Note: Questa storia ha preso parte all'edizione 2011 del Big Bang Italia. Il titolo è un verso (leggermente modificato) della poesia "The Masque of Anarchy", di Percy Shelley. La canzone contenuta nella storia è a sua volta tratta dalla stessa poesia, in parte tradotta e in parte ispirata ad alcuni versi.
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First
Came Anarchy
Voleva
solo chiudere gli occhi e morire, ma il gracchiare dei corvi lo teneva
sveglio,
il dolore al fianco era sordo, continuo, come il tamburo che risuonava
lento e
ripetitivo nell'aria mattutina.
Aprì
la bocca per inghiottire voracemente ossigeno – il naso,
probabilmente rotto,
sembrava non funzionare a dovere – ma una colata di sangue
uscì da solo Dio sa
dove, rischiando di farlo soffocare.
Una
palpebra si sollevò piano e l'occhio nero e scintillante di
un volatile
ricambiò il suo sguardo stanco.
Probabilmente
non vedeva l’ora di beccare la sua carne morta,
quell’uccellaccio del
malaugurio.
Bé,
non avrebbe dovuto aspettare poi tanto, il fortunato.
<
Ehi, qui ce n'è uno ancora vivo!>
Se
non avesse davvero rischiato il soffocamento Lear sarebbe scoppiato a
ridere:
con tutta la sua buona volontà gli riusciva difficile
considerarsi vivo, non
nelle sue condizioni almeno.
Ricoperto
di sangue – suo e dei suoi compagni, ma soprattutto, o almeno
lo sperava,
quello dei suoi nemici – e con praticamente tutti gli organi
interni esposti
alla luce del sole che faceva capolino all’orizzonte... di
certo non era messo
un granché bene.
Preferiva
ritenersi spacciato e continuare a respirare piuttosto che sperare di
riuscire
a sopravvivere per poi crepare di lì a pochi secondi: meno
delusioni, meno
patemi d'animo.
La
palpebra si richiuse, troppo pesante per restare aperta.
Un
rumore indistinto di passi si fece più vicino, dovevano
essere quattro, cinque
persone al massimo.
Lear
si sentì sollevare senza alcun riguardo da terra mentre mani
callose lo
afferravano e due braccia che sembravano tronchi d’albero lo
sostenevano senza
alcuno sforzo.
Provò
a protestare per il trattamento spartano, ma solo un gemito strozzato
lasciò le
sue labbra.
<
Capitano, cosa ne facciamo?>
<
Caricatelo sul furgone, ci serve il Doc il prima possibile. E muovete
il culo,
quei bastardi sono ancora nei dintorni.>
Senza
la terra a sostenerlo la sua testa si riversò dolorosamente
all’indietro,
bloccandogli il respiro.
Cercò
la forza per alzare il capo, ma si accorse con suo grande disappunto di
non
essere in grado di muovere i muscoli del collo.
La
divisa gli si appiccicò addosso come se si fosse gettato in
mare vestito, ma il
liquido che colava e toccava il suolo non era di certo acqua.
L’ultima
cosa che Lear sentì mentre venivano portato via fu il
vociare dei suoi
salvatori ed il tamburo che si faceva sempre più distante.
Poi,
senza neanche rendersene conto, scivolò in silenzio in una
coltre nera che
puzzava di sangue e polvere da sparo.
Dall’inizio
di quella stupida guerra il Doc ne aveva viste tante, troppe a dir la
verità,
ma un ragazzino con ventre e petto squarciati, cuore, polmoni e organi
vari in
bella vista e ancora la forza di respirare proprio gli mancava.
L’aveva
ricucito come aveva potuto, per evitare che morisse dissanguato nel
giro di
un’ora, e l’aveva lasciato senza troppe cerimonie
alle cure di sua figlia,
ormai molto più abile del padre.
L’uomo
si lisciò i baffi mentre fissava la figura del giovane steso
sul lettino
dell’infermeria: la sua piccola aveva fatto davvero
progressi, il moccioso
sarebbe sembrato come nuovo di lì a poco tempo, eccezion
fatta per quelle due o
tre cicatrici che era impossibile nascondere.
Doc
scosse la testa mentre fissava le carte macchiate di sangue sul
comodino del
suo paziente: il Pass e il cartellino di riconoscimento erano
incredibilmente
leggibili.
Erano
riusciti a risalire all'identità del ragazzo.
Lear
Johannen, diciannove anni, membro dello Squadrone n°2, quello
che era stato
praticamente spazzato via durante l'ultimo scontro.
I
sopravvissuti si potevano contare sulle dita di una mano ed il giovane
era
l'unico che si era trovato in prima linea, sul “luogo del
misfatto”, come lo
chiamavano ormai il Capitano e il Generale.
L’uomo
si lasciò andare ad una breve risata amara mentre si
accingeva a lasciare la
stanza: il moccioso non poteva immaginare cosa lo aspettava appena
avesse
riaperto gli occhi.
L’eco
di un tuono rimbombò tra le pareti spoglie della piccola
cappella, amplificata
e terrorizzante, ma il prete inginocchiato davanti
all’altare, le mani
appoggiate sul grembo e gli occhi chiusi non si mosse di un millimetro
né aprì
gli occhi.
Sapeva
bene cosa avrebbe visto se l’avesse fatto: buio, buio e
ancora buio. Più che
una cappella quella poteva essere una cripta, le finestre erano state
sbarrate
e coperte dai soldati dell’Ovest, impedendo al
benché minimo raggio di sole di
filtrare. Fuori, nel mondo esterno, poteva essere mezzogiorno come
notte
inoltrata, ma il prete non l’avrebbe potuto sapere.
<
Pregate, fratello?>
Il
ragazzo non sussultò a quella voce improvvisa, aveva
percepito la suora
avvicinarsi a lui, i suoi passi leggeri che scivolavano tra le ombre di
quel
lugubre luogo; sospirò leggermente quando la sorella gli fu
più vicino e finalmente
aprì gli occhi, tenendoli però puntati sul
pavimento.
<
Medito, sorella. Temo di non essere più in grado di pregare
da molto tempo.>
rispose con estrema lentezza, soppesando le parole, la voce arrochita
dal
disuso.
<
La speranza vi ha abbandonato?> chiese la suora posandogli una
mano sulla
spalla con fare materno, sinceramente preoccupata per lui.
<
Temo di non averne mai avuta. Capita, quando non vedi che odio attorno
a
te.> fu la risposta asciutta del ragazzo.
La
sorella sospirò, in cuor suo sapeva che i giovani come lui
non potevano capire
tutto della vita, non potevano avere una tale fiducia in Dio pur
indossando
l’abito. Era un limite dell’età, col
tempo avrebbe capito.
<
Dio è amore, fratello Shrine.>
Lo
sguardo dell’altro si indurì.
<
Allora temo che Dio sia morto davvero.>
Non
sapendo cosa dire la sorella rimase in silenzio, lo sguardo addolorato
fisso
sul pavimento mentre il giovane si alzava.
<
Devo andare, sorella.>
<
Siete ancora deciso a partire, dunque?>
Shrine
si avvicinò alla panca alle sue spalle e recuperò
la borsa che vi aveva
appoggiato, evitando accuratamente lo sguardo della sua compagna di
fede.
<
Ho una missione da compiere.>
<
Non è una missione data dal Signore.>
<
E’ la mia. Non ho altro da dire.>
La
donna lo accompagnò su per le scale della cappella,
attraverso gli ambienti
fino alla porta d’ingresso; la squadrarono entrambi,
l’una con tristezza,
l’altro con un sorta di rabbia malcelata: sapevano entrambi
che al di là di
quel vecchio legno c’era l’inferno e che
né croci né preghiere né altro
potevano salvare qualcuno, anche un religioso, dalla morte.
<
Una volta passata questa porta il vostro abito e la vostra fede non vi
daranno
alcun aiuto materiale, ma sappiate che Egli è sempre pronto
a darvi sollievo e
permettervi di affrontare le sofferenze.>
<
Vi ringrazio.> sussurrò il ragazzo e
appoggiò una mano sul battente.
<
Ah, Shrine.>
Gli
occhi azzurri del giovane saettarono sul suo volto, penetranti e
attenti. La
suora si levò il crocifisso che portava al collo e glielo
porse.
<
Ricorda che la speranza è l’ultima a morire. Devi
solo crederci.>
Lear
si chiese seriamente se non sarebbe stato meglio finire a riempire la
pancia di
qualche corvo piuttosto che affrontare il destino che i suoi superiori
avevano
scelto per lui; già il risveglio era stato traumatizzante,
scoprire di avere
quegli orrendi squarci dappertutto, quel terrificante omaccione che
teoricamente doveva essere il suo medico ma che continuava a dargli
pacche
sulle spalle così forti da fargli sputare fuori i polmoni,
per non parlare di
quella che gli era stata descritta come la più dolce tra le
fanciulle, colei
che aveva curato le sue ferite con tanto amore… in
realtà si era rivelata una
donnona grande circa il doppio di lui, un bestione assetato di sesso e
pronto a saltargli
addosso alla prima occasione (uno
dei motivi per cui aveva cercato di abbandonare il prima possibile
l’infermeria).
Il
Doc, così si chiamava il padre di quella tremenda creatura,
lo aveva poi
informato della fine a cui era andato incontro il suo Squadrone e a
quanto
pareva poteva davvero ritenersi fortunato per essere ancora vivo.
Quattro
giorni dopo il suo risveglio il Generale lo convocò nel suo
ufficio; sperò per
un istante che gli dessero il congedo per le gravi ferite riportate, ma
gli bastò
un’occhiata al volto dell’uomo per capire che
avrebbe preferito darlo in pasto
a qualche belva piuttosto che permettergli di tornare a casa.
<
Immagino che Lei sappia perché è qui.>
cominciò quello, ma Lear lo fissò
come dire che non ne aveva la più pallida idea, ma che non
era molto sicuro di
volerlo sapere.
<
Lei, soldato, è l’unico ad essere sopravvissuto a
quel massacro… Lei sa di cosa
sto parlando. E’ l’unico ad aver visto
“La Cosa”.>
<
“La Cosa”, signore?>
Lear
si sentì estremamente stupido con quell’aria
imbambolata di chi cadeva dalle
nuvole, eppure aveva serie difficoltà a seguire i discorsi
del Generale.
<
Ma certo, “La Cosa”! Il nuovo tipo di ordigno che
è esploso provocando la
distruzione dello Squadrone n°2! Lei è
l’unico sopravvissuto che era in prima
linea, non può non averla vista.>
Ora
che glielo ricordava nella sua mente affiorò
l’immagine sfocata di una macchina
nera caricata su una delle jeep e dalla quale era stato lanciato
qualcosa… ma
poi c’era stato un lampo di luce enorme e il resto era solo
sangue e corvi
affamati, nulla di più.
<
L’ho vista – ammise con lentezza – ma non
vedo come questo possa essere utile.
Non sarei in grado di riconoscerla con certezza e, se è vero
che questo affare
l’hanno inventato da poco, anche se ve la descrivessi non
potrei spiegare come
funziona. Non sono un tecnico o un ingegnere.>
Il
Generale sorvolò sulla mancanza di educazione e rispetto di
quella recluta,
ormai le condizioni dell’esercito erano talmente critiche che
erano stati
arruolati anche mocciosi indisciplinati e privi di qualsivoglia
addestramento
pur di avere qualcuno da mandare in prima linea.
<
Non Le sto chiedendo nulla di simile. Il suo compito è di
dare conferma alla
squadra incaricata che l’obbiettivo individuato sia veramente
l’ordigno che ha
sterminato i suoi compagni.>
<
Prego?>
<
E’ stata radunata una squadra speciale con il compito di
distruggere “La Cosa”.
I nostri infiltrati ci hanno rivelato che si tratta di
un’arma ancora da
perfezionare, ma dai catastrofici risultati è evidente che
sia decisamente
pericolosa. Per nostra fortuna ne esiste solo un esemplare, i nostri
avversari
non hanno più tanti soldi da spendere e temendo che
l’ordigno non funzionasse
ne hanno creato solo uno, per prova. La squadra speciale
dovrà infiltrarsi nel
loro cantiere, distruggere la macchina, eliminare ogni file o documento
riguardante la sua costruzione e sbarazzarsi dello scienziato che le ha
dato
vita. Per questo conto su di Lei.>
<
Su di me? Ma scusi, io cosa dovrei fare?>
Il
Generale lo squadrò per un istante, approfittando della
pausa per lisciarsi i
baffi.
<
Anche Lei è un membro della squadra speciale. Essa
è composta dai migliori
soldati di tutte le nostre Sezioni: sarete solo un manipolo di uomini,
in modo
che vi sia più facile infiltrarvi in territorio nemico e
colpire. Il Suo
compito sarà quello di confermare, al momento
dell’effettiva eliminazione del
problema, che quello che state per distruggere sia veramente
l’ordigno che
cerchiamo. In fin dei conti Lei è l’unico ad
averlo visto ed essere ancora in
grado di raccontarlo.>
<
Ma io…>
<
E inoltre noi del comando generale riteniamo che Lei, in qualche modo,
potrebbe
garantire la riuscita della missione. E’ già
sopravvissuto una volta a “La
Cosa”, potrebbe riuscirci anche una seconda.>
<
In pratica sono l’oggetto porta-fortuna di turno?>
<
Preferirei chiamarLa precauzione contro i malumori del fato.>
Quando
uscì dall’ufficio, cinque minuti più
tardi, Lear pensò che sarebbe davvero
stato meglio morire con i suoi compagni, era diventato una fottutissima
mascotte!
Le
parole del Generale gli rimbombarono in testa.
<
Partirà domani mattina con il Doc, anche lui farà
parte della spedizione.
Raggiungerete il Dipartimento Ovest dove vi ricongiungerete con il
resto della
squadra e partirete subito.>
Tutto
deciso senza chiedergli assolutamente niente, come fosse un oggetto o
il
cagnolino fedele dei vertici… lui in quella guerra non ci
voleva neanche
entrare! Se i militari non fossero andati casa per casa a trascinare
fuori
tutti i giovani in grado di tenere un’arma in mano lui non
sarebbe neanche
stato lì.
