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Autore: ellephedre    01/05/2012    10 recensioni
Serenity, principessa della Luna. Figlia di sua maestà la Regina Serenity e di... La storia di una regina al termine della sua vita, una sovrana che imparò di nuovo a vivere.
Indossava i colori del roseto terrestre - verde intenso e rosso vivo - quando si sentiva come una ragazza, il suo corpo un fusto di rami che ancora non aveva messo radici, pronto a cercare gioia nel terreno più adatto.
Lei era come le rose terrestri: ritrosa a svelarsi, bella solo quando curata, da ammirare in segreto.
La Serenity dei momenti successivi al riposo era una donna sola, in pace con se stessa. Reclinava il capo sul letto di pensiero, godendosi il vento che richiamava su se stessa, la brezza che si insinuava sotto la veste accarezzandole il corpo.
Sorrideva, Serenity.
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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reny

 

Reny
 
Autore: ellephedre

 

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.

 


  

Sian.

Capelli color dell'oro terrestre e occhi socchiusi, che squadravano con sospetto e abbandono i luoghi di cui egli era ospite forzato. Lo straniero aveva spezzato in due - con le mani - la porzione di materiale marmoreo che lei aveva tentato di utilizzare come strumento. Le aveva indicato di attendere, quindi aveva iniziato a sfregare tra loro, ripetutamente e con calma, le superfici ruvide che aveva ricavato.

Non l'aveva più guardata e non aveva proferito altre parole. Immergendosi nel compito umile che si era prefissato, aveva rilassato le spalle e incrociato le gambe. Con l'allungarsi dei momenti, il suo lavoro si era fatto meccanico, rassegnato. La sua mente si era spostata nel passato, lontana da un presente che non aveva interesse ad abitare.

Serenity aveva osservato le rose.

Si comportava con loro come faceva lo straniero coi pezzi di marmo. I fiori erano la sua distrazione dal mondo. Aveva relegato la loro bellezza e vitalità ad un ruolo immeritato: quando ne aveva cura, chiedeva loro silenziosamente di portarla alla dimenticanza di sé.

Non sono una Regina morta, non sono una Regina che non sa vivere. Sono questa donna, che taglia gambi, estirpa radici e versa acqua. Sono questa donna che osserva e contempla serena i propri fiori, nella tranquillità della propria dimora.

Come l'alieno, era degna di pietà, l'ombra di se stessa.

Si alzò e raccolse una rosa rossa, l'esemplare coi petali più morbidi e lucenti. Tornando al proprio posto, sfiorò il materiale tra le mani di lui. "Marmo." Si sedette e sollevò la rosa tra le mani. "Rosa."

Lo straniero - Sian - fece una pausa nel proprio lavoro. Rivolse uno sguardo al fiore che lei teneva tra le dita. "Marmo" annuì. "Ro..." La sillaba si spense sulle sue labbra, suono colpevole e amaro.

Iniziò a trattare l'immagine della rosa come fosse divenuta trasparente ai suoi occhi.

Si ammutolì e, per quella lunaria, così rimase.

   

I giardini divennero il luogo in cui lui scelse di stare. Dormiva sul giaciglio che gli aveva permesso di recuperare le forze, ma da sveglio usciva dalle stanze e si prodigava a lavorare sull'aiuola da creare. Quando voleva riposare, si fermava e guardava il cielo, seguendo il percorso che la Terra compiva nella volta spaziale.

"Terra" gliela descrisse una volta lei, prima di indicare i loro dintorni e il suolo su cui poggiavano. "Luna."

Lui aveva ripetuto atono le parole, gli occhi che si muovevano lenti a indicare le entità nominate. Aveva fatto silenzio, poi aveva guardato nel vuoto e aveva detto, "Àven."

Aveva abbassato le palpebre, lembi di pelle provati da sonni agitati e infelici.

"Sian ni Àven."

 

Sin da quando ne era stato in grado, Sian di Àven si era nutrito con riluttanza dei pasti che lei gli aveva offerto, cibi semplici e pressoché insapori, pensati per una digestione semplice che non gravasse su un corpo provato. Serenity aveva compreso che, se lo straniero avesse potuto nutrirsi di sola volontà, non avrebbe mai mangiato.

