Serie TV > Dr. House - Medical Division
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Autore: fiorediloto87    03/12/2006    0 recensioni
Cos'è accaduto cinque anni fa? In questa piccola fic cerco di dare la mia versione dei fatti del periodo immediatamente post-infarto. Nota: Il prologo prende le mosse dalla scena conclusiva dell'episodio 2x11 "E' meglio sapere", ma continua deviando dal canon. Nota ulteriore: Non è una traduzione, anche se il titolo è in inglese.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, Yaoi | Personaggi: Altri, Greg House, James Wilson, Lisa Cuddy
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Capitolo I


[1]
Head (100 points)

 

 

Cinque anni prima

 

C’era stato qualcosa di definitivo nel modo in Stacy gli aveva detto che sarebbe andata due giorni a Trenton per quell’udienza di cui gli aveva parlato.

Per quanto non raggiungesse i livelli sopraffini di House, James Wilson aveva una certa abilità nello smascherare le bugie. I sintomi erano piuttosto evidenti. Il tono forzatamente deciso, gli occhi rossi e gonfi, le mani disperatamente aggrappate agli avambracci; lo sguardo sfuggente, lei che guardava sempre negli occhi. Che non gli avesse mai parlato di alcuna udienza era una certezza, perché se pure nel caos degli ultimi mesi Wilson faticava a ricordarsi dove avesse lasciato la macchina e cosa avesse mangiato a pranzo, Stacy non era tipo da restare sul vago quando dava un’informazione. Era invece tipo da contare sulle piccole debolezze indotte dall’esaurimento e dalla stanchezza, ma purtroppo per lei Wilson aveva riserve di energia sconosciute ai più.

«Gliel’hai detto?»

«Io…» esitò.

«Non posso dirglielo io.»

Lei annuì. Il fatto che non l’avesse già avvisato dimostrava che era stata un’idea repentina, non premeditata. Probabilmente le era venuta dopo la crisi di quella mattina. Probabilmente sarebbe andata due giorni da sua madre a schiarirsi le idee.

Wilson non se la sentiva di biasimarla. Anche se una parte di sé cercava di spingerlo a indignarsi e gli sbatteva in faccia la realtà - che Stacy stava scappando, mentre lui era ancora lì al suo posto, che Stacy voleva una tregua, mentre lui non vedeva sua moglie da quattro giorni - malgrado questa voce nella testa, non riusciva davvero ad avercela con lei.

E non era opportunismo, si ripeteva con una frequenza a dir poco allarmante, come a giustificarsi con… con chi? Non era opportunismo. Opportunismo sarebbe stato piantare tutto - piantare House - e andare a prendere Rachel e fare l’amore con lei fino a togliersi ogni residuo di quella casa, di quell’aria - di House - dalla pelle e dal respiro. Non restare lì e sentire il suo matrimonio scivolargli via tra le dita.

La frattura non era stata così evidente, fino a una settimana e mezzo prima. Rachel conosceva distrattamente House (“quello del cinese”, nella sua definizione, il che nascondeva un’implicita connotazione negativa. Qualcosa contro la carne di maiale, probabilmente), ma era abituata alle lunghe assenze di Wilson e un amico in difficoltà è pur sempre un amico in difficoltà - anche se ha disprezzato la tua tappezzeria e la cravatta numero 15 che hai regalato a tuo marito.

Poi in qualche modo la situazione gli era sfuggita di mano. Se avesse conservato e messo in fila i biglietti lasciati da sua moglie avrebbe potuto ricostruire la storia del loro decadimento in sette tappe. Si andava dal primo, vergato con cura e condito da un cuoricino in fondo (“Sono da mia madre, torno per le undici. Non fare troppo tardi. Ti amo. R.”), alla rapida impazienza del terzo-quarto (“È mezzanotte, vado a letto. A domani. R.”), all’irritazione palpabile del quinto (“A che ti serve il cellulare se non rispondi mai? Vado a letto. R.”), alla lapidarietà del settimo (“La cena è nel frigo”), privo anche del conforto dell’iniziale a mo’ di firma.

