I raggi della luna filtravano svogliatamente fra le fitte
fronde degli alberi, i quali, disposti ordinatamente lungo il viale principale
del bosco, permettevano al suolo di truccarsi con pennellate irregolari e
argentee. I sassolini che erano
riusciti ad arrampicarsi sulle collinette, per quanto si sforzassero di
rimanere ben saldi nella loro postazione, rotolavano rovinosamente verso il
basso, prede della forza d'inerzia.
Inaspettatamente una altezzosa civetta spezzò il tacito
silenzio, librandosi in aria ad ali spiegate e posandosi, dopo alcune piroette
su se stessa, ai piedi di un pergolato di spine e more.
Scrutava con circospezione tutto ciò che aveva intorno,
assicurandosi che la situazione fosse sotto controllo al fine di serrare le
enormi iridi e rilassarsi. Gonfiava le piume,
sempre con aria altera, riparandosi dal freddo della notte quando, quasi
per dispetto, una mora le cadde sul capo scomponendo il suo rigore imperturbabile.
La civetta, evidentemente contrariata, non perse occasione per replicare,
schioccando violentemente il becco verso quel frutto di bosco, ormai immoto al
suo fianco. La mora, dal canto suo, non ebbe l'opportunità di rispondere alle
provocazioni poiché, come il volatile riprese il volo, lo spostamento d'aria la
spinse nelle gelide acque del torrente.
Diventata una momentanea compagna di giochi di un gruppo
di girini, continuò il suo viaggio oltrepassando piccole cascate, nuotando in
pozze naturali e zigzagando fra gli ostacoli del percorso. La sua corsa
accelerò fino a diventare velocissima, difficile da seguire se non si possedeva
un'innata attenzione per i particolari; poi però, improvvisamente, fu bloccata.
La piccola pallina di bozzi viola rimbalzò su qualcosa, si fermò e riprese il
cammino accarezzando leggermente il suo bordo, disegnando la sua silhouette,
rientrando fra l'avvallamento creato dallo spazio tra pollice e indice,
sbattendo poi sul medio e infine schizzando via, verso la foce del fiume.
Il penetrante odore della vegetazione inumidita dalle
temperature notturne nascondeva l’agrodolce olezzo di sangue che, lentamente, appesantiva
l’ambiente.
Il corpo esanime di un ragazzo appena adolescente giaceva
dimesso fra le grandi rocce che si affacciavano al corso d’acqua. Metà del suo
viso, contratto in un’espressione spaventata, era immerso in quel fiume gelido
che portava con se verso l’estuario il sangue colatogli dalla fronte. Il suo
braccio bianchiccio si sporgeva in direzione dell’altra riva, come se stesse
vanamente chiedendo aiuto alla donna nascosta sotto le fronde di un castagno.
La sua testa cadeva mollemente verso la spada che le aveva trafitto mortalmente
il ventre: i suoi piedi affondavano in una pozza di sangue e viscere.
In quel luogo, testimone di orrori e morte, il suono
ripetitivo del ruscello sembrava essere l’unica cosa viva. Celata dalla luce
argentea della Luna, una figura indistinta era accovacciata fra alcuni rovi.
Immobile stringeva rigidamente al petto il corpo di una bambina dai corti
capelli ricci. Delicatamente le baciò la fronte, sperando che si lamentasse
come suo solito di quelle smancerie.
Solo il fragore dell’acqua fra le rocce.
Si alzò lentamente, abbracciandola con maggior vigore,
iniziando a farsi strada fra quegli arbusti spinosi. Si trascinava nell’ombra
con cautela, stando ben attenta a fiutare ogni singolo, piccolo ed
impercettibile spostamento d’aria.
Le gambe nude della bambina le colpivano il fianco, squarciato
da una larga ferita sanguinante che sporcava di rosso la pelle della piccola; ad
ogni nuovo passo era costretta ad ingoiare urla di dolore.
Quando le spesse spine le intrappolavano lo stivale,
maltrattando il cuoio di cui era rivestito, doveva strattonarlo violentemente, facendo danzare i suoi lunghi capelli ramati sotto
quella luce lattea, dalla quale scappava furtivamente . L’ombra che le
permetteva l’anonimato si esauriva progressivamente, costringendola ad uscire
allo scoperto.
