Serie TV > Dr. House - Medical Division
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Autore: fiorediloto87    03/12/2006    0 recensioni
Cos'è accaduto cinque anni fa? In questa piccola fic cerco di dare la mia versione dei fatti del periodo immediatamente post-infarto. Nota: Il prologo prende le mosse dalla scena conclusiva dell'episodio 2x11 "E' meglio sapere", ma continua deviando dal canon. Nota ulteriore: Non è una traduzione, anche se il titolo è in inglese.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, Yaoi | Personaggi: Altri, Greg House, James Wilson, Lisa Cuddy
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Hit the Cripple
Capitolo III


 

 

[3] Heart (∞ points)

 

 

 

 

C’era un telefono che squillava. Il suono di per sé non era gradevole, e non lo sarebbe stato neppure con la Nona di Beethoven o la Primavera di Vivaldi, ma in quel momento andava a sommarsi a una nottata insonne e a un crampo alla gamba non del tutto smaltito. James Wilson si voltò nel bozzolo delle coperte, mugugnando a Rachel di rispondere.

 

Non solo lo squillo persistette, ma Rachel emise anche un grugnito ben poco femminile.

 

«… House?» mugugnò Wilson, aprendo un occhio. L’altro sbuffò nel sonno e si raggomitolò dal proprio lato.

 

Wilson puntò il telefono, che frattanto aveva smesso e poi tenacemente ripreso a squillare. Era lontanissimo da lui, sull’altro comodino: per raggiungerlo avrebbe dovuto fare il giro del letto, ma ciò significava togliersi le calde, calde coperte di dosso, mettere i piedi sul pavimento gelido, affrontare il mondo ostile al di fuori del bozzolo e andare a ricevere una telefonata il cui contenuto, con ogni probabilità, gli avrebbe rovinato la giornata.

 

Driiin.

 

Almeno alzarsi era fuori questione.

 

Si allungò verso il telefono, non del tutto consapevole del fatto che l’ostacolo era più solido di quanto sembrava, e House mugugnò: «Levati, cazzo», e poi senza molta coerenza «Fallo smettere». La metà di cervello rimasta sul cuscino gli impedì di rispondere a tono, e l’aver abbandonato gli esercizi di stretching mattutino intorno ai ventiquattro anni frustrò i suoi tentativi di afferrare la cornetta. Proprio quando stava per arrendersi, House schiacciò una mano sull’apparecchio e gli porse l’oggetto di tanto affanno.

 

«… Wilson» borbottò l’oncologo. Richiuse gli occhi. «Sì… bene. Te lo passo.»

 

Appoggiò la cornetta sull’orecchio di House, senza che l’altro facesse un movimento per prenderla.

 

«… bene» mormorò quello, con una voce più bassa e ruvida del solito. «Davvero?… Non ti abbiamo sentita, stavamo facendo sesso. Wilson ci va giù pesante, mi fa ancora male il…» Lieve pausa. «Salutami Francine» aggiunse, prima di fargli cenno di riprendersi la cornetta.

 

Wilson sospirò. «Stacy?»

 

«Sta bene, James?»

 

«Sì» mentì. «Tu?»

 

«Bene. Bene.»

 

Almeno tutti e tre erano concordi nel dire che stavano bene e altrettanto nel pensare il contrario. Potere dell’amicizia, pensò, allungandosi per riporre la cornetta.

 

«Devi proprio strofinarmelo in quel modo tra le chiappe?» sbottò House.

 

«Perché non mi ringrazi? È il tuo telefono, è la tua casa, è…»

 

«… il mio culo

 

Wilson si lasciò ricadere dal suo lato, già stanco. Le schermaglie con House di prima mattina erano in fondo alla sua lista di Cose-da-fare-assolutamente-prima-di-morire. E poi, che ora era?

 

Sei in punto.

 

Raccolse il tubetto di Vicodin da dove l’aveva lasciato e si lasciò cadere due pillole, poi una terza, nel palmo. House si voltò al rumore, tendendo la mano, e le ingoiò all’istante. Poi socchiuse gli occhi, appoggiandosi contro la testiera.

