Ciao fandomino
adoratissimo!
Oggi sono decisamente tesa e un filino giù di morale e avevo
veramente,
veramente bisogno di scrivere un po’!
Spero davvero che questo lavoretto per me
‘terapeutico’ vi piaccia quanto è
piaciuto a me scriverlo!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!
S.
*
John non capiva, non
comprendeva, non tollerava semplicemente che Sherlock liquidasse le sue
richieste senza quasi mai dargli un motivo valido. Soprattutto quella
volta, John
non gli aveva chiesto nulla di complicato, o chissà quanto
umiliante. Aveva
semplicemente espresso il desiderio di fare una passeggiata in
bicicletta un
giorno, dato che le giornate volgevano quasi sempre ad essere serene e
calde, e
che gli sarebbe piaciuto che lui lo accompagnasse. Il coinquilino aveva
avuto
una reazione stranissima, la prima volta che l’aveva
proposto, come se quella
fosse stata la cosa più stramba che qualcuno gli avesse
chiesto a distanza di
anni. E parlava di qualcuno che era abituato a colpire cadaveri con un
frustino. Aveva declinato immediatamente il suggerimento, dicendo che
era una
pessima idea, che sarebbe stata un’inutile perdita di tempo
prezioso, che
rimanere imbottigliati nel traffico su un traballante e instabile mezzo
di trasporto
su due ruote appena non era il massimo del divertimento.
John aveva rinunciato in un primo momento, ma il giorno dopo era
tornato
all’attacco chiedendoglielo ancora, insistendo, cercando di
analizzare con lui
i mille lati positivi di una sana giornata all’aperto.
Sherlock aveva alzato
gli occhi al cielo e aveva preso a girovagare per casa apaticamente,
facendo
qualunque cosa che lo distogliesse dall’ascoltare ancora
John. Il terzo giorno
poi, John era riuscito ad cavargli fuori una semi confessione.
“Non so andarci. Contento?” aveva detto, cercando
di non incontrare il suo
sguardo. “Ma anche se sapessi farlo, non verrei comunque”.
John era rimasto non poco sorpreso da quell’affermazione ma
dopotutto, Sherlock
era ‘spettacolarmente ignorante’
su
svariati argomenti, Sistema Solare in primis, e quello di non saper
maneggiare
una bicicletta non era certamente il suo principale problema.
E ben una settimana dopo, John ci aveva riprovato, cercando di
approcciarsi al
discorso in maniera diversa, magari più tranquilla. Ogni suo
buon proposito era
però andato a farsi bellamente benedire a fine serata, e
John aveva seriamente
perso la pazienza, tanto da permettere alla rabbia di prevalere,
oscurandogli
completamente il raziocinio.
“Io sono veramente
stanco,
Sherlock!” urlò John chiudendo la porta
dell’ingresso con inusuale veemenza.
Mrs. Hudson al piano di sotto avrebbe certamente avuto da ridire alla
prossima
visita sul modo in cui il suo appartamento veniva barbaramente
trattato, ma in
quel momento, la padrona di casa era l’ultimo dei problemi di
Sherlock e John.
“John non farla tanto lunga. Sei così noioso”
fu la risposta pacata di Sherlock, totalmente scoordinata dal tono di
voce
irruento di John, come se questi non fosse infuriato con lui ma
semplicemente appena stizzito.
“Sei talmente
infantile, a volte”.
John restò a fissarlo, inspirando ed espirando rumorosamente
per auto
convincersi a mantenere almeno un briciolo di calma, per evitare di
esplodere.
E stava arrivando decisamente al punto massimo di sopportazione.
“Io non sono
infantile,
Sherlock! Io ho solo… voglia di passare del tempo libero
fuori con il mio… migliore amico!”
disse tra i denti, come
se non credesse di essere stato capace di definirlo ancora in quel
modo. “E tu
non fai che contraddirmi, facendomi sentire un perfetto idiota, quello
che ha
sempre idee stupide, quello che non fa altro che… rubare
tempo al tuo prezioso
lavoro!”. Non riusciva davvero più a trattenersi.
Si sentiva un vulcano
dormiente pronto ad esplodere di nuovo.
Sherlock chiuse gli occhi, sbuffando.
“Ti prego John, piantala con questa storia” lo
pregò il detective, sprofondando
tra i cuscini del divano.
