
più dispiaciuto per
la situazione, di certo l’uomo manifestava il suo disappunto
in maniera più
plateale, con scenate in pubblico, urla, imprecazioni, insulti e,
più spesso di
quanto in realtà non fosse necessario, sferzate di cinghia e
manrovesci.
D’altro
canto non si
poteva certo dire che il piccolo Johnny si dimostrasse disposto a
guadagnarsi
la fiducia del patrigno e tenere una buona condotta. Le fughe notturne
furono
il primo passo verso la ribellione, un modo anche per tenere una certa
distanza
di sicurezza tra lui e l’uomo che lo odiava così
tanto; poi vennero i furti,
qualche oggetto di poco valore rubato al supermercato o a negozietti di
chincaglierie: la refurtiva veniva accumulata durante tutto il periodo
delle
vacanze per essere poi rivenduta ai suoi compagni quando rientrava a
scuola.
In
quel modo, pian
pianino ma con costanza, il ragazzino si era creato il suo gruzzolo,
tenuto
gelosamente nascosto tra le assi del suo letto, non perché
ci tenesse più di
tanto a quel denaro, ma perché sapeva che se Lenny
l’avesse scoperto
gliel’avrebbe confiscato subito; la sua mente non voleva
neanche pensare a cosa
poteva fare quel mostriciattolo con dei dollari in tasca.
Ed
effettivamente
quello che Johnny fece all’età di quattordici anni
con quei soldi non gli
piacque affatto.
Fu
proprio durante le
odiate vacanze invernali, con il vento carico di neve che sferzava
impietoso la
finestra della camera del ragazzo: questo non gli impedì di
attuare il suo
piano.
Era
più che
consapevole che uscire dalla porta principale sarebbe stato impossibile
(era
stato il suo primo tentativo, anni prima, ed era finito prima ancora
che
cominciasse, con uno dei gorilla di suo padre che lo trascinava con un
certo
riguardo per le scale, il suo braccio in una morsa
d’acciaio), dunque l’unica
opzione era la finestra stessa.
Indossò
la felpa più
pesante che trovò nel suo armadio, per fortuna suo padre non
s’interessava
troppo dei suoi abiti e gli era permesso di comprarsi quello che gli
piaceva,
tirò fuori i soldi dal nascondiglio e li infilò
con cura nella tasca dei jeans;
facendo ben attenzione a non fare troppo rumore vista l’ora
tarda si avvicinò
alla finestra e la spalancò.
Una
folata di vento
lo investì in pieno, facendolo rabbrividire e riempiendogli
i capelli di
fiocchi di neve; tirò fuori la lingua per catturarne un paio
e si sporse dal
davanzale: era al secondo piano, una decina o poco meno di metri lo
separavano
dal giardino.
Fortunatamente
suo
padre non aveva mai amato gli animali, ad eccezion fatta dei suoi
gamberi
killer, ma quelli non contavano, e non c’erano cani da
guardia pronti ad
abbaiare o tentare di dilaniare il suo corpicino tutto ossa e muscoli.
Rifletté
se fosse il caso di riprovare con il trucco delle lenzuola annodate per
calarsi
fin giù, ma dopo l’ultima volta Lenny aveva preso
precauzioni, facendo in modo
che non ci fossero ricambi di lenzuola alla sua portata.
Peccato
che non
avesse calcolato che la grata che sosteneva una pianta rampicante
passava
proprio accanto alla finestra del ragazzo e pareva abbastanza robusta
da
riuscire a reggere il suo peso; senza pensarci più di tanto
Johnny si sporse in
avanti e si aggrappò con una mano al sostegno.
Tirò un poco per verificare che
andasse bene e poi si appoggiò completamente alla grata,
allungando una mano
per accostare un po’ le ante della finestra,
perché la sua fuga non fosse così
evidente.
Scese
in fretta,
considerando che, se doveva cadere, tanto valeva essere più
vicino possibile al
terreno, ma il suo piano funzionò e toccò terra
pochi secondi dopo, incolume.
Con
un ghigno
stampato in faccia sgattaiolò nell’ombra e
scavalcò il cancello della residenza,
mettendosi a correre a più non posso appena fu sul
marciapiede; il suo
buonumore aumentava ad ogni passo, consapevole di essere sempre
più distante da
quella casa da incubo e dal suo aguzzino personale.
Fece
in modo di
disperdere le proprie orme sulla neve mischiandole a quelle degli altri
passanti e si diresse verso i bassifondi, le mani in tasca e il viso
rosso per
il freddo.
Aveva
avuto modo di
conoscere la zona nelle sue precedenti “escursioni”
e quindi non gli ci volle
molto per individuare il suo obbiettivo, un uomo magro
all’angolo di una
stradina, il volto scavato e gli occhi infossati come se la pelle
tirasse sulle
orbite e gli zigomi.
Lavorava
per Cookie,
gliel’aveva detto un barbone qualche mese prima, e questo
poteva voler dire
soltanto una cosa: quel tipo aveva ciò che Johnny cercava.
Gli
si avvicinò senza
guardarsi attorno, con passo deciso; quando se ne accorse
l’uomo alzò lo
sguardo su di lui e sbuffò scocciato.
<
Gira al largo,
ragazzino. Qui sto lavorando.> borbottò nascondendosi
meglio nell’ombra.
<
Lo so. – replicò
il piccoletto – Sono qui per questo.>
Gli
occhi dello
spacciatore, fino a quel momento vacui e spenti, scintillarono di
curiosità e
di qualcos’altro che Johnny riconobbe come
incredulità.
<
Non dire
idiozie, moccioso. Sai ancora di latte, ti conviene smammare.>
cominciò, ma
alla vista dei soldi che il ragazzo gli porgeva si interruppe.
<
Posso pagare,
come vedi.>
Se
aveva altre
obiezioni di coscienza da fare le ricacciò in fondo alla
gola, perché gli
vendette senza esitare qualche grammo di roba, poca cosa, ma tutto
aveva un suo
prezzo e lui non faceva sconti per i minorenni.
Ad
ogni modo cinque
minuti dopo Johnny vagava per le strade alla ricerca di un posto
riparato dove
potersi godere il proprio acquisto.
Il
primo pensiero che
attraversò la mente di Archy quando venne svegliato dal suo
cellulare che
squillava fu che Lenny era furioso e questo voleva dire semplicemente
guai.
Guai per Archy stesso, che avrebbe dovuto sbrogliarli.
Afferrò
il telefonino
e gettò un’occhiata alla sveglia, reprimendo
un’imprecazione: erano le tre di
notte.
<
Archy.>
borbottò con voce arrochita senza alzarsi dal letto.
<
Archy! – la voce
che gli urlò nelle orecchie lo rintronò, un
principio di emicrania imminente –
Quel bastardello è scappato! C’è una
mina vagante che gira in città e quando
esploderà sarà merda per me!>
Il
braccio destro di
Lenny represse uno sbadiglio e si mise seduto, strofinandosi gli occhi
con la
mano libera.
<
Come ha fatto a
scappare?>
<
Dalla finestra!
Quella piccola serpe si è calata lungo la pianta rampicante!
Cristo, quel
moccioso mi farà impazzire di questo passo!>
“Farà
diventar matto
anche me, se continua con questo andazzo” pensò
l’uomo alzandosi e cercando a
tentoni i propri vestiti.
<
Esco per
cercarlo.> disse con voce ferma, finalmente sveglio, ma Lenny
continuava a
gridare come un fiume in piena.
<
Sì, bravo, esci!
Riportami quel piccolo ingrato, gliela faccio passare io la voglia di
calarsi
dalla finestra! Dalla finestra, ti rendi conto, Archy? Porca puttana,
era la
volta che volava giù dal secondo piano e si sfracellava al
suolo!>
Senza
aggiungere
altro il gangster chiuse la chiamata e si rivestì in fretta,
consapevole che
ogni secondo che passava aumentavano le possibilità che quel
disastro ambulante
avesse dato fuoco a qualcosa.
Quando
uscì si
strinse di più nel cappotto, il freddo che gli gelava le
ossa: si chiese dove
potesse essere finito Johnny con quel clima polare. Era notte fonda ed
era poco
raccomandabile passare al setaccio tutta la città, non
avrebbe finito prima di
ventiquattr’ore e lui aveva tutte le intenzioni di riportare
a casa il
ragazzino e tornarsene a letto per la sua sacrosanta dormita.
Deciso
a chiudere
quell’affare il prima possibile, appena entrato in macchina
tirò fuori il cellulare
e chiamò l’unico uomo che sapeva in tempo reale
qualsiasi cosa fosse successa a
Londra, dalla foglia caduta sul marciapiede all’omicidio
dietro l’angolo: lo
Strizza per sua fortuna non lo fece attendere molto.