Sospirando
si avviò verso l’armeria per recuperare i propri
effetti; recuperò la pistola e
il vecchio coltello di suo padre da utilizzare in casi di emergenza e
lo
nascose nello stivale destro.
Trovò
anche uno stiletto, proprietà di qualche soldato deceduto in
battaglia, e se lo
attaccò alla cintura, convinto che fosse meglio averlo che
non averlo. Mentre
tornava alla stanza che gli avevano momentaneamente concesso si
fermò per
ascoltare un vecchio che cantava mentre puliva la canna della propria
arma;
dalle cicatrici e la barba bianca doveva essere un veterano e la
canzone che
intonava aveva un che di noto, come se Lear l’avesse sentita
già in precedenza,
ma non riusciva a ricordare dove.
La
canzone, che assomigliava di più ad una filastrocca, faceva
così:
“Dormivo
e una voce mi svegliò,
Sognavo
e una voce mi chiamò,
Una
voce che veniva dal mare
Al
sol sentirla smisi di sognare.
Incontrai
la Morte sulla via,
Teschi
seguivan la sua scia
E
segugi abbaiavan affamati,
Lei
li nutriva con arti spezzati.
Seguiron
poi Frode e Distruzione,
E
dopo di loro Odio ed Ossessione,
Vestita
da prete veniva Ipocrisia,
Ma
prima fra tutte venne Anarchia.
Venne
con indosso una corona,
Dello
schiavo popolo padrona
E
dal suo scranno gridava al cielo
<
Io son Re, Legge, Dio e Pensiero>.”
Il
vecchio si interruppe, soppesando le parole, ma sembrava alquanto in
difficoltà; Lear gli si avvicinò fino ad essere a
meno di un metro di distanza.
<
E poi come continua?>
L’uomo
lo fissò sbalordito, con ogni probabilità non si
era accorto di avere uno
spettatore nei paraggi.
<
E poi… e poi… poi non me la ricordo
più. Ah, figliolo, la vecchiaia gioca
brutti scherzi!> e giù a ridere e a pulire il suo
fucile,
<
Poi veniva Speranza, Bert.>
Lear
sobbalzò nell’udire la voce del Doc
così vicina al suo orecchio: immerso
com’era nell’ascolto non si era reso conto che il
medico si era portato alle
sue spalle.
<
Davvero?> gli chiese il ragazzo stupito e il medico
annuì convinto.
<
Ma certo. Ancora non ricordi, Bert?>
Eppure
il vecchio non sembrava molto convinto.
<
Macché speranza e speranza… Dove la vedi la
speranza, Doc? Ah, no! Contro
Anarchia la speranza è inutile, doveva essere per forza
qualcos’altro…>
Il
medico scosse la testa e fece cenno a Lear di seguirlo in infermeria
per dare
un’ulteriore occhiata alle sue ferite.
Il
mattino seguente partirono all’alba con un piccolo gruppo di
soldati che, per
una richiesta di rinforzi, dovevano raggiungere un posto di blocco
vicino al
Dipartimento Ovest; il cielo era terso e illuminato dai primi timidi
raggi del
sole.
Il
ragazzo approfittò dell’assoluta calma attorno a
sé per schiacciare un pisolino
nel retro della jeep su cui era salito, convinto che sarebbero arrivati
a
destinazione senza troppi impicci. Quando però un rumore di
spari lo svegliò si
rese conto che non avevano fatto poi tanta strada.
Una
pallottola gli sfiorò la guancia e Lear istintivamente si
appiattì sul fondo
della macchina, una mano che correva automaticamente alla pistola; le
urla del
Doc lo raggiunsero.
<
Vatti a nascondere, ragazzino! Non sei in grado di affrontare uno
scontro
adesso!>
Mai
accettò un ordine così volentieri e prima di
buttarsi fuori dalla vettura
studiò rapidamente il campo: erano in un paesino di
campagna, davanti a lui
c’erano un poche di case, alcune già ricoperte
dalle fiamme. Alla sua destra
però si ergeva l’unico edificio in pietra, la
chiesa del villaggio.
Tra
la jeep e quel riparo c’era solo il giardino di una casa e il
cimitero.
Approfittò
dei suoi alleati che gli coprivano le spalle e si lanciò
sulla strada, correndo
più veloce che poteva: alcune pallottole gli fischiarono
attorno, ma raggiunse
la chiesa incolume, chiudendo in tutta fretta l’enorme
portone di legno.
Conscio
di non essere affatto al sicuro lì dentro tolse la sicura
alla pistola e si
appostò dietro alcune panche, davanti all’entrata;
le sue previsioni non erano
errate, un paio di soldati in divisa blu fecero irruzione, armi in
pugno, ma
dalla sua postazione non gli fu difficile centrarli.
Col
cuore che batteva a mille si allontanò per ricaricare e si
rifugiò all’ombra di
una nicchia, nascosto agli occhi di chiunque non avesse seguito le sue
mosse
fin dal principio; lì rimase in ascolto.
Dopo
pochi minuti gli spari cessarono e restò solo un silenzio di
tomba.
Senza
trovare il coraggio di emettere anche un solo respiro che potesse
essere udito,
Lear aspettò e aspettò, pregando di sentire una
voce amica, ma nessun suono
attraversò l’aria.
Lunghi
ed estenuanti minuti passarono in silenzio e finalmente il ragazzo si
azzardò
ad abbandonare il proprio riparo e uscire dall’ombra, il
rumore dei suoi stessi
passi sul pavimento lastricato lo terrorizzava.
Proprio
quando i battiti del suo cuore cominciavano a stabilizzarsi una mano
gli afferrò
il polso torcendolo dolorosamente, la pistola gli sfuggì
dalle dita senza poter
far nulla; prima che riuscisse a reagire o ad identificare il suo
aggressore si
ritrovò schiacciato contro una colonna, il polso ancora in
quella morsa
d’acciaio e una pistola puntata sotto il mento.
Stava
già per aprire bocca per dire che lui non
c’entrava per niente, era lì per caso
e altre stupidaggini simili, ma quando si accorse chi aveva davanti non
riuscì
ad emettere alcun suono: era un prete.
Giovane,
certo, ma l’abito non lasciava dubbi.
Non
poteva avere più di diciotto anni e, nonostante
l’incredibile forza che gli
aveva dimostrato un attimo prima, pareva tutto tranne che pericoloso: i
capelli
erano cortissimi, di un biondo chiaro, e gli occhi azzurri, un
po’ troppo
grandi in rapporto al resto del volto. La pelle era color latte, i
lineamenti
leggermente effeminati, ma forse più per la sua giovane
età che per altro.
<
Se urli ti apro un buco in testa.> fu il suo primo monito e il
ragazzo non
poté far altro che annuire.
<
Sei nell’esercito?> continuò quello, la
voce bassa, ma perfettamente
comprensibile.
<
Sì.>
<
Che ci fate qua?>
<
Siamo diretti al Dipartimento Ovest.>
<
Perché?>
Lear
tentennò anche quando la stretta sul suo polso si fece
più dolorosa. Il prete
aprì bocca per riformulare la precedente minaccia, ma una
voce alle sue spalle
lo fece gelare.
<
Via quella pistola, ragazzino.>
Per
la prima volta negli ultimi giorni il soldato fu veramente felice di
udire la
voce roca da fumatore incallito del Doc, ma il prete non sembrava dello
stesso
parere.
Nonostante
il dottore lo tenesse sotto tiro premette con più forza la
sua arma alla gola
del suo prigioniero.
<
Se Lei preme quel grilletto il ragazzo muore.> lo
avvertì e nessuno sano di
mente avrebbe potuto dubitare delle sue parole. Nessuno eccetto il Doc.
<
I preti non uccidono.>
<
I tempi cambiano e con loro anche noi.>
<
Se lo uccidi io ti sparo. Due vite in più per il tuo amato
creatore, ma non
credo sia questo ciò che vuoi.>
Dalla
sua posizione “privilegiata” Lear poteva vedere
l’indecisione negli occhi
chiari del giovane e i denti che tormentavano inconsciamente il labbro
inferiore; stava già per rilassarsi, convinto che avrebbe
gettato a terra la
pistola, quando con uno spintone il prete lo scaraventò a
terra e puntò l’arma
contro il Doc.
L’uomo
non fece una piega.
<
Cosa vuoi, ragazzo?>
Se
quell’uomo gli avesse sparato in pieno petto avrebbe fatto
meno male.
Shrine
tentò con tutte le sue forze di mascherare lo smarrimento
che si dipinse sul
suo volto, ma invano: cosa voleva? Credeva di saperlo
quand’era partito, ci
aveva riflettuto così a lungo…
Che
quella stupida guerra finisse. Che non ci fossero più morti.
Che non ci fossero
più lacrime.
Il
suo lato razionale scuoteva il capo davanti a quella palese
dimostrazione di
ingenuità, ma dal profondo del suo cuore si levava
un’altra voce, forte,
speranzosa, ancora piena di fiducia in Dio e nell’uomo.
L’avrebbero
preso per un idiota, un folle, un sognatore, ma non
gl’importava più di tanto.
E
così glielo disse.
Un’espressione
incredula si dipinse sul volto dell’uomo dalla folta barba
nera e su quello del
ragazzo ancora a terra; gli occhi del più anziano sembrarono
riempirsi di gioia
e affetto, pareva dovessero traboccare lacrime di felicità
da un momento
all’altro.
Era
la reazione più umana che il biondo avesse visto da molto
tempo, da quando
aveva smesso di occuparsi degli anziani ricoverati nelle stanzette
della
canonica.
L’uomo
con la barba abbassò la pistola lentamente.
<
Non c’è bisogno che combattiamo, allora. La nostra
missione punta a salvare
molte vite, condividiamo lo stesso obiettivo.>
La
voce era forte, perentoria nonostante i lucciconi agli occhi e le sue
parole
rimbombarono tra le mura e le colonne spoglie della chiesa.
Sembrava
una persona di parola e istintivamente Shrine avrebbe abbassato
l’arma, ma si
bloccò: se voleva sopravvivere non poteva farsi sedurre da
belle parole e occhi
sinceri, doveva essere razionale, freddo.
<
Ditemi la vostra missione.> ordinò, ma
l’altro scosse la testa.
<
E’ top secret.>
<
Come posso fidarmi di voi se non conosco le vostre intenzioni?>
<
Prova ad avere fede. Tra voi funziona così?
D’altro canto io posso solo
giurarti sul mio onore che quanto ti ho detto è vero.>
Il
biondo strinse le labbra in una linea sottile e si maledì
mentalmente per
essere così debole e manipolabile; poi, con estrema cautela,
abbassò la pistola
senza però riporla nella fondina.
Lear
approfittò della situazione un po’ più
tranquilla per tirarsi su da terra e
barcollò verso il Doc massaggiandosi le ossa: si sentiva uno
schifo, essere
sballottato qua e là dopo un ricovero come il suo era
decisamente poco
salutare. Pur non avendo armi addosso sentiva lo sguardo del prete su
di sé,
intento a registrare ogni singolo movimento.
<
Gli altri, Doc? Cos’è successo?>
L’uomo
si passò il dorso della mano sulla bocca, nauseato dalla
tensione e dallo
scontro avvenuto fuori dalla chiesa.
<
Ci hanno teso un’imboscata. Non erano in tanti e credo non
avessero neanche
ricevuto l’ordine di attaccare, probabilmente ci hanno visto
in lontananza e
hanno pensato bene di imbastire sul momento un agguato. Bé,
gli è andata male
comunque.>
<
Abbiamo perso compagni?>
<
Due ragazzini dell’Est. E la nostra fottutissima guida,
perciò ora sarà
un’impresa arrivare al dannato Dipartimento Ovest. Cristo,
è un casino…>
<
Siete diretti al Dipartimento?>
I
due soldati sobbalzarono, si erano quasi dimenticati della presenza del
prete;
Lear lo fissò con sospetto.
<
E anche se fosse?>
Il
biondo fece spallucce, la pistola ancora in mano, ma sembrava meno
pericolosa
di prima.
<
Se vi serve una guida io so come arrivarci.>
Quella
sera Lear si rese conto di essere stato davvero fortunato ad arrivare
fin lì,
sano e salvo, senza neanche un nuovo buco in corpo;
l’incontro col prete –
Shrine, come aveva detto di chiamarsi – era stata una fortuna
in fin dei conti,
avevano visto tante di quelle pattuglie nemiche durante il loro
spostamento che
passare inosservati per strade secondarie sembrava un miracolo, e forse
lo era.
Un
po’ di diffidenza iniziale c’era stata, ovviamente,
si erano quasi ammazzati a
vicenda, non ci si poteva fidare così facilmente neanche se
si trattava di un
uomo di Dio. Ma quel ragazzo era incredibile: proveniva da un paesino
del Nord
devastato dalla guerra, ma era partito lo stesso, armato solo di quella
piccola
pistola, da solo, a bordo di una vecchia camionetta del postino, ormai
deceduto.
Il
caso aveva voluto che gli stessi soldati che avevano cercato di
ucciderli
avevano fatto esplodere la sua vettura, costringendolo a rifugiarsi
nella
chiesa e, in seguito, a rimediare un passaggio per il Dipartimento
Ovest, la
sua meta originale.
Decisamente
una fortunata coincidenza.
Lasciati
i soldati rimasti al posto di blocco il trio aveva proseguito fino al
Dipartimento,
dov’erano giunti a notte inoltrata, ma nonostante il buio
Lear aveva intuito
quanto grande doveva essere la struttura principale. La sua sensazione
era
stata confermata quando un delegato del Capitano li aveva condotti nei
loro
alloggi: ampi, spaziosi e, soprattutto, camere singole.
Il
ragazzo quasi non ricordava a quando risaliva l’ultima volta
che aveva avuto
una stanza tutta per sé.