“Io non la pianto! Oggi ti ho seguito ancora Sherlock, ho
rischiato ancora per
te, ho…messo a repentaglio la mia vita per te, per non
ricevere uno straccio di
riconoscenza, in cambio!” si sentiva decisamente idiota a
prendersela a quel
modo per una gita in bici ma ormai
era diventata una questione di principio, per John. Dovevano esserci
regole,
tra loro, una volta per tutte.
Sherlock rise, sarcastico,
volgendo di nuovo gli occhi chiari verso di lui.
“Oh, mi dispiace.
Non
ricordavo che nella contratto della nostra…amicizia
fosse contemplato un obbligatorio dare-avere”
esclamò, toccando nel segno. John strinse i denti.
“Non fai che metterti in pericolo, Sherlock. Stasera
è stata l’ennesima prova. E
metti deliberatamente a rischio altre persone, me compreso”
spiegò, cercando di
moderare il tono della voce anche se dentro ancora si sentiva bruciare.
Sherlock gli rivolse un’occhiata di sufficienza, con un
cipiglio indagatore che
riuscì solamente a rendere John ancora più
nervoso. Ammirava le capacità di
Sherlock, lodava in continuazione la sua intelligenza e le sue
abilità
deduttive ma odiava quando il coinquilino provava deliberatamente a leggere dentro di lui.
“Pensavo che il pericolo ti piacesse. Che lo trovassi
stimolante, adrenalinico…
eccitante”
esclamò, lasciando John
interdetto per un secondo.
“E sai che è così, Sherlock.
Però non sopporto quando cerchi deliberatamente di
farci ammazzare, senza alzare nemmeno un dito per cercare di uscirne.
Ti senti
stimolato a trovarti sull’orlo del baratro, trovi certamente
molto eccitante
ridurti sempre all’ultimo secondo nel cercare di…
di reagire. Come per il
tassista, so che lo stai pensando”.
“Sapevo che saresti arrivato”.
John rise, senza alcuna allegria.
“Certo che lo sapevi. Ma non t’importava di
rischiare la vita, perché dovevi
sfidare lui e sfidare te stesso. Ora però non sei
più solo, Sherlock e per
quanto la vita con te sia piena, per quanto… mi faccia
sentire bene lavorare con te io non
ho
intenzione di tirare le cuoia perché il mio migliore amico
dimostri a se stesso
quanto è intelligente. Non sono sopravvissuto
all’Afghanistan per morire a
causa di una stupida questione di orgoglio”.
Sherlock distolse lo
sguardo dal medico, mordendosi il labbro inferiore che si
arrossò per la
pressione leggera dei denti. Si sfilò il cappotto e la
sciarpa, con un sospiro.
“Quindi stai dicendo che di te non m’importa,
John” sintetizzò. “Che ti lascio correre
i miei stessi pericoli ignorandoti, e pensando solamente al modo
più brillante
e intelligente di risolvere il caso in questione per gratificare il mio
ego
smisurato senza darti nulla in cambio.”
John annuì con un
sorriso
sarcastico, battendo le mani in un applauso senza alcun entusiasmo.
“Hai capito, ovviamente. Non mi aspettavo diversamente. Io
non voglio che tu ti
senta obbligato, odio che la gente si sente in debito ma…io
ho ucciso per te,
ho fatto cose…che andavano oltre ogni mia morale, anche. E
tu? Cosa hai mai
fatto per me?” sentenziò, sputando tutta la sua
rabbia e frustrazione. Sherlock
lo guardò ancora, con un’espressione indecifrabile
sul volto. Non sorrideva,
non era corrucciato, né impietosito
o
amareggiato. Il suo viso spigoloso era una completa maschera di
indifferenza.
John lo vide chiudere gli
occhi per un secondo, come se stesse riflettendo, pensando intensamente
a
qualcosa. Se si fosse concentrato, il medico lo sentiva, avrebbe potuto
quasi
udire il rumore del suo cervello in iperattività, come
quando era nel mezzo di
un caso.
Con somma sorpresa di John, il coinquilino sospirò e
annuì.
“Suppongo che tu abbia ragione, John” disse, in un
tono neutro e diplomatico.
Deglutì. “Sono stato sempre
così…ingrato”
ammise, ma John non capì se fosse serio o se lo stesse
schernendo. “Credo che
la cosa più sincera da dire sia che sono…fatto
così. E la buona educazione mi
imporrebbe di chiederti se c’è qualcosa che io
possa fare per rimediare.
