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Autore: sognatrice dark    09/05/2012    3 recensioni
Chi l’avrebbe mai detto.
Io, una casinista di nascita e grande amante dell’insolenza contro i professori.
Loro erano i perdenti, quelli che si trascinavano in tristissimi abiti a fantasie fiorite o in maglioni consunti, che ci guardavano senza vederci nemmeno. Per loro solo nomi in un foglio bianco infinito.
Mi ero innamorata di UNA di loro. Pazzesco.
Genere: Malinconico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La cosa complicata del prendersi una sbandata per qualcuno è che non si sa mai cosa sia giusto fare in proposito.

Cioè, mi sarei definita un caso a parte.

Perché sto parlando di un “qualcuno” che mi faceva battere il cuore, che invadeva i miei pensieri e il cui sorriso si rivelò il più dolce del mondo.  
Cosa c’era di diverso dalle normali cottarelle adolescenziali? Beh, io mi ero innamorata della mia prof.

Lo giuro, non ho idea di come sia successo e non so perché questo mi abbia resa così felice, finché durò.
 La mia vita sapeva di lei, per me era dovunque, forse speravo che così facendo mi sarebbe stata più vicina al cuore.
Tutto ciò che vedevo si tingeva di un rosso accesso, come la sua bocca sempre perfettamente truccata.

Chi l’avrebbe mai detto. 

Io, una casinista di nascita e grande amante dell’insolenza contro i professori.
Loro erano i perdenti, quelli che si trascinavano in tristissimi abiti a fantasie fiorite o in maglioni consunti, che ci guardavano senza vederci nemmeno. Per loro solo nomi in un foglio bianco infinito.
Un universo a parte il nostro, come il loro. Se noi non potevamo concepire che avessero una vita propria, agli occhi di quelli là le nostre esistenze terminavano nello stesso istante in cui il suono della campanella ci destava da lezioni soporifere;  inutili per noi ragazzi troppo pieni di vita per pensare a genitivi e desinenze.

Questo mi portava a volerli sfidare, a vedere fino a dove potevo spingerli prima che esplodessero, trasformandosi, forse, in qualcosa di simile agli esseri umani.

Ricordo che una volta, con una lente d’ingrandimento, quasi incendiai il libro di algebra poi lamentandomi con il docente per la puzza di bruciato.
La reazione di quel bradipo valse la nota sul registro che ricevetti.

Il giorno di cui vi voglio raccontare fu l’inizio di qualcosa che mi avrebbe ossessionato, tingendo le mie uggiose  giornate con tonalità nuove; calde, invitanti e proibite.

 Non ricordo cosa combinai, di preciso, basti sapere che fu sufficiente per una di quelle strigliate lunghe mezz’ora.

Gli insegnanti sanno essere contraddizioni viventi: per un secondo hai veramente la sensazione che per loro tu conti qualcosa; dalla passione che mettono nel riprenderti con discorsi interminabili oppure nell’aria delusa, come quella di un genitore, nel constatare un tuo insuccesso, sia privato che scolastico.
Poi, anche se sei stato bocciato oppure hai rinunciato in qualcosa di importante, continuano con le loro vite.  Tu ti trasformi in una macchiolina di dispiacere nei loro ricordi. Ero già stata una macchia per troppe persone, un capitolo inconcluso di un libro che avevano tentato più volte di aprire senza avere mai il fegato di finire.

A volte avrei voluto essere solo aria, respirata e poi espulsa. Di continuo, all’infinito, banale e scontata, eppure indispensabile.
 
La professoressa (si, mi stava facendo un sermone e si, parlo di quella professoressa) mi rivolse uno sguardo quasi pietoso; facendo incrinare una delle mie convinzioni principali: sono gli adulti quelli patetici.
Non ero mai stata definita intelligente, però certe cose ero in grado di capirle (più dei monomi o del pensiero di Catullo) e lei vedeva in me nient’altro che una bambina capricciosa e rompiscatole.
Se feci finta di non accorgermene, fu soltanto perché non volevo dare l’idea che me ne fregasse qualcosa della sua opinione. Peccato che non fossi brava a mentire a me stessa.

Così, con una scusa nella mente e un fremito nel cuore, feci il possibile.

Se fino ad allora avevo solo sfiorato il limite degli adulti, con lei decisi di superarlo. Non volevo diventare un nome nell’infinito foglio bianco.

Un ricordo, un pensiero, una conoscenza…qualsiasi cosa, ma non una di quelle scritte.
Quello che feci non attirò di sicuro la sua stima o il suo rispetto, ma io mi ero sempre accontentata di poco, e già la sua attenzione, il fatto che rivolgesse verso di me i suoi occhi neri da zingara, mi soddisfacevano. Anche se per poco.

