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Autore: Nezu    01/05/2012    0 recensioni
Lear è uno dei pochi sopravvissuti allo scoppio di un nuovo ordigno creato dai nemici, per questa ragione i suoi superiori lo reclutano per una missione speciale, volta a distruggere il prototipo e i progetti della nuova bomba, nonché il suo creatore. Ma il viaggio per la base nemica è più lungo del previsto e il giovane dovrà affrontarlo in compagnia di una dolce quanto temibile cecchina, un ragazzino sadico con la passione per il sangue, un vecchio dottore e un giovane prete alla ricerca della vera fede.
Genere: Avventura, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Avvertimenti: language (accenno), gore, war
Note: Questa storia ha preso parte all'edizione 2011 del Big Bang Italia. Il titolo è un verso (leggermente modificato) della poesia "The Masque of Anarchy", di Percy Shelley. La canzone contenuta nella storia è a sua volta tratta dalla stessa poesia, in parte tradotta e in parte ispirata ad alcuni versi.
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First Came Anarchy

 

Voleva solo chiudere gli occhi e morire, ma il gracchiare dei corvi lo teneva sveglio, il dolore al fianco era sordo, continuo, come il tamburo che risuonava lento e ripetitivo nell'aria mattutina.

Aprì la bocca per inghiottire voracemente ossigeno – il naso, probabilmente rotto, sembrava non funzionare a dovere – ma una colata di sangue uscì da solo Dio sa dove, rischiando di farlo soffocare.

Una palpebra si sollevò piano e l'occhio nero e scintillante di un volatile ricambiò il suo sguardo stanco.

Probabilmente non vedeva l’ora di beccare la sua carne morta, quell’uccellaccio del malaugurio.

Bé, non avrebbe dovuto aspettare poi tanto, il fortunato.

< Ehi, qui ce n'è uno ancora vivo!>

Se non avesse davvero rischiato il soffocamento Lear sarebbe scoppiato a ridere: con tutta la sua buona volontà gli riusciva difficile considerarsi vivo, non nelle sue condizioni almeno.

Ricoperto di sangue – suo e dei suoi compagni, ma soprattutto, o almeno lo sperava, quello dei suoi nemici – e con praticamente tutti gli organi interni esposti alla luce del sole che faceva capolino all’orizzonte... di certo non era messo un granché bene.

Preferiva ritenersi spacciato e continuare a respirare piuttosto che sperare di riuscire a sopravvivere per poi crepare di lì a pochi secondi: meno delusioni, meno patemi d'animo.

La palpebra si richiuse, troppo pesante per restare aperta.

Un rumore indistinto di passi si fece più vicino, dovevano essere quattro, cinque persone al massimo.

Lear si sentì sollevare senza alcun riguardo da terra mentre mani callose lo afferravano e due braccia che sembravano tronchi d’albero lo sostenevano senza alcuno sforzo.

Provò a protestare per il trattamento spartano, ma solo un gemito strozzato lasciò le sue labbra.

< Capitano, cosa ne facciamo?>

< Caricatelo sul furgone, ci serve il Doc il prima possibile. E muovete il culo, quei bastardi sono ancora nei dintorni.>

Senza la terra a sostenerlo la sua testa si riversò dolorosamente all’indietro, bloccandogli il respiro.

Cercò la forza per alzare il capo, ma si accorse con suo grande disappunto di non essere in grado di muovere i muscoli del collo.

La divisa gli si appiccicò addosso come se si fosse gettato in mare vestito, ma il liquido che colava e toccava il suolo non era di certo acqua.

L’ultima cosa che Lear sentì mentre venivano portato via fu il vociare dei suoi salvatori ed il tamburo che si faceva sempre più distante.

Poi, senza neanche rendersene conto, scivolò in silenzio in una coltre nera che puzzava di sangue e polvere da sparo.

 

Dall’inizio di quella stupida guerra il Doc ne aveva viste tante, troppe a dir la verità, ma un ragazzino con ventre e petto squarciati, cuore, polmoni e organi vari in bella vista e ancora la forza di respirare proprio gli mancava.

L’aveva ricucito come aveva potuto, per evitare che morisse dissanguato nel giro di un’ora, e l’aveva lasciato senza troppe cerimonie alle cure di sua figlia, ormai molto più abile del padre.

L’uomo si lisciò i baffi mentre fissava la figura del giovane steso sul lettino dell’infermeria: la sua piccola aveva fatto davvero progressi, il moccioso sarebbe sembrato come nuovo di lì a poco tempo, eccezion fatta per quelle due o tre cicatrici che era impossibile nascondere.

Doc scosse la testa mentre fissava le carte macchiate di sangue sul comodino del suo paziente: il Pass e il cartellino di riconoscimento erano incredibilmente leggibili.

Erano riusciti a risalire all'identità del ragazzo.

Lear Johannen, diciannove anni, membro dello Squadrone n°2, quello che era stato praticamente spazzato via durante l'ultimo scontro.

I sopravvissuti si potevano contare sulle dita di una mano ed il giovane era l'unico che si era trovato in prima linea, sul “luogo del misfatto”, come lo chiamavano ormai il Capitano e il Generale.

L’uomo si lasciò andare ad una breve risata amara mentre si accingeva a lasciare la stanza: il moccioso non poteva immaginare cosa lo aspettava appena avesse riaperto gli occhi.

 

L’eco di un tuono rimbombò tra le pareti spoglie della piccola cappella, amplificata e terrorizzante, ma il prete inginocchiato davanti all’altare, le mani appoggiate sul grembo e gli occhi chiusi non si mosse di un millimetro né aprì gli occhi.

Sapeva bene cosa avrebbe visto se l’avesse fatto: buio, buio e ancora buio. Più che una cappella quella poteva essere una cripta, le finestre erano state sbarrate e coperte dai soldati dell’Ovest, impedendo al benché minimo raggio di sole di filtrare. Fuori, nel mondo esterno, poteva essere mezzogiorno come notte inoltrata, ma il prete non l’avrebbe potuto sapere.

< Pregate, fratello?>

Il ragazzo non sussultò a quella voce improvvisa, aveva percepito la suora avvicinarsi a lui, i suoi passi leggeri che scivolavano tra le ombre di quel lugubre luogo; sospirò leggermente quando la sorella gli fu più vicino e finalmente aprì gli occhi, tenendoli però puntati sul pavimento.

< Medito, sorella. Temo di non essere più in grado di pregare da molto tempo.> rispose con estrema lentezza, soppesando le parole, la voce arrochita dal disuso.

< La speranza vi ha abbandonato?> chiese la suora posandogli una mano sulla spalla con fare materno, sinceramente preoccupata per lui.

< Temo di non averne mai avuta. Capita, quando non vedi che odio attorno a te.> fu la risposta asciutta del ragazzo.

La sorella sospirò, in cuor suo sapeva che i giovani come lui non potevano capire tutto della vita, non potevano avere una tale fiducia in Dio pur indossando l’abito. Era un limite dell’età, col tempo avrebbe capito.

< Dio è amore, fratello Shrine.>

Lo sguardo dell’altro si indurì.

< Allora temo che Dio sia morto davvero.>

Non sapendo cosa dire la sorella rimase in silenzio, lo sguardo addolorato fisso sul pavimento mentre il giovane si alzava.

< Devo andare, sorella.>

< Siete ancora deciso a partire, dunque?>

Shrine si avvicinò alla panca alle sue spalle e recuperò la borsa che vi aveva appoggiato, evitando accuratamente lo sguardo della sua compagna di fede.

< Ho una missione da compiere.>

< Non è una missione data dal Signore.>

< E’ la mia. Non ho altro da dire.>

La donna lo accompagnò su per le scale della cappella, attraverso gli ambienti fino alla porta d’ingresso; la squadrarono entrambi, l’una con tristezza, l’altro con un sorta di rabbia malcelata: sapevano entrambi che al di là di quel vecchio legno c’era l’inferno e che né croci né preghiere né altro potevano salvare qualcuno, anche un religioso, dalla morte.

< Una volta passata questa porta il vostro abito e la vostra fede non vi daranno alcun aiuto materiale, ma sappiate che Egli è sempre pronto a darvi sollievo e permettervi di affrontare le sofferenze.>

< Vi ringrazio.> sussurrò il ragazzo e appoggiò una mano sul battente.

< Ah, Shrine.>

Gli occhi azzurri del giovane saettarono sul suo volto, penetranti e attenti. La suora si levò il crocifisso che portava al collo e glielo porse.

< Ricorda che la speranza è l’ultima a morire. Devi solo crederci.>

 

Lear si chiese seriamente se non sarebbe stato meglio finire a riempire la pancia di qualche corvo piuttosto che affrontare il destino che i suoi superiori avevano scelto per lui; già il risveglio era stato traumatizzante, scoprire di avere quegli orrendi squarci dappertutto, quel terrificante omaccione che teoricamente doveva essere il suo medico ma che continuava a dargli pacche sulle spalle così forti da fargli sputare fuori i polmoni, per non parlare di quella che gli era stata descritta come la più dolce tra le fanciulle, colei che aveva curato le sue ferite con tanto amore… in realtà si era rivelata una donnona grande circa il doppio di lui, un bestione assetato di sesso e pronto  a saltargli addosso alla prima occasione (uno dei motivi per cui aveva cercato di abbandonare il prima possibile l’infermeria).

Il Doc, così si chiamava il padre di quella tremenda creatura, lo aveva poi informato della fine a cui era andato incontro il suo Squadrone e a quanto pareva poteva davvero ritenersi fortunato per essere ancora vivo.

Quattro giorni dopo il suo risveglio il Generale lo convocò nel suo ufficio; sperò per un istante che gli dessero il congedo per le gravi ferite riportate, ma gli bastò un’occhiata al volto dell’uomo per capire che avrebbe preferito darlo in pasto a qualche belva piuttosto che permettergli di tornare a casa.

< Immagino che Lei sappia perché è qui.> cominciò quello, ma Lear lo fissò come dire che non ne aveva la più pallida idea, ma che non era molto sicuro di volerlo sapere.

< Lei, soldato, è l’unico ad essere sopravvissuto a quel massacro… Lei sa di cosa sto parlando. E’ l’unico ad aver visto “La Cosa”.>

< “La Cosa”, signore?>

Lear si sentì estremamente stupido con quell’aria imbambolata di chi cadeva dalle nuvole, eppure aveva serie difficoltà a seguire i discorsi del Generale.

< Ma certo, “La Cosa”! Il nuovo tipo di ordigno che è esploso provocando la distruzione dello Squadrone n°2! Lei è l’unico sopravvissuto che era in prima linea, non può non averla vista.>

Ora che glielo ricordava nella sua mente affiorò l’immagine sfocata di una macchina nera caricata su una delle jeep e dalla quale era stato lanciato qualcosa… ma poi c’era stato un lampo di luce enorme e il resto era solo sangue e corvi affamati, nulla di più.

< L’ho vista – ammise con lentezza – ma non vedo come questo possa essere utile. Non sarei in grado di riconoscerla con certezza e, se è vero che questo affare l’hanno inventato da poco, anche se ve la descrivessi non potrei spiegare come funziona. Non sono un tecnico o un ingegnere.>

Il Generale sorvolò sulla mancanza di educazione e rispetto di quella recluta, ormai le condizioni dell’esercito erano talmente critiche che erano stati arruolati anche mocciosi indisciplinati e privi di qualsivoglia addestramento pur di avere qualcuno da mandare in prima linea.

< Non Le sto chiedendo nulla di simile. Il suo compito è di dare conferma alla squadra incaricata che l’obbiettivo individuato sia veramente l’ordigno che ha sterminato i suoi compagni.>

< Prego?>

< E’ stata radunata una squadra speciale con il compito di distruggere “La Cosa”. I nostri infiltrati ci hanno rivelato che si tratta di un’arma ancora da perfezionare, ma dai catastrofici risultati è evidente che sia decisamente pericolosa. Per nostra fortuna ne esiste solo un esemplare, i nostri avversari non hanno più tanti soldi da spendere e temendo che l’ordigno non funzionasse ne hanno creato solo uno, per prova. La squadra speciale dovrà infiltrarsi nel loro cantiere, distruggere la macchina, eliminare ogni file o documento riguardante la sua costruzione e sbarazzarsi dello scienziato che le ha dato vita. Per questo conto su di Lei.>

< Su di me? Ma scusi, io cosa dovrei fare?>

Il Generale lo squadrò per un istante, approfittando della pausa per lisciarsi i baffi.

< Anche Lei è un membro della squadra speciale. Essa è composta dai migliori soldati di tutte le nostre Sezioni: sarete solo un manipolo di uomini, in modo che vi sia più facile infiltrarvi in territorio nemico e colpire. Il Suo compito sarà quello di confermare, al momento dell’effettiva eliminazione del problema, che quello che state per distruggere sia veramente l’ordigno che cerchiamo. In fin dei conti Lei è l’unico ad averlo visto ed essere ancora in grado di raccontarlo.>

< Ma io…>

< E inoltre noi del comando generale riteniamo che Lei, in qualche modo, potrebbe garantire la riuscita della missione. E’ già sopravvissuto una volta a “La Cosa”, potrebbe riuscirci anche una seconda.>

< In pratica sono l’oggetto porta-fortuna di turno?>

< Preferirei chiamarLa precauzione contro i malumori del fato.>

Quando uscì dall’ufficio, cinque minuti più tardi, Lear pensò che sarebbe davvero stato meglio morire con i suoi compagni, era diventato una fottutissima mascotte!