I lineamenti del suo viso erano appesantiti da una spesso
strato di fango secco miscelato a sangue che rendeva impossibile comprendere
chi fosse. Tirò la manica dell’abito
fino alle nocche sbarazzandosi, poco elegantemente, dei residui di terra sulle
labbra rosate.
Quell’odore acre ora era sempre più forte e caldo, così
lacerante da sbatterle in faccia la cruda realtà: era sola, senza un piano e
senza una meta. Stringeva imperterrita fra le braccia il corpo inerte della
cuginetta e aveva perso di vista suo padre non appena finì l’agguato.
Osservò il cadavere del ragazzo lasciarsi cullare dall’acqua;
i suoi capelli danzare su quello
specchio immacolato, la calma esalare dalla sua staticità innaturale. Rimase
ipnotizzata dalla sua mano tesa verso quella che doveva essere stata la madre o
la sorella. Qualcuno di cui si fidava e che non era riuscito a proteggerlo.
Accarezzò la testa della cuginetta.
Non sarebbe stato il suo abbraccio a riportarla in vita.
Si avvicinò al corpo del ragazzo, abbassandosi quel poco
per permetterle di far sdraiare la bambina al suo fianco.
Si girò di scatto, concentrandosi solo sulla strada da
percorrere per uscire da quel luogo maledetto. Aveva il fiatone e la vista
appannata; il fango le irritava le guance e il sudore le imperlava la schiena. Risalì
il fiume per un tempo estenuante ed interminabile finché la monotonia del suo vagare
fu interrotta da una nuvola di fumo grigio in lontananza.
“Arrivo” bisbigliò la ragazza irradiata di nuova speranza
e coraggio.
Tanta era la felicità che quasi non badava più al dolore
lancinante del fianco e alla fatica che gravava sulle sue gambe, graffiate dai
rovi. Sarebbe riuscita a raggiungere la meta, avrebbe mangiato un pasto caldo, si sarebbe
rinfrescata con un bagno e finalmente si sarebbe potuta abbandonare su un
letto.
Al culmine della salita, la vista di un enorme portone,
decorato di alloro profumato, confortò lo spirito della ragazza e sollevò
l’olfatto, provato dal fetore della morte.
La fragranza di quella pianta aromatica le fece sentire il
necessario bisogno di appoggiare la mano lungo la via sinuosa ed ingarbugliata
dei fragili tronchi incastonati nel legno massiccio della porta d’ingresso. Avvicinò
le dita al naso, assaporando il piacevole odore della sua pelle.
Sorrise, ricordando quanto le piacesse stare fra la
natura. Caricandosi di una nuova energia spinse il portone con la spalla, sperando
che si sarebbe aperto subito.
Non appena lo sfiorò, sentì il soave cigolio dei cardini accompagnato
da un cono di luce apertosi sul terreno, pronto a scalfirle lo stivale.
Entrò in un castello, completamente abbandonato.
Le insegne dei negozi , alcune delle quali decorate con
cura maniacale, dondolavano dolcemente sospinte da una leggera brezza. Delle
porte erano violentemente spalancate, mostrando quanto al loro interno la
solitudine e il silenzio si facessero compagnia.
Delusa guardò davanti a se, accorgendosi che a pochi
metri la lunga via principale si sarebbe diramava in un bivio: a destra degli
ampi scalini salivano verso la fortezza, a sinistra la strada si snodava in
viottoli irregolari.
Riprese il passo , ascoltando il frastuono del nulla, posticipando
la sua decisione ad un altro momento, quando l’irruenza di un rumore le fece
balzare il cuore in gola.
Il fastidioso fremito metallico di una lama che graffia impunemente
il muro di pietre.
Corse immediatamente fra le ombre del portico alla sua
destra, spingendosi contro la parete.
Tese le orecchie capendo che chi impugnava quel coltello si
era accorto della sua presenza.
Con ogni muscolo del suo corpo in tensione, abbandonò la
testa all’indietro, serrando i denti. Ad
ogni stridio della lama dei brividi le percorrevano la schiena , drizzandole i
capelli sulla nuca.
Arrendersi o lottare. Queste erano le alternative.
