Funerali.
Lei
era abituata ai funerali.
Quante
volte era già andata ad un funerale per mandare alla Soul
Society l’anima del
defunto?
Tutte
quelle persone che piangevano disperate, gli sguardi vuoti e vacui,
qualcuno
che si soffiava il naso, altri, più forti, che rimanevano in
piedi in silenzio.
Chissà
perché gli umani facevano quel rituale, insomma lo capiva
anche lei che in quel
modo la separazione dal defunto diventava più difficile per
tutti.
Perché
i funerali volevano dire “addio”.
E
addio è il saluto usato per il congedo ed è
definitivo.
Ormai
era una specie di rito per lei andare ai funerali, era più
facile mandare nel
suo mondo l’anima l’ultima volta che avrebbe visto
i suoi parenti, in modo da
non far perseguitare nessuno.
Non
le era mai pesato andare all’ultimo addio di persone che non
aveva mai
conosciuto, non le era mai pesato vedere tutte quelle lacrime.
Aveva
visto tanti funerali lei, Rukia Kuchiki, shinigami della tredicesima
compagnia.
Era
forte, non si era mai piegata a versare una lacrima per qualche
defunto, perché
lei era una dea della morte e non poteva abbassarsi a versare una
lacrima per
ogni morte che vedeva. Sarebbe morta lei stessa in quel caso.
Eppure
non avrebbe mai potuto dimenticare il primo funerale che vide,
perché in quel
funerale pianse anche lei. Si concesse una sola lacrima, fu
l’unica volta che
lo fece, capendo da quel giorno che era meglio per lei restare
distaccata da
tutto e tutti.
Eppure
ancora oggi quando ripensava a quel primo funerale si sentiva morire.
Ricordava
ogni cosa successa quella mattinata.
Era
il funerale di una madre, morta per colpa di un hollow, lo poteva
percepire
dall’odore che infestava quella bara.
La
sua anima non c’era più e lei doveva andarsene, lo
sapeva perfettamente. Eppure
rimase quel giorno, rimase a studiare quegli umani che davano
stupidamente il
loro ultimo addio ad un’anima che era già stata
portata via.
Erano
curiosi gli umani, delle creature così terribilmente
affascinanti per lei,
forse perché lei era morta molto piccola e non aveva mai
potuto vivere come loro.
In
quel funerale c’erano le due figlie e il figlio di quella
donna defunta e anche
il marito.
Era
una famiglia devastata, con gli occhi gonfi di lacrime già
versate e il cuore
vuoto. Era come se il centro del loro universo fosse stato sradicato e
portato
lontano.
Rukia
rimase colpita dal figlio, un ragazzino con i capelli di un colore
assurdo. Lui
sembrava una pecorella smarrita, che non sapeva più dove
andare e il perché
continuare a vivere. Fu quella la prima volta in cui Rukia
desiderò abbracciare
quel corpicino, per dirgli che sarebbe riuscito ad andare avanti, che
non era
finito il mondo e che prima o poi avrebbe trovato qualcuno che avrebbe
ricolmato il vuoto lasciato dalla madre.
Subito
si era data mentalmente della stolta, lei era una dea della morte, non
doveva
provare sentimenti così dannatamente umani.
Eppure
la notte l’immagine di quel marmocchio perduto la torturava,
facendole
desiderare di rincontrarlo un giorno e poterlo stringere a se e farlo
sentire
al sicuro.
Fu
probabilmente per quella ragione che quel pomeriggio mentre Ichigo era
seduto
alla scrivania a studiare lei gli abbracciò teneramente la
schiena, così grande
rispetto al suo corpicino minuto.
Eppure
in quell’abbraccio voleva passare tutta quella protezione che
tanti anni prima
voleva donare a quel ragazzino a quel funerale.
Fu
forse anche per quel motivo che bisbigliò
all’orecchio del ragazzo:
“Ichi,
ora ci sono io. Riprendi a sorridere, la tua strada è
insieme a me.”