La
mattina seguente avrebbe conosciuto gli altri membri della squadra e
sarebbero
ripartiti subito, per dove non lo sapeva nemmeno lui; stremato dalle
fatiche e
dalla convalescenza travagliata, Lear lasciò cadere la testa
sul cuscino e si
addormentò all’istante, troppo stanco per godersi
realmente la sua riacquistata
privacy.
Che
fosse tutto un disegno di Dio era un’ipotesi e neanche troppo
improbabile al
momento. A luci spente nella sua camera Shrine fissava il soffitto,
incapace di
chiudere gli occhi e lasciarsi andare tra le braccia di Morfeo.
Non
poteva essere una coincidenza, lo sentiva, ma la sua ragione gli
impediva di
credere che ci fosse lo zampino del Divino in tutto quello.
Era
come diceva padre Alfred, lui pensava troppo per poter essere un buon
prete.
Sbuffò
divertito a quel ricordo e ricominciò a riflettere: che
fosse il volere di Dio,
un caso o un destino preesistente che regolava l’universo, in
ogni caso Shrine
interpretava gli avvenimenti di quel giorno come un segno, una traccia
da
seguire.
Quegli
uomini, il Doc e Lear, come aveva detto di chiamarsi, e quella famosa
missione
di cui ancora non sapeva nulla… forse quella missione era
anche sua, forse era
quello il suo compito. Avevano detto che potevano salvare vite, molte
vite.
Ovviamente parlavano di vite di compagni in cambio di quelle dei
nemici, Shrine
sapeva come andavano le cose, ma al di là di tutto la Chiesa
appoggiava ancora
l’azione del governo e di conseguenza il biondo era, volente
o nolente, un
alleato di quei soldati.
L’uomo
che li aveva scortati gli aveva accennato a padre Ugo, un uomo di fede
che
alloggiava lì, nel Dipartimento, ed era in stretto contatto
con i vertici
dell’esercito.
Se
quella era la missione che Dio aveva in serbo per lui, allora doveva
solo
chiedere un piccolo favore ai piani alti; e in quel caso la mattina
seguente
avrebbe dovuto svegliarsi di buon’ora.
Al
risveglio Lear si rese conto che il movimento del giorno prima era
stato un po’
troppo per il suo fisico ancora dimesso: ogni minuto che passava
scopriva nuovi
muscoli e parti del suo corpo che non sapeva neanche di avere, non
prima che
cominciassero a bruciare e dolere come non mai.
Masticando
un’imprecazione si buttò giù dal letto
prima che lo facesse il Doc irrompendo
nella sua stanza com’era già successo altre volte
dal suo ricovero.
In
realtà non era così difficile trovare la voglia
di alzarsi in quell’ambiente:
ad Ovest si trovavano le zone più pure e meno stravolte
dall’uomo di tutto il
continente e quell’aria frizzante che pizzicava il naso
costringeva gentilmente
anche i più pigri ad alzarsi dal loro giaciglio e affrontare
serenamente
un’altra complicata giornata sotto il sole cocente di giugno
inoltrato.
Come
il giovane aveva immaginato, il Doc lo attendeva appena fuori dalla
porta,
pronto a trascinarlo nello spiazzo della base dove il resto della
squadra lo
attendeva.
Sarebbe
stata la missione più folle degli ultimi secoli e compiuta
dalla squadra peggio
assortita e più ridicola di cui Lear avesse mai sentito
parlare.
Gli
altri valorosi compagni di squadra che il ragazzo si aspettava di
vedere si
rivelarono essere un moccioso dall’aria gracilina che non
poteva avere più di
quindici anni e una ragazza, e che ragazza. L’esperienza
aveva insegnato al
giovane che tutte le poche ragazze che finivano nell’esercito
erano brutte,
racchie e quasi sempre lesbiche.
Ora,
non poteva garantire sull’ultimo punto, ma, Dio gli era
testimone, non aveva
mai visto una fanciulla tanto incantevole.
<
Carina, vero?> sogghignò il Doc seguendo il suo
sguardo.
<
E’ meravigliosa…>
<
A me non sembra nulla di eccezionale.>
I
due uomini sobbalzarono quando quella voce tagliente li raggiunse;
voltandosi
scoprirono che apparteneva a Shrine, che si era portato alle loro
spalle senza
farsi notare.
<
Tu non fai testo.> replicò acido Lear scoccando al
biondo un’occhiataccia.
<
Perché non dovrei?>
<
Hai fatto voto di castità, per questo non capisci un tubo in
fatto di
donne.>
<
Anch’io ho gli occhi, posso perfettamente esprimere un
giudizio estetico. E a
mio avviso è negativo.>
Il
soldato scosse le spalle, come a dire che delle opinioni estetiche di
un
pretuncolo non gliene fregava più di tanto.
<
Cosa ci fai qui, comunque? Sei venuto a salutare?>
<
Al contrario, sono qui per restare.>
Lear
sgranò gli occhi, incredulo: doveva aver sentito male.
<
Come hai detto, scusa?>
<
Temo tu abbia capito perfettamente. Da pochi minuti faccio
anch’io parte della
vostra squadra.>
<
Ma se non sai neanche di che missione si tratta!>
<
Il Capitano e padre Ugo si sono premurati di informarmi
dìnei minimi
dettagli.>
Il
moro si voltò di scatto verso il Doc, che si era tenuto in
disparte
continuando a
fissare quella graziosa
figliola.
<
Tu lo sapevi?!>
Lui
lo fissò come se stesse prendendo la faccenda troppo sul
serio.
<
E’ una novità dell’ultimo momento, ma
non ho nulla da obiettare. Ha
l’approvazione del Consiglio.>
<
L’approvazione del Consiglio? E quando diamine
l’avrebbe avuta?>
<
Giusto questa mattina. Provvidenziale, vero?>
Se
uno sguardo avesse potuto uccidere, Shrine sarebbe crollato morto
stecchito
sulla dura terra.
<
E che ruolo avresti nella nostra spedizione?> ringhiò
Lear, sempre più
irritato da quello stravolgimento di piani e dall’aria
strafottente del prete.
<
Guida spirituale. – replicò prontamente quello
– Ma anche materiale nel caso
voi non sappiate la strada com’è successo
ieri.>
<
Ma dimmi tu…>
<
A proposito, potresti spiegarmi che ruolo avresti tu? Da come ne
parlava il
Generale sembravi molto… come dire… una
mascotte.>
Il
ragazzo si rifiutò di rispondere e gli voltò le
spalle, deciso a tenere il muso
per tutto il giorno sia a Shrine che al Doc, tentando invece di entrare
in
confidenza con i due nuovi arrivati.
Da
quanto riuscì a capire dagli stralci di conversazione il
ragazzino, Van, faceva
parte del R.S., il Reparto Speciale secondo la definizione ufficiale,
il
Ritrovo Suicidi secondo molti soldati: quel gruppo era famoso per
essere un
covo di fuori di testa, gentaglia sanguinaria che uccideva per diletto
più che
per dovere.
Quel
ragazzino non pareva così letale o pericoloso, senza contare
che era davvero
magro e con ogni probabilità sarebbe stato soffiato via alla
prima folata di
vento troppo forte, ma Lear aveva imparato da tempo a non fidarsi delle
apparenze.
La
ragazza, quella meravigliosa creatura di nome Weiss, era una tiratrice
scelta
della Squadra Cecchini, ma più che al suo ruolo Lear era
più interessato alla
vita privata di quella giovane dai lunghi capelli neri.
Stavano
caricando armi e rifornimenti sulla jeep quando lei, già in
macchina per
riordinare le cose, si voltò verso di lui sorridendo.
<
Mi passeresti quello?> chiese indicando con un grazioso cenno
del capo una
lunga custodia nera che giaceva a terra accanto al soldato, che non
poté
trattenere un sorriso imbambolato nel sentire la sua voce.
Dio,
l’astinenza era una gran brutta cosa!
<
Ma certo.>
Era
la sua occasione d’oro per entrare in confidenza! Poteva
sfoderare tutto il suo
immenso fascino e la sua forza per far colpo su di lei, così
Shrine (e
probabilmente anche il Doc) sarebbero rimasti a bocca asciutta.
Animato
da buone intenzioni e secondi fini si chinò ad afferrare la
custodia e provò ad
alzarla con una mano sola; per poco non si trovò a terra
assieme all’oggetto
sconosciuto.
Trattenne
un’imprecazione e riprovò ad alzarlo, questa volta
con entrambe le mani: era
dannatamente pesante, come se il contenuto fosse tutto fatto di piombo;
con
grande sforzo riuscì a sollevarlo e barcollando si
avvicinò alla macchina dove
Weiss lo aspettava.
<
Sta attenta, è pesantissim-…>
Non
fece tempo neanche a concludere la frase che la ragazza, non senza un
sorrisetto, prese la custodia con la mano sinistra e la
sollevò come se fosse
una piuma.
L’umore
di Lear, già basso per svariati motivi, precipitò
tre metri sotto terra e il
giovane passò tutto il resto della mattinata in un
deprimente silenzio,
ripetendosi che era colpa delle ferite non ancora del tutto rimarginate
se
aveva fatto quella terribile figura.
Shrine
lo fissava dal sedile anteriore della jeep e ghignava.
Forse
per via della sua depressione spinta al massimo o forse
perché non aveva mai
amato viaggiare con quegli affari, specie se gli toccava restare nel
cassone
posteriore dell’auto, tra il sudore e la polvere che si
appiccicava
orribilmente alla pelle, ma quel viaggio gli parve interminabile e
alquanto
straziante.
Aveva
il terrore di sentire da un momento all’altro il rumore di
uno sparo,
un’avvisaglia della presenza del nemico; con i nervi a fior
di pelle Lear
continuava a portare la mano alla fondina dove riposava la sua pistola.
A
renderlo più preoccupato era anche la consapevolezza che, in
caso di uno
scontro, non sarebbe stato in grado di cavarsela come prima, non con
quelle
stupide ferite che lo indebolivano. Ripensò al suo primo
incontro con il prete
e rabbrividì ricordando con quanta facilità un
ragazzino gracile come quello
era riuscito a metterlo all’angolo e tenerlo sotto scacco.
Non
voleva che una cosa simile accadesse di nuovo, se si fosse trovato
nella stessa
situazione nelle mani dei nemici avrebbe preferito suicidarsi piuttosto
che
sottomettersi. A quel pensiero lo sguardo gli cadde sullo stivale
destro, al
cui interno giaceva nascosto il coltello di suo padre.
Sarebbe
stata un’amara ironia darsi la morte con l’arma che
per generazioni aveva fatto
da portafortuna alla sua famiglia; per fortuna, sotto un certo punto di
vista,
nessun membro della sua famiglia sarebbe venuto a saperlo, suo padre
era morto
diversi anni prima e la madre era lontana dal fronte, nella zona che
veniva
ancora considerata sicura. Sempre che esistesse una zona sicura in
quell’inferno.
Il
tragitto verso Nord era lungo, aveva studiato la cartina con il Doc
prima di
partire, e non era neanche un territorio facile da superare: a quanto
pareva
c’erano posti di blocco un po’ ovunque, nemici
ovviamente, e attorno alla
strada principale si trovavano grotte, massi e vegetazione che
sembravano
essere là giusto per favorire un’imboscata.
I
piani alti avevano avuto il buon senso di procurare al gruppo una jeep
senza
insegne militari, con un po’ di fortuna potevano passare per
un veicolo civile;
era anche il motivo per cui sul sedile anteriore c’era
Shrine, forse alla vista
di un prete i credenti che erano costretti ad imbracciare un fucile ci
avrebbero pensato due volte prima di sparare.
L’unico
rumore udibile oltre al rombare del motore era la voce del Doc che
canticchiava
delle vecchie filastrocche nel vano tentativo di animare la compagnia;
il
biondo accanto a lui fissava con insistenza fuori dal finestrino, Van
sonnecchiava nel cassone assieme a Lear e Weiss, entrambi seduti ed
immobili,
anche se la ragazza era evidentemente molto più rilassata
del suo nuovo
compagno.
Il
giovane era certo che, se avesse aperto bocca per iniziare una
conversazione,
avrebbe vomitato la sua magra colazione e non era certo di voler
aggiungere
anche quella alla lista delle figuracce di fronte alla ragazza.
<
Tra venti minuti arriveremo a Peck. Tenetevi pronti per ogni
evenienza.>
avvisò l’uomo alla guida tentando di sovrastare il
rumore del motore. Era
l’unica città imponente che si trovava sul loro
cammino e le probabilità di
trovare soldati dell’altra fazione aumentavano a vista
d’occhio man mano che si
avvicinavano.
Lear
sospirò, appoggiandosi allo schienale e cercando di
calmarsi; Weiss cominciò a
trafficare con le armi che aveva incassato sotto i sedili, mettendosi
addosso
le più maneggevoli.
<
Che stai facendo?>
<
Mi preparo a scappare nel caso ci scoprano.>
<
Questa dovrebbe essere una strada sicura.>
<
Non è la prima volta che appaiano presidi e posti di blocco
dove fino al giorno
prima c’era il vuoto più assoluto. Qualora ci
blocchino dobbiamo fuggire in
fretta, ma voglio lasciare a quei bastardi meno armi possibili.>
Van
ghignò mettendo in bella mostra i suoi denti luccicanti.
<
Questo sì che è un ragionamento sensato. Dovresti
seguire anche tu il suo
esempio.> ridacchiò rivolgendosi a Lear e anche lui
si mise ad equipaggiarsi
per ogni evenienza.
Il
giovane deglutì, pensieroso: non aveva granché
voglia di girare con qualcosa
che poteva farlo esplodere al minimo sobbalzo e non si sentiva neanche
così in
forma da poter reggere un peso troppo elevato.
Imitò
gli altri due con una lentezza infinita, pregando il cielo che non
accadesse
nulla di inaspettato.
Per
sua fortuna la strada da loro intrapresa era priva di controlli;
superarono
Peck senza troppe difficoltà, ma ogni volta che si
avvicinavano ad una città di
modeste dimensioni Weiss e Van tornavano subito ad armarsi.