 

«Ne vogliamo parlare?» disse Wilson.

 

«Mi chiedi se voglio

 

«È un no?»

 

«In realtà è un “perché non mi prepari la colazione?”»

 

«Perché ho sonno e perché con quella dose puoi correre i cento metri. Preparatela da solo» borbottò, voltandosi dal suo lato e rimettendosi, finalmente, a dormire.

 

«Cattivo» lo sentì ribattere, in tono offeso, prima di chiudere gli occhi.

 

 

 

Verso le otto Wilson si svegliò definitivamente. L’altra metà del letto era vuota, e quasi se ne stupì – aveva ancora la percezione vaga ma tangibile di un corpo stretto intorno al suo, di una mano leggera sullo stomaco, di una carezza lenta e prolungata sull’addome. La tenne stretta alla mente mentre entrava in bagno, richiudendosi la porta alle spalle con una spinta.

 

Il James Wilson nello specchio aveva l’aria stanca, ma anche un indecifrabile, ingiustificato mezzo sorriso sulle labbra.

 

«Non c’è proprio niente da ridere» lo rimproverò, aggrottando le sopracciglia.

 

Qualche minuto dopo House entrò spalancando la porta, con passo trionfale malgrado la zoppìa. «Cuddy ha chiamato mentre dormivi,» annunciò.

 

Wilson alzò gli occhi, senza smettere di spazzolarsi i denti.

 

«Non muori dalla voglia di sapere cos’ha detto?»

 

Wilson si sciacquò la bocca, sputando nel lavandino. «Sì, poi la vado a prendere la tua cartella clinica» disse infine.

 

«E tu come lo sai?»

 

«È stata una mia idea.» Gli passò accanto, diretto al salotto, dove aveva lasciato il borsone coi vestiti puliti. «Te l’ho detto ieri, ma tu eri nella tua crisi da ho-cercato-le-pillole-per-tutta-la-casa-sfinendomi-come-un-idiota-quindi-ora-me-la-prendo-con-Wilson.» In realtà non aveva ancora parlato con la Cuddy, ma quando si trattava di House loro due erano capaci di sviluppare una strana telepatia.

 

Per tutta risposta, House gli afferrò il braccio sinistro e lo sollevò per studiare l’ematoma lasciatogli sul polso. Era meno evidente di quanto fosse sembrato la sera prima, ma sempre ben visibile.

 

Wilson lo guardò con calma. «Non è niente.»

 

«Fa male?»

 

«Ti stai preoccupando per un altro essere umano?»

 

«Blandendo. Per evitare che mi denunci.»

 

«Non ho soldi per intentarti una causa. Li spendo tutti per pagarti il pranzo.»

 

«E per gli alimenti di Sally.»

 

«Sarah.»

 

«Quello che è.»

 

«Posso riprendermi il mio braccio, adesso?»

 

«Solo un momento.» Lasciò scivolare le dita sul polso, stringendolo, e fece un passo per colmare la distanza tra sé e Wilson - si ritrovarono così vicini da respirarsi addosso, così vicini che un bacio sarebbe stato solo poco di più. Wilson sentì il sangue incendiargli la faccia.

 

«Tachicardia» decretò House, lasciandolo andare. «Sintomo interessante.»

 

E Wilson rimase fermo come l’ultimo degli imbecilli di fronte alla porta del bagno, mentre un House più allegro di quanto lo fosse stato in tutto l’ultimo mese se ne tornava zoppicando in cucina.

 

Che cos’era, quello?

 

Wilson scosse la testa, già rassegnato in partenza all’inattingibilità dei misteri del cosmo. La sua mente non era capace di indagare quesiti come l’infinità dell’universo, l’esistenza di Dio, i processi mentali di Gregory House e come ha fatto quello schizzo di sugo a dribblare il tovagliolo schiantandosi sui tuoi pantaloni nuovi da 200 dollari. La sua era una mente relativamente semplice. Deduttiva, ma semplice. Capace dei suoi momenti di genialità, di connessioni inusuali, di incredibili sfoggi di pensiero laterale. Ma c’erano cose che le erano precluse, e non sarebbe stato lui a rompersi la testa correndo in carica contro un muro di cemento.

