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Autore: Elos    10/05/2012    4 recensioni
Io sono Ofelia dell'acqua chiara. Sono nata dall'acqua. Sono la numero quattro: il mio simbolo è un cerchio spezzato da una linea, il cielo e il lago che si riflettono su una superficie d'argento. Io sono Ofelia dai capelli sciolti, Ofelia morta nell'acqua, e la mia vita se l'è presa una guerriera chiarissima che mi ha guardata senza rancore. […]
Prima classificata al concorso "Sisterhood (Claymore Contest)" indetto da visbs88.
Genere: Drammatico, Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Mi chiamo Ofelia. Sono nata in un mattino d'estate. Mio padre raccontava che era stato un giorno di sole, che non c'era stata una nuvola in cielo, e che questa era stata l'unica ragione per la quale io ero sopravvissuta al parto: perché le doglie avevano colto mia madre mentre era in riva al fiume e non c'era stato modo di spostarla da lì, poi, con tutto il sangue che le colava tra le cosce e che non avrebbe dovuto esserci, mentre i dolori le spezzavano la schiena e il fiato. Chiamata da mio fratello, la levatrice era arrivata di corsa quando io già avevo cominciato ad uscire – girata nel verso sbagliato.
Sono nata con i piedi in avanti. La levatrice mi ha messa nell'acqua fredda non appena è riuscita a tirarmi fuori, districandomi dall'impasto molle di sangue, placenta e cordone ombelicale, ed è stato quello che mi ha salvata: si fa con i bambini che nascono senza respirare, prima nell'acqua calda, poi in quella fredda, e qualche volta funziona. Con me ha funzionato. Ho respirato.
Mi chiamo Ofelia. Ho ucciso mia madre, nascendo, e sono nata nell'acqua.
E' per questo che mi hanno chiamata così.


Ofelia dell'acqua chiara




Le storie dei piccoli villaggi di montagna sono storie crudeli. Quelle dei graziosi paesi annidati tra le valli, tuttavia, a volte lo sono ancora di più: storie di fate che passano per le case a rubare i bambini appena nati e li sostituiscono con piccoli fantocci morti, storie di persone che escono dalla tomba e che tornano a perseguitare i parenti per averli sepolti vivi per sbaglio, la storia del villaggio fantasma dove gli abitanti si erano massacrati tra di loro, uomini e donne e bambini, tutti, nel terrore dello Yoma che sembrava essersi nascosto sotto una pelle d'umano... e poi non c'era stato nessuno Yoma, in realtà, solo il panico vuoto della gente, ed era stato quello che li aveva portati alla morte. La storia di Ofelia era una storia così: una storia triste di morti, un po' meno orrida delle storie sulle fate e gli Yoma e i morti viventi, ma, come tutte le storie di morti, piena di sangue e dell'eco cieca della pazzia.
Anche Ofelia era nata nell'acqua.

Racconta la leggenda che Ofelia fosse emersa dalla polla d'acqua verde e trasparente nascosta nel giardino segreto del re: e che il principe l'avesse vista nascere e che l'avesse amata fin da subito – ma Ofelia amava solo l'acqua chiara.
Il principe era diventato pazzo un po' alla volta, ogni giorno di più, mentre Ofelia della polla d'acqua lo respingeva e gli negava sé stessa e il proprio amore, indifferente alla sua disperazione: e il principe pazzo, alla fine, l'aveva gettata di nuovo nell'acqua e l'aveva tenuta premuta contro il fondo dello stagno finché lei non era annegata. E dopo anche il principe si era annegato, pentito e disperato, ma questo non aveva ridato il respiro a Ofelia.
E la morale di questa storia è, diceva sempre mio padre, che dobbiamo controllare i nostri desideri. I desideri sono una cosa difficile da gestire, ed è meglio pensare per bene alle conseguenze di quel che vogliamo, per non dovercene pentire poi.
Io ho desiderato follemente. I miei desideri hanno avuto a che vedere con il sangue e la morte per così tanto tempo che sono diventata pazza anche io, alla fine, pazza come il principe pazzo e pazza come Ofelia della polla d'acqua, che non sapeva vedere altro che il suo riflesso nello stagno – che sapeva vedere solo sé stessa.
Io ho visto me stessa, nell'acqua, ed ho visto mio fratello. Ho desiderato anche lui, infinitamente, che fosse vivo e che respirasse e che non avesse fatto quel che aveva fatto, e l'ho desiderato così a lungo che alla fine anche il desiderio si è trasformato in odio.
Io ho odiato follemente.