<
Pronto?>
<
Strizza, sono
Archy.>
<
Archy! Cosa
posso fare per te?>
Esitò
per un istante,
indeciso se rivelare tutto al segugio o mantenere un po’ di
discrezione, ma
alla fine si rese conto che, con ogni probabilità, non
c’era niente da rivelare
che lo Strizza non sapesse già.
<
Sto cercando Johnny,
il figliastro di Lenny Cole. Sai dove si trova?>
Sentì
mugugnare
qualcosa dall’altra parte e attese, impaziente di ottenere
una risposta.
<
Da quanto ne so…
– disse lentamente il pozzo d’informazioni
– meno di un quarto d’ora fa si
aggirava nel pressi dello Speeler. Se fossi in te guarderei
lì.>
<
Perfetto. Ti
farò avere i soldi domani mattina.>
<
Non c’è fretta,
Archy, non c’è fretta.>
“Vicino
allo Speeler”
rifletté lui mentre chiudeva la chiamata e metteva in moto
l’auto. Uno dei
posti peggiori dove il ragazzino poteva cacciarsi, i bassifondi
più bassi di
tutta Londra.
Arrivò
lì guidando
come un pazzo, temeva di perdere l’unica pista che aveva; una
volta davanti al
locale smontò, affondando nella neve fino alle caviglie.
Borbottando
imprecazioni contro Johnny, e un po’ anche contro Lenny e la
sua dannata mania
di svegliarlo nel pieno della notte, cominciò a cercare in
ogni angolo, ogni
fottuto vicoletto secondario, ogni anfratto, ogni riparo, ma del
moccioso
neanche l’ombra.
Se
non l’avesse
conosciuto da quando era alto meno di un metro avrebbe iniziato a
preoccuparsi
per la sua vita, la città era un covo di violenza, bastava
un attimo per far
sparire uno spudorato quattordicenne dalla vista e non farne
più trovare il
corpo; peccato che conoscesse Johnny da una vita, come avrebbe detto
Lenny
quella piccola vipera non poteva morire, doveva restare in vita per il
solo
gusto di torturare onesti uomini d’affari come lui.
Finalmente,
quando
ormai Archy poteva sentire le proprie dita staccarsi per il freddo, lo
vide in
lontananza, addossato ad una scala d’emergenza di un locale,
abbastanza
riparato da non essere coperto di neve, ma comunque esposto alle
intemperie.
Si
preparò ad un
inseguimento all’ultimo respiro come già ne erano
capitati in precedenza, ma
con sua grande sorpresa il ragazzo non voltò neanche la
testa per guardarlo
quando gli si avvicinò piano.
<
Johnny-boy?>
Ancora
nessuna
risposta, né movimento né altro. Ora si che
cominciava a preoccuparsi, eppure
era di certo sveglio, aveva gli occhi aperti e, Cristo, respirava, era
cosciente, non stava male.
Si
chinò davanti a
lui per portarsi al suo stesso livello e lo fissò negli
occhi: erano vacui e
trasognati, lo fissavano senza vederlo realmente. Non ci volle molto
per fare
due più due.
<
Cristo… Che
cazzo hai fatto, ragazzino?!>
Un
sorriso ebete
apparve sulle labbra del mocciosetto.
<
Ah, sei tu, zio
Archy? Sei così strano…>
Se
non avesse saputo
che se ne sarebbe occupato molto volentieri Lenny più tardi,
l’avrebbe
picchiato; lo sollevò di peso per un braccio cercando di
farlo stare in piedi,
ma quello barcollò fino a riaccasciarsi per terra.
<
Che cazzo hai
preso, Johnny?> chiese nuovamente, ma ciò che ottenne
fu solo una risatina
spenta.
Ingoiando
altre
imprecazioni e parole poco piacevoli si guardò attorno con
circospezione, poi
si concentrò nuovamente sul ragazzino ai suoi piedi,
sospirando: non aveva
scelta.
Lo
afferrò con
entrambe le mani e lo prese di peso, trasportandolo fino alla macchina;
il
ragazzino non sprecò l’occasione di strofinare la
guancia sul petto di Archy e
avrebbe cercato di nascondersi anche nell’incavo del suo
collo se l’uomo non
l’avesse scaricato malamente sul sedile anteriore,
allacciandogli in fretta la
cintura e sbattendo la porta con rabbia.
Montò
in macchina e
si affrettò a bloccare le porte prima che al moccioso
potesse venire l’insana
idea di gettarsi fuori dall’auto in corsa; voleva sapere come
si era procurato
la roba, chi gliel’avesse venduta, ma si rendeva conto che
sottoporre Johnny ad
un interrogatorio non avrebbe portato alcun frutto, men che meno nelle
condizioni in cui versava.
Mentre
era impegnato
a guidare gli gettò un’occhiata di sfuggita, il
piccolo stava ancora ridacchiando
tra sé e sé.
<
Cosa c’è di
tanto divertente?> chiese giusto per tenerlo occupato, in modo
che non
potesse architettare un nuovo, distruttivo piano.
L’altro
continuò a
ridacchiare, ma un movimento improvviso della mano ed un eloquente
“click” gli fecero
capire che si era slacciato la cintura.
<
Rimettiti la
cintura, Johnny.> ordinò senza staccare gli occhi
dalla strada.
<
Uhm, non ne ho
voglia.>
Prima
che potesse
minacciarlo di dargli una sberla, una di quelle che non avrebbe
dimenticato
facilmente, il ragazzino non era più sul suo sedile, ma
stava cercando di
salirgli sulle ginocchia superando con qualche difficoltà la
leva del cambio e
il freno a mano.
Preso
in contropiede
Archy tentò d’inchiodare, ma la macchina
slittò di qualche metro su un lastrone
di ghiaccio costringendolo a
tenere il piede sull’acceleratore e guidare mentre il
moccioso, chiaramente
incapace di intendere e di volere, si sistemava meglio sulle sue gambe,
strusciando la guancia sulla sua camicia.
<
Johnny…>
Il
ringhio che uscì dalla
sua gola non era da lui, ma era convinto che chiunque altro non sarebbe
stato
pronto ad una situazione del genere; allungò una mano per
afferrare il ragazzo
per la collottola e sbatterlo al suo posto, ma quello si
avvinghiò con le
unghie, dimenandosi per evitare la presa.
“Dannazione”
si disse
riuscendo per un pelo a non andare fuori strada con quel diavolo che
gli si
agitava addosso.
<
Cristo, Johnny,
sta fermo!>
Il
ragazzo
incredibilmente ubbidì, ma Archy non era sicuro se fosse
stato per il suo ordine
o perché aveva smesso di cercare di afferrarlo. Per grazia
divina erano
finalmente arrivati davanti alla casa di Lenny, alla cui vista
però il
quattordicenne non reagì affatto bene.
Artigliando
la giacca
dell’uomo sotto di lui ficcò il viso
nell’incavo del collo e si rifiutò di
collaborare quando il gangster gli intimò di uscire dalla
macchina; l’uomo
poteva sentire il fiato caldo sulla pelle che articolava parole
apparentemente
senza senso, ma quando tese l’orecchio si accorse che suonava
più o meno tutte
come “non portarmi là, ti prego, non portarmi
là”.
Se
non fosse stato
veramente fedele a Lenny Cole in quell’esatto istante avrebbe
rimesso in moto
la macchina e cercato un alloggio alternativo per quella povera anima
in pena,
ma la sua lealtà andava a quell’uomo e a
nessun’altro. Però un po’ di
pietà per
quello che era poco più di un bambino ai suoi occhi la
provò: sapeva – sarebbe
stato da stupidi negarlo – che Lenny come padre era
decisamente un disastro,
bé, forse non solo come padre… in poche parole
non era un asso nei rapporti
umani, al di là di quelli di lavoro in cui si dimostrava un
adulatore lecchino
come pochi.
Ma
per il resto del
tempo era effettivamente un uomo complicato, difficile, e di certo non
era in
grado di trattare con i bambini senza ricorrere alla sua cintura.
Aveva
appena deciso
di attendere che Johnny-boy si calmasse prima di portarlo dentro in
casa quando
ecco che il piccoletto ricominciò a muoversi, ma non come
pochi minuti prima.
Il
corpo di Archy si
fece di ghiaccio quando si rese conto che il ragazzino si stava
strusciando
contro di lui.