Erano
in viaggio da due giorni ormai e dopo aver sopportato quasi quindici
ore di
jeep senza neanche una pausa Lear sentiva di essersi abituato a quel
terribile
modo di viaggiare; la sera del giorno seguente sarebbero arrivati
finalmente al
Dipartimento Nord e Dio solo sapeva quanto il ragazzo desiderasse
schiantarsi
in un vero letto, tra quattro meravigliose mura di cemento e magari
farsi anche
una bella doccia.
Il
Doc e Van erano del suo stesso parere e chiacchieravano felici e
contenti sui
sedili anteriori, parlando ad alta voce per non escludere dalla
conversazione i
tre compagni dietro.
Il
giovane si stiracchiò per bene soffocando uno sbadiglio.
<
Ormai è fatta.> borbottò placidamente e
chiuse gli occhi, anche se con tutto
il frastuono del motore era assai difficile poter riposare.
<
Non dirlo. Non siamo ancora arrivati a destinazione.>
Il
giovane guardò con aria annoiata alla sua sinistra ed
incrociò lo sguardo
penetrante del prete con cui era costretto a viaggiare coscia a coscia.
<
Ti diverti a portare sfiga?>
<
Mi diverto a non illudermi. Finché non tocco con mano le
pareti del
Dipartimento non ci crederò che siamo arrivati.>
“Questa
poi…” pensò scocciato Lear e
alzò un sopracciglio carico di scetticismo.
<
E tu saresti un credente? Insomma, dacci il buon esempio e abbi un
po’ di
fede.>
Che
Shrine fosse un prete anomalo il ragazzo l’aveva
già capito, dato che in tutti
quei giorni non aveva provato una sola volta a convertirlo –
e nell’esperienza
di Lear tutti gli uomini religiosi passavano buona parte della loro
giornata a
cercare di convertire i miscredenti – e non solo, ad ogni
battuta sarcastica
sul conto della Chiesa lui scrollava le spalle e faceva finta di niente
e
soprattutto, quando qualcuno gli faceva notare che non aveva poi molta
fede nel
suo Dio, si rabbuiava e non parlava più per diverse ore.
<
Avere fede non significa essere degli idioti.>
replicò il biondo a bassa
voce e dal modo in cui corrugava la fronte e teneva le braccia conserte
Lear
capì che la conversazione, almeno per quel giorno, poteva
ritenersi conclusa.
<
Siamo quasi arrivati a Mok.> urlò da davanti la voce
tuonante del Doc.
Mok
era un piccola città, famosa per lo smercio del legno e
delle opere
manifatturiere, ma sotto tutti gli altri aspetti non era nulla di
particolare.
Eppure quando la jeep svoltò e la città apparve
davanti a loro ad accoglierli
ci fu il luccichio dei mitra nemici e i colori delle loro vetture.
<
Merda.>
<
Che succede?>
<
C’è un posto di blocco.>
<
Merda.>
<
Già.>
<
E ora che facciamo?>
Il
Doc rimase in silenzio, ma il suo cervello rimuginava a mille, alla
ricerca di
una strategia vincente, mentre la jeep proseguiva la sua corsa sempre
alla
stessa velocità, per non destare sospetti.
<
Allora?> esclamò impaziente Lear, terrorizzato
all’idea di finire nelle
fauci della tigre senza poter fare niente.
<
Ho un’idea. Weiss, prepara la BB-2, piazzala sul fondo della
macchina, dietro
il mio sedile.>
Non
doveva essere una richiesta molto usuale, perché la ragazza
fissò l’uomo con
gli occhi spalancati, ma dopo un attimo di sgomento eseguì
gli ordini e prese a
rovistare tra le custodie e le armi sotto i sedili.
<
Che cos’è una BB-2?> domandò
Shrine.
<
Una bomba.>
<
Cosa? Sei impazzito?!>
Se
non fosse stato impegnato a guidare Lear non ci avrebbe pensato due
volte a
colpire in testa quel vecchio rincretinito: che razza di idea era
quella di
piazzare una bomba nella loro vettura?!
<
Ascoltate, ora ci avviciniamo al posto di blocco cercando di passare
per un
veicolo civile. Appena saremo abbastanza vicini accelererò e
sfonderò la
barriera; dovete appiattirvi il più possibile al fondo
perché di sicuro ci
spareranno dietro. Al mio “tre” lanciatevi fuori
dalla macchina, fate perdere
le vostre tracce e nascondetevi. Farò schiantare questa
vecchia carretta contro
un muro e due secondi dopo, Weiss, tu azionerai a distanza la bomba e
farai
saltare in aria quest’affare. Appuntamento tra
un’ora al locale Porco Nero,
capito? Lo gestiscono dei miei conoscenti, non avremo problemi
lì. E ora
tenetevi forte.>
<
Sai che sei un folle?!>
L’urlo
di Lear si mischiò con il rombo del motore che veniva
mandato al massimo mentre
la jeep accelerava improvvisamente.
<
Tutti giù!>
Prima
di poter protestare o gridare o fare qualsiasi altra cosa il giovane si
trovo
spiaccicato sul fondo della macchina, il viso a pochi centimetri dalla
bomba
che Weiss aveva piazzato; sentiva il corpo di Shrine premere contro il
suo e un
rumore assordante, ripetuto, di spari.
Sentì
un tonfo e un movimento improvviso gli fece picchiare la testa sul duro.
<
Pronti? Uno… due … tre!>
Agitato
com’era Lear probabilmente non sarebbe riuscito a saltare
giù dal veicolo al
momento opportuno, ma una mano lo afferrò per il braccio e
lo costrinse a
buttarsi dal portellone posteriore. La caduta a terra non fu delle
più
piacevoli, ma non c’era tempo per lamentarsi delle botte o
dei graffi; la
stessa mano lo aiutò bruscamente ad alzarsi e lo spinse a
correre.
Lear
voltò la testa e si rese conto che chi lo guidava era
Shrine, il volto teso
nello sforzo di correre e trovare in fretta una via di fuga, prima che
i
soldati li raggiungessero. Si sentivano urla dappertutto, poi uno
schianto.
Con
la coda dell’occhio il ragazzo vide la macchina spiaccicata
contro un muretto,
erano nel bel mezzo del mercato cittadino.
Uno…
due…
Come
da manuale l’esplosione, tremenda, inguardabile. Le
bancarelle più vicine
presero fuoco all’istante, i negozianti urlavano,
l’esercito sparava in aria
nel tentativo di calmare la folla. Per un istante ebbe
l’orribile visione di un
uomo completamente avvolto dalle fiamme che urlando correva e si
gettava dentro
la fontana della piazza.
<
Di qua.> sibilò il prete, che non aveva ancora
lasciato la presa sul braccio
del compagno.
Si
nascosero nei meandri di una serie infinita di stradine e attesero;
Lear
nascose tutte le insegne e le decorazioni della tuta che potevano
identificarlo
come soldato.
Dalla
piazza principale giungevano ancora urla e spari mentre odore di legno
e carne
bruciata si diffondeva per tutta la città.
<
Cristo Santo…> borbottò il moro e si
lasciò scivolare con la schiena contro
la parete. Le gambe non riuscivano più a reggerlo.
Alzò
gli occhi su Shrine e trattenne a stento un’esclamazione: il
biondo sanguinava
abbondantemente dall’orecchio destro, ma più che
la ferita che si stava
tamponando con un fazzoletto quello che era preoccupante era
l’espressione del
suo viso.
Il
soldato non aveva mai visto tanta sofferenza negli occhi di qualcuno e
non era
l’orecchio il problema, ne era certo.
Stava
giusto per chiedergli spiegazioni, aveva tutte le intenzioni di
aiutarlo a
sfogarsi, quando il prete si voltò a guardarlo, gli occhi di
nuovo
indecifrabili come sempre.
<
E’ meglio se ci muoviamo. Dobbiamo trovare il Porco
Nero.>
Come
potesse quel ragazzo, che non era neanche un militare, ma solo un uomo
di fede
(e anche questo era da
appurare),
sopportare una situazione come quella e riuscire ancora a pensare
lucidamente
alla propria missione Lear non lo capiva, ma annuì
sconsolato alzandosi a
fatica.
Bendò
con un altro fazzoletto l’orecchio del compagno, in maniera
un po’ grezza, ma
discreta, e si avviarono lungo i vicoli. Nessuno dei due aveva la
più pallida
idea di dove si trovassero, ma per fortuna l’abito di Shrine
funzionava da
lasciapassare e non fu difficile trovare qualche buonanima disposta a
dar loro
indicazioni.
Lear
si lasciò guidare senza pronunciare una parola, la testa
presa da una miriade
di preoccupazioni: gli altri dov’erano? Come stavano? Erano
vivi o erano caduti
nelle mani dei nemici? E che ne era della loro missione? Senza jeep e
con un
armamentario limitato potevano forse sperare di farcela? Il
Dipartimento Nord
era a più di un giorno di viaggio in macchina, fare tutta
quella strada a piedi
non sarebbe certo stato una passeggiata.
<
E’ questo.>
La
voce leggermente acuta del prete lo riportò coi piedi per
terra; sollevò lo
sguardo sull’insegna della locanda, un maiale completamente
nero che ghignava
con aria poco raccomandabile. Il che era assurdo, perché
Lear poteva giurare
che i maiali non ghignavano. Non mostrando i denti, almeno.
<
Va bene, entriamo. Ormai l’ora dev’essere quasi
passata.>
C’era
un che di Doc nell’atmosfera che li accolse oltre la porta,
probabilmente era
in quei tavoli puliti alla buona, nell’odore di tabacco
masticato e nelle facce
conviviali della gente al banco. Appena varcata la soglia i due ragazzi
si
trovarono tutti gli occhi puntati su di loro, ma un cenno del barman
rassicurò i
clienti.
<
Eccoli là.> bisbigliò Lear indicando un
tavolino in fondo alla sala, coperto
quasi completamente da un paralume; si poteva intravedere appena le
spalle
possenti del Doc.
Fu
un sollievo vedere che erano tutti e tre lì, anche se ad
essere sinceri non
erano esattamente illesi: il braccio destro del Doc, quello
più vicino alla
macchina quando si era buttato fuori dall’abitacolo, era
parzialmente
bruciacchiato, mentre Van e Weiss avevano riportato solo qualche taglio
superficiale, che aveva sanguinato abbondantemente in un primo momento,
ma
nulla di preoccupante.
<
Ce ne avete messo di tempo, eh?> fece il ragazzino
dall’alto del suo solito
ghigno superiore.
<
Temevamo di essere seguiti, abbiamo fatto un giro largo.>
<
Allora, il piano?>
C’era
ben poco da progettare: la città era in mano agli Insorti e
l’unico modo per
proseguire con la missione e non rimetterci la pelle era andarsene il
prima
possibile senza dare nell’occhio.
<
Siamo senza una macchina…>
<
Ne possiamo recuperare un’altra, non è quello il
punto. Il punto è filarsela
prima che i controlli si facciano più severi. Abbiamo avuto
fortuna fino ad
ora, pare che abbiano classificato l’esplosione della nostra
jeep come attacco terroristico;
Van si era abbassato, perciò quello che cercano ora
è l’unica persona che hanno
visto, il conducente. Cioè io.>
Stavano
escogitando un qualcosa di più elaborato per andarsene da
lì quando delle urla
attirarono la loro attenzione.
<
Brutto stronzo!>
<
Fuori di qua, vecchio!>
Prima
che uno di loro potesse aprir bocca il paralume che nascondeva il loro
tavolo
venne fracassato da un corpo umano scaraventatogli contro.
<
Allora, chi ne vuole ancora?!>
<
Grandioso, ci mancava solo una rissa tra ubriachi.>
bofonchiò Weiss
ritirandosi il più possibile contro la parete per evitare i
bicchieri che
venivano lanciati. Ci vollero meno di tre minuti perché dai
bicchieri si
passasse dai bicchieri alle bottiglie e infine alle sedie.
<
Che razza di caos. E’ meglio andarsene e in fretta.>
Il
Doc non aveva neanche finito la frase che un rumore di freni e di
sirene
spiegate si udì dall’angolo della strada.
<
Che cosa..?>
<
Sono le forze di pattuglia degli Insorti. Via, presto!>
Si
fecero strada a fatica, sgusciando tra i tavoli, i corpi riversi a
terra e gli
ubriaconi che ancora riuscivano a reggersi in piedi; c’era
una porta sul retro,
vicino all’ingresso dei bagni. L’uomo
l’aprì in tutta fretta e uscì, seguito
dalla ragazza, il piccoletto e il prete.
Lear
era neanche due metri dietro di loro e stava per raggiungere la via
della
salvezza quando una sedia gli arrivò dritta dritta sulla
testa, spedendolo in
ginocchio per terra.
<
Ehi, dove te ne vai, ragazzino?>
Una
mano malferma lo rimise in piedi e attraverso la vista annebbiata Lear
intuì
una faccia poco rassicurante, nonché un puzzo
d’alcol che lo colpì in pieno
viso. L’ubriaco sghignazzò e cercò di
colpire il giovane con un destro alquanto
traballante, che l’altro riuscì a evitare senza
problemi.
<
Ah, fai anche il furbo? Bé, te la faccio passare io la
voglia.>
Il
secondo colpo era più forte, più preciso e
decisamente più pericoloso, ma Lear
non aveva alcuna intenzione di prenderle da un vecchio rimbambito in
preda ai fumi
dell’alcol: parò il colpo, nonostante a quel
movimento brusco le sue ferite
riprendessero a bruciare, e si lanciò in avanti colpendo con
un destro la
mandibola dell’uomo, provocando un gran rumore di ossa rotte.
Era
così concentrato a combattere come si doveva pretendere da
un soldato che non
si accorse che la vigilanza ormai aveva fatto irruzione nel locale fino
a
quando tre paia di braccia robuste lo bloccarono e gli misero le
manette ai
polsi.
<
Bé, grandioso. Cosa ci manca ora, la piaga delle
locuste?>
Il
sarcasmo di Van fu totalmente ignorato, anche perché Shrine
era troppo occupato
a vagare per la stanza misurando a lunghi passi il pavimento e il Doc
fissava
con occhi spenti il vetro rotto dell’unica finestra.