 

Tornò in camera da letto, togliendo il tubetto di Vicodin dal suo nascondiglio - tra il materasso e il comodino dal suo lato - e si chiuse in bagno per il tempo di rito necessario a ritenersi a posto. House ricomparve mentre si stava allacciando la cravatta.

 

Aveva ancora addosso la maglietta grigio scuro con cui aveva dormito, mentre la camicia di Wilson era di un bianco panna che gli fece ricordare quando House si era lanciato nell’accurata bipartizione dei colori in virili e non virili. Guardandolo nello specchio con la coda dell’occhio, ebbe come l’impressione di un grosso calabrone che svolazzava ronzando intorno a un bignè.

 

«Sì?» domandò, rigirandosi i due lembi della cravatta tra le dita.

 

«Perché non blu?»

 

«Prego?»

 

«Perché non blu? È martedì.»

 

«E con questo?»

 

«Metti sempre una cravatta blu il martedì. Prima la mettevi il giovedì, ma poi quell’infermiera che porta la sesta ti ha detto che il blu non ti donava, e da allora la metti solo il martedì, che è il suo giorno di riposo.»

 

Wilson rimase attonito per un momento, prima di riprendere ad annodare la sua cravatta rossa. «Avevo voglia di cambiare» rispose, perfettamente conscio che non sarebbe stato creduto.

 

«Sì, certo. E la cravatta blu?»

 

«Quale cravatta blu?»

 

«Quella.» Fece una pausa. «Cos’era, secondo anniversario? Compleanno? Bar Mitzvah?»

 

«Il Bar Mitzvah si festeggia a tredici anni.»

 

«E scommetto che allora avevi già tre fidanzatine, maschione» ribatté House, dandogli un pugnetto sulla spalla.

 

Wilson sospirò, sciogliendo nervosamente il nodo che, per la prima volta in anni e anni di cravatte mattutine, non gli era riuscito al primo colpo. Nessuna speranza che il gesto passasse inosservato.

 

«Sì, quella che mi ha regalato Rachel. Ho preso i vestiti il più velocemente possibile per evitare che ti strozzassi con la tua stessa lingua mentre non c’ero.»

 

«Mi chiedo quante cravatte una moglie debba regalare al proprio marito prima che un matrimonio possa dichiararsi finito.»

 

«E io mi chiedo quanti sacrifici un amico debba fare per un altro prima che gli sia riconosciuto il diritto a un po’ di privacy!» scattò Wilson, violentemente. Si sfilò la cravatta, frustando l’aria con la sottile striscia di stoffa rossa, e uscì dal bagno. La ficcò nel borsone, imprecando tra sé e sé contro tutti gli amici ingrati del mondo.

 

«Dovresti fartene una ragione» disse House, appoggiandosi allo stipite della porta. «Del resto la rabbia è il terzo stadio. Sei già avanti col lavoro.»

 

«E tu dovresti smetterla di ficcanasare nella mia vita, perché non ne hai nessun diritto.»

 

«Non mi sembrava che la pensassi così, ieri

 

Wilson richiuse la bocca, preso in contropiede. «Io non… ieri non…»

 

«Ieri non…?»

 

Distolse lo sguardo, richiudendo il borsone con uno strattone violento che gli lasciò in mano la spoletta di plastica della cerniera. Se la gettò alle spalle, sempre più nervoso. «Ieri non è successo niente. Ti ho chiesto se ne volevi parlare e hai detto di no. Bene. Neanch’io ne voglio parlare. Siamo a posto.»

 

«Tecnicamente non ti ho detto di no, ti ho detto “preparami la colazione”.»

 

«Che al mio paese è un modo per sviare la discussione. Ho detto che va bene, non ne voglio parlare.»

 

«Al tuo paese? Ma dove vivi, in Thailandia?»

 

«Lo stai facendo di nuovo!»

 

House abbassò lo sguardo. «Ti crea problemi.»