<
Archy…>
A
quel mugolio
qualcosa nella testa dell’uomo scatto e con un gesto
improvviso afferrò il più
giovane per i capelli scostandolo da sé con forza,
mandandolo a sbattere contro
il volante. Un colpo breve di clacson risuonò
nell’aria.
Johnny
avrebbe voluto
dire qualcosa, magari una frase intelligente che gli permettesse di non
essere
scaraventato fuori dalla macchina: voleva restare ancora un
po’ vicino al cane
di suo padre, come lo chiamava per scherno ogni tanto, ma dal volto
furente di
quest’ultimo capì che le sue speranze erano vane.
<
Non farlo mai
più.> scandì l’uomo, la voce
come un sibilo che sferzava l’aria.
Avrebbe
davvero
voluto picchiarlo, specie per quel dannato ghigno saputello che gli era
apparso
sulle labbra e, Cristo, non voleva continuare a fissarlo, voleva solo
ignorare
il fatto che era ancora sulle sue ginocchia, le gambe aperte in una
posizione
oscena e quel fottuto scintillio negli occhi…
Prima
che la
situazione potesse degenerare, perché con Johnny
lì accanto non poteva che
accadere, smontò dalla macchina trascinando con
sé il ragazzo, ben attento a
non allentare la stretta sul suo braccio.
Mai
il giardino della
villetta di Lenny gli era sembrato così grande, mai il
sentiero da percorrere
così lungo; nessuno dei due disse una parola, ma
c’era ancora tensione tra di
loro, molta più di quanto Archy era disposto a sopportare.
Fu
un sollievo poter
scaricare il ragazzino nelle mani di un Danny molto assonnato, con
l’ordine di
portare quel flagello di Dio dritto dritto da suo padre. Una vocina
nella sua
testa gli disse che Lenny avrebbe preferito che glielo portasse Archy
di
persona, ma l’idea di sopportare padre e figlio
contemporaneamente (e
soprattutto dover ascoltare nuovamente gli insulti e le grida di Cole)
gli era
insostenibile.
Girò
sui tacchi e
fece per andarsene, gettando un’ultima occhiata verso la
porta d’ingresso.
L’ultima
cosa che
vide prima che questa si chiudesse fu lo sguardo di Johnny, ancora
annebbiato
per la droga, terrorizzato all’idea della punizione che lo
attendeva, esultante
ed eccitato per la scarica di adrenalina.
Ad
Archy non restò
che imprecare sottovoce e tornarsene finalmente a letto.
Quella
fu la punizione
più lunga che il piccolo Johnny avesse mai ricevuto:
confinato nella sua stanza
fino alla fine delle vacanze. Probabilmente il signor Cole avrebbe
voluto
tenerlo rinchiuso anche per più tempo, ma poi aveva
riflettuto sul fatto che
era meglio che quella peste se ne stesse a scuola piuttosto che in casa
sua,
dove avrebbe potuto architettare, riflettere e tentare di mettere in
atto i
suoi piani distruttivi.
Così
il ragazzo passò
le successive giornate tra le quattro pareti di camera sua, la finestra
sigillata
e con le sbarre all’esterno, l’unica sua
distrazione era lo stereo che teneva a
tutto volume, guadagnandosi spesso diverso frustate di cinghia.
Il
giorno dopo la sua
ultima bravata udì la voce di Archy fuori dalla sua porta e
si mise ad
origliare: stava parlando con Lenny e, da quanto poté
capire, pareva che l’uomo
che gli aveva venduto la roba, lo spacciatore dagli occhi infossati,
ora
giacesse sul fondo del Tamigi con delle belle scarpe di cemento a
tenergli
compagnia.
Non
si sentì in colpa
per quell’uomo né lo sfiorò
l’ipotesi che fosse stato lui la causa della sua
morte: ognuno faceva il suo lavoro a proprio rischio e pericolo, questo
era
chiaro a tutti.
Sperò
invece che il
cagnolino di papà entrasse in camera sua, magari per
picchiarlo per la volta
scorsa, o sgridarlo o semplicemente parlargli; aveva una voglia matta
di
rivederlo, di sentire il suo odore, anche di beccarsi la sua famigerata
sberla
se questo significava avere un qualsivoglia contatto con lui.
Ma
Archy parve
tenersi ben distante da lui, quasi avesse intuito il problema.
Si
rividero solo mesi
dopo, per la pausa estiva, e dallo sguardo che gli lanciò
Johnny capì che non
aveva dimenticato il loro ultimo incontro, anzi, probabilmente era un
pensiero
che l’aveva tormentato per lunghe notti insonni e questo
riempì di
soddisfazione il ragazzino.
Essere
sempre nella
mente di quell’uomo era più di quanto avesse
sperato inizialmente e non poteva
che essere felice; anche quando, col tempo, gli sguardi di Archy si
andarono
addolcendo, se guardava bene in fondo a quegl’occhi poteva
leggere la
consapevolezza che stava ancora pensando a quella notte in macchina.
Il
giorno del
diciottesimo compleanno di Johnny tutti si aspettavano una spettacolare
fuga
dalla casa del patrigno, magari accompagnata da qualche furto o danno
collaterale, giusto per rivendicare la propria libertà e il
controllo sulla sua
vita ora che aveva finalmente raggiunto la maggiore età.
Ma
stranamente in
quell’afosa giornata di agosto non si mosse una foglia nei
pressi di casa Cole;
i gorilla del gangster si guardavano stupiti l’un
l’altro, appostati com’erano
dietro ogni porta e ogni colonna.
Avevano
ricevuto
ordini precisi e scrupolosi dal loro capo – ad essere
sinceri, li aveva
istruiti Archy, ma tutti sapevano che l’organizzatore vero e
proprio era il
signor Cole – eppure sembrava che si fosse trattato di un
falso allarme, perché
il disastro ambulante di nome Johnny non pareva intenzionato a lasciare
la
propria camera, né dalla porta né per vie
traverse.
Non
che Lenny
intendesse impedirgli la fuga, per carità!, era una
benedizione potersi
finalmente liberare di quel moccioso così problematico, ma
avrebbe preferito
lasciarlo andare senza immolare alla causa i suoi preziosi vasi di
porcellana o
gli antichi dipinti e arazzi che ricoprivano le pareti della sua
maestosa
dimora.
Dopo
ore di surreale
silenzio Danny e gli altri uomini cominciavano davvero a preoccuparsi;
proprio
quando stavano confabulando tra loro se continuare o meno la guardia
Archy
entrò dal portone principale, intento a chiudere
l’ennesima chiamata di quella
giornata terribilmente intensa.
<
Archy…>
<
Che succede
qui?>
Lo
sguardo smarrito
dei suoi sottoposti non lo confortava più di tanto e neanche
quell’innaturale
silenzio che avvolgeva tutta la casa.
<
Ecco… il
signorino Johnny non si è visto…>
<
Non è mai uscito
dalla sua stanza… non un segno di vita, neanche un
po’ di musica… e la finestra
è ancora sigillata.>
Questo
era davvero
preoccupante; l’uomo si bloccò per un istante, non
osava neanche pensare cosa potesse
passare per quella mente malata in quei terribili secondi di silenzio.
Probabilmente la fine del mondo era vicina.
<
Che… che
facciamo, Archy?>
Gli
ci volle solo un
momento per immaginare cosa avrebbe voluto Lenny – che ormai
conosceva talmente
bene da poter anticipare i suoi desideri – e metterlo in
pratica.
<
Restate di
guardia fino a nuovo ordine. Io andrò a riferire a
Lenny.>
Non
che si aspettasse
di ottenere un qualche tipo di indicazione da un patrigno che meno
sapeva del
proprio figliastro più era contento, ma era più
una questione di formalità.
<
Sarà la volta
buona che quel piccolo ingrato si è ammazzato.
Già ce lo vedo, impiccato con un
cazzo di lenzuolo, le gambe per aria a ciondolare avanti e indietro,
uno dei
suoi fottutissimi strumenti ancora in mano. Scommetto che vuole farmi
un
dispetto, quel bastardo, lasciarmi un morto in casa per dover pulire
tutta la
merda che ci ha lasciato. E magari il suo dannatissimo fantasma ha
anche
intenzione di perseguitarmi, ricordarmi che non mi libererò
mai di lui!>
Archy
dovette
trattenersi per non alzare gli occhi al cielo, quell’uomo era
un melodramma
vivente.