<
Siamo nella merda.> bofonchiò l’uomo
passandosi una mano sulla faccia.
Il
cigolio della porta che si apriva fece voltare tutti di scatto, ma era
solo
Weiss che sgusciava dentro la stanza.
<
Lo hanno portato alla prigione di Seik, a tre ore di macchina.>
<
Macchina che non abbiamo. Hanno scoperto chi è?>
<
No, lo vogliono imprigionare per rissa, ma da quanto ho capito sono
parecchio
severi da queste parti. Lo vorrebbero tenere dentro almeno un mese:
vogliono
riempire per bene le carceri per far capire che non è gente
con cui scherzare,
è difficile che lo rilascino in fretta.>
Ci
fu un attimo di silenzio e i quattro si guardarono l’un
l’altro, studiandosi
per capire cosa fare con un membro della loro squadra in prigione, il
loro
ipotetico veicolo distrutto e una città invasa dalle truppe
degli Insorti.
<
Possiamo sempre proseguire con la missione. In fin dei conti era solo
una
mascotte.> azzardò Van, ma dall’occhiata
che il Doc e Shrine si scambiarono
capì che l’idea era completamente diversa.
<
Dio mio…>
Ogni
secondo che passava Lear si rendeva sempre più conto che la
vita da soldato, da
avventuriero o da impavido eroe della patria non faceva proprio per
lui;
quand’era più giovane aveva sempre sognato nei
suoi attimi di gloria quelle
situazioni estreme, essere gettati nelle segrete della fortezza
più
inespugnabile, soli in compagnia degli scarafaggi e dei topi, con un
tozzo di
pane e un bicchier d’acqua come unico nutrimento giornaliero.
Quando
fantasticava in quella maniera si esaltava, pensava a come avrebbe
sopportato
con stoicismo ogni sofferenza e tortura, come avrebbe sputato in faccia
ai suoi
aguzzini e avrebbe dimostrato di avere la stoffa giusta per essere il
protagonista, l’eroe.
Ora
che era realmente nelle segrete, dopo neanche cinque minuti avrebbe
venduto
anche sua madre per uscire da quel luogo terrificante: ormai aveva
smesso di
dare la colpa del suo stato psicologico alle ferite che ancora dovevano
rimarginarsi e che lo indebolivano grandemente, anche se fosse stato
nel pieno
delle forze quelle catene appese alle umide e spoglie mura della
prigione e
quei terribili rumori che lo coglievano di sorpresa proprio quando
stava per
appisolarsi lo avrebbero fatto tremare come una foglia, cosa che
effettivamente
stava accadendo in quel momento.
<
Ehi, avete visto, gente? C’è un moccioso
nuovo!>
<
Quanto credi di durare, ragazzino?>
<
Ma va ad attaccarti alle gonne di tua madre, sbarbatello! Non vedrai
neanche
domani mattina con una faccia come quella.>
Quel
briciolo di orgoglio che aveva in corpo si rianimò
spingendolo a mettere da
parte le sue paure e affrontare quei topi di fogna se non a pugni
almeno a
parole, ma all’ultimo si trattenne: non aveva perso del tutto
il suo buonsenso
e una saggia vocina nella sua testa gli ricordava che azioni avventate
come quella
non sarebbero servite ad altro se non a portarlo in un luogo ancora
più buio e
oscuro, magari una cella d’isolamento.
Non
credeva proprio di poter sopportare una simile situazione,
così si limitò ad
addossarsi maggiormente alla parete facendosi piccolo piccolo; presto i
suoi
compagni di prigione avrebbero trovato qualche altro passatempo
più divertente,
bastava solo attendere un po’.
Sperava
solo che non ci volesse troppo, la sua lucidità diminuiva
ogni ora che passava.
Dalla
finestra della sua camera si poteva godere della visuale di tutta la
città di
Seik, con il campanile esattamente posto al centro, attaccato alla
piazza
principale, e la nera struttura della fortezza leggermente a destra,
parzialmente
nascosta dal
Palazzo di Giustizia e
Libertà, ma comunque imponente ed inquietante.
Oltre
il profilo grigio della città si distingueva la sottile
striscia di strada che
avanzava verso Mok, una macchia marrone e grigia che si scorgeva verso
l’orizzonte,
oltre le foreste di bassi alberi da legna.
Un
bussare leggero alla porta fece sobbalzare la dama affacciata alla
finestra
che, con la voce leggermente più acuta del normale, diede il
permesso di
entrare; una domestica fece capolino al di là della soglia.
<
Perdonatemi, milady, ma un rappresentante dell’Esercito della
Liberazione vuole
vederLa. E tra meno di mezz’ora giungeranno gli altri ospiti
.>
La
donna si riscosse dalla paralisi in cui era caduta e con grazia
piegò la testa
leggermente verso destra, portandosi la mano alla bocca in una posa
riflessiva.
<
Capisco… ti ringrazio, Margareth, fai pure accomodare il
rappresentante nello
studio, io arrivo subito. Per quanto riguarda il ballo è
tutto pronto?>
<
Sì, milady, siamo pronti a ricevere gli invitati.>
<
Perfetto. Scenderò nella sala non appena avrò
terminato il colloquio con il
signor rappresentante. Puoi andare. Margareth.>
La
domestica accennò un inchino e richiuse la porta, lasciando
lady Pray ai suoi
funesti pensieri: non amava particolarmente quei balli e ricevimenti
che era
costretta a dare ogni mese, ma era una tradizione iniziata da suo
padre, l’uomo
più ricco di tutta la regione, e la gente si aspettava che
lei seguisse le sue
orme.
In
realtà quei momenti ricreativi e quei giochi di
società la mettevano alquanto
in imbarazzo, lei che era di carattere schivo aveva non pochi problemi
a
fronteggiare discussioni più o meno impegnate con le altre
famiglie dabbene;
avrebbe preferito di gran lunga leggere un bel libro di poesia davanti
al
caminetto, ma il fare parte di una nobile famiglia imponeva dei
comportamenti
precisi.
Lei
non poteva sottrarsi ad essi.
Già
la consapevolezza di non essere una compagnia piacevole come lo era suo
padre
le procurava un sacco di preoccupazioni (non che non avesse idee da
esprimere,
ma ogni volta che stava per aprire bocca arrossiva improvvisamente,
convinta
che quanto stesse per dire poteva non essere gradito al suo
interlocutore e che
era meglio esprimere pareri più neutrali, quelli di tutti in
pratica, per non rischiare
di offendere o contrariare) e, ne era certa, molte donne di buona
famiglia la
schernivano dietro le spalle per non essere una persona
all’altezza della sua
posizione.
La
sua timidezza veniva interpretata come mancanza di carattere, la sua
gentilezza
e i suoi atteggiamenti posati come indice di poca determinazione, una
sorta di
bambolina da mostra che si muoveva solo se qualcuno si prendeva la
briga di
muovere i fili. Non era poi un’opinione così
campata in aria, visto che quando
il governo di Mok e Seik era caduto lady Pray non aveva mosso un dito
per
aiutare i cittadini o ribellarsi agli Insorti (o all’Esercito
della
Liberazione, come amavano chiamarsi loro stessi), ma
d’altronde nessun nobile
si sarebbe mai calato nella mischia per salvare quattro contadinotti e
una
capra. Lei aveva semplicemente fatto quello che tutti facevano, anche
se il suo
cuore piangeva per questo.
Con
una certa apprensione per la serata che l’attendeva e per il
colloquio con un
membro di quel branco di assassini che avevano conquistato la sua
città con le
armi in pugno, la dama finì di agghindarsi per il
ricevimento e scese al piano
inferiore, nello studio in cui solitamente incontrava gli ambasciatori
e gli
uomini di potere.
L’ultimo
che aveva accolto in quella stanza era stato il Governatore di Seik, la
cui
testa ora giaceva infilzata a un palo nel centro della piazza
principale, un
avvertimento per chiunque volesse tentare la sorte e opporsi alle bande
di
Insorti che infestavano la città.
Giunta
fuori dalla porta fece un bel respiro profondo ed entrò,
pronta a fronteggiare
qualunque omaccione assetato di sangue si sarebbe trovata davanti.
In
realtà non era proprio una tremendo mercenario ricoperto di
cicatrici e con
armi nascoste ovunque ad attenderla per l’udienza; la donna
osservò stupita il
giovane che le stava davanti e, se non avesse indossato la divisa, non
avrebbe
mai creduto possibile che una persona tanto raffinata fosse in un
esercito.
I
capelli erano lunghi, raccolti in una coda di cavallo perché
non cadessero sul
volto, che era decisamente fiero, con un bel taglio deciso di labbra e
il naso
dritto; gli occhi, di un affascinante grigio chiaro con venature
azzurre, erano
vigili e attenti, il portamento deciso ed elegante. Con un buon vestito
addosso
sarebbe parso un figlio di ricca famiglia, un vero nobile, ma le mani
ricoperte
di calli tradivano la vera occupazione del ragazzo.
<
Perdonatemi se Vi ho fatto attendere.>
Il
commento della donna, anticipato da una leggera schiarita di gola, non
sorprese
minimamente il rappresentante, che voltò il capo nella sua
direzione, un
sorriso amabile ad illuminargli il viso.
<
Lady Pray. E’ un vero onore.> la salutò
inchinandosi appena nella sua
direzione, nulla di troppo forzato, nulla di sconveniente e riduttivo
nei suoi
modi; Eleanor Pray si ritrovò a pensare che, se non fosse
stato distante almeno
tre metri da lei (e la padrona di casa non aveva intenzione di
accorciare le
distanze), certamente le avrebbe fatto il baciamano.
<
Mi chiamo Vincent Carroway, milady. – proseguì il
soldato senza abbandonare il
suo sorriso – Sono qui per conto dell’Esercito
della Liberazione. Spero che
perdonerete l’intrusione nella Vostra dimora.>
Un
timido sorriso fece intuire al giovane che la signora, almeno
apparentemente,
non aveva nulla da ridire a riguardo.
<
E a cosa devo questa Vostra inaspettata visita?>
Per
un attimo il sorriso di quell’ambasciatore parve meno
naturale di prima.
<
Immagino Voi siate al corrente dell’esplosione verificatasi a
Mok questa
mattina. So che da queste parti le voci corrono molto in fretta.>
<
Sì, ho sentito che ci sono stati disordini in piazza, ma non
mi è giunto nulla
di più particolareggiato.>
<
Una jeep è stata fatta esplodere nel bel mezzo del mercato,
milady. Un atto
terroristico dei più barbari, visto le morti civili che ha
comportato. Un colpo
di genio, a mio avviso, una buona improvvisata per nascondere qualcosa
di più
importante.>
La
donna lo guardò con aria interrogativa, leggermente
intimidita: quel ragazzo,
quando parlava in quella maniera, le faceva venire i brividi.
<
Che intende?>
<
La bomba che è stata fatta esplodere è un arma
abbastanza sofisticata, in
dotazione all’Esercito Governativo; ma questo genere di
attacchi, questo
attentato, non fa parte del modus operandi dell’Esercito: non
sono dei gruppi
di guerriglieri, sono molto più organizzati. Se quella jeep
è stata fatta
esplodere era solo per nascondere qualcosa; inoltre non è
stato trovato il corpo
dell’uomo alla guida, ma nel cassone posteriore sono state
trovate armi, ormai
inutilizzabili, ma comunque un arsenale non da poco. L’uomo
alla guida è
riuscito a salvarsi e non sono così sicuro che fosse solo a
bordo di quella
vettura.>
Mentre
parlava Vincent continuava ad andare su e giù per la stanza,
le mani dietro la
schiena, la voce sempre più bassa e concitata; si
arrestò e per un istante i
due si fissarono.
<
Posso chiederVi perché mi state raccontando tutto questo,
signor Carroway?>
<
Ci sono degli elementi pericolosi che girano per queste vie;
è improbabile che
il guidatore e i suoi ipotetici compagni siano rimasti a Mok, non dopo
aver
visto il nostro dispiegamento di forze, e la città
più vicina ove potrebbero
aver trovato rifugio è proprio Seik, milady. Dobbiamo
posizionare posti di
blocco ad ogni via e pattugliare la città, ma abbiamo dovuto
fare i conti con
alcuni civili poco propensi a collaborare.>
<
Dunque?> domandò la dama, titubante. Il giovane si
avvicinò a lei a passi
lenti, senza levarle quegli occhi ammalianti di dosso.
<
Non vogliamo ferire i civili, milady. Non voglio che questo accada.
Siamo qui
per liberarvi, non per gettarvi in un nuovo stato di
schiavitù: noi siamo la
novità, la salvezza, la liberazione. Vi aiuteremo a
ricostruire la vostra
economia che la guerra ha danneggiato e presto torneremo a vivere in
tempi di
pace. Ma per realizzare tutto ciò ci serve collaborazione.
Da parte vostra e da
parte dei cittadini comuni. La vostra parola ha ancora influenza su di
loro,
siete un simbolo per questa città grazie alla fama della
vostra famiglia.
Perciò Ve lo chiedo col cuore in mano: rassicurate questa
gente e convincetela
a giurarci fiducia, a darci tutto l’aiuto possibile.
E’ di vitale importanza,
specie se la presenza dei Governativi rischia di far scoppiare un altro
fatto
di sangue in questo territorio. Le vittime sono state fin troppe,
direi.>
Se
Eleanor avesse ascoltate quelle stesse parole solo qualche settimana
prima, in
un’ambasceria o in un colloquio volto a frenare quella
assurda guerra, si
sarebbe sentita toccata fin nel profondo dell’animo e avrebbe
aderito con un
ardore che non aveva mai dimostrato di possedere.
Ma,
a dispetto di quel discorso, quel giovane le faceva paura, gli occhi
erano
accesi di una luce malsana, fanatica, l’impeto con cui aveva
pronunciato la sua
breve orazione l’aveva portato ad accorciare di parecchio le
dovute distanze e
Eleanor aveva paura, una paura folle di quel ragazzo così
pieno di passione e
certezze.