 

«Cosa? Che tu non sappia farti gli affari tuoi?»

 

Gli occhi di House tornarono a fissarlo, profondamente.

 

«… non ne voglio parlare, House.» Afferrò la giacca dall’appendiabiti, indossandola e ficcando le mani nelle tasche alla ricerca delle chiavi della Volvo. Frugò per un po’, sempre più nervoso, finché un tintinnio metallico non distolse la sua attenzione.

 

«Queste?» chiese House, con l’aria più innocente del mondo.

 

«Dammele.»

 

«Non credo.»

 

«A che gioco stiamo giocando?»

 

House alzò lo sguardo, fingendo di pensarci. «A occhio e croce… a Picchia lo zoppo

 

«Vuoi che ti picchi?» replicò Wilson, aprendo le braccia. «Cos’è, la gamba non è abbastanza per appagare il tuo masochismo?»

 

«È solo il secondo round. Il primo era Fai una sega allo zoppo, e l’hai passato brillantemente.»

 

Wilson scosse la testa, negando che tutto questo stesse davvero accadendo a lui. Sapeva che quella cosa House gliel’avrebbe rinfacciata per tutta la vita, lo sapeva come sapeva che il sole sarebbe sorto l’indomani. Ma aveva comunque sperato, pregato, implorato che non accadesse. Si fece avanti con la mano tesa, per strappargli le chiavi. «Dammele e basta, House. Non ho tempo di discutere.»

 

House non si mosse. Si limitò a tirare indietro il braccio, con aria di sfida.

 

«Quant’è che non fai a pugni, Jimmy? Dieci anni?»

 

«Non farò a pugni con te, razza di idiota!»

 

«E perché? Scommetto che vinco io.»

 

«Dammi le chiavi.»

 

«No.»

 

Wilson alzò le braccia in segno di resa. «Va bene. Tienitele. Chiamo un taxi.»

 

«Già ti arrendi?»

 

L'altro non sollevò gli occhi dal suo cellulare. «Sai qual è il tuo problema, House? Non capisci mai quando hai passato il segno» disse, con voce non del tutto ferma. «Ora pensi che prenderti un pugno in faccia ti dimostrerebbe che sei uguale a tutti gli altri, che non hai perso niente, che quello che ti è successo non ti ha cambiato. Ma sai cosa c'è? Che non è vero, tu vuoi essere speciale, tu vuoi essere diverso, e vieni a chiedere a me di fare a pugni perché sai benissimo che non lo farò. Così puoi dirti che è per via della gamba e fortificarti nella tua autocommiserazione. Pronto? Sì, un taxi al 221B di via...» Chiuse la conversazione e rialzò lo sguardo. «Bene, vuoi saperlo? Non è per la gamba. E ora trovati qualcun altro da affliggere, perché io ne ho abbastanza.»

 

«Dove stai andando?» domandò House, alla sua schiena.

 

Non si preoccupò di voltarsi, mentre rispondeva: «A fare due ore di ambulatorio, a ritirare la tua maledetta cartella clinica, a fare la tua spesa e a chiedermi perché sto ancora qui a parlarti.»

 

House inspirò. «Wilson?»

 

«… cosa

 

«Già che esci, comprami anche un lecca-lecca.»

 

 

 

Mezz’ora dopo, mentre varcava l’ingresso dell’ospedale, già si chiedeva se non avesse esagerato. House era un provocatore per natura, dacché lo conosceva non si era mai comportato in modo diverso, e spesso Wilson si era vantato con se stesso di essere l’unica persona al mondo – fatta eccezione forse per Stacy – assuefatta ai suoi atteggiamenti.

 

Invece aveva perso il controllo.

 

A differenza della maggior parte degli individui, quando perdeva il controllo Wilson non era molto diverso dal solito. Non alzava troppo la voce, non si sbracciava, non tentava di sfogare la rabbia sugli oggetti. Non diceva cose che non pensava. Ma quando l’ira sbolliva non poteva fare a meno di sentirsi in colpa.