Nei primi tempi, abbandonato sul letto per intere lunarie, egli se n'era rimasto ad osservare i piatti che si freddavano, sfidandosi da solo a non cibarsene. I vapori che abbandonavano il cibo caldo giungevano alle sue narici senza causare apparenti reazioni. Nei momenti in cui lei si addormentava o non gli prestava più attenzione, per l'alieno le necessità del fisico vincevano su quelle della mente.

Col corpo che riprendeva le forze, egli aveva in seguito rinunciato alla propria battaglia: mangiava ogni cosa, muovendo la mandibola come se dovesse ricordarsi, di volta in volta, di comandare ai denti di masticare.

Era un'altra operazione di cui occuparsi per lui, solo un modo per far trascorrere il tempo. Nei suoi occhi correva il vuoto o un ricordo, nulla che trapelasse nel presente.

Per le sue necessità di pulizia corporea, Serenity aveva messo a disposizione acqua, teli e unguenti, nonché un contenitore con coperchio pensato per gli infanti, troppo minuto per un uomo cresciuto. Poiché non le erano noti adulti che si rifiutassero di provvedere alla propria depurazione interna senza l'indispensabile ausilio del potere, aveva lasciato a lui l'incombenza di adattarsi. Regolarmente, si era curata di impegnarsi in leziose passeggiate nei giardini, per dargli il tempo di provvedere al mantenimento del proprio decoro.

Da malato, Sian di Àven aveva provato gusto nel lasciarle il compito di mettere ordine a operazioni terminate, una evidente forma di disprezzo nei suoi confronti. Quando poi era riuscito ad alzarsi e si era acceso in lui un minimo desiderio di comunicazione, quel problema era venuto meno.

La buona volontà e la salute ritrovata colpirono Serenity a sufficienza da offrirgli un pasto dotato di degni sapori.

Semi di rès lievitati e vegetali terrestri di prim'ordine, questo ordinò per il piatto di lui.

Dopo aver assaggiato il cibo, Sian di Àven lo deglutì in fretta, in volto un'espressione che poteva essere confusa per mite soddisfazione.

A pasto terminato l'espressione di lui cambiò rapidamente, assieme al colorito del suo viso. I lunghi respiri, mantenuti forzatamente silenziosi, non furono sufficienti a sanare la situazione. Egli scattò in piedi. Tenendosi il fianco ferito, si trascinò veloce fin dove poteva, appena fuori dalle stanze. Lì rimise tutto ciò che aveva ingerito.

Storcendo il naso, Serenity si costrinse ad alzarsi.

Vi era dignità in una condizione simile? Cosa distingueva quell'uomo da un'umile bestia, un essere che possedeva almeno il buon senso di non credersi superiore al proprio stato? Non vi era ragione di assecondare le sue credenze, la soluzione che lui si rifiutava di prendere in considerazione era veloce e indolore: il potere era di aiuto nell'evitare situazioni degradanti.

Una mano alta dello straniero la fermò nel suo breve cammino, il corpo di lui ancora piegato in avanti.

"Àirami." Un soffio veloce, deciso.

Lei sollevò le dita in aria e sviluppò potere, pulendogli il viso.

Sian di Àven la afferrò per il polso, esercitando una pressione violenta. "Riòndas."

Dissipando la propria energia, Serenity lo sfidò ad approfondire la minaccia.

Egli raddrizzò la schiena, prese un respiro più intenso. Piegò quindi la testa, piano e con grande sforzo. "Àirami" ripeté a mento basso, lo sguardo rivolto al suolo che aveva sporcato. La lasciò andare, chiedendole col palmo di tenersi lontana. Fu assieme comando e invocazione.

Egli si diresse a recuperare dell'acqua e i teli che usava per lavarsi. Li adoperò per pulire, inginocchiato, la forma della propria vergogna.

Quando terminò, Serenity lo seguì con lo sguardo.