Indietreggiò
istintivamente, impaurita: se solo fosse stata più forte,
più decisa, avrebbe
avuto molte, molte cose da ridire… ma la sua indole era
quella che era e in un
lampo la figura della testa mozzata dell’ex-governante della
città le balenò
davanti agli occhi.
<
Ve ne occuperete, vero?>
Anche
alle sue orecchie, così poco inclini a cattivi pensieri,
quella domanda pareva
un ordine.
<
Lo farò. Entro domani a mezzogiorno avrò
informato l’intera cittadinanza.>
Vincent
si sciolse in un sorriso rilassato, assolutamente informale, mentre la
donna
inghiottiva con amarezza l’ennesima sottomissione,
l’ennesimo senso di colpa.
<
Vi ringrazio infinitamente, milady. Sono certo che la nostra operazione
d’ora
in avanti sarà molto più facile.>
Un
discreto bussare alla porta fece trasalire lady Pray e una Margareth
molto
titubante si affacciò appena le fu concesso.
<
Perdonate l’intrusione, milady, ma gli ospiti sono
arrivati.>
<
Grazie, Margareth. Falli accomodare, scendo subito.>
Appena
la porta si richiuse Carroway le sorrise cordiale, gelido e freddo.
<
Ospiti?>
<
Sì. Un ballo, in onore delle tradizioni di mio padre.>
<
Ah, capisco. Mi dispiaccio ancor di più per averVi tenuto
lontano dai vostri
doveri. Vi ringrazio sinceramente per la collaborazione.>
Fece
un piccolo inchino per congedarsi, ma quando già stava per
avviarsi lungo il
corridoio si bloccò e si voltò verso la dama.
<
Milady?>
<
Mi dica.>
<
Devo anche chiederVi di bloccare i procedimenti di rilascio dalle
prigioni. So
che per tradizione ogni tagliando di rilascio deve portare la Vostra
firma, ma
ritengo che in una tale situazione di tensione la liberazione di
soggetti
inclini ad atti violenti e pericolosi per l’ordine pubblico
sia un rischio che
non possiamo correre. Spero che Voi capiate…>
Eleanor
Pray abbassò lo sguardo, incassando il secondo colpo nel
giro di pochi minuti.
<
Come volete.>
<
Vi ringrazio ancora.>
<
Signor Carroway?>
Nuovamente
bloccato sulla porta, Vincent si voltò con lentezza.
<
Sì?>
<
Io… sarei onorata se Voi poteste partecipare alla festa di
questa sera.
Riconosco che sia un invito un po’ tardivo, ma davvero, mi
farebbe molto
piacere.>
Per
la prima volta da quando lo aveva incontrato Eleanor notò
che il sorriso del
giovane si era esteso anche agli occhi.
<
Molto volentieri, milady.>
Era
un’occasione da cogliere al volo, un invito così
diretto da parte di una delle
persone più importanti di tutta la regione. Una sperduta,
spoglia e inutile
regione, ma tanto, tanto terreno e una popolazione incredibilmente
numerosa,
prevalentemente contadini e piccoli artigiani, gente senza cultura.
Dunque
facilmente manovrabile.
Anche
quella donna non era poi così diversa, pur facendo parte
della nobiltà: una
bambola vuota, posta su un trono di cristallo troppo in alto per
permetterle di
sopravvivere ad una spinta inavvertita.
Sì,
quel ballo, quella festa era una vera occasione.
Poteva
mettersi in contatto con tutti quei grezzi intellettuali, pieni di
sé, immersi
nella loro boria e nelle loro ricercatezze lessicali, tutti quei
virtuosismi
linguistici così inutili, quel sapere di nicchia
assolutamente privo di scopo…
Paesani
vestiti un po’ meglio, con addosso tanta considerazione per
se stessi.
Poteva
testarli come voleva, rendersi conto di fino a che punto poteva
manovrarli.
Una
splendida, splendida occasione.
Vincent
Carroway fece ben attenzione a mantenere le proprie maniere adeguate al
luogo,
sfoggiando sorrisi, stringendo mani e facendo inchini: era stato
addestrato a
comportarsi in maniera impeccabile in quel genere di situazioni, una
fissa di
suo padre che, a lungo andare, si era rivelata molto utile.
<
Vi state divertendo, signor Carroway?>
Il
ragazzo sorrise amabilmente alla padrona di casa.
<
Assolutamente, milady. Non posso fare altro che ringraziarVi
ancora.>
Non
che passare la serata a chiacchierare con quelle noiose persone fosse
così
esaltante, ma di certo era utile per il numero di informazioni che
stava
accumulando. Per il resto erano coppie di
mezz’età, con scarpe tirate a lucido
e gioielli alle dita.
Portò
alle labbra il proprio bicchiere di pregiatissimo vino (non aveva la
più
pallida idea di cosa fosse, ma non poteva che costare una follia visto
chi
l’aveva comprato) e diede un’occhiata alla sala.
Una
figura in nero gli passò accanto, sfiorandolo appena con un
fruscio; si
irrigidì: non si era accorto della sua presenza.
Fissò
la schiena di quella persona con la coda dell’occhio: un
prete, o almeno così
diceva l’abito. Strano, non sapeva che milady avesse contatti
con la Chiesa.
Il
giovane aveva una camminata un po’ strana, rigida, come se si
stesse
trattenendo dal fare qualcosa, i capelli biondi molto corti risaltava
nel
contrasto con i vestiti neri.
Lo
vide avvicinarsi a lady Pray, dirle qualcosa a distanza ravvicinata e
subito
dopo allontanarsi assieme verso una saletta; li avrebbe seguiti
volentieri se
una ferma mano sulla spalla non l’avesse bloccato mentre
l’ennesimo ospite un
po’ alticcio e convinto di essere il più
importante in quella sala cercava di
attaccare bottone con lui.
<
Mi dispiace disturbarLa così, signora Pray. Di certo non
sono entusiasmante
come il ballo da cui L’ho appena strappata.>
Ad
Eleanor Pray si formò un groppo in gola come non le accadeva
da mesi e non
riusciva a trovare le parole per dire a quel giovane quanto gli fosse
grata per
averla salvata almeno per qualche minuto da quell’ambiente.
Ma
non riusciva a verbalizzare la propria gratitudine, mentre un altro
sentimento
cominciava a farsi lentamente strada in lei: il senso di colpa.
<
Non si preoccupi, padre. Le assicuro che apprezzo molto questa
visita.>
Quel
ragazzo era così giovane, non riusciva a non pensarci. Forse
anche più giovane
di Vincent Carroway, a giudicare dalle mani piccole e esili, i
lineamenti
dolci, ancora fanciulleschi: un ragazzino che si aggrappava a Dio per
superare
quell’orrore che era la guerra.
Questi
furono le prime considerazioni che sorsero spontaneamente nella mente
della
donna, ma quando il giovane prete cominciò a parlare, allora
qualcosa cambiò:
quella fragilità fisica andava man mano dissolvendosi, gli
occhi attenti e
penetranti si illuminavano con ardore, mentre con voce sicura spiegava
che era
giunto fin lì per salvare un uomo accusato e imprigionato
ingiustamente in
quelle prigioni.
L’ardore
che metteva nelle sue parole colpì profondamente lady Pray,
poteva quasi
toccare con mano il fervore e la passione con cui il prete perorava la
propria
causa, priva di quella sfumatura fanatica che, nel discorso di Vincent,
l’aveva
tanto spaventata.
Il
giovane parlava col cuore in mano ed era evidente che salvare una vita
umana,
fosse anche una sola, era per lui di estrema importanza;
c’erano persone così –
si commosse la donna – persone che avrebbe rischiato tutto
pur di aiutare una
persona in difficoltà, chiunque essa fosse.
Ciò
che la faceva rammaricare particolarmente era che lei non era mai stata
in
grado di appartenere a quella categoria.
<
Capisco le Sue ragioni, padre… e mi dispiaccio terribilmente
per questa persona
di cui mi parlate, ma temo di avere le mani legate. Ho ricevuto poco
meno di
un’ora fa un rappresentante degli Insorti e mi ha pregato di
non rilasciare
nessuno dei detenuti della prigione.>
Per
un attimo si era illusa che quella misera scusa potesse bastare.
Purtroppo,
o forse per fortuna, certe persone non si arrendevano alla prima
difficoltà (e
ancora una volta Eleanor si sentì terribilmente a disagio
per non essere
abbastanza forte da seguire il loro esempio): gli occhi del giovane
ecclesiastico parlavano da soli.
<
So che è difficile fare la cosa giusta, di questi tempi
più che mai. Possiamo
sperare che questa guerra finisca presto, che non vi siano
più giovani pronti a
cadere per ideali privi di senso. Ma possiamo anche tentare di
aiutarci, lenire
la sofferenza di chi ci è accanto. Non lo dico con intenti
moralistici o
retorici: se si può salvare una vita, allora se ne possono
salvare tante. Una
persona comune può rivelarsi in grado di fare molto
più di quanto non
pensasse.>
La
donna lo fissò, confusa: non capiva se si riferiva a lei o a
qualcun altro, se
fosse un invito ad agire o se cercasse di farle capire che quella
persona che
doveva rilasciare era destinata a fare cose che lei non poteva neanche
immaginare.
<
Io…>
<
La scelta è libera, ma voglio che sappiate che, in questo
momento, Lei ha
l’occasione di salvare non una, ma tante, tantissime vite
umane, signora
Pray.>
Lear
non aveva creduto alle proprie orecchie quando gli avevano intimato di
alzarsi,
il suo rilascio era stato firmato con urgenza e doveva togliersi dai
piedi il più
in fretta possibile. Si era mosso come una molla, preoccupato che i
suoi
carcerieri potessero cambiare idea da un momento all’altro;
forse era una
tecnica, forse volevano solo portarlo al patibolo, pieno di false
speranze…
Quando,
risalite le scale dei sotterranei, aveva visto davanti a sé
la figura pallida
di Shrine con in mano le armi che gli erano state sequestrate in
precedenza, i
suoi occhi si erano illuminati per la prima volta dopo quelli che
parevano
secoli. Aveva avuto il buon senso di non aprire bocca, almeno fino a
che non
erano saliti su un’automobile con lo stemma della casata Pray
dipinto sulle due
fiancate.
<
Che cosa..?> tentò di chiedere il soldato mentre
l’altro gli toglieva
finalmente le pesanti catene dai polsi, ma con un gesto secco il prete
lo fece
tacere.
Dopo
venti minuti Shrine si schiarì la gola rivolgendosi al
conducente.
<
Può lasciarci qui. La ringrazio per la
disponibilità, porti nuovamente i miei
saluti a milady.>
Il
qui era una strada di ciottoli che costeggiava un bosco un
po’ più folto degli
altri, subito dopo un ponte in pietra; non appena la macchina se ne
tornò per
la propria strada il biondo afferrò il compagno per un
braccio e lo condusse
nel folto degli alberi.
<
Si può sapere cos’è successo?>
bofonchiò Lear seguendo a fatica il prete, le
gambe poco stabili per essere rimaste inutilizzate per così
tante ore.
Gli
venne spiegato tutto, non nei minimi dettagli, ma comunque un resoconto
esaustivo mentre cercavano di raggiungere il più velocemente
possibile il punto
di incontro che Shrine aveva concordato con gli altri.
Era
appena sceso un teso silenzio dopo il suo racconto, e il prete
già iniziava ad
innervosirsi per quell’ambiente così estraneo,
quando Lear si fermò a fissarlo,
sul volto aveva stampata l’espressione più triste
che il biondo gli avesse mai
visto addosso.
<
Che succede?>
<
E’ che… mi dispiace.>
<
Per cosa?>
Shrine
non riusciva proprio a capire che cosa gli fosse preso così
all’improvviso; il
moro sorrise, mesto.
<
Ti ho costretto a mentire a quella donna per salvarmi. Sì,
insomma, ti sei
dovuto infiltrare e tutto… mi dispiace. So che non sopporti
l’idea d’ingannare
così gli altri.>
Se
non si fosse voltato per proseguire il cammino il moro avrebbe visto
l’ombra di
un sorriso sulle labbra del compagno, un sorriso fugace e mesto.
<
Oh, tu non ne hai idea…>
Da
come le tremavano
le mani Shrine aveva capito quanto fosse difficile per lei fare quel
passo, era
un tremito così incontrollabile da avere serie
difficoltà a scrivere quel breve
messaggio formale. Se non fosse stato necessario che fosse scritto di
suo pugno
il ragazzo si sarebbe offerto di scriverlo per conto suo.
Quando
le dita della
donna lo sfiorarono consegnandogli la busta sigillata non
poté trattenersi dall’inchinarsi
con rispetto.
<
Lei non sa
quanto Le sono grato, signora Pray. Salvando questo giovane
è come se Lei
avesse salvato me.>
Non
si aspettava
altro che un triste sorriso e un lieve cenno del capo, ma gli occhi
della loro
improvvisata salvatrice parevano evitare i suoi.
<
Devo dire che La
invidio, padre. Vorrei tanto… avere un appiglio, un
conforto, una fede in Dio e
nel genere umano come la Sua. Io… mi sento così
debole, padre. Mi sento
impotente.>
Shrine
era una
persona fortunata: fin da quando era bambino gli era sempre stato molto
facile
fingere.
Nascondersi
dietro
una maschera, essere qualcun altro, era tutto molto semplice per lui. E
anche
se in quel preciso istante avrebbe voluto gettare all’aria
quello stupido
travestimento e rivelare a quella donna così fragile,
così umana la verità, bé,
il suo lato razionale gli impediva di abbandonare così il
proprio compito.
Le
strinse dolcemente
la mano, più calda di quanto non si aspettasse.
<
Lei non è
debole, Eleanor. Ha appena compiuto un atto che solo i più
coraggiosi sono in
grado di fare.>
Non
era piacevole camminare al buio su un terreno sconosciuto, specie se si
finiva
per sussultare ad ogni rumore, per quanto lieve. Shrine
fissò lo sguardo
davanti a sé, imponendosi di ignorare gli improvvisi versi
degli animali
notturni, molti dei quali avevano tonalità ben poco
amichevoli.