 

Per questo, nonostante fosse certo di aver avuto ragione nel dire a Rachel che non poteva pretendere da lui che abbandonasse il suo migliore amico mentre a stento si reggeva in piedi, in realtà continuava a ripetersi che la colpa era sua – che l’aveva trascurata, e non solo quella volta; che House era House, ma Rachel era sua moglie.

 

Per questo, nonostante avesse detto a House solo la verità che conoscevano entrambi, ora desiderava ardentemente non averlo fatto.

 

Quella delle ore di ambulatorio, peraltro, era una bugia. Dopo la rottura dello specchio aveva chiesto alla Cuddy una settimana di ferie anticipate, per riuscire a stare con Rachel. Poi, dopo aver riattaccato la cornetta, aveva trovato il suo messaggio in segreteria.

 

Ancora non sapeva perché gli avesse mentito. Forse anche i suoi nervi stavano cedendo, come quelli di Stacy.

 

«Wilson? Che ci fai qui? Non sei in ferie?»

 

L’oncologo si passò una mano sulla fronte, annuendo e contemporaneamente spingendo lo sguardo via dalla sempre invitante scollatura del suo direttore sanitario. «Sono passato a prendere quella cartella clinica.»

 

«Quale cartella?» domandò lei, voltandosi verso la segretaria della reception. «Cindy, chi copre la clinica stamattina?»

 

«Un attimo che controllo» disse la ragazza.

 

«Come ‘quale cartella’? Quella di House.»

 

«La sua cartella? A che gli serve? Vuole farci causa?»

 

«Il dottor Davidson, dottoressa.»

 

«Bene, grazie.»

 

«No, non la cartella di House, la cartella per House. Quella… del paziente che non si capisce cos’ha. Quella per tenerlo impegnato, Cuddy.»

 

Lisa Cuddy alzò gli occhi su di lui, confusa. «Ma di che stai parlando?»

 

«Hai chiamato un’ora fa a casa e gli hai detto che avevi un caso per lui.»

 

«Wilson, io sono arrivata solo mezz’ora fa.»

 

La confusione, poi lo stupore, poi la comprensione si susseguirono al volto di Wilson in una sequenza così familiare e perfetta che la Cuddy non ebbe bisogno di ulteriori spiegazioni. «C’è Stacy con lui, vero?» Gli lesse la risposta in faccia. «Vai, io intanto provo a chiamarlo.»

 

«Non ho la macchina!»

 

«Prendi la mia. Le chiavi nella mia borsa, sul divanetto del mio studio.» Afferrò il telefono della reception, voltandolo verso di sé e quasi sradicandolo dal filo, mentre Wilson correva via raggelato.

 

L’aveva fregato, fregato, fregato ancora una volta – e lui si era fatto fregare, ovviamente, come se non sapesse – come se non lo sapesse – che House faceva ogni cosa per un motivo, e un motivo preciso. Aveva pensato che volesse solo prendersi gioco di lui dopo la notte passata… perché quella cosa gli stava togliendo la capacità di giudizio.

 

La Volvo, per fortuna, era ancora parcheggiata di fronte a casa, ma nell’appartamento non c’era nessuno. Wilson controllò ogni stanza, la cucina, la camera da letto, controllò perfino dentro la doccia. Gridò che se era uno scherzo non era affatto divertente, ma il silenzio che gli giunse in risposta sembrò anche quello architettato per schernirlo. Quando il telefono prese a squillare corse a rispondere, ma era la Cuddy.

 

Era uscito senza cercapersone né cellulare. Se c’era un posto dove poteva aspettarsi di trovarlo era in farmacia, a fare scorta del suo prezioso Vicodin, ma senza ricetta nessuno gliel’avrebbe venduto.

 

Dalla madre di Stacy? Francine abitava dall’altra parte della città, avrebbe preso la macchina. O forse chiamato un taxi. Il che lo riportava al punto di partenza.

 

Quel che era certo è che sforzando la gamba non avrebbe resistito più di un paio d’ore senza i suoi analgesici, e Wilson ormai conosceva fin troppo bene House in preda a una crisi isterica. In casa sua era preoccupante, ma per strada era una tragedia.