Quattro notti prima, che era poi l’ultima volta in cui l’aveva vista, era rincasato verso l’una. Aveva gettato la borsa sul divano, aveva attraversato la casa immersa nel buio e si era ficcato in fretta e furia sotto la doccia. L’acqua calda l’aveva rilassato, anche troppo, tanto che dopo un po’ si era scoperto assopito in piedi contro la parete. Nel riscuotersi aveva urtato la maniglia allentata, e un improvviso getto gelido gli aveva dato la sveglia. Quando era entrato in camera da letto, la stanchezza in qualche modo evaporata o messa da parte, Rachel dormiva sul fianco, rivolta verso il comodino.

Wilson si era tolto l’accappatoio e infilato il pigiama, e si sarebbe limitato a mettersi a dormire e rimandare ogni iniziativa al giorno seguente, come faceva da una settimana, se nel sollevare le coperte non avesse urtato qualcosa, e quel qualcosa non fosse stato il cordless. L’ultima chiamata, proiettatagli in faccia dalla luce azzurrina dello schermo, era per “Jimmy”.

Si era infilato sotto le lenzuola, lasciando aderire delicatamente il proprio corpo a quello sottile della moglie, e le aveva posato un bacio sul collo e la mano sul ventre coperto di seta leggera. Che avesse fatto finta di dormire o si fosse appena svegliata, per Wilson era irrilevante. Quando Rachel aveva intrecciato le dita con le sue e si era girata nel suo abbraccio con un fruscio di lenzuola e profumo di shampoo fresco, Wilson si era detto che lì in mezzo al buio, al torpore e all’eccitazione doveva esserci il motivo per cui l’aveva sposata.

Poi House aveva distrutto lo specchio del bagno con un pugno, e il telefono di casa Wilson aveva squillato per l’ultima volta.

Stacy venne fuori dalla camera da letto con un feroce ticchettio di scarpe alte, passò accanto a Wilson singhiozzando un saluto, afferrò la valigia già pronta vicino alla porta e si fermò sulla soglia per mormorare con la mano sulla bocca che avrebbe chiamato appena arrivata.

Anche Rachel, come Stacy, si era presa la sua pausa di riflessione. A differenza di lei, però, non aveva penato troppo nel comunicarglielo. Un messaggio in segreteria, pensava Wilson, era sempre il modo migliore per far sapere a tuo marito che lo lasciavi solo in un momento difficile.

Il messaggio per la verità era molto dolce e stanco, e terminava con un ‘Ti amo’ che sapeva di ripensamento all’ultimo istante, ma doveva pur significare qualcosa. Quattro anni insieme dovevano pur significare qualcosa. Diceva che andava a stare da un’amica per qualche giorno, giusto per non sentirsi sola mentre lui era occupato col suo amico. Il sottofondo era recriminatorio, ma Wilson non poteva farci niente. Aveva provato a chiamarla varie volte, solo per scoprire che Rachel non voleva rispondergli. Forse era una vendetta. O forse davvero non voleva parlargli.

Guardò il divano di House, che sapeva scomodo per principio. Ci aveva dormito qualche notte dopo la rottura con Sarah, o in mezzo alla rottura con Sarah, e visto e considerato il precedente non aveva molta voglia di tornarci. Non che fosse superstizioso, ma aveva brutti ricordi legati a quel divano. (Ne aveva anche di belli, ed erano la maggior parte, ma non voleva pensarci adesso.)

Stava ancora decidendo il da farsi quando sentì un frastuono dal bagno ed ebbe la certezza - brutale e invischiata di paura - che quei due giorni sarebbero stati i più lunghi della sua vita.

«House! Che stai…»

«Dov’è… dov’è quella cazzo di bottiglia?» gridò House, appoggiato pesantemente con una mano al bordo del lavandino mentre l’altra rovistava dentro l’armadietto, rovesciando scatole e bottigliette di medicinali sul pavimento. Il rumore che aveva sentito era stato prodotto dalla rottura di un flacone di sciroppo. House era a piedi nudi.