I problemi più grossi si presentarono quando non potei più sfamarmi con le sole briciole.
Non erano sufficienti i brutti voti (brutti solo per un fatto numerico, poiché non ometto che avesse una calligrafia meravigliosa, tanto che mai un due mi era sembrato così bello) o le pose seccate della bocca. Volevo le urla di frustrazione; che tornasse a casa pensando, sì che non avevo speranza, ma comunque rivolgendo la sua mente a me e solo a me.

Concentrandomi riesco a sentire ancora la sua voce come fosse stato ieri.
Un’intonazione comune, scandita da un forte accento del Sud. In fondo sono una persona romantica; ascoltando le sue spiegazioni immaginavo un mare cristallino e della sabbia candida. Oppure l’allegria di un piccolo quartiere, con gente che conversava urlando da una parte all’altra della strada e le corse di monelli all’inseguimento di un pallone. E ancora allegre donne in carne che cucinavano banchetti, canticchiando animosamente e talvolta riprendendo i loro marmocchi venuti a ficcanasare in cucina.
In questi miei voli per quel luogo tanto variopinto spiccava una figura: minuta, con lunghi ricci scuri e dai lineamenti gentili. Non ci vuole molto per capire a chi mi sto riferendo.

All’inizio accoglievo la consapevolezza di averla nei mie pensieri con delle gote in fiamme e un imbarazzo sordo. Poi, non senza notti passate con gli occhi spalancati nel buio a pormi mille domande e a psicoanalizzarmi da sola, smisi di arrossire e cominciai ad accettarla nella mia testa.

Dopotutto si rivelò un leale compromesso, non era giusto che il tormento mentale fosse solo da parte mia.

Mi sentivo come tornata alle medie, quando bambine che nemmeno hanno bisogno di assorbenti si vantano di aver già fatto delle robe col loro ragazzo. Tutte sapevamo che erano balle colossali, ma vigeva un tacito accordo mai stipulato fra di noi, nessuna doveva smentire ciò che non la riguardava in modo diretto.

In realtà nessuna si era mai spinta oltre; ci avevano insegnato che il sesso era qualcosa di cui avere paura.

Un giorno lei si sporse sul mio banco per correggere un esercizio, appoggiando inavvertitamente il petto contro la mia schiena. Credo che fu allora che capii. La scossa elettrica che mi attraversò il corpo, il volto che mi parve stesse per sciogliersi tanto si era scaldato, e il suo profumo che mi aveva soffocato fino a farmi rinascere. Qualcosa di fresco, accogliente. Una di quelle fragranze che sembrano viziare l’olfatto.

La stupidità dei loro anni impedì ai miei amici e compagni di intuire qualcosa, e mi piace credere che il mio fosse sempre stato un amore segreto, come un tesoro custodito solo da me e nessun altro. Non sono mai stata brava a tenere per me le confidenze, soprattutto quelle che mi riguardano, quello però non l’avevo mai confessato neppure a me stessa, non a parole esplicite. Il mio capire di provare amore era in realtà un insieme di sensazioni, di crampi alla bocca dello stomaco, fiati corti e mani sudate.

Io sapevo, ma non avevo mai pensato e tantomeno detto.

Immaginare la scena di noi due insieme si trasformò presto in routine. Devo ammettere che la cosa mi rattristò un poco; per me l’amore era baci appassionati, viaggi in luoghi esotici, colpi di scena sempre nel momento e nel posto giusto, poi seguiti da un gesto eclatante dell’eroe di turno; non abitudine.

Allora decisi che fosse arrivato il momento del mio colpo di scena.

L’invitai in un bar, con una scusa che nemmeno ricordo e che dovrei invece rammentare visto che fu uno dei giorni più memorabili della mia vita.
Non bisogna credere che la mia sia stata un decisione presa d’impulso. Ripetevo le stesse domande che mi ero posta nel periodo addietro, e che ormai avevo quasi dimenticato.
Sarei finita dallo psicologo scolastico? La prof avrebbe raccontato tutto agli altri insegnanti? Il mio mondo sarebbe crollato?
Mi risposi con fermezza: un mondo ce l’avevo solo da quando un potente uragano del sud aveva prepotentemente preso possesso della mia vita, e sarebbe stato un finale ideale, quasi poetico, se fosse stato la stesso a spazzare via il mio castello in aria.

Così, di fronte ad un assurdamente caro e assurdamente schiumoso cappuccino, vuotai il sacco.
Non fu facile, certo, ma neanche impossibile, considerando che prevedevo anche di svenire sul posto per l’emozione.

