Chapter 11
Scheletri
McKirk infranse alcune casse di rum che
si trovavano sul molo quando un pugno del vecchio Chad
gli spezzò la mandibola. Rotolò quasi in mare, urlando, quando il vecchio
arzillo caricò verso di lui e gli saltò addosso per finirlo. Non ricordava
esattamente perché si trovasse lì con le ossa rotte e un occhio cerchiato da un
livido violaceo, ma per il momento l’importante era dimostrare a quel
vecchiaccio che non si sarebbe lasciato sconfiggere da lui. Assestò un colpo
sulla testa di Chad con una mezza bottiglia rotta,
sbalzata via dalle casse che aveva distrutto, e un frammento di vetro si
conficcò nell’occhio ancora sano del vecchio filibustiere. Al che quest’ultimo
afferrò un remo prendendolo da una piccola imbarcazione, sul molo per
riparazioni, e cominciò a pestare McKirk alla cieca.
Questi rimase per molti minuti a patire e subire le
percosse di Chad, fin quando non riuscì ad afferrare
il remo e, benché avesse la vista appannata dall’alcol, scaraventare Chad dalla parte opposta del molo. Prima di cadere in
acqua, il vecchio si piegò e si contorse come un insetto calpestato: sbattè la
testa sulla banchina inferiore e poi il suo corpo scomparve nelle acque nere
battute dalla notte.
Quando fu certo che non avrebbe più
sentito parlare di Chad né si sarebbe trovato davanti
quell’occhiaccio vitreo che lo aveva mandato in isteria alla locanda - ah! Ecco
cos’era che aveva scatenato la rissa - McKirk fece
ritorno alle chiassose viuzze di Tortuga.
Il molo restò deserto. Le navi pirata
che beccheggiavano nella brezza notturna, sicure ai loro ormeggi, parevano
imponenti fortezze di pietra dondolante, tanto la notte era nera e priva di
luci. Ogni tanto si sentiva lo stridore del verso di un qualche volatile
marino, che tuttavia sembrava insufficiente a spezzare il silenzio lattiginoso
sprofondato sul porto deserto.
Una mano scheletrita, rossa e spellata dal sole, dalle
unghie sporche, affiorò dal mare e si appese al molo. Ad essa
seguì un braccio altrettanto scheletrico, avvolto a mala pena in vestiti
strappati ed incrostati di sale. Un'altra mano si attaccò saldamente alla
pietra solida della banchina, poi con un gemito misto ad un sospiro di immenso sforzo, un corpo esile e magrissimo si issò
faticosamente sulla terra ferma. Fissò per un istante il posto dove era
capitata: poi si alzò, barcollando e minacciando di cadere. Si tolse un’alga
dai capelli spettinati. Non le interessava dove fosse finita:
voleva soltanto magiare e bere, fin quando le sue membra esauste dal
“naufragio” non si fossero rifocillate.
Sonia si diresse stancamente ma senza esitazione verso le
luci di Tortuga.
Una zattera rudimentale, che pareva più che altro la
rimanenza di una nave dopo un assalto pirata o una tempesta, navigava
lentamente, minacciando ogni secondi di ribaltarsi o
di affondare definitivamente. Da quelle parti le acque erano veramente infide.
Vicino alla Gola del Drago, del resto, lo stretto più pericoloso per miglia e
miglia, venti e correnti forti erano piuttosto naturali.
A bordo della zattera quasi del
tutto immersa nell’acqua pareva che ci fosse un fantasma, o uno strano mostro
dalle sembianze di uno scheletro. Il volto era talmente immobile e dai lineamenti secchi
che pareva scolpito nel marmo. Il fondotinta bianco si
scioglieva lasciando il posto alla pelle ormai essiccata e bruciata dal sole.
Il lunghissimo, sfarzoso vestito era strappato in più punti, così che pareva
una vecchia tenda sbiadita, appartenente a uno dei
tanti spettri che popolavano le leggende marinaresche.
Ma non si trattava di una leggenda
marinaresca. Rowena aprì gli occhi, impiegando almeno un minuto per rendersi
conto della situazione. Doveva essere la terza volta che sveniva per la fame.
Il sole la faceva stare male, al pari di fame e sete. Il
suo stomaco ormai era rattrappito come una prugna secca. Aveva troppo caldo o
spaventosamente freddo, a causa della differenza
eccessiva di clima che c’era fra il giorno e la notte. L’acqua era gelida. A
vederla dalla superficie sembrava che abbondasse di pesce, ma non era possibile
catturare neanche uno di quegli animali. Rowena si reputava già abbastanza
fortunata a non aver incontrato squali. Non sapeva da quanti giorni la sua
piccola imbarcazione era in navigazione. Sapeva soltanto che il suo flauto era
riuscito a spingerla molto lontano negli ultimi giorni, ma il suo potere
sembrava indebolito. A volte, poi, aveva troppa fame per restare sveglia.
Sveniva. Era troppo debole, e non era avvezza a certi eccessivi bisogni fisici.
Gli occhi
di Rowena scintillavano di rabbia, di frustrazione. Era sempre riuscita a non
piangere, ma ci era molto vicina. La ferita nel suo
orgoglio era stata troppo grande, troppo profonda,
troppo dolorosa per poterle resisterle.
La sua
salvezza - se tale la si poteva definire - sembrò
giungere assieme alle vele scure gonfie di vento di una nave che compariva
all’orizzonte.
Sonia non
sapeva esattamente che cosa avrebbe fatto quando avrebbe dovuto dire all’oste, prima o poi, che non aveva un soldo. Nonostante si fosse
ingozzata come mai nella sua vita non si era posta il problema del denaro per
pagare; e le sembrava che il proprietario quell’affollata locanda di Tortuga,
per quanto immerso e assordito da caos e schiamazzi, fosse bene attento a coloro che non pagavano il conto. Era nerboruto abbastanza per poterle spezzare facilmente l’osso del collo, in tale
eventualità.
Probabilmente
il meglio che le potesse capitare era trovarsi nuovamente a lavare piatti per
chissà quanto. Ormai era decisamente un’esperta del
mestiere. Non riusciva ancora a maledire i pirati che l’avevano lasciata al
mare, nonostante tutto. Non era mai riuscita a maledire nessuno, neanche
Rowena, che in quel momento doveva soffrire veramente molto. Sonia lo sentiva.
Sulla sua stessa pelle.
Poi, ad
un tratto, Sonia avvertì che Rowena stava più o meno come lei: nel suo stomaco
erano scivolati del rum e qualcosa di commestibile. Forse anche lei era
riuscita ad approdare da qualche parte.
Nonostante
tutto, Sonia si sorprese ad augurarle di stare bene.