Doc
li aveva assicurati di sapere quale era la giusta direzione, ma il
prete aveva
la netta sensazione di aver girato attorno allo stesso punto per almeno
mezz’ora. Ricacciò indietro un sospiro, mentre un
fruscio alla sua destra
segnalava la presenza di Lear accanto a lui, l’unico rumore
ben accetto in quel
momento.
Lo
osservò di nascosto, il volto tirato per la stanchezza,
delle occhiaie da far
paura ben visibili anche al buio… era molto diverso dal
ragazzo sempre pronto a
lamentarsi e a frignare che aveva incontrato pochi giorni prima in
quella
chiesa di campagna.
In
un certo senso il vecchio Lear gli mancava. Si chiese con tristezza se
tutti
loro sarebbero potuti tornare quelli di una tempo, una volta finita la
guerra.
<
Voglio un dannatissimo mezzo di trasporto. Anche un mulo va bene, ma se
devo
camminare per altri cinque metri io mi fermo qui.>
L’intero
gruppo si bloccò sul posto, ogni sguardo diretto verso Van,
il primo a
dichiarare ad alta voce quello che tutti pensavano da ormai diverse
ore. Da tre
giorni erano in marcia, stremati dallo sforzo fisico, senza una
macchina o una
qualche possibilità di mettersi in contatto con le loro
truppe; dormivano poco,
terrorizzati all’idea di essere presi alla sprovvista dai
nemici, visto che le
armi che avevano in dotazione erano ben poche.
Doc
era convintissimo che quella fosse la strada giusta, ma non
c’era niente che lo
potesse confermare: per evitare di essere scoperti da pattuglie nemiche
avevano
scelto sentieri e strade impraticabili, dove il tempo pareva essersi
fermato da
secoli.
<
Ci vuole ancora un piccolo sforzo. Non manca molto, ormai.>
commentò con
voce profonda l’uomo, passandosi una mano sugli occhi stanchi.
<
E come fai a dirlo? – ribatté il ragazzino
– Sono giorni che vaghiamo a vuoto,
non sappiamo neanche dove siamo.>
<
Stiamo percorrendo un terreno montuoso e, guarda caso, verso Nord ci
sono
montagne.>
<
Ce ne sono anche nella zona Ovest. – s’intromise
Shrine, sempre per il gusto di
mettere i puntini sulle “i” – Non
c’è niente che ci assicuri che queste siano
le montagne Nord e non quelle dell’Ovest. Anche
perché se continuiamo a
muoverci di notte e nasconderci di giorno non possiamo neanche essere
certi che
il sole sia un punto di riferimento così attendibile.>
<
Specie con le nuvole che ci sono state in questi giorni, era
impossibile
accertarsi della strada giusta.> ribadì Weiss,
raccogliendosi i capelli in
una coda.
<
Non possiamo arrischiarci a viaggiare di giorno, potrebbero avere aerei
da
ricognizione!>
<
E allora che facciamo? Continuiamo ad andare su e giù senza
concludere
niente?!>
Il
piccoletto aveva uno sguardo poco tranquillizzante e pareva
più che intenzionato
a puntare alla gola del Doc se non si fosse fatto esattamente quello
che voleva
lui. In quella situazione di tensione Lear si mise in mezzo.
<
Ci conviene fermarci.>
<
Come, scusa?>
<
Siamo esausti, tutti quanti. Litigare non servirà
assolutamente a nulla, è
meglio fermarci e riprendere le forze. Poi continueremo di prima
mattina, in
modo da avere il sole come aiuto. Bisogna correre qualche rischio ogni
tanto.>
<
Siamo già in ritardo di tre giorni sulla tabella di
marcia…>
<
Tra tre e quattro non c’è poi molta differenza,
l’importante è arrivare.>
Si
guardarono tutti: non era la miglior scelta che potevano fare, ma
almeno era un
inizio.
La
mattina seguente il cielo parve essere dalla loro parte: le nuvole si
erano
finalmente diradate e il sole segnalava nella luce del primo mattino la
direzione da seguire. L’unico rumore era quello dei loro
passi e del forte
vento che frusciava tra l’erba: un aereo da ricognizione
sarebbe stato sentito
a distanza di chilometri.
Scesero
per una valle ripida, in fila indiana, facendo ben attenzione a mettere
i piedi
nello stesso punto degli altri; c’erano segni di esplosioni,
pochi, ma c’erano.
<
Mine antiuomo. Evitate di appoggiare i piedi sull’erba, solo
su grosse pietre e
terra battuta.> ordinò il Doc, andando avanti per
primo. Era più pesante
degli altri e questo lo rendeva molto più attento alla dove
appoggiava i piedi,
di certo non aveva intenzione di saltare in aria. Anche Van aveva
parecchie
difficoltà a seguire i passi degli altri, costretto ad
allungare la propria
falcata e a combattere contro il vento che rischiava ogni istante di
sollevarlo
e farlo cadere chissà dove.
Quando
finirono le rocce e davanti a loro non ci fu che erba pianeggiante
passarono
allo stratagemma degli escrementi di mucca, saltando da uno
all’altro, certi di
non correre rischi in quel modo.
Lear
avanzava col cuore leggero, rianimato dalla vista del sole e dal vento
che
risvegliava i suoi sensi intorpiditi: quel posto gli ricordava le
escursioni in
montagna col suo vecchio, quand’era piccolo, una nostalgia
forte, ma piacevole.
Dopo
ore di cammino Weiss si lasciò sfuggire un grido
d’esultanza: una pattuglia di
controllo del loro Esercito era parcheggiata dietro una curva, i
soldati erano
intenti a consumare il loro frugale pasto.
Nel
giro di un’ora il gruppo era finalmente giunto al
Dipartimento Nord.
<
Giuro che credevo non sarei più riuscito a farmi un bagno
come si deve.>
Il
soldato si gettò sul letto e le sue povere ossa
scricchiolarono per protesta.
Si stiracchiò felice, ora che erano giunti fin là
si sarebbero potuti muovere
con una macchina – i muscoli delle gambe esultavano al sol
pensiero – e avrebbe
avuto finalmente modo di riposare. Già la cena che aveva
consumato gli era
parsa deliziosa, pur trattandosi sempre della stessa sbobba che veniva
rifilata
loro ogni mattina – oh, ma dopo un’alimentazione di
bacche, ghiande e foglie
anche del rognone ammuffito sarebbe parso una delizia.
Lo
sguardo del giovane finì sul letto accanto al suo e
automaticamente si volse
verso la porta del bagno: il Dipartimento Nord era decisamente
più piccolo
degli altri e, per risparmiare spazio, le camere erano doppie.
A
Lear era capitato di finire in stanza con Shrine. Non che avesse di che
lamentarsi, almeno evitava di morire soffocato dalle sigarette del Doc
o di
passare la notte a sorbirsi i discorsi sanguinari e fanatici di quel
moccioso
di Van.
Stava
già per mettersi a dormire quando si accorse di aver
dimenticato in bagno il
coltello di suo padre, quando si era spogliato per lavarsi;
imprecò a denti
stretti, non era certo che la mattina dopo sarebbe stato abbastanza
lucido da
ricordarsene.
Si
alzò controvoglia e bussò delicatamente alla
porta prima di entrare.
<
Scusa, ho dimenticato il mio…>
Non
riuscì a terminare la frase. Perché quello che
aveva visto prima che il prete
facesse tempo a coprirsi, a livello teorico, non doveva esserci. E
anche se in
quel preciso istante le parti incriminate erano nascoste da un
asciugamano la
figura di Shrine, senza la sua solita veste nera, senza ombra di dubbio
non era
maschile.
Lear
sentì il sangue affluirgli al cervello in una vampata non
appena realizzò la
cosa.
<
S-scusami!>
Si
voltò di scatto e chiuse la porta alle proprie spalle,
sconvolto.
Cinque
minuti dopo Shrine uscì dal bagno in pigiama e
trovò il compagno che gli (o
sarebbe più appropriato dire “le) dava la schiena.
<
Hai dimenticato questo.>
Un
leggero tonfo sul proprio materasso informò Lear che il suo
amato coltello gli
era stato restituito.
<
… Grazie.>
Rimasero
in silenzio per qualche minuto, il moro sentiva il sudore colargli
lungo le
tempie. Fece un respiro, un secondo e poi trovò il coraggio
di voltarsi a
guardare la ragazza che si era seduta sul proprio letto.
Avvampò
nuovamente solo a guardarla in viso.
<
Allora?>
<
Eh?>
Lear
la fissò perplesso e quella sbuffò, portando gli
occhi al cielo.
<
Nessuna domanda da farmi?>
Lo
guardò tentennare, titubante, ancora perplesso e
disorientato per quanto stava
accadendo.
<
Uhm… perché?>
La
ragazza si passò una mano tra i corti capelli biondi,
sorridendo.
<
Vai subito al sodo, eh?>
<
Ah, bé, insomma, se è per un problema di
identità di genere o quelle cose là…
insomma, tranquilla, non voglio farmi gli affari tuoi.>
bofonchiò lui, il
suo sguardo continuava a vagare senza meta, senza sapere dove posarsi.
La
sentì sospirare mentre si accomodava meglio sul materasso.
<
Non è per quello, sono stata costretta da cause di forza
maggiore.>
Si
guardarono e Lear si chiese come diamine avesse fatto a non capire che
era una
ragazza, ora che lo sapeva era tutto così…
evidente.
<
Il mio paesino d’origine si trova molto vicino ai territori
dove gli insorti
avevano cominciato ad organizzarsi, ancora tempo fa. Credo sia stato il
primo
ad essere attaccato da loro: all’epoca erano ancora pochi, ma
noi non avevamo
forze a sufficienza per contrastarli e, soprattutto, non ci aspettavamo
nulla
di simile.>
Shrine
si fermò un attimo, intenta a ricordare i dettagli di come
tutto era
cominciato.
<
Arrivarono di notte, senza preavviso. Avevamo ancora le case in legno,
bastò
poco perché bruciassero. Io e la mia famiglia abitavamo
vicino alla chiesa,
l’unico edificio in pietra di tutto il paese; i miei genitori
svegliarono me e
mio fratello prima che fosse impossibile scappare dalla casa. Ci
dissero di
andare a chiedere rifugio a don Karl mentre loro tentavano in ogni modo
di
bloccare l’avanzata degli insorti. Non ci riuscirono. Da
quanto ho capito sono
morti entrambi, fucilati assieme ad altri per essersi opposti. Io e mio
fratello gemello stavamo per raggiungere la chiesa quando tre soldati
ci
raggiunsero…>
Il
moro temeva di sapere com’era andata a finire, non era la
prima volta che
sentiva storie simili: quelle che gli avevano raccontato i suoi
compagni di
Squadrone erano storie terrificanti, tutte terribilmente uguali.
<
Ho sentito degli spari, ma non mi sono voltata. Ho continuato a correre
il più
possibile, ma quando sono arrivata al portone della chiesa ero sola.
– la
ragazza si fermò a riprendere fiato – Don Karl mi
ha accolto, la chiesa era
l’unico luogo che i ribelli parevano rispettare…
non entrò mai nessun soldato
là dentro. La chiesa ospitava anche un collegio maschile
dove si trovavano
tutti i ragazzini della campagna che avessero intenzione di
intraprendere la
carriera ecclesiastica. Per nascondermi meglio don Karl mi iscrisse al
collegio
con il nome di mio fratello e questo è quanto.>
Era
una fine un po’ brusca, ma ad ogni parola nuovi interrogativi
si affacciavano
nella mente di Lear; molti forse erano stupidi, ma sentiva che doveva
assolutamente sapere una cosa.
<
Se Shrine è il nome di tuo fratello… tu come ti
chiami?>
Dall’occhiata
che la bionda gli rifilò capì che non aveva
alcuna intenzione di dirglielo.
<
Potrei dirti un nome a caso, non avrebbe più valore di
Shrine. Preferisco che
tu continui a chiamarmi così.>
<
Vuoi proprio tenerlo un affare top-secret, eh?>
<
Solo don Karl e tu conoscete la mia vera identità e questo
è un vantaggio.
Essere un uomo di Chiesa ti apre molte porte che altrimenti
rimarrebbero chiuse;
ritengo che per il futuro sia meglio che io continui con questo
travestimento,
almeno fino a che la guerra non finirà. Sono riuscita a non
farmi scoprire da
nessuno, fino ad ora e preferirei che le cose rimanessero
così.>
<
Bé, il fisico ti ha aiutata…>
<
E’ un modo gentile per dirmi che sono piatta?>
<
No! – si affrettò a rettificare –
Assolutamente no, non c’è nulla di
male…>
<
Davvero? Mi parevi decisamente interessato alle due grandi
qualità di Weiss,
qualche giorno fa…>
Il
ragazzo era convinto che il suo viso non potesse diventare
più rosso di così
mentre cercava disperatamente di evitare lo sguardo
dell’altra.
<
Ok… ehm… c’è
qualcos’altro che devo sapere su di te, prima di andare a
dormire?>
Shrine
sorrise mettendo in bella mostra i suoi denti bianchi, gli occhi
scintillavano.
<
Parlo nel sonno. Quindi non preoccuparti se mi sentirai questa
notte.>
Lear
non poté trattenere un sorriso in risposta. La questione
pareva chiusa, ma
quella notte, nonostante la stanchezza, il ragazzo ebbe molta
difficoltà ad
addormentarsi.
La
mattina dopo in mensa il Doc venne verso di lui, trionfante, in mano la
ciotola
della colazione.
<
E allora? – fece a voce alta rifilando una manata sulla
schiena al povero Lear
– Com’è andata la nottata?
Movimentata?>
Il
giovane lo fissò per un istante come se fosse appena caduto
dalle nuvole, poi
afferrò il concetto.
<
Tu!>
Non
poteva crederci, non voleva crederci.
<
Tu l’avevi capito! Lo sapevi già!>
Il
Doc sollevò un sopracciglio, perplesso.