Tra le mani un fagotto di stoffa sporca, l'uomo si stava dirigendo alla fonte che riforniva d'acqua pura i giardini.

Àirami.

Una parola di umiltà, la prima che Sian di Àven aveva pronunciato dopo l'indecoroso incidente. Una parola che aveva ripetuto, rivolgendosi a lei e sforzandosi di mostrare rimorso.

Nel comprendere il significato del termine, Serenity ebbe un ricordo.

Àirami. Gli occhi dello straniero rivolti supplicanti al cielo. Àirami, àven.

... Àven. Il nome del suo pianeta.

Perdono, aveva detto.

Perdonami, Àven.

 


 

Serenity si unì a lui nella sua occupazione quotidiana, la lotta impari contro il marmo ostinato dei giardini.

Non erano lontani dal separare una prima lastra dal pavimento, ma lei divenne ancora più caparbia nel costruire una conversazione tra loro, una comunicazione che andasse oltre il mero scambio di suoni che identificassero oggetti. Riconosceva come inevitabile quel primo passaggio, ma lo accelerò per poterlo rapidamente superare.

"Mano. Mano." Indicava i rispettivi arti. "Vesti. Vesti." Danzava con le dita attorno agli abiti che indossavano entrambi. "Rose, petali. Rami. Marmo, lastra. Lastra."

Egli la osservava come se fosse vento che si ostinava a colpirlo.

Uno schiaffo veloce alla mano lo mise in allerta.

"Scusa" concesse Serenity. Chinò lievemente la testa. "Àirami."

Quando vide che egli aveva compreso, lo picchiò di nuovo sulla base del palmo.

"Reny."

Avergli strappato un avvertimento le causò un sorriso che tenne celato. "Picchiare." Scandì il suono e colpì le proprie dita, senza risparmiarsi. "Picchiare" ripeté lentamente.

L'attenzione dello straniero era per lei.

"Parlare." Serenity disegnò onde accanto alle proprie labbra. "Par-la-re." Annuì e ripeté il movimento, lasciandolo partire dalla gola, indicando i suoni che si levavano in aria. "Sto parlando. Prima tu hai parlato." Accentuò la parola che gli stava insegnando e quella che si riferiva a lui. Incrociò il suo sguardo concentrato e annuì. "Parla." Ottenne un naturale silenzio. "Parla" insistette.

"Reny."

Venne invasa da una sensazione di vittoria. "Hai parlato." Annuì in premio.

"Reny, sèprits."

Sorrise a se stessa, a lui. "No" scosse la testa. Il silenzio non portava a nulla. "Parleremo."

Egli non ripeté il suo comando e lei lo anticipò prima che lo impartisse nuovamente. Allungò una mano di lato e la mosse in aria delicatamente, come creatura volante. "Movimento."

Si alzò in piedi, girò brevemente su se stessa. "Movimento."

Non stava più seguendo una logica nel trasmettere le conoscenze del proprio linguaggio. Agiva in libertà, una mente che vagava senza regole.

Sollevò una gamba sotto le lunghe gonne, la piegò di lato fino a sporgere col piede dal tessuto. "Movimento." Si irrigidì e si mise seduta, gambe unite e mani composte sul grembo. Divenne grave nel tono. "Immobilità." Lo indicò dove stava, fermo e silente. "Immobilità. Immobile."

Il viso di lui era privo di reazioni chiare, il suo unico pensiero visibile in un tremito della guancia. Aprì lievemente la bocca e non parlò, una scelta derivata solo dalla mancanza di vocaboli.

Si espresse infine come era sua abitudine.

"Fèigrin ra còistenra. Mis tànisre."

"Stai parlando."

Egli abbandonò sul suolo gli strumenti di lavoro in marmo. ". Sa sèprits, Reny."

Si allontanò verso le stanze, lasciandola sgomenta.

Aveva detto....

   

Non era stata l'unica tra loro a studiare il linguaggio dell'altro, comprese.

. Una sillaba che lei aveva pronunciato di sovente, tra sibili di rabbia contenuta o in compagnia di semplici affermazioni calme, discorsi con se stessa - su di lui - che gli aveva lanciato contro. In contemporanea, Sian di Àven le aveva rivolto incomprensibili invettive di simile natura.