Allora, John?” chiese, e John lo vide per la prima volta
esitante, come se
avesse paura a porre quella domanda.
Il medico sospirò, la rabbia che ancora faticava a sbollire
e che annebbiava
tutti i suoi sensi, alterandoli. Fosse stato il John Watson di ogni
giorno
probabilmente lo avrebbe perdonato, cercando di non pensarci
più e voltando
definitivamente pagina, ma per quel John sull’orlo della
sopportazione, adirato
e frustrato non c’erano belle parole o qualunque altra
giustificazione che
avrebbero potuto distoglierlo dalla sua idea. Men che meno
l’essere trattato
come un ragazzino capriccioso.
“No, Sherlock. Non voglio la tua pietà. Hai
bruciato la tua possibilità”.
Le pupille di Sherlock si dilatarono per un secondo, e le labbra, quasi
seguendo il loro esempio, si separarono leggermente in
un’espressione sbigottita.
Sherlock sembrava stupito, sorpreso, preso alla sprovvista. Come se non
si
fosse mai aspettato quella risposta da parte di John. Credeva che
avrebbe
sopportato in silenzio, come tutte le altre volte?
“Bene” disse, con una voce decisamente diversa dal
solito. “Col tuo permesso,
andrei a dormire, adesso”.
John non rispose, né gli augurò la buonanotte
sulla soglia della porta più
tardi. Lo guardò sparire dietro il muro maestro rimanendo il
silenzio, con
sentimenti forti, dilanianti e contrastanti che lottavano dentro di lui
per
poter uscire, liberarsi. Con un senso opprimente di nausea e la testa
che
pulsava dolorosamente, salì la rampa di scale, spegnendo la
luce.
Quando la rabbia cominciò a sbollire, lasciando un minimo
spazio alla vecchia e
proverbiale razionalità che lo aveva sempre contraddistinto,
John cominciò a
sentirsi terribilmente in colpa. Lo sconvolgeva ripensare soprattutto
all’espressione
di Sherlock prima che si congedasse dalla discussione, e ci aveva
pensato a
lungo, in quella notte insonne.
Dopotutto Sherlock era veramente fatto così, e nulla avrebbe
potuto cambiarlo.
Non era sicuramente cattiveria, né qualcosa di intenzionale,
semplicemente era
nel suo carattere, nel suo essere totalmente fuori dal comune, nel suo
essere Sherlock. Le semplici
emozioni umane, le
semplici azioni umane, non
sortivano
alcun effetto su di lui e quindi era inevitabile che cercasse qualcosa
che le
compensasse, che gli desse una soddisfazione che qualcosa di comune non poteva dargli.
“Questo non
giustifica il
fatto che debba sempre coinvolgermi” John disse a se stesso.
“Va bene il
rischio, ma non può ignorare che io sono li con lui e non ho
alcuna voglia di
farmi ammazzare per dimostrare qualcosa a qualcuno”.
Magari non era del tutto vero, questo glielo doveva, aveva visto
sincera
preoccupazione nei suoi occhi durante la disavventura in piscina con
Moriarty,
lo aveva visto decisamente in pena quando lo aveva visto con
un’arma puntata alla
testa, a casa di Irene Adler…e aveva saputo difendersi,
quella volta... ma a
John non bastava. Sherlock lo aveva salvato sempre, alla fine, nel
momento
stesso in cui la speranza di sopravvivenza quasi svaniva, ma John lo
odiava,
tremendamente. A John non piaceva affatto il modo in cui Sherlock
liquidava poi
la cosa, dandole poco peso. Non era mai sembrato pentito, ferito per
quello che
gli aveva fatto passare, non aveva mai speso una parola per dirgli che
gli
dispiaceva, che era costernato e avrebbe cercato di limitare i danni.
Sherlock
dava tutto per scontato, anche che John sarebbe stato pronto ad
affrontare la
morte per lui. Ed era vero, molto più che vero, ma John
aveva sperato di non
darlo così tanto a vedere.
Si alzò lentamente,
roso
dal senso di colpa, e scivolò piano per le scale, camminando
sulle assi di
legno poggiando completamente il piede facendo attenzione a non farle
scricchiolare. Arrivato alla stanza di Sherlock si sporse dalla soglia
e lo
guardò.