«Hai preso il Vicodin un’ora fa» disse Wilson, afferrandogli prima il polso libero e poi anche l’altro, quando House lasciò l’appoggio del lavandino per frugare con l’altra mano. In questo modo l’equilibrio già precario venne a mancare del tutto, e House gli crollò addosso, tra le braccia che ressero il peso senza troppa fatica.

Stava tremando.

«Mi serve» ringhiò House, cercando di districarsi dal corpo dell’amico. «Mi serve. Di nuovo.»

«L’effetto non è ancora finito. Ora te ne torni a letto e la smetti di sfinirti senza motivo.»

House deglutì a fatica, la fronte premuta contro la clavicola di Wilson. Ansimava. Il sudore che gli imperlava il volto si raccolse in una goccia sul mento, che andò a precipitare tra le pieghe della camicia di Wilson. L’oncologo gli accarezzò le spalle, gentilmente.

«Vieni» mormorò.

«Cos’è…» ansimò House, a corto di fiato. «Cos’è… ha lasciato a te l’onore di dirmelo?»

«Tornerà.»

«Sei un pessimo bugiardo, Wilson. E un pessimo…»

Wilson si attese la parola amico, dopo la quale la gamma di sue possibili reazioni, virtualmente imprevedibile, avrebbe spaziato dall’annichilimento totale alla violenza su invalido.

«… infermiere. Dammi quelle pillole.»

«Avrai la tua dose all’ora stabilita, ossia alle sei di domani mattina» replicò Wilson, cercando di far sì che il sollevo non trasparisse troppo chiaramente dalle sue parole. «Vieni a letto.»

La mano destra di House, fasciata dopo la rottura dello specchio, si spostò sul suo fianco e da lì risalì, lentamente, in una lunga carezza. Wilson la sentì tremare contro di sé. «House…»

Il più vecchio volse leggermente il viso appoggiato sulla sua spalla, cosicché il suo respiro premette caldo sul collo di Wilson. «House…» ripeté l’altro, imbarazzato.

Le dita gli sfiorarono un capezzolo attraverso la stoffa della camicia. Wilson trattenne il respiro.

Tra le varie cose più o meno illegali che aveva fatto nella sua vita, House doveva avere un passato da borsaiolo. Questo a giudicare dalla rapidità con cui tuffò le dita nella tasca anteriore della sua camicia e ne trasse fuori la bottiglietta di Vicodin prima che Wilson potesse reagire. I suoi riflessi si risvegliarono dal torpore nell’istante esatto in cui House lasciava il suo appoggio - cioè, lui - e stappava il flacone con un leggero schiocco.

Qualcosa di simile doveva essere già successo. Wilson aveva il vago ricordo di un biglietto omaggio per una partita dei Metz e di House che glielo sfilava dalla tasca posteriore dei jeans con la stessa scioltezza di adesso, solo con entrambe le gambe sane e la possibilità di scappare quando Wilson l’aveva inseguito.

Questa volta, invece, gli bastò afferrargli gli avambracci e House perse l’equilibrio. Le pillole schizzarono via dal flacone aperto, spargendosi sul pavimento, e solo per un caso fortuito House cadde parzialmente sopra Wilson e non il contrario.

Con un grugnito l’oncologo allungò una mano ad afferrare il polso di House, già proteso verso la pillola più vicina. «Basta. Fermati» ansimò, contorto in una posizione innaturale, la spalla che pulsava dolorosamente dopo l’urto col lavandino.

House si massaggiò spasmodicamente la coscia, boccheggiando, il capo chino a pochi centimetri dal pavimento cosparso di sciroppo e pezzi di vetro. Wilson temette che si lasciasse andare, procurandosi altre ferite. «Vieni a letto» ripeté, per l’ennesima volta, scivolando via da sotto il suo corpo.

«Dammi… quella roba» ansimò House, gli occhi fissi sulla capsula azzurro pallido che sembrava farsi beffe di lui, così vicina eppure fuori dalla sua portata. «Una sola» patteggiò.

«Non è la gamba, House» disse Wilson, cercando di rimetterlo in piedi. «È una crisi isterica.»

 

Mentre lo riportava a letto, senza molta collaborazione da parte di House, si rese conto che aveva la maglietta zuppa di sudore, e che la fasciatura dalla parte del palmo era ridotta a uno straccio. Ma dubitava che House avesse la forza di farsi una doccia o la pazienza di rifasciarsi la mano.