<
Vuoi dirmi che non c’eri arrivato? Credevo l’avessi
capito da un pezzo che il
nostro Shrine è una lei.>
L’altro
lo fissò a bocca aperta, senza parole.
Boccheggiò, talmente sconvolto da
sorvolare sul “nostro”.
<
Ma… da quanto lo sai?>
<
Ma da quando l’abbiamo incontrata! Dai, con quella camminata
e quelle mani? Non
poteva che essere una donna. Insomma, sono un medico per qualcosa, se
non
sapessi distinguere un uomo da una donna mi
preoccuperei…>
Mentre
il giovane tirava giù tutti i santi del Paradiso e inveiva
contro il Doc e
chiunque altro gli capitasse sotto tiro arrivò Weiss.
<
Ho parlato col Generale. – avvertì – Lui
provvederà a crearci un buon
diversivo, un attacco frontale improvviso, che tenga occupati i nostri
avversari per un po’ e che crei parecchia confusione. Abbiamo
un informatore
all’interno della base, una talpa. Verrà a
prenderci con una delle loro
macchine, ci ha procurato delle tute da tecnici, con quelle
sarà più facile
infiltrarci. Andiamo dentro, facciamo quel che dobbiamo fare e torniamo
indietro. Questa è la pianta dell’edificio.>
I
tre si strinsero per consultarla e Lear per qualche minuto
dimenticò Shrine, il
Doc e ogni altro problema.
<
Ci siamo ormai.>
Shrine
si sistemò meglio la divisa degli Insorti addosso, Weiss
finiva la manutenzione
del suo fedele fucile da cecchino, il Doc fumava la quarta sigaretta in
venti
minuti. Lear deglutì, la mano sulla fondina in un gesto
automatico: quello era
il loro momento, se lo sentiva.
Gettò
un’occhiata a Van e rabbrividì: quel ragazzino
pareva non vedere l’ora di
versare sangue e si aggirava come una bestia chiusa in gabbia, eccitata
all’idea della caccia imminente.
<
Ok, scendete.>
Il
gruppetto obbedì in fretta alla spia, nell’aria
già rimbombavano gli spari e le
urla di quanto stava accadendo non troppo distante da loro. Il moro si
mosse in
fretta, ansioso di porre fine alla questione il più in
fretta possibile; l’idea
che ad ogni secondo poteva esserci una vita umana in più
sulla sua coscienza lo
tormentava.
Soldati
con la loro stessa divisa correvano verso gli spari, urlando e
lucidando le
armi; i cinque si mischiarono nella folla, la targhetta da tecnici
funzionava
meravigliosamente come lasciapassare. Tra tutte quelle grida e quel
movimento
di uomini entrarono facilmente da una delle porte di servizio.
Il
loro obbiettivo era due piani sottoterra, un centro esperimenti ipogeo
non
troppo complicato da trovare: la cartina di quel posto era stata fin
troppo
semplice da memorizzare.
Quando
ci pensò più tardi Lear si chiese come fosse
possibile che i loro nemici non si
fossero accorti della loro presenza, ad ogni angolo telecamere li
fissavano con
i loro freddi occhi meccanici e molto spesso nei corridoi incrociavano
uomini
in camice e soldati armati fino ai denti che correvano qua e
là, tutti troppo
indaffarati per voltarsi a guardarli.
Tirò
il fiato solo quando entrò con gli altri
nell’ascensore che li avrebbe portati
direttamente a destinazione.
<
Ok, ragazzi. Ormai manca poco.> borbottò il Doc,
estremamente strizzato in
una divisa troppo piccola per lui; tutto il contrario di Van, che
praticamente
poteva navigarci in quella tuta.
<
Vi conviene togliervela ora. – suggerì Weiss
rivolgendosi ai due – E’ meglio
che non abbiate impedimenti nei movimenti, questa è la parte
dell’operazione in
cui bisogna darci dentro.>
Quando
la porta si aprì solo Shrine e Lear indossavano ancora la
divisa, gli altri si
erano disfatti di quegli abiti scomodi; sgattaiolarono in silenzio
fuori
dall’ascensore, lungo il corridoio che portava al laboratorio.
Si
trovavano senza alcun dubbio nella sala giusta: una troupe di quattro
scienziati in camice bianco erano intenti a lavorare attorno a un
tavolo, agli
angoli della stanza, attorno a loro, c’erano uomini armati,
sei soldati pronti
a fermare chi di loro provasse a ribellarsi o una qualche minaccia
esterna. A
Lear mancò un battito quando si accorse che quel piccolo
oggetto nero poggiato
sul tavolo era lo stesso che aveva sentito fischiare in aria, un
puntolino in
lontananza, prima che scoppiasse il finimondo.
Ad
un cenno Lear e Shrine si fecero avanti, gli unici che potevano ancora
fingersi
alleati di quegli uomini.
Uno
degli scienziati, un uomo alto e stempiato, con degli occhialetti
rotondi che
scivolavano lungo il naso, si voltò a guardarli.
<
Non abbiamo richiesto nessun servizio tecnico. Cosa ci fate qua?>
<
Siamo stati mandati per un controllo dei condotti di areazione, ci sono
stati
danni nella zona Ovest e temono che possano essercene anche
qui.> si inventò
Shrine di sana pianta: non aveva la più pallida idea se
esistesse o meno una
zona Ovest, ma dall’espressione rilassata dell’uomo
sentì di averla azzeccata.
Nel
vedere la ragazza mentire con così grande
facilità Lear si rese conto che non
sarebbe mai riuscito ad abituarsi a questo nuovo lato dello Shrine che
credeva
di conoscere.
<
Ok, fate in fretta allora.>
La
bionda annuì mentre avanzava verso il condotto
più vicino; il moro nel
frattempo aveva individuato sul piano di lavoro degli scienziati i
piani che
cercavano. La tentazione di distruggerli subito era forte, ma dovevano
prima
cercare di eliminare un paio delle guardie, poi gli altri tre avrebbero
fatto
la loro comparsa.
Ma
prima che Shrine riuscisse ad avvicinarsi al muro un ragazzo le
puntò la
pistola alla tempia.
<
Fermo dove sei.>
La
ragazza spalancò gli occhi mentre si voltava verso il nuovo
pericolo. A
ricambiare il suo sguardo furono gli occhi gelidi di Vincent Carroway.
<
Mi ricordo di te… Eri il prete al ricevimento di lady Pray.
Un prete, di certo
non un tecnico, dico bene?>
Fu
un attimo.
Il
rumore ravvicinato di uno sparo squarciò il silenzio che si
era venuto a
creare, ma Vincent Carroway si lanciò verso dietro, in una
postazione riparata
mentre dove fino a pochi istanti prima c’era la sua testa un
proiettile si
conficcava nel muro.
Lear
vide solo del fumo uscire dalla canna della pistola del Doc prima che
lui e Van
irrompessero nella stanza con un grido, Carroway che gridava ai suoi
uomini di
sparare, Weiss che sparava dalla soglia della porta, riparata da un
enorme
scaffale di provette.
Non
pensò a quello che faceva, si gettò semplicemente
in mezzo ai tavoli per
evitare le pallottole che fischiavano ad altezza d’uomo;
sentì un tonfo e uno
degli scienziati cadde a pochi centimetri da lui, sul camice una
chiazza rossa
che tendeva ad allargarsi sempre di più.
C’erano
urla, gli altri uomini di scienze correvano al riparo disperati; Lear
si voltò
e vide il volto estasiato di Van che si gettava contro una delle
guardie, il
pugnale in mano. Cinque secondi e l’uomo crollava a terra, un
fiotto di sangue
dal suo collo.
Mentre
il proprio stomaco si accartocciava su se stesso per
quell’orribile visione
Lear mise automaticamente mano alla pistola, un proiettile
passò accanto al suo
orecchio; si voltò e sparò quasi alla cieca, con
un grugnito chi aveva cercato
di sparargli cadde a terra con un rumore sordo.
Rotolò
sotto un tavolo per raggiungere una zona vuota e si sporse per capire
cosa
stava succedendo: c’erano quattro guardie a terra e tre
scienziati riversi sul
pavimento. Vide il Doc, nonostante una spalla sanguinante,
accapigliarsi a mani
nude con la quinta guardia, Van colpire al cuore l’ultimo
degli scienziati
mentre Weiss si avvicinava al tavolo e afferrava i progetti che il
ragazzo
aveva visto prima.
Nessuna
traccia né di Shrine né del giovane che
l’aveva riconosciuta prima.
Non
aveva fatto neanche tempo a pensarlo che la bionda gli apparve davanti,
pistola
in pugno, il volto pallido arrossato dall'adrenalina; prima che potesse
aprire
bocca per parlarle e chiederle perché diamine stava puntando
l’arma nella sua
direzione qualcosa di freddo su posò sulla sua gola mentre
un braccio lo
afferrava da dietro, bloccandogli entrambe le mani.
<
Getta la pistola.> ordinò con voce roca il ragazzo
che lo stava tenendo
sotto tiro della lama e Lear sapeva anche senza voltarsi che si
trattava del
giovane che li aveva scoperti.
Shrine
non fece una piega, le sue mani non tremavano.
<
Non mi aspettavo che un uomo di Chiesa parteggiasse per gente come
loro.
Credevo che voi foste per la pace, non per questo inutile
massacro.>
<
Cerchi di tirarti fuori? Mi pare che questo inutile massacro
l’abbiate iniziato
voi.>
Vincent
Carroway fissò quegli occhi azzurri che lo stavano
trafiggendo e scosse la
testa piano.
<
L’abbiamo fatto per liberarvi. La gente moriva di fame nelle
nostre terre, lo
Stato se n’è sempre fregato di noi. Combattiamo
per restituire dignità agli
uomini oppressi, non per altro. Questi qui invece – e per
accentuare le sue
parole avvicinò ancora di più la lama al collo di
Lear, tagliando appena la
pelle – per cosa combattono? Solo per distruggere chi chiede
di essere aiutato,
di essere salvato. Tu dovresti capire, per ogni popolo arriva il
momento del
riscatto. Tu dovresti essere dalla nostra parte, non dalla loro.>
Il
mordersi il labbro fino a farlo sanguinare era un gesto automatico,
nervoso,
perché ad essere sincera con se stessa Shrine non aveva mai
dimenticato i volti
dei contadini del suo paesino, la pelle tirata sugli zigomi, la loro
camminata
pesante, barcollante a tratti. Ne erano morti anche lì, per
la fame, ricordava
funerali poveri e discorsi di speranza che andavano a vuoto.
Una
parte di lei in quel momento avrebbe davvero voluto abbassare la
pistola e
cominciare a urlare, perché vedere gente uccidersi
così senza senso era quanto
di più stupido e terribile avesse mai visto e lei odiava
quel mondo che girava
sempre al contrario. Ma quando focalizzò nuovamente lo
sguardo sul volto di
Lear, sulla lama che minacciava il suo collo, qualcosa in lei
scattò.
<
Tu… non hai alcuna ragione per considerarti migliore di
loro.>
Carroway
avrebbe voluto di certo replicare, ma non gli fu possibile:
l’ennesimo sparo
riecheggiò per le mura e Lear sentì la presa
sulle sue mani allentarsi; ne
approfittò per bloccare la mano che teneva la lama e
spingere Vincent il più
distante possibile da lui.
Il
giovane barcollò tenendosi istintivamente il braccio che
sanguinava
copiosamente sul pavimento; Lear vide i suoi occhi grigi brillare di
rabbia,
odio e qualcosa di tremendamente simile al divertimento. Ma un istante
dopo
Vincent Carroway correva lungo il corridoio, le pallottole di Weiss che
schizzavano da tutte le parti, sfiorandolo, ma nessuna raggiunse il
bersaglio.
<
Merda!> esclamò Van, seccato di non essere riuscito a
uccidere proprio tutti
in quella stanza.
Shrine
e Lear lo guardarono con disgusto.
<
Muoviamoci. – intimò il Doc – Weiss,
piazza l’ordigno. Dobbiamo filare.>
La
ragazza posizionò l’esplosivo in posizione
strategica e attivo il timer.
<
Due minuti.>
<
Ok, via!>
Fecero
di corsa tutto il corridoio, su per l’ascensore, un altro
corridoio; poi,
svoltando un angolo, sentirono dietro di loro l’enorme
esplosione mentre le
pareti tremavano e qualche calcinaccio crollava dal soffitto.
Cinque
minuti dopo erano fuori dall’edificio, nel trambusto generale
la macchina della
loro talpa li stava aspettando.
<
Stai bene?>
Shrine
si voltò a fissarlo: aveva il volto provato, ma nulla di
più.
<
Sì, sto bene. Mi dispiace solo che ce lo siamo fatti
sfuggire… avrei voluto
parlargli ancora.>
Lear
sorrise passandosi distrattamente le dita sul taglietto appena
rimarginato sul
collo.
<
I piani?>
<
Li ha il Doc.>
La
ragazza indicò con un cenno del capo il dottore seduto su
una roccia poco
distante dalla macchina in sosta. Si avvicinò a lui a passi
lenti.
<
Credevo dovessimo distruggerli.>
Il
Doc alzò lo sguardo su di lui e sbuffò divertito.
<
Gli ordini esatti sarebbero di portarli al Quartier Generale. Credo che
anche i
nostri vogliano costruire qualcosa di simile.>
Lear
si irrigidì nel sentire quelle parole: non poteva
assolutamente permettere che
quell’affare fosse creato ancora, non importava se da amici o
nemici. Non era
un’arma che doveva esistere.
Osservò
il Doc tirare fuori dalla tasca l’accendino nonostante la
ferita alla spalla.
<
Credo che però non avranno problemi a credere che queste
scartoffie siano
andate perse nell’esplosione.> borbottò
accostando i fogli alla fiammella.
<
Bene. – aggiunse soddisfatto – Direi che ora
possiamo tornare al
Dipartimento.>
Lear
non poté trattenere un sorriso mentre guardava quei piani di
morte
accartocciarsi e disperdersi nell’aria, in cenere.