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Autore: Ms_MartyReid    08/05/2012    36 recensioni
- «Lei da cosa scappa?».
Mi volto verso la signora al mio fianco, che mi sta guardando con vago interesse. Deve avere sessanta o sessantacinque anni, i capelli neri sono striati d’argento e gli occhi blu sono più vivi che mai. Mi ci specchio dentro e quasi non mi riconosco.
«Scusi?» mormoro con voce roca, mentre un colpo di tosse mi fa bruciare la gola e il treno riparte.
«Lei sta scappando» ripete. «E io le ho chiesto da cosa».
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note pre-lettura:
La OS l'ho scritta ascoltando quella meraviglia de 'l'ultima notte al mondo' di quell'uomo fantastico che è Tiziano Ferro.
Si capisce che lo amo?! Perchè lo amo u.u
No, vabbè, niente da dire. Solo... Mi sento molto come Harry, in questa OS. In lui c'è molto di me come in me ci sono molte delle sue paure.
Perciò, mi sono un pò emozionata scrivendo.
Vabbeeeeeeene, vi lascio leggere! Fatemi sapere che ne pensate, alla fine, eh!
Ciao dolcezze *-*

- Peace, love and love yourself like Zayn ("...'cause you're beautiful, no matter what they say!") -













L’ULTIMA NOTTE AL MONDO


Il freddo mi sta congelando le dita dei piedi, chiusi in delle vecchie All Star bagnate dalla neve. Osservo il mio respiro che si condensa in piccole nuvolette mentre il treno annuncia il suo arrivo sferragliando sui binari.

Non mi sento per niente bene. Devo avere la febbre, probabilmente. Diciamo pure che girare in inverno con una felpa e dei jeans leggeri non è proprio il massimo per non ammalarsi, ma non mi va di tornare a casa a cambiarmi. Non mi va proprio di tornare a casa, a dir la verità.

Quando il treno si ferma, le porte si aprono proprio di fronte a me e io vengo travolto da una massa di persone che vanno di fretta e mi pestano inconsciamente i piedi, senza neanche vedermi. Mi trascino nel vagone caldo e trovo miracolosamente un posto libero. Mi lascio cadere sul sediolino e poggio la fronte contro il finestrino.

Guardo i fiocchi di neve quasi trasparenti dall’altro lato del vetro e non riesco a capire che sento davvero. Non riesco a ragionare lucidamente, mi sento come ubriaco, anche se non bevo un goccio da almeno un mese. Mi fa male la testa e i rimorsi mi stanno mangiando vivo. Prendo un grosso respiro, ricordando a me stesso che non sto sbagliando.

«Lei da cosa scappa?».

Mi volto verso la signora al mio fianco, che mi sta guardando con vago interesse. Deve avere sessanta o sessantacinque anni, i capelli neri sono striati d’argento e gli occhi blu sono più vivi che mai. Mi ci specchio dentro e quasi non mi riconosco.

«Scusi?» mormoro con voce roca, mentre un colpo di tosse mi fa bruciare la gola e il treno riparte.

«Lei sta scappando» ripete. «E io le ho chiesto da cosa».

«Io non sto scappando» ridacchio arrossendo.

«Come si chiama, giovanotto?».

«Harry. Mi dia del tu, però».

«Harry, sono tre giorni che vai avanti e indietro col treno, scendendo e salendo a fermate e orari diversi, con gli stessi vestiti fradici addosso e l’aria rassegnata. Lo so perché io prendo questo treno ogni giorno e devo aspettare dieci fermate per scendere, ti ho visto».

Scruto quella signora diffidente e intimorito. Ma poi lei mi sorride, rassicurante, e io mi dico che non la conosco e che ho pur bisogno di parlare con qualcuno. Mi volto di nuovo verso il finestrino e ci poggio la testa.

«Ho lasciato la mia ragazza» dico.

«Oh, capisco...».

«Perché è incinta».

La signora si zittisce e io ho paura di guardarla e scoprire anche nei suoi occhi uno sguardo disgustato. Già mi sto pentendo di aver cominciato a parlare, ma ora tanto vale che spieghi anche le mie motivazioni.

«Io e Hope ci conosciamo da quando avevo diciotto anni» bisbiglio, e quasi riesco a vivere di nuovo quel momento. Quando Louis mi aveva presentato sua cugina, dicendo che era venuta a Londra per vivere lì. Quando lei mi aveva sorriso, sistemandosi una ciocca di capelli biondo cenere dietro l’orecchio. Quando le avevo stretto la mano e Louis era scoppiato a ridere. Quando lei era andata nella sua classe e il mio amico mi aveva detto che avevo proprio la faccia da pesce lesso.