I bambini che nascono da un parto che ha ucciso le loro madri sono diversi da tutti gli altri.
Non importa che non ci sia logica in questo, perché non c'è logica nella tristezza, nessuna logica se non malsana nel senso di colpa. Per quanto tutti quelli che sono intorno a loro possano amarli, per quanto possano dire e ripetere e insistere che non è colpa loro, che non sono stati loro, che sono innocenti, ci sarà sempre una piccola parte del bambino che penserà e se non fossi mai nato?
Lei sarebbe viva.
Sono cresciuta con un padre che mi amava pazzamente e con mio fratello, che per me avrebbe fatto qualunque cosa. Che sarebbe morto per me, se fosse stato necessario. E, in effetti, alla fine è andata così.
Amavo mio padre, ma ancora di più amavo mio fratello. Era lui che mi portava sulle spalle, lui che mi ha insegnato a leggere, per quel poco che ne sono in grado tuttora, lui che mi comprava di nascosto i bastoncini di zenzero candito con qualcuna delle monete che il mugnaio gli dava per le ore ed ore ed ore di lavoro che svolgeva al mulino, spezzandosi la schiena sollevando e pesando e setacciando la farina.
Ho vissuto per sette anni nella gioia di essere una bambina molto amata. Portavo i capelli sciolti ed erano biondi come i gigli, e avevo gli occhi verdi, la pelle chiara. La gente del villaggio diceva che era per via del mio nome – Ofelia bellissima nata dall'acqua – ma io sapevo che era stata mia madre a farmi così. Era stato il suo ultimo atto d'amore, farmi bella come era bello il lago e chiara com'era chiaro il fiume, ed io ero stata una figlia ingrata, ingrata, e l'avevo uccisa. Questo non lo dicevo mai a mio fratello o a mio padre, ma non potevo fare a meno di pensarlo.

Mio fratello era anche quello che prendeva a sassate le donne del paese, tutte, quando al mio passaggio mi bisbigliavano alle spalle dicendo che ero stata maledetta alla nascita, io, assassina del mio stesso sangue.
Bisbigliavano dicendo che le fate erano venute e che mi avevano scambiata nel ventre di mia madre. Come le fate avevo le orecchie appuntite, come le fate avevo gli occhi verdi, ero Ofelia bellissima della polla d'acqua, e tutti sanno che è nelle cose più belle che si nasconde il male.
La gente nei piccoli villaggi, certe volte, sa essere molto crudele.

Avevo otto anni il giorno in cui l'unicorno mi ha portato via tutto quel che avevo: tutto quello che io amavo, malgrado le comari e le loro voci stridule e intollerabili e malgrado i lazzi dei bambini, malgrado la consapevolezza di essere l'assassina di mia madre. Il mondo mi disgustava e certe volte ne avevo paura, ma mio padre mi amava, mio fratello mi amava alla pazzia. Ero la loro bambina molto amata. Il nostro villaggio, nei giorni di estate, si colorava del rosso dei papaveri, dell'oro bianco dei gigli, dell'azzurro limpido del fiume sul quale i papaveri e i gigli si specchiavano. Il mio mondo era un mondo fatto d'acqua lievissima: ho viaggiato molto, dopo il giorno dell'unicorno, visitato molti luoghi, ma in nessun posto ho trovato più i colori trasparenti che le correnti avevano lì, i riflessi pallidi d'argento sulle rive, tinti di verde nei punti in cui le macchie di giunchi si alzavano verso il cielo. Il mio mondo, dopo, è stato un mondo di sangue e di pazzia.
Mio fratello aveva compiuto sedici anni da pochi mesi: era un uomo, adesso, pronto per sposarsi, per avere dei figli, una famiglia, ma lui diceva che io ero la sua cosa preziosa, la sua Ofelia amatissima e cara, e che se avesse avuto una moglie le avrebbe detto che doveva volermi bene, se avesse avuto dei figli sarebbero stati i miei nipotini e mi avrebbero chiamata zia e li avrei potuti tenere in braccio, che qualunque famiglia lui avesse avuto, poi, sarebbe stata anche la mia.
Per i suoi sedici anni mio padre gli aveva regalato una spada, una vera spada con l'elsa rivestita di pelle morbida e la guardia di peltro ed una lama di acciaio. C'era stata una grande festa e tutti erano stati felici e avevano bevuto, c'erano state frittelle di melanzane e di riso e frittelle di zenzero e vino in abbondanza. Io gli avevo regalato una giubba: l'avevo cucita io, e non aveva tutti i punti fatti bene, ma da quando gliela avevo regalata lui l'aveva tenuta sempre indosso. L'aveva con sé anche il giorno in cui è morto.
L'unicorno è venuto e mi ha portato via mio fratello: e lui si è girato verso di me, mentre l'unicorno si avvicinava, e mi ha detto vai via, scappa, vattene subito.
Mi occupo io di quello.
Ho visto il sangue schizzare dal suo petto mentre l'unicorno l'apriva, colare dai rami degli alberi e gocciare nel fiume, nell'acqua, nell'erba intrisa di rosso.
Ho vomitato ai suoni viscidi e gonfi del suo corpo che veniva svuotato come un'ostrica di fiume, le mie ginocchia si sono piegate e c'era la giubba in pezzi per terra, la spada di mio fratello buttata da una parte. Sono stata piena di nausea e di terrore perché quando l'unicorno avrebbe finito con mio fratello sarebbe venuto da me, e nel mezzo di tutto quell'orrore c'era il sollievo, perché se fossi morta non avrei mai ricordato il suo corpo aperto e le sue viscere sparpagliate e che si era girato verso di me e aveva sorriso, aveva sorriso, aveva sorriso...