<
In definitiva
che dobbiamo fare?>
<
Ma lasciate che
si ammazzi, quel moccioso irritante! Solo, continuate a sorvegliare la
mia roba
anche questa notte, non vorrei che quell’odioso terremoto
approfittasse del
buio per distruggermi la casa.>
Gli
ordini era ordini
e gli uomini rimasero appostati tutta la notte, ma non un solo rumore
uscì
dalla stanza di Johnny; Archy, nonostante preferisse spararsi piuttosto
che
ammetterlo, stava davvero cominciando a preoccuparsi.
Dopo
che anche la
mattina seguente non si udì alcun rumore dalla camera,
l’uomo decise che era
ora di vedere che diamine stava combinando quel ragazzino.
Bussare
era una
prassi che Archy non riusciva a mettere da parte, ma al discreto suono
delle
sue nocche su quella porta non seguì alcuna risposta. Deciso
ad entrare provò
la maniglia, anche se si aspettava di dover buttare giù la
porta a calci.
Invece,
con sua
grande sorpresa, la maniglia si abbassò con uno scatto secco
e gli permise di
entrare.
<
Johnny-boy.>
Appena
messo un piede
dentro la stanza Archy si chiuse la porta alle spalle, più
per impedire ad
altri di vedere cosa succedeva lì dentro che per bloccare
quella comoda via di
fuga; gli ci volle una manciata di secondi prima di individuare il
ragazzo,
intento a gettare oggetti vari in un borsone stracolmo.
<
Ah, zio
Archy.>
Era
incredibile come
quel giovane potesse apparire così calmo dopo aver svuotato
la sua stanza di
tutti i suoi oggetti personali e vestiti ed essere riuscito a ficcare
il tutto
in una borsa da sport per fuggire dalla casa infestata di incubi e
brutti
ricordi da dimenticare. Ed era riuscito a fare tutto questo senza
emettere un
solo suono.
Aveva
dell’incredibile.
Archy
non era certo
se avanzare nella sua direzione fosse la mossa più saggia,
perciò si limitò a
fissarlo da quei quattro metri di distanza; il ragazzo buttò
nella sacca un
vecchio cubo di Rubik a cui in passato aveva staccato tutte le facce
reincollandole una ad una, poi si voltò completamente,
pronto per fronteggiare
il suo vecchio zio.
<
Credevo saresti
scappato ieri.> mormorò quest’ultimo
guardando quella camera ormai spoglia.
<
Avrei voluto,
zio Archy, davvero! Ma vedi, è così difficile
trovare un alloggio al giorno
d’oggi per noi giovani… ho dovuto contattare
più gente del previsto e ho perso
tempo… ma come puoi notare, ora sono pronto per levare le
tende.>
Quasi
intendesse
quell’espressione in maniera letterale, lo sguardo di Archy
corse alle tende
temendo di vederle strappate dal loro sostegno, ma per fortuna erano
ancora lì,
intatte. Probabilmente una mossa strategica, Johnny era al corrente del
gorilla
appostato sotto la sua finestra e non voleva che quello potesse vedere
cosa
stava succedendo nel suo vecchio rifugio.
<
Allora, zio, sei
venuto a fermarmi?>
Più
che preoccupata o
in apprensione la voce del ragazzo pareva eccitata dal dover affrontare
l’amato
cagnolino di papà per ottenere la libertà, un
pensiero che irritava il più
vecchio nel profondo.
<
Ero venuto a
controllare che tu fossi ancora vivo. Il fatto che tu sia stato
così silenzioso
era… allarmante.>
Il
ghigno compiaciuto
del giovane era disarmante.
<
Preoccupato per
me?>
<
Più per la
tappezzeria, il sangue è difficile da levare.>
Con
una risatina
soddisfatta Johnny si chinò a chiudere la zip della borsa e
ad appoggiare il
pesante carico sul letto.
<
Bene, direi che
allora è arrivato il momento di dire
addio…>
Archy
non sapeva se
doveva sentirsi sollevato per la notizia o ancor più
preoccupato: quel ragazzo
poteva anche essere un terremoto ambulante, la causa scatenante della
prossima
guerra mondiale o quel che gli pareva, ma alla fine era solo un ragazzo.
Lo
conosceva da
quando non gli arrivava neanche a mezza coscia e aveva assistito alla
sua vita,
a quel lento processo che l’aveva reso pericoloso,
incosciente, una mina
vagante; un processo inarrestabile che Archy avrebbe davvero voluto
fermare. E
forse quella era la sua ultima occasione per farlo.
<
Sei sicuro di
quello che fai, Johnny? Dove pensi di andare una volta fuori di qua?
Cosa credi
di poter fare?>
Johnny
scoppiò
nuovamente in una breve risata mentre con passi lenti e un
po’ barcollanti
colmava lo spazio tra di loro.
<
Allora sei
preoccupato per me!>
<
Sto solo
cercando di farti riflettere, dato che non sembri in grado di farlo di
tua
spontanea volontà.> replicò seccato
l’uomo, colto in fallo. Ma in verità
avrebbe davvero preferito morire piuttosto che ammettere che ci teneva
a quel
grattacapo vivente e che voleva aiutarlo.
<
Ho i miei
progetti, zio Archy. Non puoi pensare sinceramente che io voglia
restare a
marcire in questa casa per il resto della mia vita! Il paparino non
sembra
molto contento di me e credo sia meglio per tutti e due che io tagli la
corda.>
Il
più vecchio non se
la sentiva di dargli torto, non una parola che aveva pronunciato era
oggettivamente sbagliata, ma il ricordo di quella notte
d’inverno, di come si
era gettato sulle droghe nonostante la sua giovane età, lo
faceva tremare.
Un
tossico è un
tossico, quasi impossibile da recuperare: quella merda ti cala in un
buco nero
da cui non si può più uscire.
Archy
si irrigidì
quando si rese conto di quanto vicino si era fatto Johnny, che stava
invadendo
il suo spazio personale in maniera plateale, con una sfacciataggine
incredibile
e il solito ghignetto soddisfatto sulle labbra.
<
Sai, zio, sono
felice che tu sia venuto da me. Avevo voglia di vederti almeno
un’ultima volta
prima di andarmene.>
Se
Archy non l’avesse
considerato troppo avventato addirittura per lui, avrebbe giurato che
il
ragazzo gli aveva strizzato l’occhio come i giovani facevano
per adescare
qualche bella ragazza. Ma doveva essere stata un’illusione
ottica, forse il
troppo stress, perché era davvero troppo anche per Johnny.
<
Dove andrai?>
chiese con un tono leggermente scontroso, più che altro per
l’assurdo corso dei
suoi pensieri.
<
Bé – ora Johnny
aveva oltrepassato ogni limite andandogli quasi addosso, meno di cinque
centimetri tra i due – perché non provi a
scoprirlo da solo? Certe cose bisogna
guadagnarsele…>
Un
suono seccò
risuonò nell’aria, seguito da un debole gemito.
Archy
abbassò la
mano, sconvolto per aver reagito senza neanche darsi il tempo di
immagazzinare
le parole udite e pensare di conseguenza: ma non per questo il suo
gesto era
stato meno voluto e decisamente spontaneo.
Johnny
si teneva la
guancia offesa con una certa teatralità, anche se il dolore
nei suoi occhi era
evidente ed autentico: se la sberla di Archy era famosa in tutti gli
ambienti
malavitosi di Londra un motivo c’era.
<
Vedi di non
montarti la testa, ragazzino. E renditi conto con chi stai
parlando.>
ringhiò in un soffio a pochi centimetri
dall’orecchio del giovane.
Nonostante
la sberla
era ancora terribilmente vicini l’un l’altro.
In
tutta risposta
Johnny fece quello che nessuno si sarebbe aspettato, a meno che non lo
avesse
conosciuto da parecchio tempo: scoppiò a ridere, gli occhi
che gli lacrimavano
per il dolore e la guancia gonfia e arrossata.
Archy
conosceva
Johnny da parecchio tempo, perciò non si scompose
più di tanto: era un
comportamento molto “da Johnny”, in un certo senso
prevedibile.
Il
più giovane
continuò a ridere per un paio di minuti, asciugandosi le
lacrime con una mano e
chinandosi sempre di più verso l’uomo.
<
Sai, zio… -
bofonchiò con il volto praticamente appoggiato alla sua
spalla e il gangster si
irrigidì – credo che mi mancherà anche
questo. La mia vita senza le tue famose
sberle perderà un bel po’ di senso.>
<
Sei un caso
disperato, Johnny-boy.>
Sembrava
impossibile
levare quel ghigno idiota dalla sua faccia mentre inspirava a fondo
l’odore del
suo improvvisato sostegno.
<
Credo sia
arrivato il momento di dirci addio.> mormorò
strofinando la guancia offesa
contro il colletto inamidato della camicia. L’uomo lo
guardò dubbioso, un
sopracciglio inarcato denunciava il suo scetticismo.