«Dopo neanche due mesi, le avevo chiesto di uscire decine di volte. Ma lei non si fidava, diceva che le andavo ancora dietro solo per testardaggine, solo perché mi attraeva fisicamente e avrei voluto aggiungerla alla mia lista delle conquiste». Scuoto la testa e sospiro. «Che idiota, la verità è che non è solo bella fuori, ma anche dentro. Hope è una di quelle persone che sorridono sempre, che non conoscono il rancore, che credono in sé stesse troppo o troppo poco, che si fissano con questa o quella canzone e la cantano per settimane a squarciagola, per intenderci. Mi piaceva così tanto che una sera mi presentai a casa sua arrampicandomi sul balcone e bussai alla sua finestra fino a che non si decise ad aprirmi, ridendo a crepapelle per la fatica che avevo fatto e che tenevo dipinta in faccia».

Non sono sicuro di essere ancora nel treno, accanto alla signora dagli occhi blu, ma continuo a parlare, immergendomi in ricordi e parole che credevo perse.

«Passammo la serata a guardare film su film e, alla fine, quando le chiesi un’altra uscita per il sabato successivo, lei mi rispose di sì. Mi piegai a baciarla all’improvviso, d’istinto, mentre diceva che avrebbe dovuto scriverlo da qualche parte per non dimenticarlo». Scoppio a ridere solo io, come un pazzo. «Mi diede uno schiaffo. E quando mi allontanai lei disse che non dovevo permettermi di interromperla mentre parlava, in nessun modo. Poi, si alzò sulle punte dei piedi, mi infilò le mani fra i ricci e mi baciò, ancora e ancora».

Sulle labbra screpolate avverto ancora quel sapore dolciastro di miele che Hope si è sempre portata dietro. Realizzo d’un tratto che mi manca. Così, senza preavviso, un’ondata di dolore mi investe, costringendomi a serrare gli occhi. Il fiato mi si è mozzato, non riesco più a respirare, come se fossi in caduta libera in un burrone interminabile. Hope è la mia aria, e io continuo a non volerlo capire.

«Se ti manca così tanto, allora…».

«A ventidue anni» interrompo la signora, alzando un po’ la voce e tossendo, «stavamo ancora insieme. Una sera, dopo aver fatto l’amore a casa sua, lei aveva sospirato. “Sai una cosa, Harry?” mi aveva detto. “E’ da un po’ di tempo che penso a… Sai, tanti nostri amici si sposano e la cosa divertente è che noi, che stiamo insieme da più tempo, neanche ci pensiamo. Cioè, tu…”. Per poco non mi veniva un infarto».

Ridacchio mentre, sotto le dita, sento ancora la morbidezza della pelle di Hope. Penso ai suoi occhi immersi nei miei, verde nel verde, e mi sento stupido. Forse non avrei dovuto lasciarla, forse ho troppo bisogno di lei.

«Io odio prendere decisioni, impegnarmi. Odio essere legato seriamente a promesse di qualsiasi genere e odio avere doveri e pesi sulle spalle. Così, le ho proposto di convivere. Una via di mezzo fra il fidanzamento da adolescenti e il matrimonio. Lei, che mi conosce, ha accettato, cercando di nascondere un sottile dispiacere. Ho finto di non vedere la sua delusione e ho trovato una casa ad un buon prezzo in periferia. Ho trovato anche lavoro come ragioniere, un posto sicuro con uno stipendio decente. Andava tutto bene, per anni è sempre andato tutto bene».

Non è esattamente vero, i litigi c’erano stati in quei tre anni, e ogni volta Hope sembrava più stanca di me e dei miei comportamenti, più amareggiata. Sono sempre stato troppo infantile, troppo poco serio, e lei, nonostante la costante allegria e la spensieratezza, è sempre stata più matura. Probabilmente si è chiesta spesso perché non mi volessi impegnare per davvero con lei, quando poi le dicevo che l’amavo più della mia vita. Hope non capisce, Hope non ha mai capito fino in fondo quanto mi faccia paura tutto questo. La vita, l’amore. Tutto troppo grande, troppo difficile da comprendere appieno.

«E poi, tre sere fa, a cena, mi ha detto una cosa che mi ha sconvolto. “Ho smesso di prendere la pillola” ha annunciato, “e stamattina ho fatto il test di gravidanza”. L’ho guardata con la forchetta sospesa a mezz’aria e la bocca socchiusa. “Sono incinta” ha mormorato come nulla fosse, scrutando la mia reazione. “Sei il suo papà” ha detto dopo qualche attimo di silenzio in un soffio appena udibile, rivolgendomi un sorriso luminoso e bello e sfiorandosi la pancia piatta. C’è stato un silenzio assordante, poi mi sono alzato dalla sedia. E sono andato via. Proprio come mio padre fece con mia madre, sono scappato da lei. E… dal suo bambino».