Aveva detto che sarebbe morto per me, se fosse stato necessario. E' così che andata.
Dopo il giorno dell'unicorno io sono diventata Ofelia dell'acqua rossa, Ofelia la pazza, la bambina scambiata, assassina di sua madre e di suo fratello.
Sono diventata anche Ofelia dell'Onda, ma questa è un'altra storia.

L'Organizzazione venne a prendermi il giorno stesso: mi trovarono nel mezzo della foresta mentre cercavo di rimettere insieme i pezzi di mio fratello – pensavo che se li avessi ritrovati tutti avrei potuto ricomporlo, farlo respirare di nuovo, ma l'unicorno ne aveva rubato le viscere, lo sapevo, dovevo trovare l'unicorno e fargliele sputare fuori, e così lui sarebbe tornato intero, sano, vivo.
L'Organizzazione venne a prendermi e mi disse che del mio villaggio non era rimasto niente: l'unicorno che non mi aveva voluta aveva voluto tutti gli altri, invece, ed erano morte le comari dalla lingua lunga e i loro figli, i loro mariti, era morto anche mio padre.
L'uomo che venne da me era vestito di nero. Mi parlò a lungo. Mi disse che cercavano bambine come me, bambine speciali, per trasformarle nelle guerriere dagli occhi d'argento e dalla pelle bianchissima che uccidevano gli Yoma e gli unicorni. Anni dopo ho scoperto che questo discorso veniva fatto a tutte quelle, tra di noi, che venivano prese dopo essere sopravvissute ad un massacro al quale avevamo assistito: era più facile persuaderci a comportarci bene, se potevamo essere motivate così.
Volevo l'unicorno. Volevo il suo sangue e la sua testa. Odiavo il mondo e odiavo tutti, quelli che erano morti, quelli che non avevano salvato mio fratello, mio fratello che aveva cercato di proteggermi – stupidamente – quando poi l'unicorno non mi aveva nemmeno voluta. Se solo se ne fosse stato fermo. Se solo fosse scappato.
Il ricordo del suo sorriso è affondato dentro di me quel giorno, e si è nascosto nel buio della mia follia: e solo oggi, oggi che sono tornata ad essere Ofelia dell'acqua chiara, Ofelia nata dall'acqua, è riemerso oltre le alghe e il limo, in superficie.

L'uomo vestito di nero mi portò ad un campo d'addestramento.
I campi d'addestramento sono posti bui e cupi scavati nella roccia tutt'attorno alla sede dell'Organizzazione: le stanze hanno finestre piccole, i cunicoli sono spesso ciechi, i letti emergono come blocchi di pietra dal pavimento. Le bambine che vengono portate lì hanno dai sei ai tredici anni; qualche volta ne arrivano di più vecchie, ma in genere non sopravvivono alla mutazione, qualche volta di più piccole, anche. Una volta ho visto una coppia di gemelle neonate tenute chiuse in una stanza bianca; avevano il petto bendato e una di loro piangeva piano piano, flebilmente, ed io le ho osservate per un po' attraverso la porta socchiusa: ma nessuno è venuto mai a consolarla.
Mi lasciarono riposare un paio di giorni – perché il viaggio era stato lungo e faticoso – in una camerata insieme ad altre otto ragazze. Il quarto giorno mi aprirono il petto e misero in me la carne e il sangue dello Yoma. Sono diventata una Claymore, così.
Delle otto ragazze che avevano diviso con me la camerata – otto ragazze delle quali avevo fatto in tempo ad imparare il nome e poco altro – solo tre sono sopravvissute. Due delle altre hanno avuto una tomba sotto la roccia, e le ultime tre...

