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Autore: Shomer    10/05/2012    5 recensioni
Mi piace ricordare il mondo quando ancora non era al contrario.
C’era un “qualcun altro”, nella mia vita. Seduti in riva al mare guardavamo l’orizzonte e il mio sorriso era talmente finto da darmi la nausea.
«C’è una barca» dissi.
«Con una di quelle potremmo scappare insieme».
Ridevamo. Sembravamo due idioti ma in realtà eravamo due vermi.
Se fossi diventata talmente minuscola da scomparire sarei stata bene? Contavo i grammi che mi separavano dalla felicità e i minuti che ancora mancavano per arrivare al tempo infinito.
Questa storia si è classificata terza al contest "Pensieri Affollati - quando la tristezza ti assale" di Ale HP.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ora dove sei? e che gente vede il tuo viso e ascolta
le tue parole leggere, le tue sciocchezze leggere,

le tue lacrime leggere, come una volta?
Che cosa dici ora quando qualcuno ti abbraccia
e tu nascondi la faccia e tu alzi fiera la faccia
e guardi diritto in faccia come allora?

Francesco Guccini – Ti ricordi quei giorni

 

La sala da the

 

Vestita con una gonna a fiori e una camicetta bianca, seduta nella sala da the di Catherine, mi piace dire che a quell’età non pensavo molto al futuro.
«Oh, a diciassette anni ero così spensierata!» ridacchio, sorseggiando the verde e stando ben attenta a non assaggiare neanche una briciola di biscotto.
Le altre ragazze ribattono qualcosa ma io non le ascolto. Il biscotto è proprio lì, a due centimetri dalla mia tazza.
Non ho mai capito quale fosse, e quale sia, la fonte dei miei problemi, però mentivo. Anzi, lo faccio tutt’ora. Sono sempre stata una brava bugiarda e non so se dipenda dal mio DNA o da fattori esterni, non so se sia stata colpa dei miei genitori o dell’ambiente in cui sono cresciuta, fatto sta che “omettere la verità”, come mi piace dire, è stato facile per me da che abbia memoria.
La verità è che questa storia, che è la storia della mia vita, la vorrei solo dimenticare. La verità è che io, a diciassette anni, al futuro ci pensavo eccome. Il futuro era il mio chiodo fisso.
Si potrebbe dire che sostanzialmente il mio obbiettivo fosse quello di piacere alla gente. Il giudizio degli altri mi ha sempre segnata e probabilmente continuerà a segnarmi. “Che cosa penseranno gli altri se faccio questo?” “Questa cosa potrà piacere alle persone?” “Forse semplicemente non sono adatta al mondo, e non piacerò mai alla gente.”
Non sono il tipo di persona che la gente vuole accanto, non sono il tipo che piace a tutti. C’è una piccola minoranza che mi trova piacevole, però, e ho sempre pensato che mi bastasse. Mentivo anche a me stessa.
In realtà volevo piacere a tutti. Nell’arduo tentativo di estendermi, di allargare il mio io, di essere la prima in tutto, di attirare l’attenzione, mi annullavo.
Agitavo furiosamente le mani per far sì che qualcuno si voltasse dalla mia parte.
«Ci sono io!» gridavo nella mia testa, e quelle parole mi facevano un male cane. Sembrava quasi che se nessuno si voltasse per afferrarle, sarebbero tornate indietro come un bumerang e mi avrebbero trafitto il petto. Beh, il petto me lo trafiggevano, eccome.
C’era un ragazzo immaginario che diceva: «No, non tu!» e poi scoppiava a ridere e correva dalla parte opposta a quella in cui mi trovavo io, con ancora le braccia allargate e un’espressione indescrivibile.
Dicevo che del giudizio altrui non m’importava. Dicevo che volevo solo divertirmi, che l’amore è una gran cazzata, che non m’importava niente di niente, che andava bene così e che mi piaceva la vita tranquilla, che quello era superfluo, quell’altro troppo insignificante, che io ero troppo avanti per cose del genere. Avevo quest’atteggiamento supponente che mi dava in qualche modo una sicurezza al livello della testa, che riusciva perfino ad imbrogliare me, a volte.
Mi accorgevo che erano una marea di stronzate quando ero sola e scoppiavo a piangere anche se qualcuno mi rispondeva male involontariamente.
Come dicevo prima, il futuro era il mio chiodo fisso e in quello riponevo tutta la mia speranza. Dicevo che per gli altri non sarei mai dovuta cambiare ed effettivamente non ho mai fatto una cosa del genere, almeno non a livello caratteriale. Solamente, rimpicciolivo. Diventavo sempre più piccola, giorno dopo giorno, convinta che quando lo sarei diventata abbastanza, le cose sarebbero cambiate.
Se fossi diventata talmente minuscola da scomparire sarei stata bene? Contavo i grammi che mi separavano dalla felicità e i minuti che ancora mancavano per arrivare al tempo infinito.
Mi immaginavo bellissima e superiore, con i capelli perfetti e un portamento elegante e intanto il mondo accanto a me – o quello dentro di me? – si distruggeva.
Sdraiata su pezzi di legno con la borsa strappata sulla quale appoggiavo la testa, guardavo le stelle con qualcuno. Mi parlava.
«No, no, è quella la costellazione di cui parlavamo. Ti sbagli!» diceva qualcuno, e io intanto pensavo a quanto sarebbe stato bello essere piccola come una di quelle stelle.
Sembrava che ad ogni mio sguardo brillassero un po’ di più.

