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Autore: boll11    01/05/2012    2 recensioni
«…quel maledetto tè!» scandisce appena con le labbra, senza un suono.
Sherlock è seduto al suo tavolo. Non c’è possibilità d’errore. E’ lui. Con quello stramaledetto cappotto, quella stramaledetta sciarpa e quelle dannate mani.
E lo aspetta.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Note: Poche, come sempre.
Questa storia partecipa allo Sherlothon per il team Fanon.
Ringrazio Mary per avermela corretta con la solita pazienza. Non so come sdebitarmi! Cioè lo so, ma ci sto lavorando! XD
Buona lettura.


Emptiness



Un'infusione del tè più lunga (3-5 minuti) estrae anche acido tannico, che disattiva la caffeina perché si combina con essa, attenuando l'effetto stimolante (L'acido tannico inoltre rende amaro il sapore del tè).”
(Da Wikipedia
)




«E’ stata tutta colpa di quel maledetto tè» pensa John bloccato sul posto, come congelato in una fotogramma di un film di fantascienza.
Nel pomeriggio è solito andare lì a bersene una tazza e a mangiare una fetta di torta e lascia che i pensieri scivolino via lievi e inconsistenti almeno per una mezz’ora. Ha il suo posto lontano dalla vetrina, un po’ appartato dove nessuno siede perché troppo vicino ai bagni.
«…quel maledetto tè!» scandisce appena con le labbra, senza un suono.
Sherlock è seduto al suo tavolo. Non c’è possibilità d’errore. E’ lui. Con quello stramaledetto cappotto, quella stramaledetta sciarpa e quelle dannate mani.
E lo aspetta.
Ha davanti una teiera fumante ma la tazza è ancora vuota.
Giocherella col cucchiaino tracciando linee sulla tovaglia candida, studiandole con attenzione come se potesse riuscire a decifrarvi un codice particolare.
Eccolo lì il redivivo detective.
John dovrebbe provare qualcosa. Qualunque cosa. Una semplice emozione, non importa se gioia, rabbia, stizza, amore - ne ha avuto tanto, da scoppiare almeno fino a qualche attimo prima -  eppure si sente la testa e il petto completamente vuoti.
Lo guarda per quello che sembra un tempo interminabile, cercando di capire cosa sta avvenendo invece all’interno del suo stomaco che gli brucia come in preda a un incendio. Stringe la mani a pugno e le tiene ben ferme contro le cosce lasciando che quella sensazione scomoda scivoli via.
Serra la mascella fino a sbiancarla e finalmente sente svanire la pressione eppure vorrebbe fare marcia indietro, ma le sue gambe - che sembrano di gomma - lo portano ad avvicinarsi. Naturale, deve pur muoversi. Togliersi di lì prima che quell'anziana signora impaziente decida di spingerlo di lato per precipitarsi in bagno, gonfia di tè.
Al suo movimento Sherlock alza la testa. Lui gli vede curvare le labbra in un fantasma di sorriso. Gli occhi sono stranamente schermati da ricci scomposti.
Quel particolare disturba John più della sua miracolosa comparsa nella sala da tè.
E’ Sherlock, ma non sembra lui. Questo per quanto John lo trovi irritante contribuisce a lasciarlo freddo e distante nonostante una lieve fitta di nostalgia. Lievissima, quasi una memoria sbiadita.
Scosta la sedia senza un rumore e si siede di fronte a lui. Non abbassa gli occhi. Non sbatte le palpebre. Non fa uscire neanche un sospiro. Alza la mano a richiedere la presenza di un cameriere e ordina qualcosa.
In seguito non ricorderà esattamente il tipo di tè. E non ricorderà il sapore della torta o la sua consistenza. Ricorderà che forse la sua voce era un poco troppo brusca e che il cameriere lo guardava seccato. Ricorderà che piluccava la torta con due dita, briciola per briciola mentre Sherlock parlava a raffica. Spiegando, o almeno cercando di farlo.
John sarà quasi sicuro di aver fatto anche qualche cenno col capo dando forse l’impressione di seguire il suo discorso ma in realtà non avrà idea di quello che stava dicendo e non gliene importerà.