Le parole del Generale gli rimbombarono in testa.

< Partirà domani mattina con il Doc, anche lui farà parte della spedizione. Raggiungerete il Dipartimento Ovest dove vi ricongiungerete con il resto della squadra e partirete subito.>

Tutto deciso senza chiedergli assolutamente niente, come fosse un oggetto o il cagnolino fedele dei vertici… lui in quella guerra non ci voleva neanche entrare! Se i militari non fossero andati casa per casa a trascinare fuori tutti i giovani in grado di tenere un’arma in mano lui non sarebbe neanche stato lì.

Sospirando si avviò verso l’armeria per recuperare i propri effetti; recuperò la pistola e il vecchio coltello di suo padre da utilizzare in casi di emergenza e lo nascose nello stivale destro.

Trovò anche uno stiletto, proprietà di qualche soldato deceduto in battaglia, e se lo attaccò alla cintura, convinto che fosse meglio averlo che non averlo. Mentre tornava alla stanza che gli avevano momentaneamente concesso si fermò per ascoltare un vecchio che cantava mentre puliva la canna della propria arma; dalle cicatrici e la barba bianca doveva essere un veterano e la canzone che intonava aveva un che di noto, come se Lear l’avesse sentita già in precedenza, ma non riusciva a ricordare dove.

La canzone, che assomigliava di più ad una filastrocca, faceva così:

 

“Dormivo e una voce mi svegliò,

Sognavo e una voce mi chiamò,

Una voce che veniva dal mare

Al sol sentirla smisi di sognare.

 

Incontrai la Morte sulla via,

Teschi seguivan la sua scia

E segugi abbaiavan affamati,

Lei li nutriva con arti spezzati.

 

Seguiron poi Frode e Distruzione,

E dopo di loro Odio ed Ossessione,

Vestita da prete veniva Ipocrisia,

Ma prima fra tutte venne Anarchia.

 

Venne con indosso una corona,

Dello schiavo popolo padrona

E dal suo scranno gridava al cielo

< Io son Re, Legge, Dio e Pensiero>.”

 

Il vecchio si interruppe, soppesando le parole, ma sembrava alquanto in difficoltà; Lear gli si avvicinò fino ad essere a meno di un metro di distanza.

< E poi come continua?>

L’uomo lo fissò sbalordito, con ogni probabilità non si era accorto di avere uno spettatore nei paraggi.

< E poi… e poi… poi non me la ricordo più. Ah, figliolo, la vecchiaia gioca brutti scherzi!> e giù a ridere e a pulire il suo fucile,

< Poi veniva Speranza, Bert.>

Lear sobbalzò nell’udire la voce del Doc così vicina al suo orecchio: immerso com’era nell’ascolto non si era reso conto che il medico si era portato alle sue spalle.

< Davvero?> gli chiese il ragazzo stupito e il medico annuì convinto.

< Ma certo. Ancora non ricordi, Bert?>

Eppure il vecchio non sembrava molto convinto.

< Macché speranza e speranza… Dove la vedi la speranza, Doc? Ah, no! Contro Anarchia la speranza è inutile, doveva essere per forza qualcos’altro…>

Il medico scosse la testa e fece cenno a Lear di seguirlo in infermeria per dare un’ulteriore occhiata alle sue ferite.

 

Il mattino seguente partirono all’alba con un piccolo gruppo di soldati che, per una richiesta di rinforzi, dovevano raggiungere un posto di blocco vicino al Dipartimento Ovest; il cielo era terso e illuminato dai primi timidi raggi del sole.

Il ragazzo approfittò dell’assoluta calma attorno a sé per schiacciare un pisolino nel retro della jeep su cui era salito, convinto che sarebbero arrivati a destinazione senza troppi impicci. Quando però un rumore di spari lo svegliò si rese conto che non avevano fatto poi tanta strada.

Una pallottola gli sfiorò la guancia e Lear istintivamente si appiattì sul fondo della macchina, una mano che correva automaticamente alla pistola; le urla del Doc lo raggiunsero.

< Vatti a nascondere, ragazzino! Non sei in grado di affrontare uno scontro adesso!>

Mai accettò un ordine così volentieri e prima di buttarsi fuori dalla vettura studiò rapidamente il campo: erano in un paesino di campagna, davanti a lui c’erano un poche di case, alcune già ricoperte dalle fiamme. Alla sua destra però si ergeva l’unico edificio in pietra, la chiesa del villaggio.

Tra la jeep e quel riparo c’era solo il giardino di una casa e il cimitero.

Approfittò dei suoi alleati che gli coprivano le spalle e si lanciò sulla strada, correndo più veloce che poteva: alcune pallottole gli fischiarono attorno, ma raggiunse la chiesa incolume, chiudendo in tutta fretta l’enorme portone di legno.

Conscio di non essere affatto al sicuro lì dentro tolse la sicura alla pistola e si appostò dietro alcune panche, davanti all’entrata; le sue previsioni non erano errate, un paio di soldati in divisa blu fecero irruzione, armi in pugno, ma dalla sua postazione non gli fu difficile centrarli.

Col cuore che batteva a mille si allontanò per ricaricare e si rifugiò all’ombra di una nicchia, nascosto agli occhi di chiunque non avesse seguito le sue mosse fin dal principio; lì rimase in ascolto.

Dopo pochi minuti gli spari cessarono e restò solo un silenzio di tomba.

Senza trovare il coraggio di emettere anche un solo respiro che potesse essere udito, Lear aspettò e aspettò, pregando di sentire una voce amica, ma nessun suono attraversò l’aria.

Lunghi ed estenuanti minuti passarono in silenzio e finalmente il ragazzo si azzardò ad abbandonare il proprio riparo e uscire dall’ombra, il rumore dei suoi stessi passi sul pavimento lastricato lo terrorizzava.

Proprio quando i battiti del suo cuore cominciavano a stabilizzarsi una mano gli afferrò il polso torcendolo dolorosamente, la pistola gli sfuggì dalle dita senza poter far nulla; prima che riuscisse a reagire o ad identificare il suo aggressore si ritrovò schiacciato contro una colonna, il polso ancora in quella morsa d’acciaio e una pistola puntata sotto il mento.

Stava già per aprire bocca per dire che lui non c’entrava per niente, era lì per caso e altre stupidaggini simili, ma quando si accorse chi aveva davanti non riuscì ad emettere alcun suono: era un prete.

Giovane, certo, ma l’abito non lasciava dubbi.

Non poteva avere più di diciotto anni e, nonostante l’incredibile forza che gli aveva dimostrato un attimo prima, pareva tutto tranne che pericoloso: i capelli erano cortissimi, di un biondo chiaro, e gli occhi azzurri, un po’ troppo grandi in rapporto al resto del volto. La pelle era color latte, i lineamenti leggermente effeminati, ma forse più per la sua giovane età che per altro.

< Se urli ti apro un buco in testa.> fu il suo primo monito e il ragazzo non poté far altro che annuire.

< Sei nell’esercito?> continuò quello, la voce bassa, ma perfettamente comprensibile.

< Sì.>

< Che ci fate qua?>

< Siamo diretti al Dipartimento Ovest.>

< Perché?>

Lear tentennò anche quando la stretta sul suo polso si fece più dolorosa. Il prete aprì bocca per riformulare la precedente minaccia, ma una voce alle sue spalle lo fece gelare.

< Via quella pistola, ragazzino.>

Per la prima volta negli ultimi giorni il soldato fu veramente felice di udire la voce roca da fumatore incallito del Doc, ma il prete non sembrava dello stesso parere.

Nonostante il dottore lo tenesse sotto tiro premette con più forza la sua arma alla gola del suo prigioniero.

< Se Lei preme quel grilletto il ragazzo muore.> lo avvertì e nessuno sano di mente avrebbe potuto dubitare delle sue parole. Nessuno eccetto il Doc.

< I preti non uccidono.>

< I tempi cambiano e con loro anche noi.>

< Se lo uccidi io ti sparo. Due vite in più per il tuo amato creatore, ma non credo sia questo ciò che vuoi.>

Dalla sua posizione “privilegiata” Lear poteva vedere l’indecisione negli occhi chiari del giovane e i denti che tormentavano inconsciamente il labbro inferiore; stava già per rilassarsi, convinto che avrebbe gettato a terra la pistola, quando con uno spintone il prete lo scaraventò a terra e puntò l’arma contro il Doc.

L’uomo non fece una piega.

< Cosa vuoi, ragazzo?>

 

Se quell’uomo gli avesse sparato in pieno petto avrebbe fatto meno male.

Shrine tentò con tutte le sue forze di mascherare lo smarrimento che si dipinse sul suo volto, ma invano: cosa voleva? Credeva di saperlo quand’era partito, ci aveva riflettuto così a lungo…

Che quella stupida guerra finisse. Che non ci fossero più morti. Che non ci fossero più lacrime.

Il suo lato razionale scuoteva il capo davanti a quella palese dimostrazione di ingenuità, ma dal profondo del suo cuore si levava un’altra voce, forte, speranzosa, ancora piena di fiducia in Dio e nell’uomo.

L’avrebbero preso per un idiota, un folle, un sognatore, ma non gl’importava più di tanto.

E così glielo disse.

Un’espressione incredula si dipinse sul volto dell’uomo dalla folta barba nera e su quello del ragazzo ancora a terra; gli occhi del più anziano sembrarono riempirsi di gioia e affetto, pareva dovessero traboccare lacrime di felicità da un momento all’altro.

Era la reazione più umana che il biondo avesse visto da molto tempo, da quando aveva smesso di occuparsi degli anziani ricoverati nelle stanzette della canonica.

L’uomo con la barba abbassò la pistola lentamente.

< Non c’è bisogno che combattiamo, allora. La nostra missione punta a salvare molte vite, condividiamo lo stesso obiettivo.>

La voce era forte, perentoria nonostante i lucciconi agli occhi e le sue parole rimbombarono tra le mura e le colonne spoglie della chiesa.

Sembrava una persona di parola e istintivamente Shrine avrebbe abbassato l’arma, ma si bloccò: se voleva sopravvivere non poteva farsi sedurre da belle parole e occhi sinceri, doveva essere razionale, freddo.

< Ditemi la vostra missione.> ordinò, ma l’altro scosse la testa.

< E’ top secret.>

< Come posso fidarmi di voi se non conosco le vostre intenzioni?>

< Prova ad avere fede. Tra voi funziona così? D’altro canto io posso solo giurarti sul mio onore che quanto ti ho detto è vero.>

Il biondo strinse le labbra in una linea sottile e si maledì mentalmente per essere così debole e manipolabile; poi, con estrema cautela, abbassò la pistola senza però riporla nella fondina.

 

Lear approfittò della situazione un po’ più tranquilla per tirarsi su da terra e barcollò verso il Doc massaggiandosi le ossa: si sentiva uno schifo, essere sballottato qua e là dopo un ricovero come il suo era decisamente poco salutare. Pur non avendo armi addosso sentiva lo sguardo del prete su di sé, intento a registrare ogni singolo movimento.

< Gli altri, Doc? Cos’è successo?>

L’uomo si passò il dorso della mano sulla bocca, nauseato dalla tensione e dallo scontro avvenuto fuori dalla chiesa.

< Ci hanno teso un’imboscata. Non erano in tanti e credo non avessero neanche ricevuto l’ordine di attaccare, probabilmente ci hanno visto in lontananza e hanno pensato bene di imbastire sul momento un agguato. Bé, gli è andata male comunque.>

< Abbiamo perso compagni?>

< Due ragazzini dell’Est. E la nostra fottutissima guida, perciò ora sarà un’impresa arrivare al dannato Dipartimento Ovest. Cristo, è un casino…>

< Siete diretti al Dipartimento?>

I due soldati sobbalzarono, si erano quasi dimenticati della presenza del prete; Lear lo fissò con sospetto.

< E anche se fosse?>

Il biondo fece spallucce, la pistola ancora in mano, ma sembrava meno pericolosa di prima.

< Se vi serve una guida io so come arrivarci.>

 

Quella sera Lear si rese conto di essere stato davvero fortunato ad arrivare fin lì, sano e salvo, senza neanche un nuovo buco in corpo; l’incontro col prete – Shrine, come aveva detto di chiamarsi – era stata una fortuna in fin dei conti, avevano visto tante di quelle pattuglie nemiche durante il loro spostamento che passare inosservati per strade secondarie sembrava un miracolo, e forse lo era.

Un po’ di diffidenza iniziale c’era stata, ovviamente, si erano quasi ammazzati a vicenda, non ci si poteva fidare così facilmente neanche se si trattava di un uomo di Dio. Ma quel ragazzo era incredibile: proveniva da un paesino del Nord devastato dalla guerra, ma era partito lo stesso, armato solo di quella piccola pistola, da solo, a bordo di una vecchia camionetta del postino, ormai deceduto.

Il caso aveva voluto che gli stessi soldati che avevano cercato di ucciderli avevano fatto esplodere la sua vettura, costringendolo a rifugiarsi nella chiesa e, in seguito, a rimediare un passaggio per il Dipartimento Ovest, la sua meta originale.

Decisamente una fortunata coincidenza.