 

Staccò un post-it, vergò qualche parola in fretta e lo incollò sul coperchio del pianoforte, dove sapeva per certo che House l’avrebbe visto. Poi uscì di casa.

 

Non era al Princeton, non era nel suo bar preferito, non era dalla madre di Stacy – che Wilson pregò di non avvertire la figlia, altrimenti si sarebbe scatenato un putiferio. Non era stato in nessuna delle farmacie della zona, non all’edicola, non dal fioraio, non in libreria, non da nessuna parte, ma un uomo nelle sue condizioni non passava inosservato, cazzo, qualcuno doveva pur averlo visto!

 

Verso mezzogiorno la Cuddy aveva avvertito il 911, e Wilson varcava la porta di casa di House con aria desolata. Il post-it era ancora lì, sul pianoforte, e nessun segno del suo passaggio.

 

Si lasciò cadere sul divano, esausto. La preoccupazione era diventata una spina continua, un dolore sordo e tangibile localizzato tra il cuore e lo stomaco, che diventava fitta quando si permetteva di fare congetture.

 

Si passò la mano tra i capelli e in quel momento il cellulare vibrò e squillò nella sua tasca. Lo trasse fuori bramosamente solo per ritrovarsi deluso ancora una volta, e scoprire che dopo aver aspettato per giorni che sua moglie rispondesse alle sue chiamate, adesso il nome ‘Rachel’ lampeggiante nello schermo non gli faceva alcun effetto.

 

Scusami.

 

Lasciò cadere il cellulare sul divano, coprendolo con un cuscino per riuscire a ignorarne lo squillare furioso.

 

Senza House, il suo appartamento aveva un aspetto insopportabilmente spoglio, e Wilson dubitava di poterlo sopportare oltre. Raccolse il cellulare, che nel frattempo s’era zittito, lo ficcò in tasca e si frugò alla ricerca delle chiavi di casa.

 

Fu dopo dieci minuti buoni di ricerca per tutta la casa – eppure era sicuro, sicuro di averle lasciate nella giacca – che si paralizzò, le fodere tirate fuori dalle tasche come due buffi palloncini di stoffa.

 

Le chiavi. House. Le chiavi e House.

 

Corse fuori un’altra volta.

 

 

 

A vederlo, sembrava uno senza un problema al mondo. Sdraiato comodo sul suo divano, una gamba allungata sul bracciolo opposto e l’altra col piede appoggiato sul pavimento, uno dei suoi tovaglioli ficcato nell’orlo della camicia, uno dei suoi piatti appoggiato sul petto, e un panino presumibilmente ordinato col suo telefono al Mc Donald poco lontano. La sua televisione accesa su un qualche scadente telefilm adolescenziale – volti concitati della pupa numero 1 e del boy numero 2 che si squadravano drammaticamente l’un l’altra. Un tubetto nuovo di Vicodin appoggiato sul pavimento, vicino alla testa.

 

Il modo in cui finse di non prestargli attenzione, come se avesse ogni ragione di trovarsi lì, fece capire a Wilson che tutto era stato architettato per un motivo ben più complicato di un flacone di pillole – per un motivo che House, ignorandolo, gli stava praticamente sbattendo in faccia.

 

«Sono quattro ore che ti stiamo cercando, e tu eri in casa mia a guardare la televisione?»

 

«Ne possiamo parlare nella pubblicità?»

 

Wilson andò a spegnere la tv, piantando i pugni sui fianchi.

 

«Ehi! Lo stavo guardando!»

 

«Che cosa hai fatto?»

 

House sbuffò, posando il piatto sul pavimento – e approfittandone per intascare il Vicodin. «Chiamato un taxi, uscito di casa, fatto qualche spesuccia inutile, poi sono tornato qui ad aspettarti. Sono o non sono una brava mogliettina?»

 

«Siamo tutti impazziti di preoccupazione, non sapevamo cosa fare. Ti abbiamo cercato ovunque.»

 

«Perché siete ignoranti. C’è un racconto di Edgar Allan Poe su una lettera nascosta ben in vi…»

 

«Basta giocare, House!»