Il
ragazzo sbuffò
quando l’altro non fece alcun movimento.
<
Non sono sicuro
di essere io il caso disperato.> gli soffiò
nell’orecchio prima di sporgersi
ancora un po’.
Archy
successivamente
tentò di giustificarsi tenendo presente il fatto che era
stato preso in
contropiede, era troppo vicino per poter reagire in maniera consona e
che
Johnny era decisamente incontrollabile.
Ma
nonostante tutte
le sue inutili scuse, quando Johnny appoggiò le sue fredde
labbra sulle sue non
si tirò indietro, non lo spintonò, non
cercò di ristabilire un’adeguata
distanza tra i loro corpi.
A
suo favore poteva
però affermare di non aver neanche risposto a quel contatto,
anche quando il
ragazzo aveva premuto con più forza su di lui, la lingua che
gli leccava il
labbro inferiore prima che questo venisse mordicchiato.
Per
tutto il tempo
l’uomo restò immobile, fino a che finalmente
Johnny non si staccò.
<
Bé, non è
malaccio come regalo d’addio.> mormorò e
senza aggiungere altro gli diede la
schiena, si caricò la borsa sulle spalle ed uscì
in silenzio.
Archy
rimase lì in
piedi per un paio di minuti, la mente ancora bloccata da quanto era
successo.
Non che essere baciato fosse così sconvolgente, ma
l’essere baciato da Johnny
sì. Forse non era più il ragazzino minorenne che
gli si strusciava addosso
rischiando di farlo finire in galera per atti osceni in luogo pubblico
e
corruzione di minore, specie perché con ogni
probabilità Lenny non avrebbe
gradito l’idea della suo uomo più fidato che si
faceva il suo odiato
figliastro.
Forse
Johnny era
cambiato, di certo era cresciuto, ma agli occhi del più
vecchio rimaneva sempre
il suo solito Johnny-boy.
Scosse
la testa,
incredulo, e l’occhio gli cadde sulla sua spalla sinistra: si
vedeva
perfettamente il tessuto stropicciato dove la mano di Johnny si era
aggrappata
per restare in equilibrio in punta di piedi.
Un
sorriso amaro salì
alle labbra di Archy e senza pensare ad altro uscì dalla
stanza ormai vuota.
Nonostante
avesse
cercato in ogni modo di rimuovere dalla mente le parole di Johnny,
quelle non
facevano che tornare e ritornare a tormentarlo:
“perché non provi a scoprirlo
da solo?”.
E
ci aveva provato
davvero.
Aveva
cercato quel
combinaguai ovunque, in lungo e in largo, aveva sguinzagliato gli
uomini di
Lenny per tutta la città, chiesto allo Strizza, chiesto a
tutti coloro che
potevano sapere qualcosa su di lui, spacciatori, tossici, gentaglia dei
bassi
fondi, ma nulla: il ragazzo pareva sparito nel nulla.
Eppure,
dopo due anni
dalla sua partenza, Archy teneva ancora gli occhi bene aperti, pronti a
cogliere la minima traccia che avrebbe potuto ricondurlo a Johnny.
Le
sue speranze però,
dopo tutto quel tempo, cominciavano ad affievolirsi; e come spesso
succede,
quando non ci speri più ciò che desideri ti si
para davanti agli occhi.
Proprio
lì, ad uno
sporco tavolino dello Speeler, il luogo più ovvio,
più banale dove andarsi a
cacciare ed anche il meno sicuro visto che era frequentato da gente che
aveva
le mani in pasta negli affari di Lenny. E Archy in quel luogo ci andava
di
tanto in tanto a fare una partitina.
Così
quando lo vide
lì seduto, da solo, a bersi un orribile cocktail con
più merda che altro
dentro, quasi non credette ai suoi occhi: certo, i capelli erano
più corti di
due anni prima e i vestiti che indossava… bé, di
certo Lenny Cole non gli
avrebbe mai permesso di portarli sotto il suo tetto, questo era certo.
Lo
stesso discorso
valeva per quei terribili occhiali da sole con cui si stava atteggiando
in quel
momento.
Prima
che potesse
fare una sola mossa, un minimo tentativo di fuga, Archy gli fu accanto,
una
mano sulla spalla per tenerlo ancorato lì, bloccato fino a
quando non l’avesse
deciso lui.
<
Johnny-boy.>
Gli
bastò un’occhiata
per capire che quell’incontro non era un caso: lo stava
aspettando, era lì per
quello.
L’uomo
si sedette e
lo fissò dritto negli occhi, ma tutto ciò che la
sua espressione interrogativa
ottenne in risposta fu un sorriso sornione.
<
Ti vedo bene,
zio Archy. Papino non ti schiavizza più come ai vecchi
tempi?>
In
un istante il più
vecchio si ricordò quanto irritante e sfacciato potesse
essere quel dannato
ragazzino, ma a dispetto di ciò sorrise; non
l’avrebbe mai ammesso, ma gli era
mancata quella faccia tosta.
<
Che ci fai qui,
Johnny-boy?> domandò mentre con un cenno ordinava a
Fred il solito.
L’altro
si puntellò
sui gomiti e piegò leggermente la testa.
<
E’ da un pezzo
che non ci vediamo. Ero preoccupato, temevo che tu ti stessi
trascurando. Non
sei più un giovincello, zietto.>
<
Non solo due
anni a fare la differenza.>
<
Oh, ti assicuro
che possono farla. E tanto anche.>
Continuarono
a
parlare senza dire nulla di particolare, Johnny era un maestro nel
tenere
conversazioni prive di capo e coda; a cose serie Archy non si
arrischiava ad
accennare, c’erano troppe orecchie indiscrete in quel posto.
Peccato
che forse non
avrebbe avuto altre occasione di chiacchierare liberamente col ragazzo.
<
Non sono
riuscito a trovarti. – ammise tutto d’un tratto
– Da nessuna parte.>
Il
classico ghigno
più che soddisfatto apparve subito su quel volto scavato.
<
Sono bravo a
nascondermi, vero? Bé, credo che dovrai sforzarti ancora un
po’, zietto. Non ho
intenzione di aiutarti troppo.>
Fino
a due anni prima
l’avrebbe colpito con una delle sue famigerate sberle, ma per
quella volta non
lo fece; odiava se stesso per essersi lasciato coinvolgere in quel
perverso
nascondino, ma in fondo in fondo gli piaceva, era divertente.
Archy
non ricordava
quand’era stata l’ultima volta che si era
divertito, forse da ragazzo durante
una bravata tra amici; ma ora Johnny lo stava facendo davvero divertire.
Per
questo non lo
fermò quando finì il suo orribile cocktail e si
alzò con un ghigno.
<
Allora ti
aspetto presto, zio Archy.>
Quella
era una sfida
che non poteva rifiutare.
Effettivamente
aveva
dovuto spremersi le meningi, impiegare ogni attimo libero dagli impegni
di
Lenny per rintracciare quel moccioso e sfruttare tutte le sue
conoscenze: non
si era certo risparmiato, aveva metaforicamente messo a ferro e fuoco
tutta la
città.
Ancora
una volta per
riuscire in quell’impresa lo Strizza era stato fondamentale,
perché la tana di
quel ratto era fuori da ogni giurisdizione, da ogni ambiente umanamente
abitabile. Il nascondiglio perfetto, senza ombra di dubbio.
La
dea Fortuna li
aveva aiutati parecchio per ritrovare il ragazzo, anche se Archy non
era così
pronto ad escludere che certe tracce fossero state lasciate
volontariamente dal
giovane scapestrato; come quell’annuncio, quel volantino che
per vie traverse
era arrivato tra le mani dell’informatore.
Un
concerto
clandestino in un locale abbandonato.
Grande
star della
serata: Johnny Quid.
Lo
Strizza si era
precipitato ad avvertire il suo amico e cliente fisso, il piccolo
problema era
che sul volantino non c’era scritto quale cazzo fosse il
locale in disuso. Ma
Archy non si era lasciato abbattere da quei dettagli secondari: lo
spettacolo
era rivolto a quell’ammasso disordinato di drogati, tossici e
gentaglia
impasticcata che frequentava gli stessi ambienti di Johnny.
Se
non era stato
messo il luogo esatto voleva dire che tutti sapevano quale fosse oppure
che
tutti sapevano a chi chiedere. E c’era un solo punto di
riferimento fisso per i
crackhead.