Lasciati i soldati rimasti al posto di blocco il trio aveva proseguito fino al Dipartimento, dov’erano giunti a notte inoltrata, ma nonostante il buio Lear aveva intuito quanto grande doveva essere la struttura principale. La sua sensazione era stata confermata quando un delegato del Capitano li aveva condotti nei loro alloggi: ampi, spaziosi e, soprattutto, camere singole.

Il ragazzo quasi non ricordava a quando risaliva l’ultima volta che aveva avuto una stanza tutta per sé.

La mattina seguente avrebbe conosciuto gli altri membri della squadra e sarebbero ripartiti subito, per dove non lo sapeva nemmeno lui; stremato dalle fatiche e dalla convalescenza travagliata, Lear lasciò cadere la testa sul cuscino e si addormentò all’istante, troppo stanco per godersi realmente la sua riacquistata privacy.

 

Che fosse tutto un disegno di Dio era un’ipotesi e neanche troppo improbabile al momento. A luci spente nella sua camera Shrine fissava il soffitto, incapace di chiudere gli occhi e lasciarsi andare tra le braccia di Morfeo.

Non poteva essere una coincidenza, lo sentiva, ma la sua ragione gli impediva di credere che ci fosse lo zampino del Divino in tutto quello.

Era come diceva padre Alfred, lui pensava troppo per poter essere un buon prete.

Sbuffò divertito a quel ricordo e ricominciò a riflettere: che fosse il volere di Dio, un caso o un destino preesistente che regolava l’universo, in ogni caso Shrine interpretava gli avvenimenti di quel giorno come un segno, una traccia da seguire.

Quegli uomini, il Doc e Lear, come aveva detto di chiamarsi, e quella famosa missione di cui ancora non sapeva nulla… forse quella missione era anche sua, forse era quello il suo compito. Avevano detto che potevano salvare vite, molte vite. Ovviamente parlavano di vite di compagni in cambio di quelle dei nemici, Shrine sapeva come andavano le cose, ma al di là di tutto la Chiesa appoggiava ancora l’azione del governo e di conseguenza il biondo era, volente o nolente, un alleato di quei soldati.

L’uomo che li aveva scortati gli aveva accennato a padre Ugo, un uomo di fede che alloggiava lì, nel Dipartimento, ed era in stretto contatto con i vertici dell’esercito.

Se quella era la missione che Dio aveva in serbo per lui, allora doveva solo chiedere un piccolo favore ai piani alti; e in quel caso la mattina seguente avrebbe dovuto svegliarsi di buon’ora.

 

Al risveglio Lear si rese conto che il movimento del giorno prima era stato un po’ troppo per il suo fisico ancora dimesso: ogni minuto che passava scopriva nuovi muscoli e parti del suo corpo che non sapeva neanche di avere, non prima che cominciassero a bruciare e dolere come non mai.

Masticando un’imprecazione si buttò giù dal letto prima che lo facesse il Doc irrompendo nella sua stanza com’era già successo altre volte dal suo ricovero.

In realtà non era così difficile trovare la voglia di alzarsi in quell’ambiente: ad Ovest si trovavano le zone più pure e meno stravolte dall’uomo di tutto il continente e quell’aria frizzante che pizzicava il naso costringeva gentilmente anche i più pigri ad alzarsi dal loro giaciglio e affrontare serenamente un’altra complicata giornata sotto il sole cocente di giugno inoltrato.

Come il giovane aveva immaginato, il Doc lo attendeva appena fuori dalla porta, pronto a trascinarlo nello spiazzo della base dove il resto della squadra lo attendeva.

Sarebbe stata la missione più folle degli ultimi secoli e compiuta dalla squadra peggio assortita e più ridicola di cui Lear avesse mai sentito parlare.

Gli altri valorosi compagni di squadra che il ragazzo si aspettava di vedere si rivelarono essere un moccioso dall’aria gracilina che non poteva avere più di quindici anni e una ragazza, e che ragazza. L’esperienza aveva insegnato al giovane che tutte le poche ragazze che finivano nell’esercito erano brutte, racchie e quasi sempre lesbiche.

Ora, non poteva garantire sull’ultimo punto, ma, Dio gli era testimone, non aveva mai visto una fanciulla tanto incantevole.

< Carina, vero?> sogghignò il Doc seguendo il suo sguardo.

< E’ meravigliosa…>

< A me non sembra nulla di eccezionale.>

I due uomini sobbalzarono quando quella voce tagliente li raggiunse; voltandosi scoprirono che apparteneva a Shrine, che si era portato alle loro spalle senza farsi notare.

< Tu non fai testo.> replicò acido Lear scoccando al biondo un’occhiataccia.

< Perché non dovrei?>

< Hai fatto voto di castità, per questo non capisci un tubo in fatto di donne.>

< Anch’io ho gli occhi, posso perfettamente esprimere un giudizio estetico. E a mio avviso è negativo.>

Il soldato scosse le spalle, come a dire che delle opinioni estetiche di un pretuncolo non gliene fregava più di tanto.

< Cosa ci fai qui, comunque? Sei venuto a salutare?>

< Al contrario, sono qui per restare.>

Lear sgranò gli occhi, incredulo: doveva aver sentito male.

< Come hai detto, scusa?>

< Temo tu abbia capito perfettamente. Da pochi minuti faccio anch’io parte della vostra squadra.>

< Ma se non sai neanche di che missione si tratta!>

< Il Capitano e padre Ugo si sono premurati di informarmi dìnei minimi dettagli.>

Il moro si voltò di scatto verso il Doc, che si era tenuto in disparte continuando  a fissare quella graziosa figliola.

< Tu lo sapevi?!>

Lui lo fissò come se stesse prendendo la faccenda troppo sul serio.

< E’ una novità dell’ultimo momento, ma non ho nulla da obiettare. Ha l’approvazione del Consiglio.>

< L’approvazione del Consiglio? E quando diamine l’avrebbe avuta?>

< Giusto questa mattina. Provvidenziale, vero?>

Se uno sguardo avesse potuto uccidere, Shrine sarebbe crollato morto stecchito sulla dura terra.

< E che ruolo avresti nella nostra spedizione?> ringhiò Lear, sempre più irritato da quello stravolgimento di piani e dall’aria strafottente del prete.

< Guida spirituale. – replicò prontamente quello – Ma anche materiale nel caso voi non sappiate la strada com’è successo ieri.>

< Ma dimmi tu…>

< A proposito, potresti spiegarmi che ruolo avresti tu? Da come ne parlava il Generale sembravi molto… come dire… una mascotte.>

Il ragazzo si rifiutò di rispondere e gli voltò le spalle, deciso a tenere il muso per tutto il giorno sia a Shrine che al Doc, tentando invece di entrare in confidenza con i due nuovi arrivati.

Da quanto riuscì a capire dagli stralci di conversazione il ragazzino, Van, faceva parte del R.S., il Reparto Speciale secondo la definizione ufficiale, il Ritrovo Suicidi secondo molti soldati: quel gruppo era famoso per essere un covo di fuori di testa, gentaglia sanguinaria che uccideva per diletto più che per dovere.

Quel ragazzino non pareva così letale o pericoloso, senza contare che era davvero magro e con ogni probabilità sarebbe stato soffiato via alla prima folata di vento troppo forte, ma Lear aveva imparato da tempo a non fidarsi delle apparenze.

La ragazza, quella meravigliosa creatura di nome Weiss, era una tiratrice scelta della Squadra Cecchini, ma più che al suo ruolo Lear era più interessato alla vita privata di quella giovane dai lunghi capelli neri.

Stavano caricando armi e rifornimenti sulla jeep quando lei, già in macchina per riordinare le cose, si voltò verso di lui sorridendo.

< Mi passeresti quello?> chiese indicando con un grazioso cenno del capo una lunga custodia nera che giaceva a terra accanto al soldato, che non poté trattenere un sorriso imbambolato nel sentire la sua voce.

Dio, l’astinenza era una gran brutta cosa!

< Ma certo.>

Era la sua occasione d’oro per entrare in confidenza! Poteva sfoderare tutto il suo immenso fascino e la sua forza per far colpo su di lei, così Shrine (e probabilmente anche il Doc) sarebbero rimasti a bocca asciutta.

Animato da buone intenzioni e secondi fini si chinò ad afferrare la custodia e provò ad alzarla con una mano sola; per poco non si trovò a terra assieme all’oggetto sconosciuto.

Trattenne un’imprecazione e riprovò ad alzarlo, questa volta con entrambe le mani: era dannatamente pesante, come se il contenuto fosse tutto fatto di piombo; con grande sforzo riuscì a sollevarlo e barcollando si avvicinò alla macchina dove Weiss lo aspettava.

< Sta attenta, è pesantissim-…>

Non fece tempo neanche a concludere la frase che la ragazza, non senza un sorrisetto, prese la custodia con la mano sinistra e la sollevò come se fosse una piuma.

L’umore di Lear, già basso per svariati motivi, precipitò tre metri sotto terra e il giovane passò tutto il resto della mattinata in un deprimente silenzio, ripetendosi che era colpa delle ferite non ancora del tutto rimarginate se aveva fatto quella terribile figura.

Shrine lo fissava dal sedile anteriore della jeep e ghignava.

 

Forse per via della sua depressione spinta al massimo o forse perché non aveva mai amato viaggiare con quegli affari, specie se gli toccava restare nel cassone posteriore dell’auto, tra il sudore e la polvere che si appiccicava orribilmente alla pelle, ma quel viaggio gli parve interminabile e alquanto straziante.

Aveva il terrore di sentire da un momento all’altro il rumore di uno sparo, un’avvisaglia della presenza del nemico; con i nervi a fior di pelle Lear continuava a portare la mano alla fondina dove riposava la sua pistola.

A renderlo più preoccupato era anche la consapevolezza che, in caso di uno scontro, non sarebbe stato in grado di cavarsela come prima, non con quelle stupide ferite che lo indebolivano. Ripensò al suo primo incontro con il prete e rabbrividì ricordando con quanta facilità un ragazzino gracile come quello era riuscito a metterlo all’angolo e tenerlo sotto scacco.

Non voleva che una cosa simile accadesse di nuovo, se si fosse trovato nella stessa situazione nelle mani dei nemici avrebbe preferito suicidarsi piuttosto che sottomettersi. A quel pensiero lo sguardo gli cadde sullo stivale destro, al cui interno giaceva nascosto il coltello di suo padre.

Sarebbe stata un’amara ironia darsi la morte con l’arma che per generazioni aveva fatto da portafortuna alla sua famiglia; per fortuna, sotto un certo punto di vista, nessun membro della sua famiglia sarebbe venuto a saperlo, suo padre era morto diversi anni prima e la madre era lontana dal fronte, nella zona che veniva ancora considerata sicura. Sempre che esistesse una zona sicura in quell’inferno.

Il tragitto verso Nord era lungo, aveva studiato la cartina con il Doc prima di partire, e non era neanche un territorio facile da superare: a quanto pareva c’erano posti di blocco un po’ ovunque, nemici ovviamente, e attorno alla strada principale si trovavano grotte, massi e vegetazione che sembravano essere là giusto per favorire un’imboscata.

I piani alti avevano avuto il buon senso di procurare al gruppo una jeep senza insegne militari, con un po’ di fortuna potevano passare per un veicolo civile; era anche il motivo per cui sul sedile anteriore c’era Shrine, forse alla vista di un prete i credenti che erano costretti ad imbracciare un fucile ci avrebbero pensato due volte prima di sparare.

L’unico rumore udibile oltre al rombare del motore era la voce del Doc che canticchiava delle vecchie filastrocche nel vano tentativo di animare la compagnia; il biondo accanto a lui fissava con insistenza fuori dal finestrino, Van sonnecchiava nel cassone assieme a Lear e Weiss, entrambi seduti ed immobili, anche se la ragazza era evidentemente molto più rilassata del suo nuovo compagno.

Il giovane era certo che, se avesse aperto bocca per iniziare una conversazione, avrebbe vomitato la sua magra colazione e non era certo di voler aggiungere anche quella alla lista delle figuracce di fronte alla ragazza.

< Tra venti minuti arriveremo a Peck. Tenetevi pronti per ogni evenienza.> avvisò l’uomo alla guida tentando di sovrastare il rumore del motore. Era l’unica città imponente che si trovava sul loro cammino e le probabilità di trovare soldati dell’altra fazione aumentavano a vista d’occhio man mano che si avvicinavano.

Lear sospirò, appoggiandosi allo schienale e cercando di calmarsi; Weiss cominciò a trafficare con le armi che aveva incassato sotto i sedili, mettendosi addosso le più maneggevoli.

< Che stai facendo?>

< Mi preparo a scappare nel caso ci scoprano.>

< Questa dovrebbe essere una strada sicura.>

< Non è la prima volta che appaiano presidi e posti di blocco dove fino al giorno prima c’era il vuoto più assoluto. Qualora ci blocchino dobbiamo fuggire in fretta, ma voglio lasciare a quei bastardi meno armi possibili.>

Van ghignò mettendo in bella mostra i suoi denti luccicanti.

< Questo sì che è un ragionamento sensato. Dovresti seguire anche tu il suo esempio.> ridacchiò rivolgendosi a Lear e anche lui si mise ad equipaggiarsi per ogni evenienza.

Il giovane deglutì, pensieroso: non aveva granché voglia di girare con qualcosa che poteva farlo esplodere al minimo sobbalzo e non si sentiva neanche così in forma da poter reggere un peso troppo elevato.