Il tono, un movimento particolare delle sopracciglia... Comprendere qual era il termine che racchiudeva in sé un'affermazione positiva poteva essere semplice.

Sì. No.

Sian li possedeva entrambi oramai, mentre a lei sfuggivano nel linguaggio alieno di lui. . Aveva creduto che quel suono...

Pronta a intraprendere di nuovo la sfida, decise di combattere nei momenti precedenti al sonno, quando la resistenza di lui era più debole.

Riverso sul letto, trovò un uomo abbandonato al proprio dolore, le pupille larghe e fisse sulle lenzuola, le labbra semiaperte e secche nella folta peluria bionda.

Àirami. Àirami, Àven.

Il silenzio della sua sofferenza la rese umile.

Si sedette accanto al giaciglio di lui, sul suolo.

Nelle camere che condividevano malamente da un intero ciclo di Luna, posò le braccia sulle ginocchia unite. Studiò il buio del luogo segreto che aveva glorificato la sua solitudine di sovrana.

"Del tempo in cui nacque la Luna, si narrano innumerevoli fantasie."

"... sèprits."

Serenity divenne più dolce nell'esprimersi, soave e innocua. "Della mia Luna si dice che nacque come donna nello spazio, vagabonda senza dimora che si espanse sino a creare la propria casa." Posò la guancia sulla spalla, morbidezza e calore al contatto. "Si narra che fummo un bacio dell'Helios al firmamento, luce che potesse splendere senza fuoco."

Cullò a parole il silenzio di lui.

"Si narrano grandiose menzogne di ciò che fummo. Lo permettemmo. Abbiamo in verità molti nomi e un solo ruolo, per una sola di noi. Il resto è attesa, un intervallo in pausa che è divenuto vita per me. In potenza non conosco sconfitta, non ho corona e sono ignota nella mia natura. Un mistero, se non per una Serenity della Luna. Parli con una regina che è un passaggio nella sua stirpe, ma una sovrana per il suo popolo. Loro non sanno. Non vorrebbero sapere." Chiuse gli occhi, gravata dal peso di eventi a cui non avrebbe mai assistito di persona. "Hanno ragione. Può esistere colpevole ignoranza quando non vi è motivo di conoscere? Essi vivono e muoiono, compiono sereni il proprio cerchio. Io insegnerò alla nuova Serenity che è giusto essere come i nostri sudditi. Non esistono re e regine. Non esistono sovrani quando vuoi sorridere e far crescere una rosa. Esiste solo..."

Se lo domandò lei stessa.

"Ho trascorso molto tempo senza una risposta." Eppure essa non poteva celarsi lontano dalla sua Luna. Ne era convinta, doveva crederlo.

Cercò nell'ombra scura accanto a sé. "Àven. Quando mi parlerai del tuo pianeta, ti assisterò nel tuo ritorno ad esso."

   

Serenity si destò dal proprio sonno col peso del silenzio nelle orecchie.

Ad occhi aperti trovò vuoto il giaciglio di riposo accanto a sé. Allarmata, accese per istinto i sensi in una ricerca rapida, infruttuosa. Si alzò e cercò ansiosa nell'area dei giardini. Il luogo di lavoro vicino alle aiuole era abbandonato, uno degli improvvisati strumenti di marmo rotto in più pezzi.

Si sentì smarrita nella sua stessa casa.

Cercava un corpo senz'aura, una persona che riusciva a parlare, ad esistere e a soffrire, senza emanare un solo soffio di energia. Pensava di essersi abituata ad averlo intorno fino a che lo aveva avuto nel suo campo visivo, rapidamente individuabile. Ma ora?

Egli poteva essere uscito dalle stanze, tra la gente.

Si trattenne dallo spalancare le porte.

I giardini erano vasti, escludere che vi si fosse addentrato era prematuro. Si liberò delle calzature e corse verso la fonte d'acqua pura. Giunse a quel luogo con passi soffici, accarezzando coi piedi zolle di erba e lastre di marmo.