Inaspettatamente però
il rumore cessò. Attonita da quel
cambio di rotta drizzò di scatto il capo e con fare guardingo si assicurò che
non ci fosse nessuno.
La sua mente iniziava a giocarle strani scherzi.
Cautamente si staccò dal muro per riprendere a camminare,
stando bene attenta a non calpestare alcun ramoscello secco e cercando di
contenere il respiro affannoso ma ecco che un altro rumore travolse i nervi
della ragazza.
La risata di un bambino.
Il sorriso della cuginetta riaffiorò nella sua memoria.
Ebbe addirittura l’impressione che fosse di nuovo lì, attaccata al suo vestito,
pregandola di giocare ancora per poco.
Balzò allo scoperto cercando la fonte di quella risata.
Di colpo si bloccò in mezzo alla piazza.
Lo stridio del pugnale tornò, più forte di prima.
Lo sentiva vicinissimo, aveva capito che le sarebbe bastato
avanzare di qualche metro per scoprire chi fosse il proprietario di quell’arma.
Aveva paura. Era esausta.
Durante l’agguato che li sorprese al fiume, mentre si
difendeva e proteggeva sua cugina, la sua attenzione fu colpita da uno dei suoi
aggressori. Non sembrava un guerriero ma piuttosto un contadino che non vedeva
l’ora di fuggire da quel campo. Eppure, da quel che ricordava, era stato
proprio lui a scovarli ed attaccarli.
La colpa fu sua.
Un moto di ira vendicativa spinse ogni suo muscolo alla sete
di sangue. Doveva trovarlo, ora!
Quel vile era fuggito non appena ne ebbe occasione, fuggendo
dalla sua vista. Era scappato fra la folta vegetazione come un coniglio. Era
sparito. Dissolto nel nulla.
Persa nei suoi pensieri non si accorse subito che lo
stridio era nuovamente cessato. Qualcosa non andava.
Si lasciò andare lungo la parete, ispida di edera,
gustandosi una momentanea ed inaspettata tranquillità.
In quel momento, se non fosse stata così nervosa ed in
tensione, avrebbe potuto percepire il singolo movimento di una foglia staccarsi
dall’albero e danzare col vento fra le sterpaglie.
Chiuse gli occhi, illudendosi che le carezze dei suoi
capelli sulle braccia, fossero gesti delicati di una persona. Si portò la mano
al collo scendendo delicatamente sul decolté, dal quale penzolava una leggera
catenina di buon fregio.
Due mani le cinsero i polsi in una maniera così delicata
che dalle sue labbra uscì un nome che credeva di aver dimenticato.
Un sorriso le si allargò sul viso. Era passato così tanto
tempo.
Aprì gli occhi, rendendosi conto che dinanzi a lei vi era
colui che aveva aizzato l’agguato.
Lo scostò con disgusto, mettendogli violentemente una
mano intorno al collo.
Il suo sguardo non era spaventato ne tantomeno timoroso
quanto oscillava fra un sentimento di dispiacere e tenerezza. Per quanto lei irrigidisse
la presa, per quanto le sue forze glielo permettessero, lui non sembrava soffocare
. Sorrideva intenerito della sua giovane età e della sua irruenza piena di
vita.
Esausta prese fiato – che vuoi da me – gli chiese a muso
duro.
Lui, a sorpresa, le allontanò un capello dagli occhi
corrugati e minacciosi.
Una mossa che la sbigottì quanto le ammontò ulteriore
rabbia; una rabbia che non faceva altro che mozzarle il fiato, ricordandole quanto
fosse malmessa.
- Cosa vuoi da me! – scandì con maggior foga, con
sofferenza malcelata.
- Seguimi, ti dirò tutto. -
- Non ti seguirò da nessuna parte! – esclamò piena di ira,
iniziando a sentire la sua presa vacillare.
La sua attenzione fu attirata dallo scintillio di una
lama. Il suo secondo pugnale.
Quella vista la rinvigorì al punto di sbatterlo contro il
muro, riprendersi il pugnale e puntarglielo al collo tremante.
- Cosa vuoi da me – gli urlò addosso a denti scoperti, come
se volesse morderlo da un momento all’altro.