Imitò gli altri due con una lentezza infinita, pregando il cielo che non accadesse nulla di inaspettato.

Per sua fortuna la strada da loro intrapresa era priva di controlli; superarono Peck senza troppe difficoltà, ma ogni volta che si avvicinavano ad una città di modeste dimensioni Weiss e Van tornavano subito ad armarsi.

 

Erano in viaggio da due giorni ormai e dopo aver sopportato quasi quindici ore di jeep senza neanche una pausa Lear sentiva di essersi abituato a quel terribile modo di viaggiare; la sera del giorno seguente sarebbero arrivati finalmente al Dipartimento Nord e Dio solo sapeva quanto il ragazzo desiderasse schiantarsi in un vero letto, tra quattro meravigliose mura di cemento e magari farsi anche una bella doccia.

Il Doc e Van erano del suo stesso parere e chiacchieravano felici e contenti sui sedili anteriori, parlando ad alta voce per non escludere dalla conversazione i tre compagni dietro.

Il giovane si stiracchiò per bene soffocando uno sbadiglio.

< Ormai è fatta.> borbottò placidamente e chiuse gli occhi, anche se con tutto il frastuono del motore era assai difficile poter riposare.

< Non dirlo. Non siamo ancora arrivati a destinazione.>

Il giovane guardò con aria annoiata alla sua sinistra ed incrociò lo sguardo penetrante del prete con cui era costretto a viaggiare coscia a coscia.

< Ti diverti a portare sfiga?>

< Mi diverto a non illudermi. Finché non tocco con mano le pareti del Dipartimento non ci crederò che siamo arrivati.>

“Questa poi…” pensò scocciato Lear e alzò un sopracciglio carico di scetticismo.

< E tu saresti un credente? Insomma, dacci il buon esempio e abbi un po’ di fede.>

Che Shrine fosse un prete anomalo il ragazzo l’aveva già capito, dato che in tutti quei giorni non aveva provato una sola volta a convertirlo – e nell’esperienza di Lear tutti gli uomini religiosi passavano buona parte della loro giornata a cercare di convertire i miscredenti – e non solo, ad ogni battuta sarcastica sul conto della Chiesa lui scrollava le spalle e faceva finta di niente e soprattutto, quando qualcuno gli faceva notare che non aveva poi molta fede nel suo Dio, si rabbuiava e non parlava più per diverse ore.

< Avere fede non significa essere degli idioti.> replicò il biondo a bassa voce e dal modo in cui corrugava la fronte e teneva le braccia conserte Lear capì che la conversazione, almeno per quel giorno, poteva ritenersi conclusa.

< Siamo quasi arrivati a Mok.> urlò da davanti la voce tuonante del Doc.

Mok era un piccola città, famosa per lo smercio del legno e delle opere manifatturiere, ma sotto tutti gli altri aspetti non era nulla di particolare. Eppure quando la jeep svoltò e la città apparve davanti a loro ad accoglierli ci fu il luccichio dei mitra nemici e i colori delle loro vetture.

< Merda.>

< Che succede?>

< C’è un posto di blocco.>

< Merda.>

< Già.>

< E ora che facciamo?>

Il Doc rimase in silenzio, ma il suo cervello rimuginava a mille, alla ricerca di una strategia vincente, mentre la jeep proseguiva la sua corsa sempre alla stessa velocità, per non destare sospetti.

< Allora?> esclamò impaziente Lear, terrorizzato all’idea di finire nelle fauci della tigre senza poter fare niente.

< Ho un’idea. Weiss, prepara la BB-2, piazzala sul fondo della macchina, dietro il mio sedile.>

Non doveva essere una richiesta molto usuale, perché la ragazza fissò l’uomo con gli occhi spalancati, ma dopo un attimo di sgomento eseguì gli ordini e prese a rovistare tra le custodie e le armi sotto i sedili.

< Che cos’è una BB-2?> domandò Shrine.

< Una bomba.>

< Cosa? Sei impazzito?!>

Se non fosse stato impegnato a guidare Lear non ci avrebbe pensato due volte a colpire in testa quel vecchio rincretinito: che razza di idea era quella di piazzare una bomba nella loro vettura?!

< Ascoltate, ora ci avviciniamo al posto di blocco cercando di passare per un veicolo civile. Appena saremo abbastanza vicini accelererò e sfonderò la barriera; dovete appiattirvi il più possibile al fondo perché di sicuro ci spareranno dietro. Al mio “tre” lanciatevi fuori dalla macchina, fate perdere le vostre tracce e nascondetevi. Farò schiantare questa vecchia carretta contro un muro e due secondi dopo, Weiss, tu azionerai a distanza la bomba e farai saltare in aria quest’affare. Appuntamento tra un’ora al locale Porco Nero, capito? Lo gestiscono dei miei conoscenti, non avremo problemi lì. E ora tenetevi forte.>

< Sai che sei un folle?!>

L’urlo di Lear si mischiò con il rombo del motore che veniva mandato al massimo mentre la jeep accelerava improvvisamente.

< Tutti giù!>

Prima di poter protestare o gridare o fare qualsiasi altra cosa il giovane si trovo spiaccicato sul fondo della macchina, il viso a pochi centimetri dalla bomba che Weiss aveva piazzato; sentiva il corpo di Shrine premere contro il suo e un rumore assordante, ripetuto, di spari.

Sentì un tonfo e un movimento improvviso gli fece picchiare la testa sul duro.

< Pronti? Uno… due … tre!>

Agitato com’era Lear probabilmente non sarebbe riuscito a saltare giù dal veicolo al momento opportuno, ma una mano lo afferrò per il braccio e lo costrinse a buttarsi dal portellone posteriore. La caduta a terra non fu delle più piacevoli, ma non c’era tempo per lamentarsi delle botte o dei graffi; la stessa mano lo aiutò bruscamente ad alzarsi e lo spinse a correre.

Lear voltò la testa e si rese conto che chi lo guidava era Shrine, il volto teso nello sforzo di correre e trovare in fretta una via di fuga, prima che i soldati li raggiungessero. Si sentivano urla dappertutto, poi uno schianto.

Con la coda dell’occhio il ragazzo vide la macchina spiaccicata contro un muretto, erano nel bel mezzo del mercato cittadino.

Uno… due…

Come da manuale l’esplosione, tremenda, inguardabile. Le bancarelle più vicine presero fuoco all’istante, i negozianti urlavano, l’esercito sparava in aria nel tentativo di calmare la folla. Per un istante ebbe l’orribile visione di un uomo completamente avvolto dalle fiamme che urlando correva e si gettava dentro la fontana della piazza.

< Di qua.> sibilò il prete, che non aveva ancora lasciato la presa sul braccio del compagno.

Si nascosero nei meandri di una serie infinita di stradine e attesero; Lear nascose tutte le insegne e le decorazioni della tuta che potevano identificarlo come soldato.

Dalla piazza principale giungevano ancora urla e spari mentre odore di legno e carne bruciata si diffondeva per tutta la città.

< Cristo Santo…> borbottò il moro e si lasciò scivolare con la schiena contro la parete. Le gambe non riuscivano più a reggerlo.

Alzò gli occhi su Shrine e trattenne a stento un’esclamazione: il biondo sanguinava abbondantemente dall’orecchio destro, ma più che la ferita che si stava tamponando con un fazzoletto quello che era preoccupante era l’espressione del suo viso.

Il soldato non aveva mai visto tanta sofferenza negli occhi di qualcuno e non era l’orecchio il problema, ne era certo.

Stava giusto per chiedergli spiegazioni, aveva tutte le intenzioni di aiutarlo a sfogarsi, quando il prete si voltò a guardarlo, gli occhi di nuovo indecifrabili come sempre.

< E’ meglio se ci muoviamo. Dobbiamo trovare il Porco Nero.>

Come potesse quel ragazzo, che non era neanche un militare, ma solo un uomo di fede (e anche questo era  da appurare), sopportare una situazione come quella e riuscire ancora a pensare lucidamente alla propria missione Lear non lo capiva, ma annuì sconsolato alzandosi a fatica.

Bendò con un altro fazzoletto l’orecchio del compagno, in maniera un po’ grezza, ma discreta, e si avviarono lungo i vicoli. Nessuno dei due aveva la più pallida idea di dove si trovassero, ma per fortuna l’abito di Shrine funzionava da lasciapassare e non fu difficile trovare qualche buonanima disposta a dar loro indicazioni.

Lear si lasciò guidare senza pronunciare una parola, la testa presa da una miriade di preoccupazioni: gli altri dov’erano? Come stavano? Erano vivi o erano caduti nelle mani dei nemici? E che ne era della loro missione? Senza jeep e con un armamentario limitato potevano forse sperare di farcela? Il Dipartimento Nord era a più di un giorno di viaggio in macchina, fare tutta quella strada a piedi non sarebbe certo stato una passeggiata.

< E’ questo.>

La voce leggermente acuta del prete lo riportò coi piedi per terra; sollevò lo sguardo sull’insegna della locanda, un maiale completamente nero che ghignava con aria poco raccomandabile. Il che era assurdo, perché Lear poteva giurare che i maiali non ghignavano. Non mostrando i denti, almeno.

< Va bene, entriamo. Ormai l’ora dev’essere quasi passata.>

 

C’era un che di Doc nell’atmosfera che li accolse oltre la porta, probabilmente era in quei tavoli puliti alla buona, nell’odore di tabacco masticato e nelle facce conviviali della gente al banco. Appena varcata la soglia i due ragazzi si trovarono tutti gli occhi puntati su di loro, ma un cenno del barman rassicurò i clienti.

< Eccoli là.> bisbigliò Lear indicando un tavolino in fondo alla sala, coperto quasi completamente da un paralume; si poteva intravedere appena le spalle possenti del Doc.

Fu un sollievo vedere che erano tutti e tre lì, anche se ad essere sinceri non erano esattamente illesi: il braccio destro del Doc, quello più vicino alla macchina quando si era buttato fuori dall’abitacolo, era parzialmente bruciacchiato, mentre Van e Weiss avevano riportato solo qualche taglio superficiale, che aveva sanguinato abbondantemente in un primo momento, ma nulla di preoccupante.

< Ce ne avete messo di tempo, eh?> fece il ragazzino dall’alto del suo solito ghigno superiore.

< Temevamo di essere seguiti, abbiamo fatto un giro largo.>

< Allora, il piano?>

C’era ben poco da progettare: la città era in mano agli Insorti e l’unico modo per proseguire con la missione e non rimetterci la pelle era andarsene il prima possibile senza dare nell’occhio.

< Siamo senza una macchina…>

< Ne possiamo recuperare un’altra, non è quello il punto. Il punto è filarsela prima che i controlli si facciano più severi. Abbiamo avuto fortuna fino ad ora, pare che abbiano classificato l’esplosione della nostra jeep come attacco terroristico; Van si era abbassato, perciò quello che cercano ora è l’unica persona che hanno visto, il conducente. Cioè io.>

Stavano escogitando un qualcosa di più elaborato per andarsene da lì quando delle urla attirarono la loro attenzione.

< Brutto stronzo!>

< Fuori di qua, vecchio!>

Prima che uno di loro potesse aprir bocca il paralume che nascondeva il loro tavolo venne fracassato da un corpo umano scaraventatogli contro.

< Allora, chi ne vuole ancora?!>

< Grandioso, ci mancava solo una rissa tra ubriachi.> bofonchiò Weiss ritirandosi il più possibile contro la parete per evitare i bicchieri che venivano lanciati. Ci vollero meno di tre minuti perché dai bicchieri si passasse dai bicchieri alle bottiglie e infine alle sedie.

< Che razza di caos. E’ meglio andarsene e in fretta.>

Il Doc non aveva neanche finito la frase che un rumore di freni e di sirene spiegate si udì dall’angolo della strada.

< Che cosa..?>

< Sono le forze di pattuglia degli Insorti. Via, presto!>

Si fecero strada a fatica, sgusciando tra i tavoli, i corpi riversi a terra e gli ubriaconi che ancora riuscivano a reggersi in piedi; c’era una porta sul retro, vicino all’ingresso dei bagni. L’uomo l’aprì in tutta fretta e uscì, seguito dalla ragazza, il piccoletto e il prete.

Lear era neanche due metri dietro di loro e stava per raggiungere la via della salvezza quando una sedia gli arrivò dritta dritta sulla testa, spedendolo in ginocchio per terra.

< Ehi, dove te ne vai, ragazzino?>

Una mano malferma lo rimise in piedi e attraverso la vista annebbiata Lear intuì una faccia poco rassicurante, nonché un puzzo d’alcol che lo colpì in pieno viso. L’ubriaco sghignazzò e cercò di colpire il giovane con un destro alquanto traballante, che l’altro riuscì a evitare senza problemi.

< Ah, fai anche il furbo? Bé, te la faccio passare io la voglia.>

Il secondo colpo era più forte, più preciso e decisamente più pericoloso, ma Lear non aveva alcuna intenzione di prenderle da un vecchio rimbambito in preda ai fumi dell’alcol: parò il colpo, nonostante a quel movimento brusco le sue ferite riprendessero a bruciare, e si lanciò in avanti colpendo con un destro la mandibola dell’uomo, provocando un gran rumore di ossa rotte.