Sian di Àven era seduto sul bordo della lunga vasca, le gambe immerse nell'acqua, il capo chinato in avanti. Le rivolgeva la schiena e, dai movimenti delle sue braccia sollevate, lei intuiva lo svolgersi di una misteriosa operazione sul suo viso. Spostandosi silenziosa, Serenity giunse a vedere il pezzo di marmo nella mano di lui. Con le dita egli tirava i peli morbidi che gli adornavano le guance. Col lato appuntito dello strumento, premendo sulla base dei ciuffi, tagliava.

Come punizione il sangue gli piaceva: noncurante, egli lo versava dalle nocche, in rivoli sul collo, come macchie sulle vesti.

Serenity comprese di non avere più intenzione di ospitare un martire delirante. Si concentrò sulle proprie mani chiuse a pugno e, in un istante, diede vita a un semplice utensile.

Sian di Àven si tese, trafitto a schiena rigida. Per lui l'energia benefica che pervadeva la Luna era ancora il segno di una minaccia puntata alla gola.

A lei non importò più: lo aveva assecondato oltre ogni limite di sopportazione, per entrambi. Dopo un intero ciclo di lunarie passato sul suo pianeta, quell'uomo non si era ancora rassegnato al principio fondamentale che governava tutti loro.

Serenity si diresse da lui, la piccola lama con manico stretta nel pugno.

Giunse a sfiorare l'acqua con l'orlo delle gonne e allungò il braccio, offrendo lo strumento allo sguardo d'odio alieno che si posò su di lei, valutando le sue intenzioni con infinito isprezzo.

Il movimento della mano di lui fu calmo, calcolato. Prese dal suo palmo l'oggetto, lo tenne nel pugno senza guardarlo, osservando invece lei. Si accertò di farle vedere la soddisfazione che provò quando, con un rapido movimento, gettò il coltello in acqua.

Impongo giustizia, insegno ad estranei come si vive in un mondo che non mi appartiene e che neppure conosco.

Era come se lui lo avesse detto.

Era un Re, comprese senza più dubbi Serenity. L'arroganza delle sue azioni e delle sue convinzioni era possibile, davanti a una Regina come lei, solo per un regnante che fosse convinto di essere un suo pari. Privo di forza com'era, egli conservava ugualmente la dignità che ogni sovrano o sovrana doveva portare in sé, quale anima del proprio pianeta.

Ma sulla Luna egli era un ospite. Umile personaggio comune, se lei decideva di trattarlo come tale.

Lo straniero era un Re senza pianeta, che invocava implorante il perdono di un mondo lontano.

Fu solo per pietà che Serenity decise di essere clemente con lui, ma non per questo si arrese. Osservò il luccichio dello strumento che si era posato sul fondo dell'acqua e mosse veloce la gamba, poggiando il piede in avanti, sul pavimento, e dandosi il giusto slancio. Col corpo disegnò in aria un arco che sparì nel fresco della fonte.

Acqua, dolce acqua in cui non vi erano regine o potenti, solo respiro e silenzio.

Aprì gli occhi e dimenticò il proprio abbandono. Si spinse verso il basso, sino a chiudere tra le dita l'impugnatura dell'utensile che aveva creato secondo le credenze dell'alieno. Egli desiderava una lama? Lei gliene aveva data una e ora Sian di Àven, in una maniera o nell'altra, ne avrebbe fatto uso.

Riemerse. Nuotando, tornò davanti a lui, imponendo ai suoi occhi la vista del coltello, un dono forzato che doveva essere accettato.

Fu un attimo, un errore: per sollevare il braccio sopra l'acqua smise di sostenersi coi muscoli e lo fece col potere.

Allertato, lui l'afferrò per la spallina della veste e la trascinò verso di sé, chiudendola nella morsa delle gambe. Così la tenne fuori dall'acqua, con la punta della lama che toccava la sua gola scoperta.

"Riòndas àisami, àisanemisra." Il coltello tagliò, entrò sottopelle. "Làren sa àcarisca. Carìs... Carìs, mèsa."