Una volta ho visto una stanza, nei cunicoli dell'Organizzazione, che era proprio accanto alla stanza bianca delle gemelle. Era una stanza buia con un'unica torcia a rischiararla, senza tavoli né sedie né finestre, solo con tanti scaffali uno sopra all'altro: gli scaffali erano pieni di barattoli di vetro, e nei barattoli di vetro c'erano mani, dita, occhi, anche una testa intera. Alcuni appartenevano agli Yoma – artigli e pelle scura e nocche deformi – ma c'erano anche dita di bambina, lì nel mezzo, una mano troppo sottile, occhi d'argento. La testa avrebbe potuto appartenere ad una qualunque di noi: l'avevano rasata, e diventa difficile distinguerci, senza i nostri capelli, i nostri capelli che sono tutto quel che ci viene permesso di avere di diverso l'una dall'altra.

Dopo l'operazione, quando tutti furono certi che sarei sopravvissuta, venni messa in un'altra camerata con altri otto letti. Ora eravamo tutte guerriere, non c'erano bambine, non c'erano ragazze. Ci dissero che dovevamo essere come sorelle, unite nella vita e nella morte. Ci dissero che c'eravamo noi, poi gli umani, poi gli Yoma, che saremmo state sole, che nessuno ci avrebbe aiutato se non ci fossimo aiutate l'un l'altra.
Ma io avevo visto le tombe nella roccia e avevo visto scomparire tre delle bambine della prima camerata e presto avrei visto la stanza con i barattoli e avrei intuito dove erano probabilmente scomparse. Il sistema delle Claymore funzionava con quarantasette di noi sempre in lotta, sempre in competizione, in cerca dei primi numeri. Le più forti comandavano sulle più deboli e le più deboli potevano solo sperare che le più forti mostrassero pietà, compassione, che si occupassero di loro.
Non mi curai di imparare i nomi delle sette ragazze della nuova camerata. Per quello che non conosci, pensai, non puoi soffrire.
Nel giro di una settimana, invece, le altre ragazze nella camerata si conoscevano tutte per nome, nel giro di un mese scherzavano insieme, nel giro di sei mesi certe volte litigavano, certe volte si urlavano contro, ma poi facevano sempre la pace. Eravamo tutte sempre arrabbiate, perché l'addestramento era feroce e il dolore era tanto, eravamo tutte sempre nervose, sempre nauseate, disgustate dai nostri corpi che cambiavano e piene di rancore e di ferocia: ma il rancore e la ferocia delle altre non si rivolgeva verso le compagne, l'una contro l'altra, perché... perché c'erano troppi altri bersagli per tutta quell'ira, credo, c'erano gli Yoma che avevano portato loro via tutto, famiglia e amici e una vita, c'erano gli umani che adesso le avrebbero guardate con schifo e paura, c'era l'Organizzazione che ne aveva fatto dei mostri a metà.
Io ero diversa. Io di rancore ne avevo moltissimo: ce n'era per tutti, perciò, più che in abbondanza anche per loro.
Le altre ragazze si conoscevano tutte e passavano tutte molto tempo insieme. Ma ce n'erano due che erano speciali, più vicine delle altre, vicine come sorelle. Si tenevano per mano di giorno e si tenevano abbracciate di notte, quando lo Yoma si muoveva nella loro cassa toracica e le faceva soffrire, si tenevano strette mentre i loro capelli perdevano la tinta e diventavano bianchi, mentre la loro sclera si faceva incolore, le loro iridi argentate.
Erano in due e sembravano sorelle. Io sapevo che non lo erano, perché parlavano spesso, chiacchieravano, riempivano la camerata con il suono delle loro voci e si raccontavano dei villaggi dai quali venivano, dei posti e delle cose che avevano visto e fatto, delle famiglie che avevano perso. Si tenevano per mano.
Io le odiavo.
Le invidiavo orribilmente. Le invidiavo e le odiavo e avrei voluto saper essere come loro e avrei voluto poterle uccidere. Ho potuto ucciderle, poi, il giorno in cui sono entrata a far parte dell'Organizzazione e ho avuto una spada e un simbolo e un numero, ma questo sarebbe accaduto solo molti mesi dopo.
Nel frattempo, le odiavo.
L'uomo vestito di nero che mi aveva portata all'Organizzazione veniva spesso a trovarmi. Era interessato a me: diceva che ero forte, che ero brava, che dovevo continuare ad esercitarmi e a migliorare e che avrei potuto avere un buon numero sin da subito. Forse anche una cifra sotto al quindici, chi poteva dirlo?
Mi parlava dell'unicorno. Io mi struggevo d'invidia per le ragazze che si tenevano per mano, come sorelle, e certe volte avrei voluto poter essere come loro: ma poi l'uomo vestito di nero mi diceva che c'erano molti unicorni, al mondo, molti risvegliati, guerrieri che erano stati quasi umani, una volta, e che poi si erano trasformati...
Uno di noi.
Una di noi aveva aperto lo stomaco di mio fratello. Una di noi gli aveva rubato le viscere.
Quando l'uomo vestito di nero mi diceva così, l'odio sembrava volermi mangiare il cuore.