Era così concentrato a combattere come si doveva pretendere da un soldato che non si accorse che la vigilanza ormai aveva fatto irruzione nel locale fino a quando tre paia di braccia robuste lo bloccarono e gli misero le manette ai polsi.

 

< Bé, grandioso. Cosa ci manca ora, la piaga delle locuste?>

Il sarcasmo di Van fu totalmente ignorato, anche perché Shrine era troppo occupato a vagare per la stanza misurando a lunghi passi il pavimento e il Doc fissava con occhi spenti il vetro rotto dell’unica finestra.

< Siamo nella merda.> bofonchiò l’uomo passandosi una mano sulla faccia.

Il cigolio della porta che si apriva fece voltare tutti di scatto, ma era solo Weiss che sgusciava dentro la stanza.

< Lo hanno portato alla prigione di Seik, a tre ore di macchina.>

< Macchina che non abbiamo. Hanno scoperto chi è?>

< No, lo vogliono imprigionare per rissa, ma da quanto ho capito sono parecchio severi da queste parti. Lo vorrebbero tenere dentro almeno un mese: vogliono riempire per bene le carceri per far capire che non è gente con cui scherzare, è difficile che lo rilascino in fretta.>

Ci fu un attimo di silenzio e i quattro si guardarono l’un l’altro, studiandosi per capire cosa fare con un membro della loro squadra in prigione, il loro ipotetico veicolo distrutto e una città invasa dalle truppe degli Insorti.

< Possiamo sempre proseguire con la missione. In fin dei conti era solo una mascotte.> azzardò Van, ma dall’occhiata che il Doc e Shrine si scambiarono capì che l’idea era completamente diversa.

 

< Dio mio…>

Ogni secondo che passava Lear si rendeva sempre più conto che la vita da soldato, da avventuriero o da impavido eroe della patria non faceva proprio per lui; quand’era più giovane aveva sempre sognato nei suoi attimi di gloria quelle situazioni estreme, essere gettati nelle segrete della fortezza più inespugnabile, soli in compagnia degli scarafaggi e dei topi, con un tozzo di pane e un bicchier d’acqua come unico nutrimento giornaliero. Quando fantasticava in quella maniera si esaltava, pensava a come avrebbe sopportato con stoicismo ogni sofferenza e tortura, come avrebbe sputato in faccia ai suoi aguzzini e avrebbe dimostrato di avere la stoffa giusta per essere il protagonista, l’eroe.

Ora che era realmente nelle segrete, dopo neanche cinque minuti avrebbe venduto anche sua madre per uscire da quel luogo terrificante: ormai aveva smesso di dare la colpa del suo stato psicologico alle ferite che ancora dovevano rimarginarsi e che lo indebolivano grandemente, anche se fosse stato nel pieno delle forze quelle catene appese alle umide e spoglie mura della prigione e quei terribili rumori che lo coglievano di sorpresa proprio quando stava per appisolarsi lo avrebbero fatto tremare come una foglia, cosa che effettivamente stava accadendo in quel momento.

< Ehi, avete visto, gente? C’è un moccioso nuovo!>

< Quanto credi di durare, ragazzino?>

< Ma va ad attaccarti alle gonne di tua madre, sbarbatello! Non vedrai neanche domani mattina con una faccia come quella.>

Quel briciolo di orgoglio che aveva in corpo si rianimò spingendolo a mettere da parte le sue paure e affrontare quei topi di fogna se non a pugni almeno a parole, ma all’ultimo si trattenne: non aveva perso del tutto il suo buonsenso e una saggia vocina nella sua testa gli ricordava che azioni avventate come quella non sarebbero servite ad altro se non a portarlo in un luogo ancora più buio e oscuro, magari una cella d’isolamento.

Non credeva proprio di poter sopportare una simile situazione, così si limitò ad addossarsi maggiormente alla parete facendosi piccolo piccolo; presto i suoi compagni di prigione avrebbero trovato qualche altro passatempo più divertente, bastava solo attendere un po’.

Sperava solo che non ci volesse troppo, la sua lucidità diminuiva ogni ora che passava.

 

Dalla finestra della sua camera si poteva godere della visuale di tutta la città di Seik, con il campanile esattamente posto al centro, attaccato alla piazza principale, e la nera struttura della fortezza leggermente a destra, parzialmente nascosta  dal Palazzo di Giustizia e Libertà, ma comunque imponente ed inquietante.

Oltre il profilo grigio della città si distingueva la sottile striscia di strada che avanzava verso Mok, una macchia marrone e grigia che si scorgeva verso l’orizzonte, oltre le foreste di bassi alberi da legna.

Un bussare leggero alla porta fece sobbalzare la dama affacciata alla finestra che, con la voce leggermente più acuta del normale, diede il permesso di entrare; una domestica fece capolino al di là della soglia.

< Perdonatemi, milady, ma un rappresentante dell’Esercito della Liberazione vuole vederLa. E tra meno di mezz’ora giungeranno gli altri ospiti .>

La donna si riscosse dalla paralisi in cui era caduta e con grazia piegò la testa leggermente verso destra, portandosi la mano alla bocca in una posa riflessiva.

< Capisco… ti ringrazio, Margareth, fai pure accomodare il rappresentante nello studio, io arrivo subito. Per quanto riguarda il ballo è tutto pronto?>

< Sì, milady, siamo pronti a ricevere gli invitati.>

< Perfetto. Scenderò nella sala non appena avrò terminato il colloquio con il signor rappresentante. Puoi andare. Margareth.>

La domestica accennò un inchino e richiuse la porta, lasciando lady Pray ai suoi funesti pensieri: non amava particolarmente quei balli e ricevimenti che era costretta a dare ogni mese, ma era una tradizione iniziata da suo padre, l’uomo più ricco di tutta la regione, e la gente si aspettava che lei seguisse le sue orme.

In realtà quei momenti ricreativi e quei giochi di società la mettevano alquanto in imbarazzo, lei che era di carattere schivo aveva non pochi problemi a fronteggiare discussioni più o meno impegnate con le altre famiglie dabbene; avrebbe preferito di gran lunga leggere un bel libro di poesia davanti al caminetto, ma il fare parte di una nobile famiglia imponeva dei comportamenti precisi.

Lei non poteva sottrarsi ad essi.

Già la consapevolezza di non essere una compagnia piacevole come lo era suo padre le procurava un sacco di preoccupazioni (non che non avesse idee da esprimere, ma ogni volta che stava per aprire bocca arrossiva improvvisamente, convinta che quanto stesse per dire poteva non essere gradito al suo interlocutore e che era meglio esprimere pareri più neutrali, quelli di tutti in pratica, per non rischiare di offendere o contrariare) e, ne era certa, molte donne di buona famiglia la schernivano dietro le spalle per non essere una persona all’altezza della sua posizione.

La sua timidezza veniva interpretata come mancanza di carattere, la sua gentilezza e i suoi atteggiamenti posati come indice di poca determinazione, una sorta di bambolina da mostra che si muoveva solo se qualcuno si prendeva la briga di muovere i fili. Non era poi un’opinione così campata in aria, visto che quando il governo di Mok e Seik era caduto lady Pray non aveva mosso un dito per aiutare i cittadini o ribellarsi agli Insorti (o all’Esercito della Liberazione, come amavano chiamarsi loro stessi), ma d’altronde nessun nobile si sarebbe mai calato nella mischia per salvare quattro contadinotti e una capra. Lei aveva semplicemente fatto quello che tutti facevano, anche se il suo cuore piangeva per questo.

Con una certa apprensione per la serata che l’attendeva e per il colloquio con un membro di quel branco di assassini che avevano conquistato la sua città con le armi in pugno, la dama finì di agghindarsi per il ricevimento e scese al piano inferiore, nello studio in cui solitamente incontrava gli ambasciatori e gli uomini di potere.

L’ultimo che aveva accolto in quella stanza era stato il Governatore di Seik, la cui testa ora giaceva infilzata a un palo nel centro della piazza principale, un avvertimento per chiunque volesse tentare la sorte e opporsi alle bande di Insorti che infestavano la città.

Giunta fuori dalla porta fece un bel respiro profondo ed entrò, pronta a fronteggiare qualunque omaccione assetato di sangue si sarebbe trovata davanti.

In realtà non era proprio una tremendo mercenario ricoperto di cicatrici e con armi nascoste ovunque ad attenderla per l’udienza; la donna osservò stupita il giovane che le stava davanti e, se non avesse indossato la divisa, non avrebbe mai creduto possibile che una persona tanto raffinata fosse in un esercito.

I capelli erano lunghi, raccolti in una coda di cavallo perché non cadessero sul volto, che era decisamente fiero, con un bel taglio deciso di labbra e il naso dritto; gli occhi, di un affascinante grigio chiaro con venature azzurre, erano vigili e attenti, il portamento deciso ed elegante. Con un buon vestito addosso sarebbe parso un figlio di ricca famiglia, un vero nobile, ma le mani ricoperte di calli tradivano la vera occupazione del ragazzo.

< Perdonatemi se Vi ho fatto attendere.>

Il commento della donna, anticipato da una leggera schiarita di gola, non sorprese minimamente il rappresentante, che voltò il capo nella sua direzione, un sorriso amabile ad illuminargli il viso.

< Lady Pray. E’ un vero onore.> la salutò inchinandosi appena nella sua direzione, nulla di troppo forzato, nulla di sconveniente e riduttivo nei suoi modi; Eleanor Pray si ritrovò a pensare che, se non fosse stato distante almeno tre metri da lei (e la padrona di casa non aveva intenzione di accorciare le distanze), certamente le avrebbe fatto il baciamano.

< Mi chiamo Vincent Carroway, milady. – proseguì il soldato senza abbandonare il suo sorriso – Sono qui per conto dell’Esercito della Liberazione. Spero che perdonerete l’intrusione nella Vostra dimora.>

Un timido sorriso fece intuire al giovane che la signora, almeno apparentemente, non aveva nulla da ridire a riguardo.

< E a cosa devo questa Vostra inaspettata visita?>

Per un attimo il sorriso di quell’ambasciatore parve meno naturale di prima.

< Immagino Voi siate al corrente dell’esplosione verificatasi a Mok questa mattina. So che da queste parti le voci corrono molto in fretta.>

< Sì, ho sentito che ci sono stati disordini in piazza, ma non mi è giunto nulla di più particolareggiato.>

< Una jeep è stata fatta esplodere nel bel mezzo del mercato, milady. Un atto terroristico dei più barbari, visto le morti civili che ha comportato. Un colpo di genio, a mio avviso, una buona improvvisata per nascondere qualcosa di più importante.>

La donna lo guardò con aria interrogativa, leggermente intimidita: quel ragazzo, quando parlava in quella maniera, le faceva venire i brividi.

< Che intende?>

< La bomba che è stata fatta esplodere è un arma abbastanza sofisticata, in dotazione all’Esercito Governativo; ma questo genere di attacchi, questo attentato, non fa parte del modus operandi dell’Esercito: non sono dei gruppi di guerriglieri, sono molto più organizzati. Se quella jeep è stata fatta esplodere era solo per nascondere qualcosa; inoltre non è stato trovato il corpo dell’uomo alla guida, ma nel cassone posteriore sono state trovate armi, ormai inutilizzabili, ma comunque un arsenale non da poco. L’uomo alla guida è riuscito a salvarsi e non sono così sicuro che fosse solo a bordo di quella vettura.>

Mentre parlava Vincent continuava ad andare su e giù per la stanza, le mani dietro la schiena, la voce sempre più bassa e concitata; si arrestò e per un istante i due si fissarono.

< Posso chiederVi perché mi state raccontando tutto questo, signor Carroway?>

< Ci sono degli elementi pericolosi che girano per queste vie; è improbabile che il guidatore e i suoi ipotetici compagni siano rimasti a Mok, non dopo aver visto il nostro dispiegamento di forze, e la città più vicina ove potrebbero aver trovato rifugio è proprio Seik, milady. Dobbiamo posizionare posti di blocco ad ogni via e pattugliare la città, ma abbiamo dovuto fare i conti con alcuni civili poco propensi a collaborare.>

< Dunque?> domandò la dama, titubante. Il giovane si avvicinò a lei a passi lenti, senza levarle quegli occhi ammalianti di dosso.

< Non vogliamo ferire i civili, milady. Non voglio che questo accada. Siamo qui per liberarvi, non per gettarvi in un nuovo stato di schiavitù: noi siamo la novità, la salvezza, la liberazione. Vi aiuteremo a ricostruire la vostra economia che la guerra ha danneggiato e presto torneremo a vivere in tempi di pace. Ma per realizzare tutto ciò ci serve collaborazione. Da parte vostra e da parte dei cittadini comuni. La vostra parola ha ancora influenza su di loro, siete un simbolo per questa città grazie alla fama della vostra famiglia. Perciò Ve lo chiedo col cuore in mano: rassicurate questa gente e convincetela a giurarci fiducia, a darci tutto l’aiuto possibile. E’ di vitale importanza, specie se la presenza dei Governativi rischia di far scoppiare un altro fatto di sangue in questo territorio. Le vittime sono state fin troppe, direi.>

Se Eleanor avesse ascoltate quelle stesse parole solo qualche settimana prima, in un’ambasceria o in un colloquio volto a frenare quella assurda guerra, si sarebbe sentita toccata fin nel profondo dell’animo e avrebbe aderito con un ardore che non aveva mai dimostrato di possedere.