- Voglio darti una possibilità! -
- Dov’è mio padre? –
- E’ dove ha deciso di essere! Lui ha preferito non
prenderla –
Lei respirò cercando di mantenere la pazienza, allentò un
po’ la presa per poi tornare a spingere la lama lungo la carotide , ancora più
minacciosa di prima.
- Parla. –
- Seguimi. – la incalzò lui.
- Mai. – rispose ferma
- Fallo! – i due si guardarono intensamente e infine lei
abbassò le armi, assecondandolo.
Lo seguiva in silenzio, controllando le condizioni delle
ferite. Avrebbe solo voluto stendersi, bere, mangiare un frutto, rinfrescarsi e
dormire, invece doveva seguirlo per chissà quale altra trappola.
Il suo istinto diceva di fidarsi ma lei, in cuor suo, lo
avrebbe solo voluto uccidere .
Avanzavano in silenzio, lei alcuni passi dietro a lui, il
quale però ogni tanto si girava per accertarsi della sua salute. La ispezionava
sempre con quell’aria tenera, alla quale lei rispondeva con sguardo torvo.
Vedendola barcollare le porse la mano, prevedendo che
sarebbe crollata da un momento all’altro se non si fosse sorretta a qualcosa, ma
lei rifiutò piena di orgoglio.
Quel contadino sembrava
conoscere veramente bene il castello. Forse era un abitante di quella
roccaforte, forse anche lui, come lei , aveva perso qualcuno.
Quel pensiero sembrò corroderla a tal punto da farla
crollare al suolo. Il vile corse subito in suo soccorso. La rialzò sorreggendola
e facendo attenzione a non toccarle la ferita sul fianco. Infine la rassicurò di
essere quasi arrivati. Lei annuì.
Poco dopo arrivarono davanti ad una casupola dai muri
aranciati. Al suo interno erano disposte disordinatamente delle lunghe tavolate
impolverate. Lilith fu delusa di non trovare il tipico calore che era abituata
a provare ogni volta che entrava nella mensa.
Fu accuratamente sdraiata su una panca ma i polmoni la
facevano urlare, così preferì sedersi.
Ora avrebbe solo voluto che lui iniziasse a parlare,
senza fermarsi un attimo, e che rispondesse alle domande che non aveva il fiato
di porgli; invece il silenzio.
Si era seduto sulla panca difronte alla sua, poggiando i
gomiti sul tavolo e reggendosi la testa con le mani. La osservava, la scrutava
nel dettaglio esordendo alla fine con una esclamazione che lasciò allibita.
- Devo ammettere che hai una fervida fantasia! – disse
mostrandosi compiaciuto.
Lei strizzò più volte le palpebre senza riuscire a
comprendere. Poi, di scatto, lui si alzò girando su se stesso e iniziando a
camminare fra i tavoli, togliendo con il dito la polvere depositata sulla loro
superfice.
In realtà non sapeva bene neanche lui da dove iniziare. Era
sempre difficile trovare le parole.
Lei lo seguiva distrattamente con lo sguardo, attendendo
che riprendesse a parlare.
Per il nervosismo riportò la mano al ciondolo, trovando
una momentanea pace interiore.
Sospirò scocciata.
Lui la guardava e riguardava senza darsi pace. Era così
giovane. Così vitale e combattiva.
Infine le si avvicinò arrivando a pochi centimetri dal
suo viso. La guardò fisso negli occhi aspettando che lei abbassasse lo sguardo,
cosa che non accadde.
Si distanziò un poco, creando poi con il dito un cerchio
intorno alla sua faccia ed intimandola di osservarlo.
- Guardami. –
Lei inarcò le sopracciglia pensando fosse pazzo.
- Agata guardami. –
- Mi chiamo Lilith. - si limitò a rispondere.
- Agata… guardami… - la implorò.
Obbedì con superficialità, guardando i suoi tratti scuri,
un viso magro dal mento leggermente appuntito e delle zampette di gallina
intorno agli occhi, ma niente le riaffiorava alla mente.
L’uomo preda di un altro impeto si allontanò da lei.