Era profondamente addormentato, (o almeno così sembrava, non
si poteva mai dire
con lui) e stranamente, non indossava null’altro che i
pantaloni grigi del
pigiama. John abbassò lo sguardo quando se ne accorse,
sentendosi avvampare
come se qualcuno avesse improvvisamente alzato al massimo la
temperatura nella
stanza. Pian piano si avvicinò al letto, dal lato non
occupato dal coinquilino
e vi si sedette, delicatamente.
La luna era piena quella notte e la luce sgargiante e lattea
proveniente da
essa e dai lampioni della strada, penetrava dalla finestra con le
persiane
alzate, rischiarando la figura di Sherlock in tutta la sua singolare
perfezione.
Era
voltato su di un fianco, ma John
poteva vedere chiaramente il petto abbassarsi e alzarsi al ritmo del
suo
respiro, i capelli scuri muoversi lentamente sollevati dagli sbuffi di
fiato.
Confidando che non stesse fingendo per un qualche oscuro motivo, John
si sentì
incoraggiato ad avvicinarsi di più. Non sapeva esattamente
cosa lo avesse
spinto a quell’improvvisa voglia di contatto, dopotutto era
stato infuriato con
il coinquilino fino a nemmeno due ore prima, ma John aveva smesso di
farsi
domande sul suo strano comportamento. Da quando dividevano
l’appartamento,
sembrava che il comportamento strambo di Sherlock avesse in qualche
modo
contagiato anche lui in certi aspetti. Forse voleva solo dimostrare a
se stesso
che era pentito delle parole che aveva detto, che era grato comunque a
Sherlock
per averlo mantenuto vivo fino a quel momento anche se lui non aveva
mai speso
una parola di scuse, che teneva a lui lo stesso anche se non accettava
le sue
proposte di svago, anche se lo imbarazzava enormemente il fatto che per
farlo,
necessitasse di…toccare
il detective.
Perché John aveva allungato la mano esitante, fino a
poggiarla sulla spalla
nuda di Sherlock, muovendo poi il palmo lungo il bicipite,
l’interno del gomito
e l’avambraccio, come se lo stesse confortando, nonostante
non potesse
sentirlo. Era come se gli stesse tacitamente chiedendo scusa.
Toccò poi la pelle
delicata del polso, dove si soffermò più a
lungo, ad ascoltare il battito del suo cuore sulle dita.
Il suo sguardo scivolò sul collo nudo del coinquilino, sulle
sue spalle ampie e
armoniose, sulla leggera curva della spina dorsale e sui suoi fianchi.
E fu allora, mentre studiava attentamente la pelle nivea di Sherlock,
affascinato, che le vide.
Alcuni segni erano più chiari, sbiaditi, di vecchia data, ma
altri erano
decisamente più marcati, freschi e di un colore
più intenso, ancora più
visibile a causa della carnagione chiara di Sherlock. Cicatrici. Un
disegno
fantasioso di piccoli segni un po' ovunque, di vario genere e forma che
John si
stupì di non aver mai notato prima. Aveva visto Sherlock
nudo, o almeno semi-nudo pensò
con un brivido, ma
probabilmente non così a fondo da poterle notare. Dopotutto
Sherlock non era
uno che amava particolarmente esibire le sue...qualità.
John passò il polpastrello del dito indice a sfiorare una
cicatrice sulla
spalla particolarmente lunga e dai bordi regolari. Era una delle meno
recenti a
giudicare dal segno leggero ma all'improvviso John sembrò
ricordare qualcosa.
Ladro di gioielli, Knightsbridge. Si era avventato contro John con una
violenza
che il medico non si sarebbe mai aspettato, e preso alla sprovvista non
era
stato abbastanza rapido da studiare una contromossa. Il ladro aveva
tirato
fuori un coltello e John aveva quasi visualizzato quella lama
affondargli nel
petto quando Sherlock aveva fatto la sua comparsa. Aveva deviato il
braccio
armato con un'abile colpo di spalla e l'uomo aveva gridato, lasciando
la presa,
ma solo dopo aver sferzato un ultimo coraggioso colpo di lama verso la
spalla
di Sherlock nel tentativo di liberarsi.