Ma, a dispetto di quel discorso, quel giovane le faceva paura, gli occhi erano accesi di una luce malsana, fanatica, l’impeto con cui aveva pronunciato la sua breve orazione l’aveva portato ad accorciare di parecchio le dovute distanze e Eleanor aveva paura, una paura folle di quel ragazzo così pieno di passione e certezze.

Indietreggiò istintivamente, impaurita: se solo fosse stata più forte, più decisa, avrebbe avuto molte, molte cose da ridire… ma la sua indole era quella che era e in un lampo la figura della testa mozzata dell’ex-governante della città le balenò davanti agli occhi.

< Ve ne occuperete, vero?>

Anche alle sue orecchie, così poco inclini a cattivi pensieri, quella domanda pareva un ordine.

< Lo farò. Entro domani a mezzogiorno avrò informato l’intera cittadinanza.>

Vincent si sciolse in un sorriso rilassato, assolutamente informale, mentre la donna inghiottiva con amarezza l’ennesima sottomissione, l’ennesimo senso di colpa.

< Vi ringrazio infinitamente, milady. Sono certo che la nostra operazione d’ora in avanti sarà molto più facile.>

Un discreto bussare alla porta fece trasalire lady Pray e una Margareth molto titubante si affacciò appena le fu concesso.

< Perdonate l’intrusione, milady, ma gli ospiti sono arrivati.>

< Grazie, Margareth. Falli accomodare, scendo subito.>

Appena la porta si richiuse Carroway le sorrise cordiale, gelido e freddo.

< Ospiti?>

< Sì. Un ballo, in onore delle tradizioni di mio padre.>

< Ah, capisco. Mi dispiaccio ancor di più per averVi tenuto lontano dai vostri doveri. Vi ringrazio sinceramente per la collaborazione.>

Fece un piccolo inchino per congedarsi, ma quando già stava per avviarsi lungo il corridoio si bloccò e si voltò verso la dama.

< Milady?>

< Mi dica.>

< Devo anche chiederVi di bloccare i procedimenti di rilascio dalle prigioni. So che per tradizione ogni tagliando di rilascio deve portare la Vostra firma, ma ritengo che in una tale situazione di tensione la liberazione di soggetti inclini ad atti violenti e pericolosi per l’ordine pubblico sia un rischio che non possiamo correre. Spero che Voi capiate…>

Eleanor Pray abbassò lo sguardo, incassando il secondo colpo nel giro di pochi minuti.

< Come volete.>

< Vi ringrazio ancora.>

< Signor Carroway?>

Nuovamente bloccato sulla porta, Vincent si voltò con lentezza.

< Sì?>

< Io… sarei onorata se Voi poteste partecipare alla festa di questa sera. Riconosco che sia un invito un po’ tardivo, ma davvero, mi farebbe molto piacere.>

Per la prima volta da quando lo aveva incontrato Eleanor notò che il sorriso del giovane si era esteso anche agli occhi.

< Molto volentieri, milady.>

 

Era un’occasione da cogliere al volo, un invito così diretto da parte di una delle persone più importanti di tutta la regione. Una sperduta, spoglia e inutile regione, ma tanto, tanto terreno e una popolazione incredibilmente numerosa, prevalentemente contadini e piccoli artigiani, gente senza cultura. Dunque facilmente manovrabile.

Anche quella donna non era poi così diversa, pur facendo parte della nobiltà: una bambola vuota, posta su un trono di cristallo troppo in alto per permetterle di sopravvivere ad una spinta inavvertita.

Sì, quel ballo, quella festa era una vera occasione.

Poteva mettersi in contatto con tutti quei grezzi intellettuali, pieni di sé, immersi nella loro boria e nelle loro ricercatezze lessicali, tutti quei virtuosismi linguistici così inutili, quel sapere di nicchia assolutamente privo di scopo…

Paesani vestiti un po’ meglio, con addosso tanta considerazione per se stessi.

Poteva testarli come voleva, rendersi conto di fino a che punto poteva manovrarli.

Una splendida, splendida occasione.

Vincent Carroway fece ben attenzione a mantenere le proprie maniere adeguate al luogo, sfoggiando sorrisi, stringendo mani e facendo inchini: era stato addestrato a comportarsi in maniera impeccabile in quel genere di situazioni, una fissa di suo padre che, a lungo andare, si era rivelata molto utile.

< Vi state divertendo, signor Carroway?>

Il ragazzo sorrise amabilmente alla padrona di casa.

< Assolutamente, milady. Non posso fare altro che ringraziarVi ancora.>

Non che passare la serata a chiacchierare con quelle noiose persone fosse così esaltante, ma di certo era utile per il numero di informazioni che stava accumulando. Per il resto erano coppie di mezz’età, con scarpe tirate a lucido e gioielli alle dita.

Portò alle labbra il proprio bicchiere di pregiatissimo vino (non aveva la più pallida idea di cosa fosse, ma non poteva che costare una follia visto chi l’aveva comprato) e diede un’occhiata alla sala.

Una figura in nero gli passò accanto, sfiorandolo appena con un fruscio; si irrigidì: non si era accorto della sua presenza.

Fissò la schiena di quella persona con la coda dell’occhio: un prete, o almeno così diceva l’abito. Strano, non sapeva che milady avesse contatti con la Chiesa.

Il giovane aveva una camminata un po’ strana, rigida, come se si stesse trattenendo dal fare qualcosa, i capelli biondi molto corti risaltava nel contrasto con i vestiti neri.

Lo vide avvicinarsi a lady Pray, dirle qualcosa a distanza ravvicinata e subito dopo allontanarsi assieme verso una saletta; li avrebbe seguiti volentieri se una ferma mano sulla spalla non l’avesse bloccato mentre l’ennesimo ospite un po’ alticcio e convinto di essere il più importante in quella sala cercava di attaccare bottone con lui.

 

< Mi dispiace disturbarLa così, signora Pray. Di certo non sono entusiasmante come il ballo da cui L’ho appena strappata.>

Ad Eleanor Pray si formò un groppo in gola come non le accadeva da mesi e non riusciva a trovare le parole per dire a quel giovane quanto gli fosse grata per averla salvata almeno per qualche minuto da quell’ambiente.

Ma non riusciva a verbalizzare la propria gratitudine, mentre un altro sentimento cominciava a farsi lentamente strada in lei: il senso di colpa.

< Non si preoccupi, padre. Le assicuro che apprezzo molto questa visita.>

Quel ragazzo era così giovane, non riusciva a non pensarci. Forse anche più giovane di Vincent Carroway, a giudicare dalle mani piccole e esili, i lineamenti dolci, ancora fanciulleschi: un ragazzino che si aggrappava a Dio per superare quell’orrore che era la guerra.

Questi furono le prime considerazioni che sorsero spontaneamente nella mente della donna, ma quando il giovane prete cominciò a parlare, allora qualcosa cambiò: quella fragilità fisica andava man mano dissolvendosi, gli occhi attenti e penetranti si illuminavano con ardore, mentre con voce sicura spiegava che era giunto fin lì per salvare un uomo accusato e imprigionato ingiustamente in quelle prigioni.

L’ardore che metteva nelle sue parole colpì profondamente lady Pray, poteva quasi toccare con mano il fervore e la passione con cui il prete perorava la propria causa, priva di quella sfumatura fanatica che, nel discorso di Vincent, l’aveva tanto spaventata.

Il giovane parlava col cuore in mano ed era evidente che salvare una vita umana, fosse anche una sola, era per lui di estrema importanza; c’erano persone così – si commosse la donna – persone che avrebbe rischiato tutto pur di aiutare una persona in difficoltà, chiunque essa fosse.

Ciò che la faceva rammaricare particolarmente era che lei non era mai stata in grado di appartenere a quella categoria.

< Capisco le Sue ragioni, padre… e mi dispiaccio terribilmente per questa persona di cui mi parlate, ma temo di avere le mani legate. Ho ricevuto poco meno di un’ora fa un rappresentante degli Insorti e mi ha pregato di non rilasciare nessuno dei detenuti della prigione.>

Per un attimo si era illusa che quella misera scusa potesse bastare.

Purtroppo, o forse per fortuna, certe persone non si arrendevano alla prima difficoltà (e ancora una volta Eleanor si sentì terribilmente a disagio per non essere abbastanza forte da seguire il loro esempio): gli occhi del giovane ecclesiastico parlavano da soli.

< So che è difficile fare la cosa giusta, di questi tempi più che mai. Possiamo sperare che questa guerra finisca presto, che non vi siano più giovani pronti a cadere per ideali privi di senso. Ma possiamo anche tentare di aiutarci, lenire la sofferenza di chi ci è accanto. Non lo dico con intenti moralistici o retorici: se si può salvare una vita, allora se ne possono salvare tante. Una persona comune può rivelarsi in grado di fare molto più di quanto non pensasse.>

La donna lo fissò, confusa: non capiva se si riferiva a lei o a qualcun altro, se fosse un invito ad agire o se cercasse di farle capire che quella persona che doveva rilasciare era destinata a fare cose che lei non poteva neanche immaginare.

< Io…>

< La scelta è libera, ma voglio che sappiate che, in questo momento, Lei ha l’occasione di salvare non una, ma tante, tantissime vite umane, signora Pray.>

 

Lear non aveva creduto alle proprie orecchie quando gli avevano intimato di alzarsi, il suo rilascio era stato firmato con urgenza e doveva togliersi dai piedi il più in fretta possibile. Si era mosso come una molla, preoccupato che i suoi carcerieri potessero cambiare idea da un momento all’altro; forse era una tecnica, forse volevano solo portarlo al patibolo, pieno di false speranze…

Quando, risalite le scale dei sotterranei, aveva visto davanti a sé la figura pallida di Shrine con in mano le armi che gli erano state sequestrate in precedenza, i suoi occhi si erano illuminati per la prima volta dopo quelli che parevano secoli. Aveva avuto il buon senso di non aprire bocca, almeno fino a che non erano saliti su un’automobile con lo stemma della casata Pray dipinto sulle due fiancate.

< Che cosa..?> tentò di chiedere il soldato mentre l’altro gli toglieva finalmente le pesanti catene dai polsi, ma con un gesto secco il prete lo fece tacere.

Dopo venti minuti Shrine si schiarì la gola rivolgendosi al conducente.

< Può lasciarci qui. La ringrazio per la disponibilità, porti nuovamente i miei saluti a milady.>

Il qui era una strada di ciottoli che costeggiava un bosco un po’ più folto degli altri, subito dopo un ponte in pietra; non appena la macchina se ne tornò per la propria strada il biondo afferrò il compagno per un braccio e lo condusse nel folto degli alberi.

< Si può sapere cos’è successo?> bofonchiò Lear seguendo a fatica il prete, le gambe poco stabili per essere rimaste inutilizzate per così tante ore.

Gli venne spiegato tutto, non nei minimi dettagli, ma comunque un resoconto esaustivo mentre cercavano di raggiungere il più velocemente possibile il punto di incontro che Shrine aveva concordato con gli altri.

Era appena sceso un teso silenzio dopo il suo racconto, e il prete già iniziava ad innervosirsi per quell’ambiente così estraneo, quando Lear si fermò a fissarlo, sul volto aveva stampata l’espressione più triste che il biondo gli avesse mai visto addosso.

< Che succede?>

< E’ che… mi dispiace.>

< Per cosa?>

Shrine non riusciva proprio a capire che cosa gli fosse preso così all’improvviso; il moro sorrise, mesto.

< Ti ho costretto a mentire a quella donna per salvarmi. Sì, insomma, ti sei dovuto infiltrare e tutto… mi dispiace. So che non sopporti l’idea d’ingannare così gli altri.>

Se non si fosse voltato per proseguire il cammino il moro avrebbe visto l’ombra di un sorriso sulle labbra del compagno, un sorriso fugace e mesto.

< Oh, tu non ne hai idea…>

 

Da come le tremavano le mani Shrine aveva capito quanto fosse difficile per lei fare quel passo, era un tremito così incontrollabile da avere serie difficoltà a scrivere quel breve messaggio formale. Se non fosse stato necessario che fosse scritto di suo pugno il ragazzo si sarebbe offerto di scriverlo per conto suo.

Quando le dita della donna lo sfiorarono consegnandogli la busta sigillata non poté trattenersi dall’inchinarsi con rispetto.

< Lei non sa quanto Le sono grato, signora Pray. Salvando questo giovane è come se Lei avesse salvato me.>

Non si aspettava altro che un triste sorriso e un lieve cenno del capo, ma gli occhi della loro improvvisata salvatrice parevano evitare i suoi.

< Devo dire che La invidio, padre. Vorrei tanto… avere un appiglio, un conforto, una fede in Dio e nel genere umano come la Sua. Io… mi sento così debole, padre. Mi sento impotente.>

Shrine era una persona fortunata: fin da quando era bambino gli era sempre stato molto facile fingere.

Nascondersi dietro una maschera, essere qualcun altro, era tutto molto semplice per lui. E anche se in quel preciso istante avrebbe voluto gettare all’aria quello stupido travestimento e rivelare a quella donna così fragile, così umana la verità, bé, il suo lato razionale gli impediva di abbandonare così il proprio compito.

Le strinse dolcemente la mano, più calda di quanto non si aspettasse.