Cookie
era seduto al
solito tavolo allo Speeler quando l’uomo più
fidato di Lenny Cole gli si
avvicinò posandogli possessivamente una mano sulla spalla;
lo spacciatore per
poco non si soffocò con il suo stesso drink.
<
Archy… A cosa
devo la visita?>
Il
volantino
incriminato venne sbattuto violentemente sulla superficie del tavolino.
<
Il posto. Ho
bisogno di sapere qual è.>
L’occhiataccia
sospetta che gli rivolse Cookie diceva chiaramente che avrebbe
preferito fare
compagnia ai gamberi killer nel letto del Tamigi piuttosto che
rivelarglielo,
ma lo sguardo di Archy era di gran lunga più temibile di un
paio di gamberi
americani.
E
così il gangster si
era ritrovato in quel luogo dimenticato da Dio – anzi,
probabilmente Dio non
l’aveva mai visto in vita sua – a cercare di
infiltrarsi tra la folla di
giovani dagli occhi vitrei; in cuor suo pregò
perché Johnny non fosse già
arrivato a quello stadio.
Per
non destare
troppo sospetto si era vestito in maniera assolutamente informale,
maglietta e
jeans come tutti, ma probabilmente l’anello al dito e il
portamento da uomo
realizzato lo tradivano più di qualsiasi completo giacca e
cravatta; ragazzini
che dovevano essere di gran lunga più giovani di Johnny lo
guardavano male e
bisbigliavano tra loro indicandolo, altri, troppo sfatti per badarlo,
gli
passavano accanto senza degnarlo di uno sguardo.
Il
locale era gremito
di gente che fumava, rideva sguaiata, si dondolava sul posto; qualcuno
vomitava
agli angoli della strada, la musica usciva già dalla porta,
il concerto era
iniziato. Archy si fece largo a spintoni fino a trovare un posto che
gli
permettesse di vedere perfettamente il palco rimanendo sufficientemente
nascosto dal mare di teste perché la rockstar non potesse
individuarlo.
Quando
Johnny salì
sul palco ci fu un boato, a quanto pareva nei bassifondi aveva
acquisito una
buona fama. Il più vecchio non aveva mai apprezzato
particolarmente i generi
che ascoltava il ragazzo, ma era in grado di giudicare oggettivamente
se un
artista era bravo o meno.
E
doveva ammettere
che il moccioso se la cavava fin troppo bene.
Sul
palco poi sembrava
fosse a casa sua, si muoveva in una maniera così naturale
che era evidente come
fosse perfettamente a proprio agio; la folla
non lo intimoriva, le urla lo eccitavano ancora di più.
Archy
fu costretto a
muoversi, accennare un po’ di ballo, dimenarsi come gli altri
per non venire
sballottato qua e là e soprattutto per non dare ancor di
più nell’occhio,
Johnny infilava un pezzo dopo l’altro senza scomporsi, fresco
come se avesse
appena cominciato.
Il
suo amato zietto
non poteva che restare a bocca aperta mentre quelle luci psichedeliche
metteva
in evidenza il suo profilo, i muscoli del torace che risaltavano mentre
a petto
nudo continuava a cantare, Poi avvicinò la bocca al
microfono e ad Archy quasi
venne un infarto.
Era
la maniera in cui
lo sfiorava, muoveva le labbra attorno alla testa senza però
toccarlo, cantando
come se niente fosse, la sua faccia di bronzo in bella mostra; solo un
lampo
nei suoi occhi poteva far capire l’ambiguità e la
malizia nei suoi movimenti,
ma probabilmente quel branco di fattoni che assistevano alla scena non
si
accorgeva minimamente dello spettacolo mozzafiato che aveva davanti.
Il
sottile velo di
sudore rifletteva le luci su quel corpo scarno, ma ben delineato che
veniva
esibito dalla cintura in su come un trofeo.
Archy
cercò di
riprendere il controllo di sé e gli ci volle tutta la sua
determinazione per
non farsi largo tra la folla e salire sul palco per fare non sapeva
neanche lui
cosa, forse picchiarlo, trascinarlo per un orecchio fuori da quel posto
e
riportarlo a casa o forse buttarlo a terra e fotterlo come se non
avesse
aspettato altro da quella sera che il moccioso, ancora quattordicenne,
si era
messo a strusciarsi contro di lui.
Ma
come tutte le
torture, per quanto piacevoli, finì anche quella.
Johnny
svanì dal
palco, dietro le quinte e i tossici cominciarono a farsi largo verso
l’uscita,
più rintronati di prima; Archy si rese conto che quella era
la sua sola
occasione: sgusciò tra i giovani e raggiunse in fretta e
furia l’uscita
posteriore, quella che, ne era certo, avrebbe usato il signor Quid.
Aveva
avuto modo di
studiare la struttura dell’edificio e sapeva che quella era
la via più discreta
e più pratica per far perdere le proprie tracce. Non gli
restava che
appoggiarsi al muro, un poco riparato rispetto all’uscita, e
attendere che il
moccioso uscisse.
Non
dovette attendere
molto perché Johnny uscisse con una birra in mano, quel
fottuto ghigno
trionfante sulle labbra; c’erano altri due ragazzi con lui e
Archy preferì non
farsi vedere fino a che quelli là non fossero spariti.
La
priorità era
sempre quella di non dare troppo nell’occhio, non osava
nemmeno pensare a quale
sarebbe stata la reazione di Lenny Cole se avesse saputo che il suo
uomo
migliore si era mischiato con quella feccia dei tossici per cercare di
recuperare i contatti con quella disgrazia ambulante che era il suo
figliastro.
No,
davvero, Archy
non ci teneva a far scoppiare il putiferio.
I
pedinamenti non
erano mai stati nel suo stile, ma se la cavava a sufficienza per stare
dietro a
tre ragazzotti ubriachi e fatti fino al midollo; mentre li osservava
non poté
fare a meno di irrigidirsi nel vedere come i due sconosciuti davano
pacche sulle
spalle a Johnny, gli sfioravano la schiena, cercavano di toccarlo il
più
possibile.
Si
appuntò
mentalmente di scoprire i loro nomi e tranciare personalmente quelle
loro
manacce schifose, oppure lasciarli in pasto ai famigerati gamberi
killer, ma
non appena si rese conto dell’idiozia dei suoi pensieri si
riscosse, tentando
invano di attribuire il suo assurdo rimuginare a quel paio di bicchieri
che
aveva bevuto prima di andare al concerto.
Scusa
misera dato che
riusciva a reggere perfettamente l’alcol, ma in quel momento
gli bastava per
tenere la coscienza a posto.
Arrivati
ad un alto
fabbricato dall’aria assolutamente inabitabile i due ragazzi
si incamminarono
per un’altra strada e Johnny barcollò verso
l’ingresso, sfondando con un calcio
la porta che pareva essersi bloccata: nessun portiere, nessun controllo
e
neanche un paio d’occhi indiscreti a guardarli. Di
più Archy non poteva
chiedere.
Entrò
anche lui
facendo ben attenzione a non fare rumore; il locale in cui viveva il
giovane,
anche se definire locale quell’infimo buco era più
che un eufemismo, era una
piccola topaia ricoperta di polvere e ragnatele, lattine vuote e
sigarette
sparse per il pavimento.
Aspettò
qualche
minuto in silenzio, il suo naso si stava abituando a quella puzza
disgustosa.
Quando
uscì dal suo
nascondiglio Johnny era steso sul divano, un braccio sopra gli occhi e
l’altro
che ciondolava su un cuscino; pareva profondamente addormentato.
L’uomo
non riuscì a
trattenere un sorriso nel vedere quell’espressione
così beata, così simile a
quella che aveva da bambino; gli diede le spalle, preferendo esplorare
un poco
quel buco piuttosto che fissare imbambolato quel moccioso.
Lo
svegliò il rumore
della teiera che bolliva e dei passi poco distanti da lui;
aprì un occhio e il
profilo di Archy entrò nella sua visuale, la linea rigida
delle spalle e le
mani che preparavano con cura due tazze e i cucchiaini.
Un
click e l’uomo si
trovò puntata contro la propria schiena la canna di una
pistola.
<
Ben svegliato,
Johnny-boy.>
L’alito
che sentì sul
collo non era esattamente tranquillizzante, ma stranamente Archy non si
sentiva
in pericolo. Si voltò per esaminare meglio l’arma
premuta contro di sé ed
incontrò quegli occhi infossati circondati da profonde
occhiaie; a vederlo così
da vicino era più magro, molto più magro di
quanto non fosse prima della sua
fuga e non che fosse mai stato grasso.
Almeno
il ghigno era
quello di sempre, constatò quando il ragazzo alzò
la canna della pistola dal
petto verso il suo mento.