Il giorno della prova sono diventata la numero tredici.
Sette ragazze avevano tentato con me – ma io ero stata l'unica a respirare ancora, dopo, l'unica che aveva preso la testa dello Yoma e che l'aveva riportata agli uomini vestiti di nero, l'unica che non giaceva per terra in una pozza di sangue.
Le altre le avevo lasciate morire tutte.
Ofelia, avevo pensato mentre lo Yoma le uccideva una alla volta ed io aspettavo, aspettavo, aspettavo il momento giusto per colpirlo, Ofelia, assassina di sua madre e di suo fratello. Ci avevano detto che avremmo dovuto essere come sorelle, ma io le guardavo morire e non provavo niente.
Ofelia, assassina delle sue sorelle.

Speravo che ucciderle mi avrebbe aiutata a sentirmi meglio. Speravo che, guardando i loro cadaveri intrecciati – perché erano cadute così vicine che le loro membra si erano mescolate, le braccia sopra le braccia, i capelli dell'una mischiati a quelli dell'altra come i fili sui telai che le donne del mio villaggio tiravano fuori alla sera, prima che calassero le tenebre – e le loro mani unite, giunte nella morte nel punto in cui si erano cercate, morendo, per non morire da sole, speravo che avrei capito di aver fatto la scelta giusta. Io ero sopravvissuta. Io non avrei sofferto. Non provavo niente, ma questo non era sentirmi meglio. Non mi sembrava un miglioramento.
Per un attimo mi guardai le mani e le avevo intrise di sangue, e non c'era nessuno a stringermi. Nessuno che mi avrebbe cercata, se fossi morta oggi, nessuno a tenermi compagnia mentre diventavo un cadavere.
E' difficile, a posteriori, capire qual è stato veramente il momento che mi ha resa ciò che sono stata, Ofelia dell'Onda, Ofelia la pazza dell'acqua rossa e del sangue, ma io credo sia stato quello.
Credo di essere diventata pazza quel giorno.
L'uomo dell'organizzazione è venuto, poi, e mi ha detto che ero la numero tredici, che ero una guerriera, adesso, e che ero potente e dotata e sarei potuta diventare la migliore di tutte. Che non ci sarebbe stato Risvegliato in grado di opporsi a me, che avrei potuto sterminarli tutti, liberare il mondo dalla loro presenza.
Io ho pensato a mio fratello con lo stomaco squarciato, e non mi importava veramente di salvare gli umani. Di proteggerli. Mi importava solo dell'unicorno che aveva mangiato le sue viscere. L'avrei trovato, un giorno. E poi...
Il simbolo sulla mia spada è stato un cerchio tagliato in due.
Per tutti questi anni non ci ho fatto caso, ma oggi riesco a vederlo, ed è strano che non me ne sia accorta mai, prima: un cerchio tagliato in due, è come la superficie di un lago, cielo ed acqua che si incontrano e la superficie lucida e liscia come l'argento nel mezzo.
Io sono Ofelia dell'Onda, Ofelia della polla d'acqua rossa. Io sono Ofelia la pazza. Non voglio parlare degli anni che sono seguiti alla mia prova – dal giorno in cui avevo guardato morire le mie sette sorelle, e non fare niente per salvarle era stato come ucciderle – ma voglio che tu sappia che sono stati lordi di sangue.
Ho fatto cose terribili e cose atroci e vi ho odiate tutte: più che le altre, quelle di voi che avevano un'amica, qualcuno con cui parlare, qualcuno da proteggere. Ho odiato Alisia e Beth perché erano sempre insieme e, anche se a tutti sembrava che a loro non importasse, io potevo vedere che era diverso, per loro, che non erano mai sole. Ho odiato Galatea dal sorriso chiaro perché era bella, più bella di me, malgrado io fossi Ofelia, bella e serena. L'ho odiata perché piaceva a tutte. Ho odiato la numero sei che mi pregava di cercarle la sua migliore amica, dalla quale voleva essere uccisa, ed ho odiato l'altra numero sei, quella nuova, Milia del Miraggio e delle illusioni, perché piangeva sul cadavere di una Risvegliata.
Vi ho odiate tutte. Sapevo che ci saremmo Risvegliate, prima o poi, e che se non ci fossimo Risvegliate saremmo morte.
Io non volevo Risvegliarmi, non volevo diventare come l'unicorno, ma sapevo che sarei morta da sola: per questo ogni scelta mi terrorizzava, il mio futuro sembrava orribile da qualunque lato lo guardassi, non c'era salvezza, non c'era speranza.
Sono stata la numero tredici per un po', poi la numero otto, poi la quattro, a mano a mano che le posizioni venivano liberate e che la mia forza aumentava. Sono diventata un'assassina di Risvegliati: gli Yoma mi disgustavano, ma erano deboli e fragili al mio confronto. Solo i Risvegliati erano degni avversari.
Sono diventata un'assassina di Risvegliati perché non importava che fossero state guerriere, sorelle, non importava. Le uccidevo con gioia.
L'Organizzazione lo sapeva, questo.