< Lei non è debole, Eleanor. Ha appena compiuto un atto che solo i più coraggiosi sono in grado di fare.>

 

Non era piacevole camminare al buio su un terreno sconosciuto, specie se si finiva per sussultare ad ogni rumore, per quanto lieve. Shrine fissò lo sguardo davanti a sé, imponendosi di ignorare gli improvvisi versi degli animali notturni, molti dei quali avevano tonalità ben poco amichevoli.

Doc li aveva assicurati di sapere quale era la giusta direzione, ma il prete aveva la netta sensazione di aver girato attorno allo stesso punto per almeno mezz’ora. Ricacciò indietro un sospiro, mentre un fruscio alla sua destra segnalava la presenza di Lear accanto a lui, l’unico rumore ben accetto in quel momento.

Lo osservò di nascosto, il volto tirato per la stanchezza, delle occhiaie da far paura ben visibili anche al buio… era molto diverso dal ragazzo sempre pronto a lamentarsi e a frignare che aveva incontrato pochi giorni prima in quella chiesa di campagna.

In un certo senso il vecchio Lear gli mancava. Si chiese con tristezza se tutti loro sarebbero potuti tornare quelli di una tempo, una volta finita la guerra.

 

< Voglio un dannatissimo mezzo di trasporto. Anche un mulo va bene, ma se devo camminare per altri cinque metri io mi fermo qui.>

L’intero gruppo si bloccò sul posto, ogni sguardo diretto verso Van, il primo a dichiarare ad alta voce quello che tutti pensavano da ormai diverse ore. Da tre giorni erano in marcia, stremati dallo sforzo fisico, senza una macchina o una qualche possibilità di mettersi in contatto con le loro truppe; dormivano poco, terrorizzati all’idea di essere presi alla sprovvista dai nemici, visto che le armi che avevano in dotazione erano ben poche.

Doc era convintissimo che quella fosse la strada giusta, ma non c’era niente che lo potesse confermare: per evitare di essere scoperti da pattuglie nemiche avevano scelto sentieri e strade impraticabili, dove il tempo pareva essersi fermato da secoli.

< Ci vuole ancora un piccolo sforzo. Non manca molto, ormai.> commentò con voce profonda l’uomo, passandosi una mano sugli occhi stanchi.

< E come fai a dirlo? – ribatté il ragazzino – Sono giorni che vaghiamo a vuoto, non sappiamo neanche dove siamo.>

< Stiamo percorrendo un terreno montuoso e, guarda caso, verso Nord ci sono montagne.>

< Ce ne sono anche nella zona Ovest. – s’intromise Shrine, sempre per il gusto di mettere i puntini sulle “i” – Non c’è niente che ci assicuri che queste siano le montagne Nord e non quelle dell’Ovest. Anche perché se continuiamo a muoverci di notte e nasconderci di giorno non possiamo neanche essere certi che il sole sia un punto di riferimento così attendibile.>

< Specie con le nuvole che ci sono state in questi giorni, era impossibile accertarsi della strada giusta.> ribadì Weiss, raccogliendosi i capelli in una coda.

< Non possiamo arrischiarci a viaggiare di giorno, potrebbero avere aerei da ricognizione!>

< E allora che facciamo? Continuiamo ad andare su e giù senza concludere niente?!>

Il piccoletto aveva uno sguardo poco tranquillizzante e pareva più che intenzionato a puntare alla gola del Doc se non si fosse fatto esattamente quello che voleva lui. In quella situazione di tensione Lear si mise in mezzo.

< Ci conviene fermarci.>

< Come, scusa?>

< Siamo esausti, tutti quanti. Litigare non servirà assolutamente a nulla, è meglio fermarci e riprendere le forze. Poi continueremo di prima mattina, in modo da avere il sole come aiuto. Bisogna correre qualche rischio ogni tanto.>

< Siamo già in ritardo di tre giorni sulla tabella di marcia…>

< Tra tre e quattro non c’è poi molta differenza, l’importante è arrivare.>

Si guardarono tutti: non era la miglior scelta che potevano fare, ma almeno era un inizio.

 

La mattina seguente il cielo parve essere dalla loro parte: le nuvole si erano finalmente diradate e il sole segnalava nella luce del primo mattino la direzione da seguire. L’unico rumore era quello dei loro passi e del forte vento che frusciava tra l’erba: un aereo da ricognizione sarebbe stato sentito a distanza di chilometri.

Scesero per una valle ripida, in fila indiana, facendo ben attenzione a mettere i piedi nello stesso punto degli altri; c’erano segni di esplosioni, pochi, ma c’erano.

< Mine antiuomo. Evitate di appoggiare i piedi sull’erba, solo su grosse pietre e terra battuta.> ordinò il Doc, andando avanti per primo. Era più pesante degli altri e questo lo rendeva molto più attento alla dove appoggiava i piedi, di certo non aveva intenzione di saltare in aria. Anche Van aveva parecchie difficoltà a seguire i passi degli altri, costretto ad allungare la propria falcata e a combattere contro il vento che rischiava ogni istante di sollevarlo e farlo cadere chissà dove.

Quando finirono le rocce e davanti a loro non ci fu che erba pianeggiante passarono allo stratagemma degli escrementi di mucca, saltando da uno all’altro, certi di non correre rischi in quel modo.

Lear avanzava col cuore leggero, rianimato dalla vista del sole e dal vento che risvegliava i suoi sensi intorpiditi: quel posto gli ricordava le escursioni in montagna col suo vecchio, quand’era piccolo, una nostalgia forte, ma piacevole.

Dopo ore di cammino Weiss si lasciò sfuggire un grido d’esultanza: una pattuglia di controllo del loro Esercito era parcheggiata dietro una curva, i soldati erano intenti a consumare il loro frugale pasto.

Nel giro di un’ora il gruppo era finalmente giunto al Dipartimento Nord.

 

< Giuro che credevo non sarei più riuscito a farmi un bagno come si deve.>

Il soldato si gettò sul letto e le sue povere ossa scricchiolarono per protesta. Si stiracchiò felice, ora che erano giunti fin là si sarebbero potuti muovere con una macchina – i muscoli delle gambe esultavano al sol pensiero – e avrebbe avuto finalmente modo di riposare. Già la cena che aveva consumato gli era parsa deliziosa, pur trattandosi sempre della stessa sbobba che veniva rifilata loro ogni mattina – oh, ma dopo un’alimentazione di bacche, ghiande e foglie anche del rognone ammuffito sarebbe parso una delizia.

Lo sguardo del giovane finì sul letto accanto al suo e automaticamente si volse verso la porta del bagno: il Dipartimento Nord era decisamente più piccolo degli altri e, per risparmiare spazio, le camere erano doppie.

A Lear era capitato di finire in stanza con Shrine. Non che avesse di che lamentarsi, almeno evitava di morire soffocato dalle sigarette del Doc o di passare la notte a sorbirsi i discorsi sanguinari e fanatici di quel moccioso di Van.

Stava già per mettersi a dormire quando si accorse di aver dimenticato in bagno il coltello di suo padre, quando si era spogliato per lavarsi; imprecò a denti stretti, non era certo che la mattina dopo sarebbe stato abbastanza lucido da ricordarsene.

Si alzò controvoglia e bussò delicatamente alla porta prima di entrare.

< Scusa, ho dimenticato il mio…>

Non riuscì a terminare la frase. Perché quello che aveva visto prima che il prete facesse tempo a coprirsi, a livello teorico, non doveva esserci. E anche se in quel preciso istante le parti incriminate erano nascoste da un asciugamano la figura di Shrine, senza la sua solita veste nera, senza ombra di dubbio non era maschile.

Lear sentì il sangue affluirgli al cervello in una vampata non appena realizzò la cosa.

< S-scusami!>

Si voltò di scatto e chiuse la porta alle proprie spalle, sconvolto.

Cinque minuti dopo Shrine uscì dal bagno in pigiama e trovò il compagno che gli (o sarebbe più appropriato dire “le) dava la schiena.

< Hai dimenticato questo.>

Un leggero tonfo sul proprio materasso informò Lear che il suo amato coltello gli era stato restituito.

< … Grazie.>

Rimasero in silenzio per qualche minuto, il moro sentiva il sudore colargli lungo le tempie. Fece un respiro, un secondo e poi trovò il coraggio di voltarsi a guardare la ragazza che si era seduta sul proprio letto.

Avvampò nuovamente solo a guardarla in viso.

< Allora?>

< Eh?>

Lear la fissò perplesso e quella sbuffò, portando gli occhi al cielo.

< Nessuna domanda da farmi?>

Lo guardò tentennare, titubante, ancora perplesso e disorientato per quanto stava accadendo.

< Uhm… perché?>

La ragazza si passò una mano tra i corti capelli biondi, sorridendo.

< Vai subito al sodo, eh?>

< Ah, bé, insomma, se è per un problema di identità di genere o quelle cose là… insomma, tranquilla, non voglio farmi gli affari tuoi.> bofonchiò lui, il suo sguardo continuava a vagare senza meta, senza sapere dove posarsi.

La sentì sospirare mentre si accomodava meglio sul materasso.

< Non è per quello, sono stata costretta da cause di forza maggiore.>

Si guardarono e Lear si chiese come diamine avesse fatto a non capire che era una ragazza, ora che lo sapeva era tutto così… evidente.

< Il mio paesino d’origine si trova molto vicino ai territori dove gli insorti avevano cominciato ad organizzarsi, ancora tempo fa. Credo sia stato il primo ad essere attaccato da loro: all’epoca erano ancora pochi, ma noi non avevamo forze a sufficienza per contrastarli e, soprattutto, non ci aspettavamo nulla di simile.>

Shrine si fermò un attimo, intenta a ricordare i dettagli di come tutto era cominciato.

< Arrivarono di notte, senza preavviso. Avevamo ancora le case in legno, bastò poco perché bruciassero. Io e la mia famiglia abitavamo vicino alla chiesa, l’unico edificio in pietra di tutto il paese; i miei genitori svegliarono me e mio fratello prima che fosse impossibile scappare dalla casa. Ci dissero di andare a chiedere rifugio a don Karl mentre loro tentavano in ogni modo di bloccare l’avanzata degli insorti. Non ci riuscirono. Da quanto ho capito sono morti entrambi, fucilati assieme ad altri per essersi opposti. Io e mio fratello gemello stavamo per raggiungere la chiesa quando tre soldati ci raggiunsero…>

Il moro temeva di sapere com’era andata a finire, non era la prima volta che sentiva storie simili: quelle che gli avevano raccontato i suoi compagni di Squadrone erano storie terrificanti, tutte terribilmente uguali.

< Ho sentito degli spari, ma non mi sono voltata. Ho continuato a correre il più possibile, ma quando sono arrivata al portone della chiesa ero sola. – la ragazza si fermò a riprendere fiato – Don Karl mi ha accolto, la chiesa era l’unico luogo che i ribelli parevano rispettare… non entrò mai nessun soldato là dentro. La chiesa ospitava anche un collegio maschile dove si trovavano tutti i ragazzini della campagna che avessero intenzione di intraprendere la carriera ecclesiastica. Per nascondermi meglio don Karl mi iscrisse al collegio con il nome di mio fratello e questo è quanto.>

Era una fine un po’ brusca, ma ad ogni parola nuovi interrogativi si affacciavano nella mente di Lear; molti forse erano stupidi, ma sentiva che doveva assolutamente sapere una cosa.

< Se Shrine è il nome di tuo fratello… tu come ti chiami?>

Dall’occhiata che la bionda gli rifilò capì che non aveva alcuna intenzione di dirglielo.

< Potrei dirti un nome a caso, non avrebbe più valore di Shrine. Preferisco che tu continui a chiamarmi così.>

< Vuoi proprio tenerlo un affare top-secret, eh?>

< Solo don Karl e tu conoscete la mia vera identità e questo è un vantaggio. Essere un uomo di Chiesa ti apre molte porte che altrimenti rimarrebbero chiuse; ritengo che per il futuro sia meglio che io continui con questo travestimento, almeno fino a che la guerra non finirà. Sono riuscita a non farmi scoprire da nessuno, fino ad ora e preferirei che le cose rimanessero così.>

< Bé, il fisico ti ha aiutata…>

< E’ un modo gentile per dirmi che sono piatta?>

< No! – si affrettò a rettificare – Assolutamente no, non c’è nulla di male…>

< Davvero? Mi parevi decisamente interessato alle due grandi qualità di Weiss, qualche giorno fa…>

Il ragazzo era convinto che il suo viso non potesse diventare più rosso di così mentre cercava disperatamente di evitare lo sguardo dell’altra.

< Ok… ehm… c’è qualcos’altro che devo sapere su di te, prima di andare a dormire?>

Shrine sorrise mettendo in bella mostra i suoi denti bianchi, gli occhi scintillavano.

< Parlo nel sonno. Quindi non preoccuparti se mi sentirai questa notte.>

Lear non poté trattenere un sorriso in risposta. La questione pareva chiusa, ma quella notte, nonostante la stanchezza, il ragazzo ebbe molta difficoltà ad addormentarsi.

 

La mattina dopo in mensa il Doc venne verso di lui, trionfante, in mano la ciotola della colazione.

< E allora? – fece a voce alta rifilando una manata sulla schiena al povero Lear – Com’è andata la nottata? Movimentata?>

Il giovane lo fissò per un istante come se fosse appena caduto dalle nuvole, poi afferrò il concetto.

< Tu!>

Non poteva crederci, non voleva crederci.