Qualcuno era ciò che più si avvicinava al mio ideale ma che era comunque troppo distante e troppo diverso da me, e non andava bene. O forse non andavo bene io? Ci pensavo di continuo e cercavo di convincermi di essere “giusta” e che quelli “sbagliati” fossero gli altri. Non sono mai riuscita a mentirmi su questo, però. Ma pensavo che nel mio errore fossi comunque un gradino più in alto.
«Sei fatta così e non c’è niente che tu possa fare per cambiare. Fa bene lui a mandarti sempre a quel paese».
E’ stato verso la fine, sì. Ricordo bene quest’episodio. Il cielo che tentavo così disperatamente di sorreggere sopra la mia testa si fece d’un tratto molto più pesante ed ebbi sinceramente paura che le mie braccia si potessero spezzare. Di fatto fecero un sonoro “crack” e da lì il mondo si capovolse.
«Sei falsa e acida, stronza e meschina ed è nella tua natura esserlo».
Ricordate l’effetto bumerang di cui parlavo prima? Pensavo funzionasse solo con le mie parole non assorbite da altri. Invece funzionava anche con le parole di altri assorbite da me. Le respingevo ma ritornavano, più forti di prima. E le parole di qualcuno mi fecero male.
«Non è vero. Era solo uno scherzo».
«No. E’ che tu sei così».
«Non posso piacere a tutti».
«No, ma neanche a nessuno».
Il cielo adesso era sotto di me e non c’era più motivo di sorreggerlo. Le mie braccia spezzate facevano un male atroce e il mio obiettivo in quel momento era stare in equilibrio in un mondo al contrario. Cado ancora. Non ho ben capito come fare per sorreggermi. Potrei aggrapparmi alle nuvole? O stare sopra la luna?E se invece quel giorno mi fossi capovolta io?
Mi piace ricordare di quando il mondo fosse ancora nel verso giusto.
C’era un “qualcun altro”, nella mia vita. Seduti in riva al mare guardavamo l’orizzonte e il mio sorriso era talmente finto da darmi la nausea.
«C’è una barca» dissi.
«Con una di quelle potremmo scappare insieme».
Ridevamo. Sembravamo due idioti ma in realtà eravamo due vermi. La falsità di quelle parole e di quelle risa, di quegli abbracci e di quelle carezze la ricordo nitidamente ed è così disgustosa che pare che il mio stomaco si stia accartocciando su se stesso per poi essere espulso mediante uno squarcio nella pancia.
A nessuno dei due fregava niente dell’altro e l’unico motivo per cui continuavamo a vederci devo averlo dimenticato. Io non sopportavo qualcun altro e sono abbastanza sicura che neanche lui sopportasse me. Eravamo entrambi uno sfogo e comunque niente e nessuno poteva fermarci.
“Posso fare tutto quello che voglio, ora” pensavo. “Tra qualche anno me ne andrò e nessuno si ricorderà più di me”.
Sì, certo. E poi mi sarei messa una carota sulla testa e avrei ballato in un campo di fragole.
Cercavo di convincermi così disperatamente di essere dalla parte della ragione che quasi ci credevo. Ero così intenta a guardare il mio futuro immaginario che il presente mi scivolava addosso come olio. Il problema è che quest’olio era bollente e porto ancora le cicatrici.
Carpe diem, si dice. Cogli l’attimo. Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, ogni lasciata è persa e stronzate del genere non mi toccavano minimamente. Quando si è abituati a lasciarle di continuo, non ci si pensa più. Te ne rendi conto sempre troppo tardi.
Io me ne rendo conto ora, nella sala da the di Catherine. La maschera che porto è rimasta intatta, ma diventa sempre più stretta. Le donne intorno a me ridono raccontando aneddoti riguardo la loro adolescenza.
«E tu, Ellie?» mi chiede Jill, sorridendo. «Come hai festeggiato il tuo diciottesimo compleanno?»
Io appoggio la tazza di the sul tavolo e alzo lo sguardo fiero su tutte loro. Ho fatto troppo errori che non riesco a perdonarmi, e di sicuro quando la gente dice che sbagliando si impara non prende me come esempio. Probabilmente non imparerò mai.
Sento quattro paia di occhi taglienti puntati sulla mia nuca che vorrebbero solo macellarmi la carne e darla in pasto ai propri bambini.
Sorrido falsamente – è un’abitudine che non ho mai abbandonato - e mi alzo. «Ho dato una festa» mento, avviandomi verso la porta.



   
 
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