Accompagnato dalla voce in sottofondo John pensa e sa che è stata tutta colpa di quel tè, quello che Mrs Hudson avrebbe dovuto preparargli e che lui aveva stupidamente rifiutato per correre dietro a questo affascinante – affascinante? – consulente detective perché aveva colto promesse di avventura, finalmente. Qualcosa che lo facesse sentire di nuovo vivo.
Il risultato è stato questo, alla fine. Niente più avventure e neanche la voglia di affrontarne.
John guarda le mani di Sherlock e subito distoglie lo sguardo per guardare le sue che scavano nel pezzo di torta e pensa a quel giorno lontano e ai possibili diversi scenari che quella tazza di tè mancata gli aveva precluso.
Se solo non si fosse lasciato abbindolare da questo tizio che ha davanti e che a quanto pare è Sherlock… Deve esserlo perché riconosce il suo cappotto e la sua sciarpa, ma non lo è, perché le sue mani si muovono troppo nervose e John ricorda bene le mani di Sherlock: non erano mai nervose. Erano sempre eleganti, sempre dannatamente eleganti. E poi John non riesce a vedere i suoi occhi nascosti da quei ricci – e forse quello è davvero il particolare che più lo infastidisce, dannazione! – e se non riesce a vederli non può credere fino in fondo che sia lo stesso Sherlock di sempre, quello che dovrebbe essere morto, Gesù Cristo!
John si accorge di star stritolando quel pezzo di torta sotto le dita con troppa foga. Lentamente porta alla bocca quello che ne rimane.
C’è qualcosa di malato, poi pensa. Forse nel tono di voce di Sherlock. Più profondo di quanto lui ricordasse. O nel dondolare continuo del piede sotto il tavolo che gli sfiora i pantaloni freschi di lavanderia ed anche questo è fastidioso, non è vero?
Se quella volta John avesse aspettato che questo tizio fosse andato via incontro al suo caso e avesse bevuto in pace quel tè accontentandosi di aver trovato una sistemazione, il che sarebbe stato più di quello che aveva sperato fino a qualche giorno prima, probabilmente le cose sarebbero andate in modo diverso.
Non si sentirebbe così, in questo modo che neanche riesce a definire. Distante? Sospeso? Straniato?
Scuote la testa e si accorge che Sherlock ha sospeso il suo discorso.
«Cosa John?» gli chiede. «Cosa non ti è chiaro?»
Lui lo guarda. Gli osserva le labbra e scopre che le stringe troppo come a calmare un tremito che nel vero Sherlock non ci sarebbe.
«Niente» risponde alla fine spezzando quel silenzio. Sorride per convincerlo. «Ti ascolto» dice anche, accompagnando le parole con un  cenno incoraggiante del capo.
E invece non lo ascolta affatto ma forse Sherlock non lo sa. Ed anche questo sarebbe strano. Ma se invece intuisse, allora? Non gli importa.
E’ ancora alle prese con quella faccenda del tè e cerca di percorrere possibili finali diversi.
Esisterà un’alternativa a tutto questo torpore? A questa sensazione di vuoto ribollente?
Certo, forse  porterebbe ancora il bastone, ma in fondo non ha vissuto con quel dannato affare per parecchio tempo dopo la presunta morte di Sherlock?
Qualche seduta di terapia – forse più di qualcuna in verità – e l’ha abbandonato di nuovo e quindi?
Non gli piace ripensare alle sue sedute ed al dolore ed a quello che ha rischiato di diventare per colpa di questo presunto Sherlock.
Proprio lì, in quel locale dalla luce assorta, quieta, monotona pensava che si sarebbe consumato nell’assenza di lui.
Non è successo, è vero. Ma qualcosa gli è costato.
Questo cupo rimbombo che sente dentro e questo sapore amaro.
Dovrebbe essere tè, quel qualcosa che ha ordinato. «Ma quale?» si chiede.
Scuote ancora la testa e ancora l’altro si ferma e lo guarda.
Lui accenna un sorriso che muore subito, in fretta. Prende tra le mani la tazza del tè e sorseggia, e pare fiele e Dio lo strafulmini se sa che miscela è!,  e mentre lo fa non distoglie gli occhi di dosso a quel tizio di fronte a lui che non può essere Sherlock, ora ne è quasi sicuro perché lui si scosterebbe quei dannati ricci dal viso. Invece non lo fa. Lo sta spiando nascosto da quei maledetti capelli, e no, non può essere davvero lui.