< Tu l’avevi capito! Lo sapevi già!>

Il Doc sollevò un sopracciglio, perplesso.

< Vuoi dirmi che non c’eri arrivato? Credevo l’avessi capito da un pezzo che il nostro Shrine è una lei.>

L’altro lo fissò a bocca aperta, senza parole. Boccheggiò, talmente sconvolto da sorvolare sul “nostro”.

< Ma… da quanto lo sai?>

< Ma da quando l’abbiamo incontrata! Dai, con quella camminata e quelle mani? Non poteva che essere una donna. Insomma, sono un medico per qualcosa, se non sapessi distinguere un uomo da una donna mi preoccuperei…>

Mentre il giovane tirava giù tutti i santi del Paradiso e inveiva contro il Doc e chiunque altro gli capitasse sotto tiro arrivò Weiss.

< Ho parlato col Generale. – avvertì – Lui provvederà a crearci un buon diversivo, un attacco frontale improvviso, che tenga occupati i nostri avversari per un po’ e che crei parecchia confusione. Abbiamo un informatore all’interno della base, una talpa. Verrà a prenderci con una delle loro macchine, ci ha procurato delle tute da tecnici, con quelle sarà più facile infiltrarci. Andiamo dentro, facciamo quel che dobbiamo fare e torniamo indietro. Questa è la pianta dell’edificio.>

I tre si strinsero per consultarla e Lear per qualche minuto dimenticò Shrine, il Doc e ogni altro problema.

 

< Ci siamo ormai.>

Shrine si sistemò meglio la divisa degli Insorti addosso, Weiss finiva la manutenzione del suo fedele fucile da cecchino, il Doc fumava la quarta sigaretta in venti minuti. Lear deglutì, la mano sulla fondina in un gesto automatico: quello era il loro momento, se lo sentiva.

Gettò un’occhiata a Van e rabbrividì: quel ragazzino pareva non vedere l’ora di versare sangue e si aggirava come una bestia chiusa in gabbia, eccitata all’idea della caccia imminente.

< Ok, scendete.>

Il gruppetto obbedì in fretta alla spia, nell’aria già rimbombavano gli spari e le urla di quanto stava accadendo non troppo distante da loro. Il moro si mosse in fretta, ansioso di porre fine alla questione il più in fretta possibile; l’idea che ad ogni secondo poteva esserci una vita umana in più sulla sua coscienza lo tormentava.

Soldati con la loro stessa divisa correvano verso gli spari, urlando e lucidando le armi; i cinque si mischiarono nella folla, la targhetta da tecnici funzionava meravigliosamente come lasciapassare. Tra tutte quelle grida e quel movimento di uomini entrarono facilmente da una delle porte di servizio.

Il loro obbiettivo era due piani sottoterra, un centro esperimenti ipogeo non troppo complicato da trovare: la cartina di quel posto era stata fin troppo semplice da memorizzare.

Quando ci pensò più tardi Lear si chiese come fosse possibile che i loro nemici non si fossero accorti della loro presenza, ad ogni angolo telecamere li fissavano con i loro freddi occhi meccanici e molto spesso nei corridoi incrociavano uomini in camice e soldati armati fino ai denti che correvano qua e là, tutti troppo indaffarati per voltarsi a guardarli.

Tirò il fiato solo quando entrò con gli altri nell’ascensore che li avrebbe portati direttamente a destinazione.

< Ok, ragazzi. Ormai manca poco.> borbottò il Doc, estremamente strizzato in una divisa troppo piccola per lui; tutto il contrario di Van, che praticamente poteva navigarci in quella tuta.

< Vi conviene togliervela ora. – suggerì Weiss rivolgendosi ai due – E’ meglio che non abbiate impedimenti nei movimenti, questa è la parte dell’operazione in cui bisogna darci dentro.>

Quando la porta si aprì solo Shrine e Lear indossavano ancora la divisa, gli altri si erano disfatti di quegli abiti scomodi; sgattaiolarono in silenzio fuori dall’ascensore, lungo il corridoio che portava al laboratorio.

Si trovavano senza alcun dubbio nella sala giusta: una troupe di quattro scienziati in camice bianco erano intenti a lavorare attorno a un tavolo, agli angoli della stanza, attorno a loro, c’erano uomini armati, sei soldati pronti a fermare chi di loro provasse a ribellarsi o una qualche minaccia esterna. A Lear mancò un battito quando si accorse che quel piccolo oggetto nero poggiato sul tavolo era lo stesso che aveva sentito fischiare in aria, un puntolino in lontananza, prima che scoppiasse il finimondo.

Ad un cenno Lear e Shrine si fecero avanti, gli unici che potevano ancora fingersi alleati di quegli uomini.

Uno degli scienziati, un uomo alto e stempiato, con degli occhialetti rotondi che scivolavano lungo il naso, si voltò a guardarli.

< Non abbiamo richiesto nessun servizio tecnico. Cosa ci fate qua?>

< Siamo stati mandati per un controllo dei condotti di areazione, ci sono stati danni nella zona Ovest e temono che possano essercene anche qui.> si inventò Shrine di sana pianta: non aveva la più pallida idea se esistesse o meno una zona Ovest, ma dall’espressione rilassata dell’uomo sentì di averla azzeccata.

Nel vedere la ragazza mentire con così grande facilità Lear si rese conto che non sarebbe mai riuscito ad abituarsi a questo nuovo lato dello Shrine che credeva di conoscere.

< Ok, fate in fretta allora.>

La bionda annuì mentre avanzava verso il condotto più vicino; il moro nel frattempo aveva individuato sul piano di lavoro degli scienziati i piani che cercavano. La tentazione di distruggerli subito era forte, ma dovevano prima cercare di eliminare un paio delle guardie, poi gli altri tre avrebbero fatto la loro comparsa.

Ma prima che Shrine riuscisse ad avvicinarsi al muro un ragazzo le puntò la pistola alla tempia.

< Fermo dove sei.>

La ragazza spalancò gli occhi mentre si voltava verso il nuovo pericolo. A ricambiare il suo sguardo furono gli occhi gelidi di Vincent Carroway.

< Mi ricordo di te… Eri il prete al ricevimento di lady Pray. Un prete, di certo non un tecnico, dico bene?>

Fu un attimo.

Il rumore ravvicinato di uno sparo squarciò il silenzio che si era venuto a creare, ma Vincent Carroway si lanciò verso dietro, in una postazione riparata mentre dove fino a pochi istanti prima c’era la sua testa un proiettile si conficcava nel muro.

Lear vide solo del fumo uscire dalla canna della pistola del Doc prima che lui e Van irrompessero nella stanza con un grido, Carroway che gridava ai suoi uomini di sparare, Weiss che sparava dalla soglia della porta, riparata da un enorme scaffale di provette.

Non pensò a quello che faceva, si gettò semplicemente in mezzo ai tavoli per evitare le pallottole che fischiavano ad altezza d’uomo; sentì un tonfo e uno degli scienziati cadde a pochi centimetri da lui, sul camice una chiazza rossa che tendeva ad allargarsi sempre di più.

C’erano urla, gli altri uomini di scienze correvano al riparo disperati; Lear si voltò e vide il volto estasiato di Van che si gettava contro una delle guardie, il pugnale in mano. Cinque secondi e l’uomo crollava a terra, un fiotto di sangue dal suo collo.

Mentre il proprio stomaco si accartocciava su se stesso per quell’orribile visione Lear mise automaticamente mano alla pistola, un proiettile passò accanto al suo orecchio; si voltò e sparò quasi alla cieca, con un grugnito chi aveva cercato di sparargli cadde a terra con un rumore sordo.

Rotolò sotto un tavolo per raggiungere una zona vuota e si sporse per capire cosa stava succedendo: c’erano quattro guardie a terra e tre scienziati riversi sul pavimento. Vide il Doc, nonostante una spalla sanguinante, accapigliarsi a mani nude con la quinta guardia, Van colpire al cuore l’ultimo degli scienziati mentre Weiss si avvicinava al tavolo e afferrava i progetti che il ragazzo aveva visto prima.

Nessuna traccia né di Shrine né del giovane che l’aveva riconosciuta prima.

Non aveva fatto neanche tempo a pensarlo che la bionda gli apparve davanti, pistola in pugno, il volto pallido arrossato dall'adrenalina; prima che potesse aprire bocca per parlarle e chiederle perché diamine stava puntando l’arma nella sua direzione qualcosa di freddo su posò sulla sua gola mentre un braccio lo afferrava da dietro, bloccandogli entrambe le mani.

< Getta la pistola.> ordinò con voce roca il ragazzo che lo stava tenendo sotto tiro della lama e Lear sapeva anche senza voltarsi che si trattava del giovane che li aveva scoperti.

Shrine non fece una piega, le sue mani non tremavano.

< Non mi aspettavo che un uomo di Chiesa parteggiasse per gente come loro. Credevo che voi foste per la pace, non per questo inutile massacro.>

< Cerchi di tirarti fuori? Mi pare che questo inutile massacro l’abbiate iniziato voi.>

Vincent Carroway fissò quegli occhi azzurri che lo stavano trafiggendo e scosse la testa piano.

< L’abbiamo fatto per liberarvi. La gente moriva di fame nelle nostre terre, lo Stato se n’è sempre fregato di noi. Combattiamo per restituire dignità agli uomini oppressi, non per altro. Questi qui invece – e per accentuare le sue parole avvicinò ancora di più la lama al collo di Lear, tagliando appena la pelle – per cosa combattono? Solo per distruggere chi chiede di essere aiutato, di essere salvato. Tu dovresti capire, per ogni popolo arriva il momento del riscatto. Tu dovresti essere dalla nostra parte, non dalla loro.>

Il mordersi il labbro fino a farlo sanguinare era un gesto automatico, nervoso, perché ad essere sincera con se stessa Shrine non aveva mai dimenticato i volti dei contadini del suo paesino, la pelle tirata sugli zigomi, la loro camminata pesante, barcollante a tratti. Ne erano morti anche lì, per la fame, ricordava funerali poveri e discorsi di speranza che andavano a vuoto.

Una parte di lei in quel momento avrebbe davvero voluto abbassare la pistola e cominciare a urlare, perché vedere gente uccidersi così senza senso era quanto di più stupido e terribile avesse mai visto e lei odiava quel mondo che girava sempre al contrario. Ma quando focalizzò nuovamente lo sguardo sul volto di Lear, sulla lama che minacciava il suo collo, qualcosa in lei scattò.

< Tu… non hai alcuna ragione per considerarti migliore di loro.>

Carroway avrebbe voluto di certo replicare, ma non gli fu possibile: l’ennesimo sparo riecheggiò per le mura e Lear sentì la presa sulle sue mani allentarsi; ne approfittò per bloccare la mano che teneva la lama e spingere Vincent il più distante possibile da lui.

Il giovane barcollò tenendosi istintivamente il braccio che sanguinava copiosamente sul pavimento; Lear vide i suoi occhi grigi brillare di rabbia, odio e qualcosa di tremendamente simile al divertimento. Ma un istante dopo Vincent Carroway correva lungo il corridoio, le pallottole di Weiss che schizzavano da tutte le parti, sfiorandolo, ma nessuna raggiunse il bersaglio.

< Merda!> esclamò Van, seccato di non essere riuscito a uccidere proprio tutti in quella stanza.

Shrine e Lear lo guardarono con disgusto.

< Muoviamoci. – intimò il Doc – Weiss, piazza l’ordigno. Dobbiamo filare.>

La ragazza posizionò l’esplosivo in posizione strategica e attivo il timer.

< Due minuti.>

< Ok, via!>

Fecero di corsa tutto il corridoio, su per l’ascensore, un altro corridoio; poi, svoltando un angolo, sentirono dietro di loro l’enorme esplosione mentre le pareti tremavano e qualche calcinaccio crollava dal soffitto.

Cinque minuti dopo erano fuori dall’edificio, nel trambusto generale la macchina della loro talpa li stava aspettando.

 

< Stai bene?>

Shrine si voltò a fissarlo: aveva il volto provato, ma nulla di più.

< Sì, sto bene. Mi dispiace solo che ce lo siamo fatti sfuggire… avrei voluto parlargli ancora.>

Lear sorrise passandosi distrattamente le dita sul taglietto appena rimarginato sul collo.

< I piani?>

< Li ha il Doc.>

La ragazza indicò con un cenno del capo il dottore seduto su una roccia poco distante dalla macchina in sosta. Si avvicinò a lui a passi lenti.

< Credevo dovessimo distruggerli.>

Il Doc alzò lo sguardo su di lui e sbuffò divertito.

< Gli ordini esatti sarebbero di portarli al Quartier Generale. Credo che anche i nostri vogliano costruire qualcosa di simile.>

Lear si irrigidì nel sentire quelle parole: non poteva assolutamente permettere che quell’affare fosse creato ancora, non importava se da amici o nemici. Non era un’arma che doveva esistere.

Osservò il Doc tirare fuori dalla tasca l’accendino nonostante la ferita alla spalla.

< Credo che però non avranno problemi a credere che queste scartoffie siano andate perse nell’esplosione.> borbottò accostando i fogli alla fiammella.

< Bene. – aggiunse soddisfatto – Direi che ora possiamo tornare al Dipartimento.>

Lear non poté trattenere un sorriso mentre guardava quei piani di morte accartocciarsi e disperdersi nell’aria, in cenere.

   
 
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