La pioggia cadeva con un suono delicato e ritmico, quasi un canto armonioso, andandosi a confondere tra le fronde degli alberi, il grigio uniforme del cielo, e gli occhi bianchi che la osservavano da lontano, attraverso il vetro appannato della finestra.
Gli appartamenti della Casata Principale erano grandi e spaziosi, in legno liscio e pregiato: tutto esprimeva lo sfarzo e l’orgoglio di quello che da sempre veniva definito il clan più potente di tutta la Foglia, i detentori del letale byakkugan, e l’arte marziale del juunken, che ti uccide gentilmente, senza neanche toccarti, mentre i tuoi organi vanno in pezzi.
Eppure, quella non era la sua forza, non era quello il clan a cui apparteneva. Non poteva dire di appartenere a nessuno, perché nessuno poteva dire di desiderarla.
Hinata osservava con atona indifferenza il tetro paesaggio autunnale, dove
il giardino semplice ed elegante appariva triste e monotono, spoglio e sottotono.
Nella piattezza e nell’immobilità che vedeva, un improvviso movimento
colpì la sua attenzione. Il vetro era opaco e rigato dall’acqua,
impediva la sua visuale, e si sarebbe sentita sciocca ad utilizzare il byakkugan,
per soddisfare la sua inutile e ingiustificata curiosità. Si avvicinò
alla superficie fredda, sforzando la vista come poteva. Le fronde si muovevano,
alcuni rami vibravano sotto la forza dei colpi inferti ai tronchi degli alberi.
A Hinata non servì molto tempo per comprendere: C’era chi, sotto
la pioggia battente, si stava allenando proprio nella fitta boscaglia che circondava
la proprietà degli Hyuuga.
Poteva trattarsi di Hanabi, forse. Loro padre la costringeva sempre più
spesso a massacranti ed intensive sessioni dall’allenamento, e di certo
non si sarebbero fermati davanti alla pioggia.
Si accorse in quel momento che non sapeva. Non sapeva cosa sua sorella facesse
durante le lunghe giornate, dove fosse in quel momento, come si sentisse e cosa
provasse.
Erano sorelle, eppure non rappresentavano nulla più che ombra l’una
nella vita dell’altra.
Mi disprezzi anche tu, non è vero?
In realtà non glielo aveva mai chiesto. Forse per paura della risposta.
Forse perché, semplicemente, non gli importava.
Non gli importava venir considerata debole, non gli importava di sembrare sciocca
e frivola, non c’era niente che la legasse davvero a quei luoghi: non
una pietra, non un oggetto, non un volto le era caro. I legami di sangue, non
bastavano. E non le interessava se l’avrebbero vista, e l’avessero
considerata pazza. Perché Hinata spalancò la finestra, lasciando
entrare la pioggia e l’aria umida, satura di odori. Il silenzio non tradiva
la presenza di nessuno, ma lontano, da qualche parte, poteva ancora essere visto
il muoversi dei rami, lo stormire delle fronde e degli uccelli che s’alzavano
in volo, di tanto in tanto, scacciati dal proprio nido. Con un salto agile si
portò sull’erba soffice del prato, fuori dal tepore opprimente
di quelle mura. L’acqua era fredda, e il leggero kimono non le impediva
di rabbrividire, mentre le gocce si andavano a insinuare fra i suoi capelli,
sulle sue ciglie, negli interstizi del collo e del viso. Tuttavia, Hinata trovò
che non era una sensazione spiacevole, perché, per la prima volta, si
sentiva libera.
I suoi piedi producevano un rumore appena udibile, che quasi si confondeva con
il cadere ritmico della pioggia. Camminava ad occhi chiusi, seguendo con l’udito
la traccia che l’avrebbe portata a scoprire che si nascondeva fra quei
rami. Uno, due, tre, cinque passi. L’attrito dell’aria
sugli shuriken era perfettamente udibile, insieme al rumore della lama che andava
a infrangersi contro la parete arborea. Era sulla giusta strada. Avanzò
ancora. Dieci, undici, quindici passi. Adesso si era aggiunto l’ansare
di un respiro, il suono di altri passi sulla terra bagnata, il tintinnare del
metallo dei kunai nella borsa. Doveva essere lì… Solo un altro
po’, solo qualche altro metro: venti passi, e ogni suono cessò.