Avevo paura di morire da sola. Capisci? Sarebbe stato come non essere vissuta affatto.

Devo essere diventata una Risvegliata anche io, nel mezzo di questi anni lordi di sangue. Me ne rendo conto adesso: che le mie ossa tornavano intere un po' troppo in fretta, che la mia ferocia era un po' troppo acuta, che non c'era più molto di umano, in me, e che ero... che il piacere selvaggio del potere mi aveva presa, ero diventata come loro, come l'unicorno, molto prima che il mio corpo cominciasse veramente a cambiare.
Sono diventata la sirena il giorno in cui ho cercato di ucciderti. Avevi con te il bambino, biondo e gentile, e si vedeva che vi amate, si vedeva nel modo in cui vi cercavate con gli occhi, in cui tu l'hai protetto, in cui lui ti ha protetta. Ho cercato fin dal principio una scusa per farti a pezzi per questo – tutto questo amore, per te? Perché non io, dove era mio fratello? – e tu odoravi di Rinnegata, era tutta la giustificazione di cui avevo bisogno.
Ho cercato di uccidere lui ed ho cercato di uccidere te e ci sono quasi riuscita, e se quella puttana dalla spada svelta non si fosse messa in mezzo ci sarei riuscita, anche. Devo esserle grata per questo. Non muoio da sola, adesso, perché tu sei qui e respiri ancora.