John chiuse gli occhi ed emise un verso lamentoso e desolato. Adesso
che quel
frammento di memoria gli era sovvenuto alla mente, cominciava a
sentirsi in
colpa in maniera decisamente preoccupante.
Il dito si spostò lentamente e il dito medio si aggiunse
all'ìndice nel toccare
la superficie leggermente irregolare e frastagliata di una ferita
decisamente
più marcata. Era abbastanza spessa e il graffio doveva
essere stato profondo e
causato da un oggetto non piatto e tagliente ma abbastanza pesante da
lacerare
l'epidermide. Anche per quella, un'immagine colpì John come
un fulmine a ciel
sereno.
Pluriomicida, a Settembre, Peckham. Notte buia e senza stelle, una
serata
ottima per rischiare di morire con una botta in testa riverso sul
marciapiede.
Per fortuna anche quella volta l'aveva scampata, in gran parte con le
proprie
forze, non ricordava mai di aver mai stretto il polso di un uomo a quel
modo, e
anche grazie a Sherlock, che gli si era parato davanti bloccando la
pistola a
mezz'aria con la spalla.
"Dio, Sherlock.
Riesci a
farmi sentire un completo ingrato anche rimanendo zitto"
bisbigliò in un
soffio, sperando di non svegliarlo.
Passò ad una cicatrice dalla forma circolare alla base della
schiena. Quella la
riconobbe quasi immediatamente, dato che ne aveva una identica anche
lui sul
braccio sinistro, a ricordo indelebile di quel delirante pomeriggio.
Dinamitardo a Regent's Park, non avevano nemmeno dovuto spostarsi
più di tanto
da casa per la loro settimanale dose di minacce mortali e certamente
era stato
uno degli scontri più particolari che avessero mai avuto,
dato che quel matto
aveva cercato di pugnalarli con un accendigas da cucina. John
continuò a
seguire le linee immaginarie di quella mappa quasi invisibile ad altri
occhi,
rivivendo storie, momenti, immagini che credeva di aver dimenticato.
Spalla sinistra, poco profonda, contrabbando d'armi a Lewisham. Fianco
destro,
piccola e squadrata, Uxoricida seriale con disturbi della
personalità che aveva
certamente scambiato John per una delle sue prossime consorti.
Sherlock, anche
quella volta, aveva rivendicato la sua assoluta...proprietà.
La successiva mezz'ora fu un continuo fluire di ricordi e immagini
vivide,
quasi come si riferissero a qualcosa accaduto appena un giorno
prima.
E ovviamente, in quella mezz'ora John ammise a se stesso, non con un
certo
risentimento e pieno di senso di colpa, che si era comportato come un
emerito
idiota ingrato, con Sherlock. Magari non amava andare in bicicletta, ma
dopotutto non amava fare la maggior parte delle cose che la gente
comune faceva
ogni giorno, ma lui non avrebbe assolutamente dovuto prendersela in
quel modo
lasciando che l'astio e l’ insoddisfazione prendessero il
sopravvento su di lui
costringendolo ad accusarlo di cose non vere. John affondò
la testa nel
cuscino, che odorava piacevolmente di
Sherlock, emettendolo un rantolo di frustrazione. E adesso
che cosa avrebbe
dovuto fare? Se si fosse scusato, Sherlock non avrebbe certo liquidato
la
faccenda in un minuto. Avrebbe certamente fatto domande, supposizioni,
deduzioni che lo avrebbero certamente portato a scoprire la
verità.
L'imbarazzante verità di John, sdraiato accanto a lui tutta
la notte ad
accarezzarlo con la dolcezza di uno sposino novello con la sua dolce
metà.
Mentre ancora rimuginava sul metodo più efficace per
chiedergli scusa
evitandosi grame figure e fin troppo imbarazzanti confessioni, John
vagò con lo
sguardo fino alle gambe semi-scoperte del coinquilino. Quando vide
segni anche
li, questa volta decisamente più recenti di quelli sulla sua
metà superiore,
John ebbe un fremito. Si alzò dalla posizione sdraiata che
aveva mantenuto per
tutto il tempo e si rannicchiò ai piedi del letto,
osservando i tagli ancora
freschi e sanguinolenti sulle caviglie e sui polpacci di
Sherlock.