«Profumo… di gelsomino, eh?» sbuffò House, con un vago imbarazzo che chi non lo conosceva quanto lui avrebbe trovato insolito. Non che il senso del pudore di Gregory House fosse semplice da capire. Era qualcosa circa il sentirsi più debole dell’interlocutore – e forse in questo momento c’era la possibilità che lui fosse un po’ più debole degli altri.

«Ti manderò il conto della lavanderia» replicò Wilson, contemplando l’impronta di sudore stampata sulla propria camicia.

«Conservala. Mi sono fatto un nome nel giro fetish-necrofilo. Te la pagano una fortuna, quella.» Chiuse gli occhi, stringendo le lenzuola nelle mani. «I cd te li lascio. Tranne quello autografato di Bob Dylan. Quello lo voglio sepolto con me.»

«Ma tu non eri per la cremazione?»

«Bruciare un cd di Bob Dylan? Ma sei pazzo?» ansimò House, spalancando gli occhi.

Wilson sorrise appena. «Te la senti di farti un bagno?»

«Non hai detto che non dovevo sfinirmi

«Neppure marcire nelle tue secrezioni cutanee.»

«Ah, lo humour medico» grugnì House, massaggiandosi la gamba.

Dal momento che non aveva protestato, Wilson lo prese per un assenso. Tornò in bagno armato di straccio, scopa e paletta e fece piazza pulita dello sfacelo, risparmiando solo quanto era rimasto intero e le pillole di Vicodin. Dopo un istante di riflessione, mise la bottiglietta nella tasca anteriore dei jeans. Dubitava che House sarebbe arrivato a infilargli una mano nei pantaloni per avere le sue pillole - o no?

La vasca era quasi piena. Si voltò per andare a prendere House e lo trovò sulla soglia, appoggiato allo stipite. Se non fosse stato per le occhiaie profonde e l’espressione devastata, la posa si sarebbe potuta dire perfino maliziosa.

Wilson aprì la bocca per chiedergli se voleva aiuto, ma subito dopo meditò che era una pessima idea. Ad House l’aiuto si poteva solo chiedere o imporre, e già in questi due casi il risultato era un’incognita.

«So che il tuo sogno proibito è vedermi nudo» sbottò House, arrancando nella stanza, «ma faccio da solo.»

Wilson alzò le mani in segno di resa. «Vado a preparare la cena.» A metà strada si voltò. House era seduto sul bordo della vasca con aria contemplativa. «Ah… giusto per notizia, non c’è niente in questo bagno che assomigli a un analgesico. A meno che non usi la candeggina, nel qual caso dovresti sostituire “analgesico” con “detersivo” e “cessazione del dolore” con “morte tra atroci sofferenze”. Quindi… voglio dire, non stancarti inutilmente.»

Uscì richiudendosi la porta alle spalle.

(«Bastardo» sibilò House, dall’altra parte.)

Wilson tornò in camera da letto, e nel tempo in cui sperava l’amico riuscisse a rilassarsi e a non pensare alla gamba cambiò le lenzuola, preparò dei vestiti puliti e mise su l’acqua per la pasta. Il divano sembrava chiamarlo dal salotto, e Wilson si rassegnò mentalmente a un’altra di quelle notti scomode e solitarie che aveva cercato di rimuovere dalla memoria. Dopotutto non era lui ad aver bisogno di aiuto, stavolta, ma House. House.

Che era un po’ come dire il suo migliore amico.

Mentre gli spaghetti iniziavano a cuocere, prese i vestiti puliti e bussò delicatamente alla porta del bagno. Nessuna risposta. Anche se aveva una mezza certezza che House non avrebbe risposto comunque, per dispetto, per un istante si sentì stringere lo stomaco. Aprì la porta un po’ più rapidamente del dovuto.