Solo quello stesso respiro, ma trattenuto e meno pesante. Niente più
scarpe sulle pietre, chiunque fosse adesso era immobile. Le armi erano state
lasciate a sé stessa, il tronco non rimbombava più dei colpi,
e ogni movimento sembrava essere cessato all’improvviso.
Comprendendo con improvviso terrore, Hinata spalancò gli occhi, per ritrovarsi
a di fronte a uno sguardo identico al suo. Senza accorgersene si era avvicinata
un po’ troppo.
Neji Hyuuga la fissava con malcelata sorpresa, senza però rinunciare
a quell’aria disprezzo, quel fastidio che le sue fattezze assumevano sempre
quando la figura della primogenita della casata principale entrava nel suo campo
visivo.
Non sapendo cosa dire o fare, entrambi rimasero immobili, a guardarsi senza
sapere neanche il perché. Gli occhi di Hinata erano fissi sui suoi, lei
non abbassava lo sguardo come aveva fatto in passato. Eppure, non c’era
traccia di rancore o risentimento nel suo sguardo, ma solo quella placida, tranquilla
rassegnazione di chi aveva accettato il suo destino, ed era stata capace di
andare oltre l’ansia e la tristezza, la perdita e il dolore.
Bastò quello a rendere gli occhi bianchi di Neji ancora più affilati,
il suo sguardo ancor più rancoroso. Se avesse potuto parlare, avrebbe
sicuramente detto tre parole: E’ colpa tua.
E la risposta, sarebbe potuta essere solo una.
Mi dispiace.
Il byakkugan di Neji era ancora attivato dall’allenamento, e adesso sembrava
scrutare Hinata con inquisitoria superiorità, quasi a volerla spaventare
e intimidire, farle pesare tutta la sua inadeguatezza, esattamente come in passato.
E forse, questa volta, era troppo.
Non ne poteva più di sentirsi sempre e comunque disprezzata, rifiutata,
derisa.
Per quanto si sforzasse, non c’era nulla che potesse cambiare quella situazione.
E adesso, quegli occhi…
Era troppo. A volte, le sembrava davvero troppo. Non era brava come Naruto,
cercava di rialzarsi dopo ogni colpo, ma forse la sua era una forza fittizia…
Un pretesa di coraggio che voleva servire a convincere prima di tutti, sé
stessa.
Hinata abbassò lo sguardo, incapace di sostenere ancora quell’odio.
Perché poi? La tua opinione non cambierà, non è così,
Neji? Non conta quello che faccio, quello che dico, quello che sono: è
il mio sangue, il mio destino a parlare per me. E racconta di odio. E racconta
di morte, di infelicità.
La pioggia andava diradandosi, il cielo incominciava a schiarire.
I suoi passi adesso erano pesanti e rumorosi, il legno dei sandali si rigava
e scheggiava sui ciottoli e sulla ghiaia mista al terreno. Il fango le schizzava
il vestiti, e peggiorava il suo aspetto ulteriormente compromesso dall’acqua
e dalla lunga ricerca.
Neji la guardò allontanarsi tenendo gli occhi su di lei, finché
non la vide diventare nulla più che una macchia sfocata, confusa col
verde degli alberi.
I kunai ripresero a conficcarsi sulla superficie legnosa, come se nulla fosse
veramente successo.
La corsa scomposta di Hinata la portò alla stessa finestra da cui era
uscita, sperando di potersi reintrodurre in casa senza essere vista, e risparmiarsi
gli sguardi di disapprovazione della servitù e di si suo padre.
Ma la trovò chiusa. Alzò gli occhi, sapendo cos’avrebbe
incontrato.
Hizashi, capo-famiglia del clan Hyuuga in primo luogo, e suo padre in secondo,
la fissava con uno sguardo indifferente, freddo, privo di aspettativa o delusione.
Sapeva di non aver tradito alcuna aspettativa, ed era quello che la feriva di
più.
A passi lenti, misurati, si avviò all’ingresso principale. Era
bagnata e sporca, e i capelli le cadevano pesantemente sul viso: così,
anche se tutti le avrebbero gettato un occhiata di scherno, nessuno si sarebbe
accorto dei pugni serrati, e delle lacrime di rabbia che le scendevano sul viso.
* * *
Questa fanfiction mi è stata commissionata da Kimmalfoy.
Sarà una Neji/Hinata di non più di quattro capitoli.
Per richiedermi una fic, ci sono le condizioni sul mio profilo.
Fatemi spaere che ne pensate
suzako