Erano un tipo veramente curioso di cicatrice, John pensò
subito. Erano come
ferite da sfregamento, causate da un continuo persistere nel venire a
contatto
con un qualche oggetto piccolo e rigido dalla forma squadrata, a
giudicare dai
contorni. Appena sotto il ginocchio poi, c'era un'altra serie di
piccoli segni,
alcuni già rimarginati anche se da poco, altri
più nuovi, lunghi e regolari
come da continuo urto con un qualcosa di lungo e sottile. Infine, e
quelle
colpirono John ancora più delle altre, le ginocchia erano un
pasticcio completo
di sbucciature, tagli e lividi violacei.
Che di notte Sherlock uscisse a prendere a ginocchiate i muri e a
percuotersi
le caviglie con dei mattoni il medico davvero non sapeva (e nemmeno ne
sarebbe stato
tanto sorpreso, se si fosse rivelato esser vero) ma a primo acchito gli
venne
da sorridere mentre paragonava Sherlock a se stesso ragazzino, quando
giocava
con i suoi amici in cortile, ignorando ovviamente le raccomandazioni
della
mamma e seminando la propria epidermide su praticamente ogni
marciapiede del
viale. Per non parlare di quello che aveva combinato le prime volte che
aveva
provato ad andare in bicicletta senza le rotelle. Aveva avuto le
ginocchia
fasciate per giorni, per non parlare del trionfo verde e viola delle
sue
caviglie e quei maledetti pedali che non facevano che pressargli sugli
stinchi...
John si
fermò di colpo, come
colpito all'improvviso da un' illuminazione. Il cuore prese a correre a
miglia
all’ora quando all’improvviso si rese conto di
quello che era successo.
Nessuno poteva dargliene conferma, se non Sherlock stesso, ma una
sensazione
pacifica, piacevole, tremendamente appagante
cominciò a farsi strada dentro di lui,
regalandogli una sensazione di
profondo calore, e Dio potesse esserne testimone, un senso di tremenda
e
profonda soddisfazione. Forse non conosceva bene Sherlock in tutte le
sue
sfaccettature, ma dopotutto era decisamente impossibile conoscere ogni
lato di
una persona poliedrica, eccentrica e genialmente folle come Sherlock
Holmes.
Era qualcuno capace di trasformarsi in continuazione, di prendere un
volo per
la Russia in una notte e tornare il giorno dopo come se fosse andato a
comprare
ciambelle al negozio all’angolo, ed era sempre, costantemente
sorprendente. John si
sentì lusingato, privilegiato,
impossibilitato a smettere di sorridere mentre si sdraiava nuovamente
accanto a
Sherlock poggiando un bacio leggero sulla sua nuca. Rischiò
l’autocombustione
spontanea quando avvampò furiosamente, una volta resosi
conto di quello che
aveva appena fatto, ma non si pentì.
Aveva rinunciato completamente ad auto-convincersi della sua
eterosessualità da
tempo immemore, dopo una lunghissima riflessione in seguito ad una
serata come
tante cominciata con un promettente appuntamento con una ragazza fin
troppo disponibile
e finita con un’irruzione nel locale di Sherlock, che lo
aveva trascinato via
per una sua assistenza indispensabile.
E la consapevolezza di ciò che provava, di ciò
che Sherlock era per lui, era
arrivata quando si era accorto di quanto stare con lui lo facesse
sentire molto
meglio che in compagnia di lei. Quando si accorse di aver potuto
rinunciare a
qualunque appuntamento galante se l’alternativa fosse stata
passare anche solo
un’ora in più della sua vita con Sherlock,
constatò di essere diventato
completamente pazzo ma felice di essere riuscito a far pace con se
stesso sui
suoi sentimenti.
E adesso John sapeva. E la sensazione, quella estrema e confortante sicurezza era appagante come poche altre
cose.
“Oh Sherlock” sussurrò, nel suo collo.
“Sei grandioso”.
“Sei sempre troppo lento, John” sentì
poi una voce flebile rivolgersi a lui.
Sherlock non si voltò ma John lo vide chiaramente piegare le
labbra in un
accenno di sorriso. Il cuore di John ricominciò la sua folle
corsa e il medico
portò una mano al petto come per calmarlo, per dirgli di
stare tranquillo, che
era solo… Sherlock. Ed era stato come gettare benzina sul
fuoco.