House era sdraiato nella vasca, la schiena appoggiata al leggero declivio che si inabissava tra l’acqua e la schiuma, il capo reclino su una spalla. Per l’esperienza che ne aveva in proposito (minima, in quella casa lui aveva sempre usato la doccia), era virtualmente impossibile addormentarsi in quella vasca, scomoda più o meno come ogni altra cosa in casa di House - House compreso. Eppure il respiro era regolare, il corpo sembrava aver trovato un suo incastro nella geometria contorta della porcellana e House pareva tranquillo, per una volta.

Entrò in punta di piedi, posando i vestiti su uno sgabello vicino alla vasca. Cercò anche di convincersi che l’unico motivo per cui il suo sguardo era caduto tra la schiuma diradata era perché dopo l’operazione e la rimozione dei punti gli unici ad aver visto la cicatrice erano stati la Cuddy, House e Stacy. Solo un briciolo di curiosità, niente di più.

La cicatrice era lunga e visibilmente profonda, di un colore rosato intenso che Wilson dubitava sarebbe mai schiarito più di tanto. Tutto intorno la carne era come deformata, stretta intorno al muscolo mancante in una sorta di muto gesto di solidarietà. Accartocciata. Contratta.

Wilson sospirò, staccando l’accappatoio di House dal muro e posandolo, ripiegato, in cima ai vestiti.

«Hai finito di contarmi i peli o ne hai ancora per molto?»

Wilson trasalì, colto di sorpresa. «Stavo… ti ho portato i vestiti puliti.»

«È quello che dicono tutti.»

Wilson scosse la testa, rinunciando a replicare. Uscì dal bagno richiudendosi la porta alle spalle.

 

House espirò lentamente.

C’è un punto di rottura in tutte le cose. Quello di Stacy era quasi raggiunto. E il quasi stava a significare che ci sarebbe arrivata quando, tornando dalla sua pausa di riflessione o qualunque cosa fosse, l’avrebbe trovato due volte più sano e autosufficiente di quel che era stato finora. Lui ovviamente non lo sarebbe stato, non davvero, perché nelle pause dal Vicodin doveva spendere quasi ogni grammo di energia per evitare di gridare, e poca altra gliene restava per dar fiato ai suoi discorsi inutili o spostarsi per casa. Ma avrebbe finto. E lei si sarebbe sentita semplicemente di troppo.

Era contraddittorio, ovviamente; lui l’avrebbe fatto per non farle pesare ulteriormente la situazione e lei l’avrebbe lasciato per questo. Né il fatto di vedere con chiarezza gli sviluppi prossimi della loro storia significava che House avrebbe fatto qualcosa per fermarli.

Quando c’è necrosi, puoi solo tagliare. Era questa la sua lezione, no?

Il punto di rottura di Wilson era ancora lontano, ma non molto. Sicuramente meno di quanto lui stesso credeva, ma forse un po’ più delle stime di House. Prima di farsi mettere in coma farmacologico (o forse durante, o dopo. Non che importasse) aveva fatto qualche scommessa con se stesso. Su quanto avrebbero resistito le persone intorno a lui prima di crollare e decidere che in fondo, ma sì, non stava così male da non potersela cavare da solo.

Le stime più basse erano per Stacy, le più alte per la Cuddy. Ma solo perché dei tre era quella che aveva meno a che fare con lui. Wilson… Wilson sarebbe dovuto stare nel mezzo, una posizione altalenante. Avrebbe potuto resistere finché House non avesse ripreso il controllo di sé o mollarlo nel momento più critico. Nel secondo caso, ovviamente, si sarebbe costruito tutto un mondo di ragionevoli spiegazioni per giustificare la cosa, esattamente come i fallimenti matrimoniali numero uno e numero due.

Ma in realtà Wilson era l’unico di cui House non si sentisse in grado di predire le azioni. Era stanco, ma non esausto; era triste, ma non depresso; si sentiva in colpa, ma non così tanto. Il suo cellulare aveva smesso di squillare, quindi Rebecca o come si chiamava aveva smesso di cercarlo. In compenso Wilson adesso lo teneva sempre in tasca, quindi Randy aveva anche smesso di rispondergli.

Aprì gli occhi, allungando una mano verso l’accappatoio.

Il dolore sembrava vagamente più sopportabile, adesso.

Aveva bisogno di un Vicodin.

  
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