«Vostro».

«Che?» chiedo sobbalzando. Oddio, mi ero scordato della signora.

Lei tira le labbra in un sorriso triste. «Il vostro bambino, non il suo».

La guardo soprappensiero, con gli occhi lucidi per la tosse e per le lacrime. Mi da fastidio essermi aperto tanto, eppure mi sento quasi meglio.

«Tuo padre ha lasciato tua mamma quando ha saputo di te?» mi chiede la signora, e lo stomaco mi si chiude.

Annuisco. «L’ho sempre odiato. Non l’ho mai conosciuto, ma è la persona che più odio al mondo. Mamma non meritava di essere lasciata» sibilo, stringendo i denti e pensando agli sforzi che mia madre ha dovuto fare per tirarmi su da sola.

La signora dagli occhi blu si alza e indica le porte del treno, annunciandomi che è quasi arrivata la sua fermata. «E Hope?».

«Cosa?».

«Lei si merita di essere lasciata sola perché tu hai paura? Se è così, non credo che tu l’abbia mai amata, giovanotto».

Sorridendo con tenerezza, come se le avessi appena detto che ho aiutato dieci vecchietti ad attraversare una strada troppo trafficata, mi batte una pacca sulla spalla.

«Nella mia vita ho avuto paura un sacco di volte. Quando il mio primo marito è morto, per esempio, o quando il mio bambino si è preso l’influenza ad appena quattro mesi di vita. Ma il terrore è arrivato quando ho dovuto prendere le decisioni importanti, quelle che mi avrebbero cambiato la vita. Quando capita, di solito chiudo gli occhi. Prendo un grosso respiro e lascio che mi guidi il cuore, perché la mente è troppo razionale per i miei gusti. Però attento, Harry. Se il cuore è annebbiato dal panico, potremmo diventare ciò che abbiamo sempre odiato».

Concluso il suo discorso, la signora si avvia verso le porte. Il cuore mi batte troppo veloce in petto e, all’improvviso, mi vedo davanti a un bivio. La paura mi blocca i piedi a terra, ma devo scegliere che strada prendere. Allora chiudo gli occhi e inspiro profondamente.

Penso ad una vita con Hope e con un bambino.

E le scene mi si susseguono davanti agli occhi. Sposarsi, avere un posto fisso, svegliarsi ogni notte alle due perché il bimbo sta piangendo, abbracciare Hope e bisbigliarle che mi alzerò io, questa volta, stringere una piccola creatura fra le braccia e poi guardarla crescere, mentre gli anni passano e mia moglie si preoccupa delle prime rughe senza capire che è ancora splendida. E poi i problemi economici e le discussioni familiari e la fatica che negli anni è sempre più pesante e le gambe che sembrano cedere all’improvviso.

Poi penso ad una vita senza Hope.

E non riesco a vedere nulla, solo un vuoto enorme, le emozioni chiuse in un cassetto, i rimorsi che mi spingono giù per un burrone. E mi immagino un bambino che pensa a me come io ho sempre pensato a mio padre. Come ad uno stupido, un vigliacco senza palle.

Il treno si ferma e le porte si aprono. Faccio un veloce calcolo e capisco che, da quella fermata, mancano venti isolati a casa mia. A casa nostra. Le porte stanno per chiudersi, il tii tii si fa più insistente, annunciando che mancano pochi secondi alla ripartenza del treno.

E io scatto in piedi.

Mi faccio spazio a gomitate fra la gente, spintonando tutti e fiondandomi fuori dal treno appena in tempo. Cerco con gli occhi la signora, ma lei sembra scomparsa. La trovo all’uscita e la stringo in un abbraccio. Lei si spaventa e per poco non mi prende a borsettate, poi mi riconosce e sorride.

«Magari hai fatto la scelta più giusta» bisbiglia, ma la sento appena perché io, troppo di fretta per poter attendere il prossimo treno, sono già scomparso fra i passanti.