Una delle immagini principali che compaiono davanti ai miei occhi se ripenso a quel momento è la superficie del tavolinetto del locale. Argentata, con sopra un motivo geometrico. Piuttosto comune, eppure incredibilmente interessante sul momento.

Il silenzio divenne un nostro compagno al tavolo.

Chiaramente non ebbi il coraggio di guardarla in viso. Cosa avrei visto? Sorpresa, diffidenza o anche… disgusto?
Essere una sciocca non era mai stata una mia particolarità, sapevo che avrei ricevuto una risposta negativa, però non riuscivo a trattenermi un giorno di più.

Non trovai un motivo per aspettare ancora, convinta che comunque non sarebbe cambiato nulla. Mi facevo forza ripetendomi che, qualsiasi cosa fosse successa, io non avrei smesso di amarla.

Fu con un tuffo al cuore che mi resi conto di aver sul serio formulato quella parola di sei lettere, ce l’avevo davvero fatta, ero riuscita a comporre le tre sillabe più incredibili da me conosciute.

Forse anche questo mi aiutò a non scappare da quella piccola veranda dove le avevo dato appuntamento.

Per quanto cercasse di controllarsi, il tremito nella sua voce era tanto evidente quanto volutamente ignorato da me. Almeno finché:

-Sara, io…mi dispiace…sai che potrai sempre contare su di me per qualsiasi cosa. Ma, ti prego, non parliamone più, ok? Sono lusingata però devi capire che…-

Sapevo benissimo di dover capire, il problema era che io non volevo, dal profondo delle mie viscere.

Mi sarei perfino messa a strillare, in quel momento, pur di non starla a sentire.
Mi sarei coperta le orecchie ripetendo “bla, bla, bla!”. O qualsiasi altra cosa.
Eppure non feci niente, annuii e basta. E lei se ne andò, per sempre. 

Non la incolpo di essersi sentita quasi spaventata da me e da ciò che provavo. Io ero una ragazzina, lei una donna adulta prossima al matrimonio… non poteva essere. Non in un istituto rispettabile come quello che entrambe frequentavamo, con ovvi ruoli diversi. Non fra un adulto e un giovane innocente, e tantomeno se le persone in questione erano dello stesso sesso.
Non per una donna che ha visto nella sua alunna, all’inizio, la pecora nera della classe e in seguito un agnellino che necessitava di cure. Come il figlio che non avrebbe mai avuto.
L’avevo scoperto passando accanto all’aula dei professori, dovevo fare delle fotocopie,  la sentii piangere. Cioè, sentii qualcuno piangere e volli verificare. Chiunque l’avrebbe fatto seppur con discrezione.

Se ne stava lì, sprofondata nell’orrendo divanetto grigio topo della sala. Rimasi in silenzio, accostata alla porta. Respirando appena.
Un po’ mi vergognai di strapparle l’intimità di quel momento, ma non potei farci nulla. Quando girai i tacchi, per allontanarmi, nello spazio di un secondo avrei giurato di averla sentita chiamarmi. Ero sicurissima che avesse pronunciato il mio nome, in quell’istante, come se avesse bisogno di me. Come se per la prima volta in vita mia fossi d’aiuto a qualcuno, non un impiccio.

La guardai quasi tremando, ma lei non si era mossa, era stato tutto frutto della mia immaginazione. Uscii in punta di piedi, e non alzai gli occhi dal banco per il resto della giornata. 

La fortuna, si fa per dire, mi assistette di nuovo quando colsi per caso la conversazione di due bidelle.
Rintanata nel cubicolo del bagno delle ragazze, che aveva un muro in comune al ripostiglio di scope e detersivi, schiacciai l’orecchio sul calcestruzzo gelido e origliai.

-Povera ragazza. La prof. Lupi mi ha appena raccontato che era incinta, gliel’ha confidato lei stessa e ha perso il bambino. Deve essere terribile, mi dispiace così tanto.-

Chissà perché scelse me per colmare quel vuoto. Forse non ero io in particolare, magari aveva deciso di gettarsi sul lavoro e basta, chi può dirlo?

Magari mi ha richiamata per davvero, quel giorno.  E io non ho voluto crederci, troppo ancorata al mio preconcetto di divisione fra i nostri universi.

Allontanandomi dalla veranda il vento mi portò il suo profumo e asciugò le uniche lacrime da me mai versate per un adulto.

In conclusione, dei miei quindici anni ricordo solo un’espressione gentile e le più belle insufficienze mai scritte da mano umana.

Eppure non posso fare a meno di chiedermi: era davvero impossibile?







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Questo racconto è molto importante per me, è ispirato ad una storia vera. E anche se non mi riguarda personalmente, l'amica a cui è dedicato è più che cosciente di come si senta la protagonista. Un bacio a lei e a voi lettori!
   
 
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