E poi non parla da troppo tempo.
Forse sta meditando.
John lo mette alla prova. Rumoreggia con piattino e tazzina e poi anche col cucchiaino. Lo fa appositamente in maniera esagerata. Passa troppo tempo prima che quello davanti a lui si decida a fermargli la mano con la sua. Fa solo in tempo a sfiorarla. L’effetto è devastante. Come una scarica elettrica alla massima potenza.
John scatta indietro sfuggendo ad un contatto più deciso.
«Non toccarmi» dice. E sorride. Gli sorride ma gli pulsano le tempie tanto che gli sembra che la testa possa spaccarsi in due da un momento all’altro.
«Continua» gli dice poi sapendo che non può aver finito di parlare, di spiegare, di dirgli qualsiasi cosa sia venuto a dirgli. Il vero Sherlock amava parlare ed amava farlo parecchio.
Eppure quello stenta e stringe le labbra. Labbra che sembrano tanto le sue, ma non possono esserlo perché guardarle fa rimanere John insensibile e lui non è mai rimasto insensibile alle labbra di Sherlock.
Rimane in attesa senza scomporsi. Anzi si posiziona più comodamente sulla sedia e incrocia le braccia in grembo scansandosi dal tavolino. Nel farlo si allontana anche dai piedi che non sono di Sherlock perché continuano a dondolare nervosi. E tutto questo insieme di indizi lo sta facendo impazzire.
John non è Sherlock e non sa davvero come risolvere la questione. Sa solo che non si sente bene e questo non succedeva da un bel po’ oramai. Pensava di aver superato la cosa, nonostante tutto. E anche bene, o almeno al meglio. Lo sperava.
John accavalla le gambe in un moto di stizza che non riesce a controllare. Inspira e le districa nuovamente. Sorride ancora sperando che basti e che Sherlock si sbrighi, sant’iddio!, che tiri fuori tutto quello che ha da dire il più in fretta possibile.
Dopo un po’ quello sembra accontentarlo perché riprende a parlare e il suo tono si fa concitato. John riduce la sua voce a un brusio indistinto e con un sospiro grato torna a pensare a quello che avrebbe potuto essere.
«Se avessi bevuto quel tè Sherlock sarebbe morto, probabilmente. Perché era un’idiota ed io non sarei stato lì a fermarlo» scopre alla fine, come se avesse avuto una piccola rivelazione. Trattiene per un attimo il respiro e lascia che quel pensiero cada nel profondo di sé. Sente un dolore al petto. Come una trafittura.
Respira quieto, senza fretta cercando di fermare il fiato che preme per uscire in un gemito.
«Se fosse morto allora non avrei avuto il tempo di amarlo. Non avrei sentito questo dolore» si dice ancora esalando alla fine un sospiro nuovamente lieve, senza pericolo. «Se fosse morto allora, non avrei impiegato un tempo infinito per rifarmi una vita e non mi sentirei così nel vederlo comparire come se nulla fosse. Con motivazioni di cui non m’importa nulla, che non voglio sentire…»
E John lo guarda, quel tizio, e non può fare a meno di ridere.
«Questo non è Sherlock» si dice ancora spezzando la risata con il serrarsi della bocca.
Il tipo di fronte a lui scatta. Solleva il viso a guardarlo e finalmente scosta quei ricci fastidiosi dagli occhi. Usa due dita. «Sono lunghe ed eleganti come erano quelle di Sherlock» pensa John e si sente la bocca arida e amara.
E poi quello lo fissa. E anche lo sguardo sembra proprio quello di Sherlock. Ha le sopracciglia lievemente inarcate, come faceva lui quando non capiva un atteggiamento che credeva bizzarro. Eppure le labbra sono sempre serrate ad impedire un tremito.
«E’ lui», pensa John. «Ma non lo è».
Allora lentamente si alza e rimane a guardare questo Sherlock nuovo di zecca che sente tanto estraneo, e ha paura di cominciare a tremare, e non vuole.
«Io mi sposo, Sherlock», dice. «Sono andato avanti senza di te» pensa. «Non farò un altro sbaglio».
E dà un colpo alla tazza ancora mezza piena e quella si rovescia macchiando il bianco della tovaglia.
«E’ amaro» spiega prima di voltarsi e lasciare il locale.

  
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