<
Ce l’hai fatta
alla fine, zio Archy.>
<
Non è stato poi
così complicato… Mister Rockstar Johnny Quid.
Dovresti trovarti un palco un po’
più appropriato per una star del tuo calibro.>
Quel
ghigno era più
malato di quanto ricordava ad essere sincero e non poté non
seguire con gli
occhi la canna della pistola che si allontanava un poco dal suo mento
di
qualche centimetro.
Non
riuscì a
reprimere uno scatto quando Johnny premette il grilletto: una piccola
fiammella
si sprigionò dall’arma, così vicina
alla sua pelle da sentirne il calore.
<
Originale.>
<
Vero? Ci ho
messo un pezzo per recuperarla.>
L’uomo
si voltò senza
riuscire a trattenere un sorriso.
<
Ti va un
the?>
Il
ragazzo ciondolò
verso una sedia e si lasciò crollare su di essa.
<
Visto che l’hai
già preparato.>
Non
se lo sarebbe mai
immaginato fino a qualche minuto prima, ma stava davvero prendendo un
fottutissimo the all’inglese con il vecchio zio Archy; non
era normale,
assolutamente no. Insomma, per quanto non fosse esattamente un
estraneo, a
parte sberle, scappellotti e qualche pacca sulla spalla non
è che avesse
passato veramente tanto tempo da solo con il fedele cane di suo padre.
Si
era dovuto
limitare a guardarlo da lontano, con la coda dell’occhio, e
ogni contatto
fisico era un sollievo, una memoria in più da conservare,
fosse anche la pelle
ruvida delle sue mani, delle nocche che sbattevano impietose contro la
sua
guancia e i suoi zigomi.
Se
c’era una cosa che
Lenny Cole era riuscito perfettamente a fare era impedire al figliastro
di
avere qualsivoglia contatto umano: lo aveva costretto a passare la sua
intera
infanzia isolato nella propria stanza e così era cresciuto,
non un amico, non
un compagno, niente se non quelle quattro mura e la sua musica.
La
scuola era stata
in qualche maniera astrusa e complicata la sua unica salvezza,
quell’appiglio
che gli aveva permesso di non crollare, di non impazzire.
Era
riuscito a
trovare altri ragazzini, così simili a lui eppure totalmente
diversi sotto ogni
aspetto, e grazie a tutto questo era cresciuto senza troppi problemi
– anche se
a sentire chi lo conosceva di problemi ne aveva fin troppi.
In
realtà durante
quelle terribili vacanze, estive ed invernali, non c’erano
compagni di giochi o
altri ragazzini con cui condividere il proprio tempo e Lenny non lo
lasciava
neanche chiacchierare con i suoi uomini.
Non
che quei gorilla
avessero molta intenzione di passare il loro tempo a scambiare opinioni
col
figlioccio del loro capo, tranne Archy ovviamente: lui era
l’unico che aveva un
po’ più di classe, un po’ più
di cervello, di umanità.
Era
l’unico che
quando lo guardava sembrava che non vedesse solo il figlio del proprio
capo, ma
un ragazzo; rimaneva sempre e comunque professionale, in ogni suo
movimento, ma
semplicemente perfetto e umano.
Si
era sentito sempre
un po’ legato a lui, nonostante le distanze che lo
separavano, e c’era voluto
poco per passare dall’ammirazione a qualcos’altro.
Ed ora, per la prima volta,
si trovava in una situazione del tutto pacifica con accanto il suo zio
Archy.
<
Per quanto tempo
hai intenzione di restare in questo buco?>
Sorseggiò
il suo the,
il migliore che avesse mai bevuto.
<
Fino a che non
troverò qualcosa di meglio.>
Si
guardarono per un
istante e Johnny ne approfittò per osservare attentamente
com’era conciato
l’altro, in quella tenuta così casual.
<
Stai bene in
maglietta. Credevo che quel completino in giacca e cravatta fosse
attaccato
alla tua pelle.>
Il
più vecchio scosse
la testa, ignorando deliberatamente il commento insulso.
<
Cosa fai per
guadagnarti da vivere, Johnny? Show? Spettacolini di terzo tipo per
racimolare
qualche centesimo?>
<
Suvvia, zio
Archy, non essere così pignolo. In fin dei conti non devo
far fronte a troppe
spese… sigarette… qualche
bicchiere…>
<
La droga.>
Gli
occhi del
gangster erano duri, cattivi: non poteva sopportarlo, vedere quel
moccioso così
giovane buttare via la propria vita in questa maniera.
Il
ragazzo ingollò
quel che restava del the e si sporse all’indietro, in
equilibrio sulle gambe
posteriori della sedia; era tutto meno che impressionato.
<
Che ci vuoi
fare, zietto? Sono fatto così, amo viaggiare. Non faccio del
male a nessuno, sono
innocente come un agnellino, no? Credi che potrei fare del male a
qualcuno, zio
Archy?>
Detto
da uno che solo
pochi minuti prima gli aveva puntato contro una pistola, anche se
finta, tutto
il discorso aveva un tono decisamente ironico, ma il più
vecchio non si stava
affatto divertendo.
Era
sempre stato uno
dei tanti problemi di Johnny, quello di non prendere mai nulla
seriamente:
tutto era un gioco, se sparavi a qualcuno quello si sarebbe rialzato,
se
gettava dalla finestra i milioni di suo padre in cinque minuti si
sarebbe
recuperato tutto il malloppo. Se ti puntavano una pistola alla testa e
sparavano bastava inserire un’altra monetina per ricominciare
il livello
dall’ultimo salvataggio.
<
Potresti
trovarti un’alternativa a tutto questo, Johnny.>
<
Ah, davvero? Mi
stai chiedendo di tornare a casa di papino? O mi offri un letto a casa
tua? In
quest’ultimo caso accetterei volentieri l’offerta,
posso assicurartelo.>
Non
che quell’opzione
non gli fosse balenata nell’anticamera del cervello, anzi,
Dio solo sapeva
quante volte Archy ci aveva rimuginato sopra, un continuo filmino
mentale che
si ripeteva sempre uguale e sempre con la realistica, tragica fine:
Lenny che
scopriva che il suo uomo più fidato dava riparo al suo
incubo vivente, cercava
di proteggerlo, nasconderlo alla sua vista, ed il capo non la prendeva
affatto
bene.
Due
pallottole in
testa, una in gola per Johnny, questo era scontato.
Forse
due in gola,
per essere più sicuri.
Stessa
sorte per se
stesso, forse un po’ più dolorosa per rimarcare il
suo tradimento.
Diciamo
che fare una
fine di quel tipo, e soprattutto farla fare a Johnny, non era
esattamente al
primo posto nella lista delle priorità.
<
Sai che non è
possibile, Johnny-boy. Non porterebbe a nulla di buono.>
<
Bé, però almeno
saremmo insieme. Non ti piacerebbe se vivessimo assieme, zio
Archy?>
Approfittare
di
quelle parole ad effetto per alzarsi dal proprio posto e avvicinarsi
pericolosamente all’altro era molto da Johnny, che infatti
non si fece sfuggire
affatto l’occasione per sfiorare la mano del gangster, un
gesto quasi innocente
che strideva da morire con il ghigno tutt’altro che casto che
gli si dipinse
sulle labbra.
<
Johnny.>
Doveva
suonare come
un avvertimento, ma la voce gli uscì troppo roca, troppo
bassa, e c’era una
nota in sottofondo che sembrava quasi soddisfatta della piega che
stavano
prendendo le cose; doveva essere l’effetto ritardato
dell’alcol prima del
concerto, magari unito a qualcosa di poco sano nel the che aveva
preparato
(chissà cosa contenevano quelle bustine, non avrebbe dovuto
fidarsi affatto di
qualcosa proveniente dalla “casa” di una persona
inaffidabile quale era il
ragazzo).
Non
bastarono le
labbra di Johnny a sfiorare le proprie per fargli capire cosa stava
succedendo
e cosa sarebbe capitato di lì a poco: prima che la sua
razionalità tornasse a
bloccare il suo istinto e lo costringesse con dolore a colpire quel
viso
sfatto, quella guancia dura, con gli zigomi sporgenti, prima di ferire
quegli
occhi incassati, brillanti, profondi, prima di commettere il
più grande sbaglio
della sua vita Archy ricambiò quello strofinarsi di labbra.
Cercò
Johnny, la sua
pelle, la sua lingua, anche i denti andavano bene:
approfondì quel dannato
bacio e per un attimo tutto ciò che sentì fu il
sapore di tabacco, di alcol,
cibo precotto e the alla menta.