John rise a bassa voce, anche se erano i soli due presenti nella
stanza, perché
non aveva nessuna voglia di rompere quella quiete perfetta e surreale
che si
era venuta a creare intorno a loro. Si accomodò meglio tra i
cuscini,
sollevandosi appena e poggiando la testa sulla mano.
“L’importante è arrivarci,
Sherlock” sussurrò in risposta, ma abbastanza
forte
perché lui lo sentisse. Le parole sortirono
l’effetto desiderato perché il
coinquilino finalmente si mosse, puntellandosi su braccia e piedi per
cambiare
posizione, trovandosi faccia a faccia con John.
“Però devi affinare le tue capacità
d’osservazione, John. Come sempre guardi ma
non osservi” disse ancora, puntandogli l’indice
contro. “Volevo farti una
sorpresa, ma questo lo avrai capito da solo. Ho lasciato un tagliando
per un
abbonamento mensile al servizio bike sharing di Hyde Park, in quel tuo
vecchio
libro sul caminetto. Quello che stai leggendo”.
John stavolta rise più forte, trovando la situazione
immensamente divertente. E
oltretutto le parole di Sherlock gli avevano fornito materiale per una
piccola
personale vendetta.
“Peccato che sia stato tu a non osservare,
stavolta” lo redarguì. “Ho finito
quel libro due settimane fa. Non l’ho più aperto
da allora”.
Sherlock lo guardò sbigottito, con la bocca leggermente
aperta con un
espressione di sorpresa. Poi scosse la testa, per quanto il cuscino
glielo
permettesse, e sbuffò.
“Io posso permettermi di non osservare, qualche
volta”.
John lo colpì amichevolmente sul viso con la mano, senza
fargli male, come a
volerlo punire della sua supponenza. Sherlock si massaggiò
la guancia con
espressione fintamente sconvolta, come se John lo avesse colpito con un
pugno a
velocità supersonica.
John giocherellò per un po’ con la federa del
letto, aspettando il momento
opportuno per poter parlare di nuovo. Un’occhiata
particolarmente curiosa da
parte di Sherlock, che aveva certamente capito che una domanda giaceva
da
troppo tempo inespressa dentro di lui, sembrò incoraggiarlo.
Il medico sospirò.
“Sei
stato sveglio tutto il
tempo, vero?” gli domandò poi, sinceramente
curioso di averne conferma,
nonostante fosse praticamente certo di aver ragione. Il coinquilino si
passò
una mano tra i capelli scompigliati assumendo un’espressione
compiaciuta.
“Ovviamente” rispose, con il suo solito tono
sicuro. “E ammetterai che…aver
casualmente smarrito la maglia del mio unico pigiama pulito sia stato
un fortunato
contrattempo”.
John lasciò scivolare la testa dallo scomodo palmo della sua
mano alla
confortevole morbidezza del cuscino, ridendo.
“Oh si. Un contrattempo decisamente comune. Proprio ieri
leggevo delle
centinaia di famiglie a Londra che smarriscono i capi
d’abbigliamento più
disparati, ogni giorno”.
“E’ una seria piaga del mondo moderno”
asserì Sherlock, con una certa enfasi,
annuendo.
John ridacchiò sommessamente, mentre realizzava di come
quella fosse una delle
più tranquille, scherzose e ordinarie conversazioni che
avessero mai condiviso
prima. E a John piaceva, era qualcosa di straordinariamente nuovo e
intimo, per
lui.
“Comunque, tornando per un secondo alle cose
serie…ti chiedo scusa” aggiunse
poi, trovando quel momento il più adatto.
“Per… per quello che ti ho detto ieri
sera. Ho sbagliato, e lo riconosco. Mi dispiace”.
Sherlock guardò in basso e un guizzo compiaciuto comparve
sul suo volto, come a
dirgli ‘sapevo che sarebbe successo’.
John ovviamente avrebbe dovuto esserne seccato, ma in quel momento la
smisurata
presunzione del coinquilino non era esattamente al centro dei suoi
pensieri, e
dopo tanti mesi di convivenza, ormai ci aveva fatto
l’abitudine.
“Non preoccuparti” liquidò lì
Sherlock, ancora con quell’espressione in volto.
“E’ in fase di rimozione dal mio hard
disk” aggiunse, picchiettandosi una
tempia con l’indice.