 

James Wilson che gridava era un evento abbastanza raro da spingere anche Gregory House a chiudere la bocca. Almeno per qualche istante.

 

Per la strana empatia che condividevano, Wilson avvertì il cambiamento con puntuale precisione. House richiuse la bocca, abbassò lo sguardo, si concesse un lieve sospiro interiore e si sfilò il tovagliolo dal collo prima di mettere giù anche l’altra gamba e raddrizzarsi sul divano. Alzò gli occhi. «Ti sei preoccupato?»

 

«La Cuddy ha chiamato il 911.»

 

House lo guardò, in attesa.

 

Wilson si lasciò cadere accanto a lui, i gomiti sulle ginocchia e le mani tra i capelli. «Non sapevo cosa fare» mormorò, fissando il pavimento. Chiuse gli occhi. «Non so cosa fare» aggiunse, in un bisbiglio.

 

Sentì la guancia di House contro la spalla, e il suo calore, così leggero, era qualcosa che poteva tollerare, sì, poteva tollerare tranquillamente. Sentì House prendergli la mano sinistra tra le sue, e lo lasciò fare perché anche questo – il modo in cui la carne ossuta del più vecchio si sfregava contro la sua – anche questo era tollerabile. Ma ciò che non riuscì a tollerare (perché non c’era un letto, perché non c’era il buio, perché non c’era un fottuto letto nel buio pieno della notte) fu il modo in cui le dita di House tracciarono ancora una volta il loro marchio intorno al suo polso, e si fermarono sul fiumiciattolo bluastro della vena.

 

Cercò di ritirare la mano, ma House non glielo concesse. «Guardami. Wilson. Guardami.»

 

«No.»

 

House gli afferrò la faccia con la mano libera, voltandola a forza. «Ho detto guardami, Wilson.»

 

L’altro alzò gli occhi. Dischiuse le labbra, forse per dire qualcosa, forse solo per un gesto inconscio, ma qualunque cosa fosse finì per perdersi nell’urto con quelle più aggressive e sottili di House. Qualunque cosa fosse, Wilson vi rinunciò quando House gli appoggiò una mano salda sulla nuca, e ogni tentativo di fuga si rivelò vano nella sua mente prima ancora che in concreto.

 

Quando la lingua di House gli accarezzò la chiostra inferiore dei denti, sentì i brandelli della sua volontà sbriciolarsi e volare via come piume al vento. Sentì che non c’era più niente da fare.

 

«Va bene» sussurrò, in un secondo di respiro. «Va bene.»

 

«Va bene?» ripeté House, sulla sua guancia.

 

«Fammi… fammi togliere la giacca.»

 

Le mani di House gli scivolarono sulle spalle, tra la giacca e la camicia, spogliandolo dello strato superfluo che volò sul bracciolo opposto.

 

«Quante ne hai prese?» sussurrò Wilson, mentre si districavano con fatica tra l’imbarazzo e l’intreccio scomposto dei rispettivi arti.

 

«Abbastanza. Per un po’ possiamo stare tranquilli.»

 

«House…» iniziò, passandosi una mano tra i capelli.

 

«Ma non la chiudi mai, quella bocca?»

 

 

 

(Stacy li trovò addormentati, più o meno coperti dai lembi scomposti dei propri vestiti, più o meno abbracciati, più o meno decenti agli occhi della compagna di uno di loro. Niente meno di una cosa del genere avrebbe potuto far perdere a Wilson la consueta precisione – la porta dimenticata socchiusa era un errore da sedicenne – e niente meno della precisa volontà di essere scoperto avrebbe potuto far tralasciare il dettaglio a Gregory House. Inspirò ed espirò con rapidità nervosa, e solo marginalmente si rese conto che il post-it accartocciato nel pugno le scivolava di mano, raggiungendo il pavimento con un leggerissimo tonfo.

 

Quando uscì, si chiuse la porta alle spalle senza fare rumore.)

 

 

 

*Per favore, smettila di giocare. J.*

  
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