Corro per i marciapiedi, mentre la gente si ammassa sulle vetrine in cerca dei regali di Natale fatti rigorosamente all’ultimo minuto e i capelli mi si riempiono di neve. Sono stato uno stupido. Un idiota, un coglione, un bastardo. Ho sempre detto di amare Hope e poi l’ho lasciata in fretta e furia quando lei mi ha detto una cosa che avrebbe dovuto rendermi felice. Mentre sto volando fra la gente, vedo un piccolo negozio dall’insegna blu notte. Freno e lo guardo, dubbioso solo per un attimo, prima di cercare determinato la carta di credito fra i pantaloni.


Dopo meno di un’ora, sono arrivato. Prendo un grosso respiro e mi avvicino alla porta. Tiro fuori la chiave dalla tasca della felpa, ma poi mi chiedo se per caso Hope non abbia cambiato la serratura. Faccio per avvicinare la mano alla toppa quando d’improvviso la porta si spalanca, e lei è lì.

Ci guardiamo in silenzio per qualche attimo, i suoi occhi verde scuro nei miei verde chiaro. Poi, lentamente, Hope allunga le dita verso il mio viso. Uno scatto, e lo schiaffo che mi da sulla guancia me la fa bollire di dolore. Gemo appena, ma temo che i segni resteranno per almeno una settimana.

«Stronzo» mi sputa arrabbiata, gli occhi pieni di delusione.

«Okay, Hope, ascolta» mormoro tossendo.

«Cioè? Sei scappato di casa, sparendo per giorni, quando mi hai saputa incinta, e ora dovrei pure ascoltarti?» sbotta, e io capisco che no, non potrei mai andare avanti senza vedere più le sue smorfie.

«Mi dispiace, okay? Sono tornato per restare, per sempre. E puoi cacciarmi quanto ti pare, io ti tormenterò fino a che non mi aprirai!» le dico, sentendomi decisamente in colpa. «Ne sono capace!».

Hope sospira e si ravvia i capelli biondi. «Lo so. Che vuoi?».

«Ecco…». Prendo un grosso respiro e cerco il suo sguardo. «Nella mia vita, mi hanno sempre insegnato a scappare. Per quanto io voglia negarlo, sono sempre stato uguale a mio padre, in questo. Un vigliacco. Sono scappato dal matrimonio cavandomela con la convivenza, sono scappato da tuo… nostro figlio, cercando di cavarmela solo con me stesso. Ma non ce l’ho fatta, non posso farcela».

«E perché non potresti farcela?» mormora Hope appoggiandosi allo stipite. Capisco dai suoi occhi che le mie scuse le bastano, sa già che stare senza di lei per tre infiniti giorni mi ha fatto terribilmente male, mi conosce troppo per non saperlo. Ma ha ancora bisogno di quelle conferme che io voglio darle, per una volta.

«Perché ti amo. Più di me stesso, più della mia vita, perché io vivo di te» spiego, ripetendo le esatte parole che mi detta il cuore e guardando le sue labbra che si arricciano in un sorriso delicato. «Sai che giorno è oggi?».

Lei si gratta confusa la guancia. «Giovedì?!».

«Venti dicembre duemiladodici» la correggo. «Pare sia l’ultima notte al mondo».

«Non abbiamo mai creduto a queste cose, però».

«Già, ma se fosse vero?! Se domani finisse tutto?! No, Hope, non voglio pentirmi di non esserti stato accanto proprio stasera. L’ultima notte al mondo io voglio passarla con te e con nessun altro, e magari anche il resto dei miei giorni. Non mandarmi via».

Hope mi fissa, si sfiora la pancia come a voler chiedere un consiglio al bambino, mi rivolge uno sguardo di sottecchi, incuriosita, e io, bagnato e infreddolito, mi avvicino a lei.

«Non mi lascerai di nuovo all’improvviso, vero?» mi bisbiglia quando le nostre labbra sono a pochi centimetri, e io sento sulla pelle tutto il dolore delle sue parole. Le ho fatto troppo male, andando via, ma giuro a me stesso che le curerò dolcemente le ferite fino a che non guarirà del tutto.

«Mai più. Non posso» le assicuro sfiorandole la fronte con la mia, poi afferro la scatoletta che odora ancora di nuovo dalla tasca dei pantaloni e gliela apro sotto al naso. Lei mi fissa inebetita, e forse è la prima volta in vita mia che la vedo senza parole. Respiriamo appena, entrambi col cuore che batte forte come due quindicenni che si confessano una cotta.

Dopo qualche istante di silenzio, rotto solo dai nostri respiri irregolari, la stringo a me e il suo profumo mi fa stare bene, mi assicura che ho appena fatto la scelta più giusta e bella di tutta la mia esistenza. Mi avvicino al suo orecchio e sorrido, mentre la sento rabbrividire.

«Credo di volerti sposare, Hope».

  
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