John sorrise ma rimase in silenzio, senza sapere esattamente il motivo,
trovando che la contemplazione del volto del coinquilino fosse
decisamente molto
più interessante di qualsivoglia conversazione in quel
momento. I suoi occhi
chiari avevano assunto una sfumatura quasi perlacea alla luce pallida
dei
lampioni in strada, e strani giochi di ombre disegnavano arabeschi
immaginari
sul suo collo, sulla clavicola, sulle spalle larghe. Sherlock guardava
lui con
la stessa intensità, come se l’uno attendesse la
reazione dell’altro, come se
entrambi aspettassero qualcosa, una svolta, una decisione per entrambi
troppo
difficile da prendere. John voleva avvicinarsi di più. John
voleva baciarlo,
con tutto il cuore. John voleva Sherlock e nulla avrebbe più
potuto cambiare la
sua decisione, non ad un passo dalla meta.
Sherlock non obiettò alla mano di John dietro la sua nuca,
tra i riccioli scuri,
e non si oppose nemmeno alle labbra del medico sulle sue, in un gesto
troppo a
lungo aspettato, agognato, segretamente desiderato dopo mille lotte
interiori
con se stesso. Sherlock non aveva una grande esperienza di baci, se non
si
consideravano quelli di sua madre, sua nonna e qualche ragazzina
temeraria al
liceo ma quel bacio fu sicuramente uno dei più belli che
avesse mai ricevuto.
Le labbra di John erano morbide, attente, premurose e non si sarebbe
mai
aspettato nulla di diverso da lui. Dal canto suo, John, che di
esperienza ne
aveva decisamente molta di più, era senza dubbio della
stessa identica
opinione. Sherlock era brillante, rapido, assurdamente abile
anche in un gesto appreso da appena cinque minuti scarsi.
John si allontanò, con un sorrisetto compiaciuto.
Allacciò una mano a quella di
Sherlock, tenendo le dita intrecciate saldamente con quelle del
coinquilino,
come a non volerlo lasciar andare.
“Ora ti ho definitivamente perdonato”
esordì Sherlock, con il fiato reso corto
dal bacio prolungato. John soffocò una risata nella spalla
dell’altro.
“Per fortuna” disse John, allegro.
Sherlock strinse la mano più forte, domandandosi da dove
provenisse tutta
quella sicurezza, tutta quell’improvvisa voglia di stabilire
un contatto con
John che non si limitasse ad uno sguardo, o un sorriso. Con la mano di
John
intrecciata alla sua, Sherlock si sentiva leggero, sereno, rilassato quasi. Era una sensazione
indescrivibile a parole,
qualcosa che non aveva mai provato prima ma che adesso gli piaceva
enormemente.
“Comunque non sono ancora molto bravo”
esclamò, cambiando argomento. “…con la
bici intendo” specificò, notando
l’espressione allibita di John. “E’
difficile
imparare, se non c’è nessuno che
t’insegni adeguatamente” ammiccò verso
il
medico che colse, naturalmente, la palla al balzo. Non gli era mai
andato già
il non saper far bene qualcosa.
“Penso che potrei fare uno sforzo e darti una mano,
stavolta” John gli
concesse, assumendo un’aria importante, come di qualcuno con
l’agenda piena
d’impegni. “Ma solo perché sei
tu”.
Sherlock finse un’espressione grata e riconoscente, stando al
gioco.
“Ti ringrazio davvero per la tua
magnanimità” lo prese in giro. “Mi
sosterrai,
se rischierò di cadere?” domandò poi.
A John quella domanda scaldò il cuore, e conosceva benissimo
il motivo di
quella sensazione. Era un po’ la metafora della loro vita
insieme, quella. John
c’era sempre quando Sherlock ne aveva bisogno, e Sherlock era
con John in ogni
difficoltà, piccola e grande che fosse, ovunque. Erano due
realtà completamente
diverse ma unite in qualcosa di unico, imprescindibile, impossibili da
separare. E quel legame non sarebbe mai cambiato, John lo sapeva, lo sentiva. Le loro vite quella sera, si
erano avvicinate abbastanza da toccarsi, da intrecciarsi insieme in un
nodo
saldo, forte, un nodo che John non avrebbe mai permesso a nessuno di
sciogliere.
“Certo, Sherlock. Sempre” rispose, posando
nuovamente un bacio sulla bocca di
Sherlock e pensando a quanta verità ci fosse in quella
semplice parola.
Ci sarebbe stato, una volta ancora. Sempre.