Un soffio in più e la lama avrebbe reciso il vaso sacro, il tubo di carne morbida che proteggeva il percorso vitale del sangue verso la testa. Sarebbero stati sufficienti pochi momenti: forse non sarebbe riuscita a comandare alla pelle di ricompattarsi in tempo, forse la sua mente si sarebbe spenta prima. Il suo termine poteva giungere... ora.

Eccolo il suo riposo, in pace, nella fonte del suo giardino. Le rose, il loro profumo lontano nelle narici. Il suo corpo nell'acqua fresca, dove non sarebbe mai stata ritrovata. Il riposo nella culla della sua Luna, che non aveva amato abbastanza da vivere.

Deglutì e accettò il dolore del taglio come la giusta punizione per una regina che non meritava il proprio pianeta. Poi mosse il braccio per allontanare la mano di lui, la protezione di potere già pronta a difendere tutto il suo corpo. Sian di Àven sciolse la presa prima di lei.

Serenity galleggiò all'indietro. Il sangue della ferita sul collo andò a mischiarsi ai rivoli d'acqua che le cadevano dai capelli.

Con un dito, chiuse il taglio sulla pelle.

Uno sciabordio si abbatté su di lei con un'onda lieve: Sian di Àven era entrato in acqua, la lama che l'aveva ferita in mano, tesa verso di lei.

"Carìsmi." Appoggiò la schiena contro il bordo della fonte e annuì, umile. "Carìsmi. Sànaa." Lui concordò con un inespresso proposito e sollevò il capo, scoprendo il collo chiazzato di peli biondi e sangue. "Sànaa" ripeté, insistendo nell'aprire verso di lei il palmo col coltello.

Le offriva, capì Serenity, la stessa punizione finale che era stato sul punto di infliggerle.

Così termina anche questo, pensò lei. Chiuderemo la vita inutile di un uomo inutile, che non trova più ragioni per esistere.

Prese la lama e nuotò verso di lui. Si sostenne anche con il potere, di proposito, osservando il modo in cui Sian l'alieno accettò rassegnato di non contrastarla più, convinto di non avere più un motivo di farlo.

"È un primo passo" sussurrò lei, teletrasportando nel palmo della mano libera un velo d'unguento. Glielo spalmò sul viso prima che lui potesse opporsi, sentendolo tremare per lo sforzo di controllarsi. Gli schiacciò la testa di lato con un palmo aperto, studiando la maniera migliore per far scivolare il filo della lama sulla sua guancia.

"Fa' silenzio" gli disse, quando percepì che egli stava per parlare e farneticare di nuovo di riòndas e àisanee che non significavano nulla sulla Luna.

Non lo avrebbe ucciso. Sarebbe stata la sua punizione, se insisteva tanto nel cercarne una.

Sarebbero sopravvissuti entrambi, a forza se necessario, fino a che non fossero tornati umani, capaci di non guardare alla morte come a una soluzione.

Come sovrani, rappresentavano l'ordine nel cosmo. Spettava a loro combattere contro il caos, invece di diventarne lo strumento.

Dovevano vivere. Avevano qualcosa per cui vivere.

La mia gente.

La mia Luna.

Sollevò gli occhi al cielo e passò delicatamente la lama sulla pelle di lui, senza ferirlo.

Sei la mia Luna, il mio pianeta. Per il momento in cui mi sono arresa... Perdonami.

Riuscì a non piangere.

 

CONTINUA

 


 

NdA: sarà una storia in tre parti -_- . O quattro? Se non riesco a terminare in altri 30KB la loro storia, le parti saranno quattro.

Mi sono accorta di essere arrivata alla stessa lunghezza del primo capitolo con questa seconda parte e che... andava bene fermarsi qui.

Serenity in questo capitolo prova a comunicare con Sian e finisce col comunicare molto a se stessa.

Cosa pensate di lei? E di lui?

Le reazioni di Sian e le sue motivazioni non sono ancora chiare, spero di riuscire a farvi capire bene la ragione di tutte le sue azioni.

 

ellephedre

 

 

   
 
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