Un
sapore
imprevedibile, assurdo e contradditorio proprio come quel moccioso che
spezzò
la tensione scoppiando a ridere, passando le braccia attorno al collo
di Archy,
tornando a baciarlo, strofinando la guancia su quella
dell’altro.
<
Lo sapevo che
non ero l’unico a volerlo.> mormorò con la
bocca premuta sull’incavo del
collo, intento a respirare a pieni polmoni un odore finalmente sano,
buono, non
come il puzzo di sigarette, di vomito e inquinamento.
Sapeva
di dopobarba,
uno di quelli buoni, e Johnny non poté che approvare la
scelta. Ricordava di
aver sentito quell’odore anni prima, quando in preda agli
effetti della sua
prima volta con la droga si era trovato, senza sapere bene come,
pigiato contro
il corpo solido dell’uomo. In seguito si era pentito di non
essere stato
completamente in sé per poter gustare ogni sfumatura di
quella situazione, i
suoi ricordi erano alquanto sconnessi e poco attendibili, logorati
dalla droga
e dal tempo.
Ma
questa volta
comunque non si sarebbe lasciato sfuggire nulla, non uno sguardo, un
battito di
ciglia, un sorriso appena accennato, un respiro più
profondo: non poteva
garantire di essere al momento completamente sobrio e in sé,
ma di certo lo era
a sufficienza per non dimenticare, al contrario di quel loro momento di
intimità di anni prima.
Non
sarebbe finita
con lui trascinato fuori da una macchina e gettato tra le grinfie di
suo padre
(non ce l’aveva con Archy per questo, era il suo lavoro e se
ne rendeva
perfettamente conto); aveva ancora sulla schiena qualche cicatrice
lasciata
dalla fibbia della cintura del signor Lenny Cole, un monito silenzioso,
ma che
poteva tastare quando voleva, allungando semplicemente la mano verso la
scapola
destra.
Oh,
non l’aveva mai
visto così arrabbiato come quella volta, neanche quando gli
aveva bruciato
circa un milione di sterline nel forno per vendicarsi del suo piccolo
sassofono
che era stato spaccato in due per una nota musicale troppo alta nel
momento
sbagliato.
La
mente di Lenny
ragionava in maniera strana, sopportava con un atteggiamento
più stoico
l’essere derubato o il perdere denaro che un qualcosa che
macchiasse la sua
reputazione. Meglio perdere un milione che scoprire che il proprio
figliastro è
un fottutissimo crackhead, un tossico, uno di quegli stronzi fumati che
sboccano agli angoli delle strade e rubano tutto quello che gli capita
sotto
mano, l’ultimo gradino della scala sociale di qualsiasi
paese, dal più ricco al
paesino sperduto del terzo mondo.
Il
vecchio era
convinto che suo figlio non avrebbe avuto successo neanche come dannato
sciamano di un villaggio dell’Africa.
Ma
questo non
importava più di tanto, non ora che Johnny era fuori da
quella casa, lontano
anni luce dal marito di sua madre, ben nascosto, protetto e con Archy
che non
pareva intenzionato a lasciar andare le sue labbra.
<
Ti conviene non
chiacchierare troppo, Johnny-boy, o potrei cambiare idea nel
frattempo.>
Non
che il ragazzo
avesse bisogno di un incoraggiamento a quel punto, anche
perché quando la mano
dell’uomo afferrò con forza i suoi capelli, stando
ben attento a non esagerare,
i pochi freni che il giovane poteva ancora vantare andarono senza
alcuno sforzo
a puttane.
Il
primo pensiero che
passò per la mente di Archy quando si svegliò la
mattina dopo fu che Johnny
avrebbe davvero dovuto cambiare divano o la sua schiena non avrebbe
potuto
sostenere una replica di quanto avevano fatto quella notte. Una vocina
nella
sua testa insinuò in lui il dubbio che il ragazzo preferisse
quei luoghi
assolutamente scomodi per lasciarsi andare, il che era assolutamente
verosimile; in quel caso il caro e vecchio zio Archy avrebbe potuto
anche
adattarsi.
Doveva
essere a causa
dei ricordi della sera prima e della sensazione di spossato benessere
(Cristo,
non voleva neanche ricordare a quanto tempo prima risaliva
l’ultima volta che
l’aveva fatto... tutta colpa di Lenny e degli orari di lavoro
massacranti che
gli toccava fare per lui), ma ci mise un po’ troppo per i
suoi standard ad
accorgersi che qualcosa o qualcuno mancava in quel momento.
Non
c’era quel peso
fin troppo leggero al suo fianco, nessun corpo dalle ossa sporgenti a
premerlo
contro lo schienale del divano, non un ombra di quell’odore
di tabacco che
Johnny portava sempre con sé.
Archy
spalancò gli
occhi e si tirò in fretta a sedere: il ragazzo non era
lì accanto a lui, dove
avrebbe dovuto essere.
Bastò
un’occhiata
veloce a quel bugigattolo di cucina e al bagno per rendersi conto che
il
moccioso non era neanche lì; era uscito, come un fil di fumo
esce in silenzio
da una finestra socchiusa. L’uomo cercò di non
farsi prendere prematuramente
dal panico e aspettò, ispezionando nel frattempo quel luogo
polveroso: tutto
era esattamente al suo posto, tutto meno che la finta pistola e il
pacchetto di
sigarette con l’accendino.
E
probabilmente
quelle poche banconote di cui Johnny disponeva.
Apparentemente
il
ragazzo poteva essere uscito e basta, un giretto per il quartiere,
magari a
comprarsi della roba o scroccare bicchieri ad un malfamato bar nelle
vicinanze,
ma Archy se lo sentiva, lo sapeva che non era così.
Johnny
era quello
che, se lasciato a se stesso, non si schiodava dal letto prima delle
tre di
pomeriggio, era quello che passava ore ed ore chiuso in casa, che in
compagnia
del suo amato zietto gli si attaccava ai pantaloni e non voleva sentir
ragioni
di scrostarsi da lui. Quello era Johnny e non si sarebbe di certo
allontanato
da lui dopo aver finalmente ottenuto quello che desiderava da tanto
tempo.
Il
gangster imprecò
sottovoce e si rivestì in fretta, controllò che
la sua pistola (quella vera,
funzionante e perfettamente carica) fosse al suo posto, e per grazia
divina lo
era. Appoggiò una mano sul divano, sul lato dove aveva
dormito il ragazzo: era
freddo.
Uscì
per strada con
la consapevolezza che non sarebbe riuscito a incontrare il moccioso,
non se lui
non voleva farsi trovare. Si chiese se quello era stato solo un gioco,
perché
suonava tutto troppo da Johnny e aveva paura di aver colpito nel segno,
ma
qualcosa dentro di lui lo rassicurò, certo che non era stata
una presa in giro.
A
conferma di quello
nella sua mente fluttuarono espressioni, risate, ricordi della notte
appena
passata.
No,
non poteva essere
stato un gioco.
Era
certo che il
giovane non sarebbe tornato nel suo vecchio rifugio, ma diede comunque
l’ordine
ad un paio di uomini di controllarne l’entrata giorno e notte
per le settimane
a seguire: nulla, non un ombra, non un nome, niente.
Johnny
pareva
sparito, evaporato, eclissato, come se non fosse mai esistito; il
fedele cane
di Lenny Cole si mise a cercare, ma né il suo fiuto
infallibile né l’aiuto
dello Strizza né Cookie né qualche altro
conoscente poterono aiutarlo a trovare
quel ragazzino.
Era
semplicemente
svanito nel nulla, inghiottito dalla città e dalle strade
grigio fumo.
Inghiottito
dalla droga,
dai suoi viaggi, da quel mondo fantastico che lo salvava dalla
realtà.
Archy
non poteva
sopportarlo, non poteva pensare a quel ragazzo intento a sfondarsi
l’anima con
il crack, l’eroina, l’alcol, tutto quello su cui
poteva mettere le mani.
Avrebbe
voluto
salvarlo, davvero, avrebbe dato qualsiasi cosa per aiutarlo, ma il
moccioso era
scomparso e man mano che il tempo passava e le settimane diventavano
mesi e poi
anni la rabbia prendeva il sopravvento.
Se
se lo fosse
trovato davanti con ogni probabilità l’avrebbe
picchiato, una bella sberla come
si doveva e poi dritto a casa di Archy, dove li attendevano infinite
notti da
recuperare.
E,
nonostante il
gangster odiasse ammetterlo, non vedeva l’ora di trovarsi di
fronte il ghigno
sfrontato del suo Johnny-boy.