Lei si portò le mani fra i capelli, spazientita dalla
situazione e da quella conversazione che sembrava non arrivare mai ad un punto,
sentendoli setosi, come appena puliti scorrere fra le dita che ora non erano
più incrostate di fango e terra. Sbalordita si alzò dirigendosi verso un
pentolame argenteo. L’uomo non si scompose.
Si specchiò osservando il suo viso pulito e il suo
vestito immacolato, come nuovo.
Non sentiva neanche più l’odore rancido di sangue.
Si girò verso di lui.
- Agata – ripeté, mandandola in bestia.
Lilith iniziò ad urlare il suo nome, che non era quello
che lui si ostinava a ripetere. Non sapeva chi fosse quell’Agata, non sapeva a
chi si riferisse.
- Basta! – urlò, piantando il pugnale sul legno marcio
del tavolo.
Rimase in tensione per qualche attimo stringendo con
tutte le forze il manico intarsiato di sassi di fiume.
I suoi muscoli tremavano nel loro nuovo ed inaspettato
vigore. Lui le si avvicinò portandole la mano intorno alla sua.
Le sue dita avevano un aspetto rassicurante.
Lo guardò rimanendo del tutto sbigottita. Ora non aveva
più quel vile davanti a se ma una persona che credeva di aver dimenticato. Felice
gli saltò addosso cingendogli il collo con le braccia. Lo stringeva così forte
a sé da poter sentire il suo battito cardiaco, una palpitio che in quel momento
le sembrò la cosa più bella del mondo.
- Xandir… - gli bisbigliò all’orecchio tenendolo saldo al
suo corpo. Il calore che emanava la tranquillizzava e la faceva sentire di
nuovo piccola, quando amava giocare davanti al camino con i suoi fratelli.
Lui dopo poco la scostò, prendendole il mento fra il
pollice e l’indice ed alzando il suo viso dritto nei suoi occhi verdi.
Aveva uno sguardo pacifico, sembrava gli volesse
comunicare qualcosa di importante.
Riabbassò il viso e le baciò la testa accarezzandole la
nuca, giocando con i suoi capelli fini che si incastravano e tiravano le
pellicine.
La strinse al petto portando poi le mani alla sua schiena
ed iniziando a sbottonare delicatamente il vestito da viaggio. Lilith era
attonita ma non reagì, lasciando che arrivasse ai buchi di Venere. Le accarezzò
la schiena risalendo fino alle spalle e togliendole il vestito, sempre con la
solita delicatezza. Lei gli agevolò il lavoro abbassando una spalla e poi
l’altra, socchiudendo appena gli occhi alle carezze del suo abito scivolato
ormai ai piedi.
Sarebbe dovuta essere nuda ma sentiva la pressione di altri
vestiti che non si ricordava di indossare.
Xandir le accarezzò gli occhi pretendendo che li aprisse.
Agata era nervosa, così nervosa che una lacrima le rigò
la guancia destra. Ripeteva a bassa voce che non lo accettava , non voleva
accettarlo.
Si accovacciò al suolo stringendo nel pugno la collana
che le penzolava dal collo e che aveva l’abitudine di riposare fra le
scollature delle camice e T-shirt che lei tanto amava portare.
Si piegò su se stessa, come se fosse un uovo, stringendo
sempre più forte il ciondolo, strizzando gli occhi che sentiva potevano
scoppiare da un momento all’altro.
Xandir si abbassò su di lei, ora le sue mani erano
tornate ad essere quelle del vile.
Le poggiò una mano sulla gamba, permettendo che lei notasse
la fede all’anulare e i gemelli della camicia che indossava.
- Ricordi ora? – lei continuò il suo mutismo, bagnando
con le lacrime i jeans attillati. –ognuno interiorizza, immagina e crea a modo
suo. Ed è così facile trovare delle situazioni simili alle tue. Voi giovani non
volete accettare l’idea di morire, anche a costo di rimanere intrappolati nella
vostra fantasia… - lei singhiozzava silenziosamente. – hai capito di cosa sto
parlando? – attese qualche secondo per poi riprendere – Agata devi rispondermi,
hai capito? – chiese nuovamente, questa volta però lei mosse in assenso la
testa.
Gli attimi che seguirono furono di un semplice e violento
silenzio, dove solo il vento sembrava far valere la sua voce.