Sono diventata la sirena, come l'unicorno, e nello specchio d'acqua del lago ho visto il mostro in cui mi ero trasformata ed ho capito che finiva così. Che fossi morta, che fossi vissuta, finiva così. Mostro, mostruosa, mostruosità, assassina delle sue sorelle, di suo fratello, di sua madre, Ofelia dell'acqua rossa, Ofelia la pazza dalle mani sporche di sangue. Non ero mai stata come tutte le altre, non avevo mai avuto qualcuno che mi tenesse abbracciata mentre piangevo per il dolore atroce del mio corpo aperto dallo Yoma, mai nessuno da proteggere e da amare – avevo avuto paura di amarle, di affezionarmi, che una di loro fosse come mio fratello. Non avrei avuto nessuno a ricordare il mio nome e la mia morte. Tu mi avresti guardata e giudicata e io...
E io ho capito che volevo morire.
Avevo paura di morire da sola, ma meglio la morte che essere come l'unicorno. Avevo ucciso uomini e guerriere, ma non sarei stata l'unicorno, io, non sarei stata una Risvegliata. Non avrei mai divorato le viscere del fratello di nessuno.
E' strano come mi senta più umana oggi di quanto non lo sia stata dal giorno in cui ho guardato morire quelle che avrebbero dovuto essere le mie sette sorelle senza versare una lacrima: oggi che umana non lo sono più per niente, ma tu ti sei fatta largo a colpi di strada verso tutto ciò che restava della mia umanità, delle mie debolezze, e quando il mio corpo si è schiuso in un fiore di pezzi, la sirena rotta e infranta nel mezzo del lago, ecco, tutto quel che è rimasto sono stata io. Lucida e umana e rotta, io.
Mi hai uccisa, mi hai guardata e non mi hai giudicata. Claire chiarissima, numero quarantasette, vorrei darti la mia spada per seppellirmi, ma ci sarà l'acqua limpida e chiara a chiudersi sopra la mia testa. Claire che ho cercato di uccidere, per non avermi giudicato ho lasciato che spezzassi il mio corpo da sirena. Claire chiarissima, chiara come l'acqua del fiume nel quale sono nata, chiara come i gigli d'oro, Claire che non mi mostri rancore neanche adesso.
Le due ragazze della camerata morte insieme il giorno della prova erano cadute l'una dopo l'altra, sdraiate così vicine che i loro capelli si erano mescolati, il loro respiro si era mescolato, le mani intrecciate perché non volevano cadere da sole. Se mi guardi mentre muoio, non sarò sola neanche io, non sono sola, adesso, mentre respirare diventa sempre più difficile.
Vivi, per piacere. Vivi e non lasciarti uccidere. Tu che mi hai vista morire, ogni volta che tu respiri io vivrò: perché non ti ho uccisa, adesso, perché ti ho permesso di aprirti una strada verso di me, oltre la sirena, per prenderti la mia vita. Vivi. Ricordami per come muoio e vivi.
Sarà come se fossi vissuta, così.

E' per questo che ti lascio la mia storia, Claire.
Sono stata Ofelia dell'acqua chiara, Ofelia della polla d'acqua. Sono stata Ofelia dell'acqua rossa ed Ofelia la pazza, Ofelia assassina delle sue sorelle, carne della sua carne e sangue del suo sangue, Ofelia dell'Onda con una spada che tagliava le sue compagne perdute.
Io sono Ofelia dell'acqua chiara. Sono nata dall'acqua. Sono la numero quattro: il mio simbolo è un cerchio spezzato da una linea, il cielo e il lago che si riflettono su una superficie d'argento. Io sono Ofelia dai capelli sciolti, Ofelia morta nell'acqua, e la mia vita se l'è presa una guerriera chiarissima che mi ha guardata senza rancore.
Ho pensato che volevo avere una sorella anche io, qualcuno che stesse lì mentre morivo, con me, perché mio fratello che era morto per me non poteva esserci. Ho pensato che non volevo vivere da Rinnegata, e che non mi aspettavo di poter mandare la mia cartella nera a nessuna, perché nessuna l'avrebbe accettata. Accettarla...? Da me? Io le avevo strappate tutte, quelle che mi erano passate tra le mani.
Il caso ha voluto che non ci fosse bisogno di una cartella nera, sorella mia, per chiamarti.
Portati via la mia storia, Claire, tu che cerchi l'unicorno, tu che mi hai uccisa e salvata, tu che mi hai guardata senza disprezzo – anche se non lo meritavo. Portati via la mia storia.
Lasciami proseguire con te, ora che cammini verso nord.





Note: Questa storia ha partecipato al concorso Sisterhood (Claymore Contest) indetto da visbs88, classificandosi prima. Potete trovare i giudizi qui.


Che posso dire...? E' stato un esperimento assoluto ed ho saltellato per una buona mezz'ora dopo aver letto i risultati. Avevo scritto sette versioni delle prime cinque righe di questa storia... poi, due giorni prima della scadenza ho buttato via tutto. Ho finito di correggerla mezz'ora di inviarla. x°°°D Va sempre a finire così, tanto...
Un grazie di cuore alla giudiciA gentilissima, ed ancora i miei complimenti alle altre partecipanti. Era la prima volta che scrivevo qualcosa per il fandom di Claymore, ma sospetto sarà anche l'ultima.
... anche perché hanno abbattutto il MIO personaggio preferito e sono ancora in lutto. Gorsh.
  
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