L'ombra
William
sospirò, mentre frugava nelle tasca del cappotto in cerca delle
chiavi del suo appartamento.
Una fitta alle tempie lo
costrinse a socchiudere gli occhi. Dannate luci al neon del
corridoio. Dannato mal di testa del venerdì sera. Era inevitabile:
alla fine di una settimana di lavoro, l'emicrania era sempre lì,
pronta ad accoglierlo. Lo obbligava ad accasciarsi sul divano con una
scatola di aspirina in mano e un bicchiere d'acqua nell'altra, a
lottare contro la bile che si ostinava a ostruirgli la gola. Poteva
anche convincersi che dormire gli avrebbe fatto bene, poteva anche
chiudere gli occhi: tutto inutile. Il dolore sarebbe rimasto a
torturarlo nel buio, a premere contro i bulbi oculari, a schiacciare
il cervello nella sua morsa. Si sarebbe rigirato sul divano, avrebbe
strizzato le palpebre nella penombra, irritato persino dalla luce
fioca che passava attraverso le fessure delle tapparelle abbassate.
Avrebbe represso conati di vomito e inghiottito la sua stessa saliva
amara. Magari questa volta non durerà un intero fine settimana,
pensò Will, mentre con mano malferma cercava di infilare la chiave
nella serratura; era già come se un'incudine gli stesse premendo
sulla fronte. Probabilmente era stata colpa del capo, si disse.
Aveva
ottenuto una promozione dal suo inquietante superiore, un uomo dalla
chioma bianca e una frangia che gli copriva metà volto, che aveva la
sgradevole abitudine di accarezzare le guance e le spalle dei suoi
subordinati con le sue mani fredde e ossute. Era rimasto stupito,
aveva detto a William con la sua vocina stentata e beffarda, era
rimasto stupito dal suo impegno. Si presentava all'ufficio ancora
prima dell'arrivo del capo, compilava sei relazioni in un'ora e
sedava liti (si riferiva al tentativo di separare due colleghi che si
erano azzuffati per il possesso di una sedia più comoda delle altre.
William si era pure beccato un cazzotto in piena faccia. Conseguenza:
emicrania anche la domenica). Soprattutto, sapeva come far funzionare
la rissosa fotocopiatrice dell'ingresso. Davvero ammirevole. Sa,
lei sarebbe proprio un uomo da sposare, aveva aggiunto il suo
capo, con una risata chioccia. Poi si era sciolto in un largo sorriso
che sembrava più una cicatrice irregolare. È promosso a
caposezione, aveva esalato, per poi lasciarsi sfuggire un'altra
risatina. Aveva allungato un dito verso il viso di William e
punzecchiato una delle sue guance con un'unghia color melanzana,
senza smettere di sogghignare.
Ma
prima non stava mai così male. William si morse il labbro. Afferrò
la maniglia e aprì la porta. Sapeva benissimo perché l'emicrania
aveva iniziato a perseguitarlo. E non era per il lavoro.
Scrollò
la testa per impedire al cervello di pensare e gemette.
Pessima,
pessima idea.
William
rimase per un attimo fermo sulla soglia dell'ingresso con gli occhi
chiusi e inspirò con forza, grato alla penombra di casa sua che
calmava il dolore fino a farlo implodere in una semplice pressione
sulle tempie. Tregua, pensò. Si chinò e slacciò con calma
le stringhe delle scarpe. Le sfilò piano e, attento a non compiere
movimenti bruschi, le appoggiò sul pavimento dell'ingresso. Le punte
colpirono lo zoccolo della parete con un rumore sordo e lui digrignò
i denti.
Dio, che male. Male.
Nel
raddrizzare la schiena si appoggiò per un momento al portaombrelli e
sfiorò con la mano un oggetto dalla superficie ruvida e irregolare.
William aggrottò la fronte, interdetto. Era sicuro di possedere un
solo ombrello, per giunta portatile e rotto. Non ci sarebbe dovuto
essere nulla, là dentro. Non aveva mai posseduto...
La
consapevolezza lo fece gelare. Con le dita che tremavano, cercò a
tentoni l'interruttore della luce. «Non è possibile» sussurrò,
mentre la mano sfregava contro il muro. «Non è possibile».
Il
pollice trovò il pulsante e lo spinse. La lampadina si scaldò e
proiettò luce bianca sulle pareti, investì William, risvegliò la
bestia urlante nella sua testa, lo accecò per un momento. Ma William
si disinteressò delle tempie pulsanti, degli occhi che lacrimavano,
degli spasmi allo stomaco.
Nel
portaombrelli c'era un vezzoso parasole di pizzo rosso, con il manico
di bambù. E lui rimase a fissarlo. Non poteva esistere, quella cosa
era solo un prodotto della sua mente. Era un'allucinazione derivata
dal mal di testa. William chiuse gli occhi e li riaprì. No. Era
reale.
No,
aveva le allucinazioni. Era un ricordo. Adesso si sarebbe messo a
letto. Avrebbe preso una manciata di antidolorifico e avrebbe chiuso
gli occhi. Domani si sarebbe svegliato da solo in un letto troppo
grande, come ogni sabato, come ogni giornata della sua settimana.
Dal
fondo della sua mente pescò le parole che doveva pronunciare in quel
momento. Le osservò viaggiare fino alla bocca, uscire dalle corde
vocali, fluttuare nell'aria.
«Sei
tornata?».
La
sua domanda rimbombò nel corridoio e si spense. William aspettò,
con il mento proteso in avanti, le mani strette a pugno, il viso
rivolto verso il buio. Ignorò il sudore che gli colava, fastidioso e
ghiacciato, dalla fronte. Stava per scuotere la testa, maledirsi e
dirigersi verso la camera da letto, quando un sospiro malizioso gli
perforò le orecchie e lo inchiodò sul posto.
Un
sospiro divertito.
«Sì,
cuoricino. Sono a casa».
Grell
era abbandonata sul divano del salotto, con una mano che ricadeva a
terra e i piedi appoggiati su uno dei braccioli – mai avuto
rispetto per le cose altrui, pensò d'impulso William. Quando lo
vide, sfoderò uno dei suoi sorrisi affilati che metteva in mostra la
sua dentatura di canini.
«Ciao»
sussurrò. William rimase stupito. Non era la voce di Grell,
acutissima e petulante, da bambina viziata; era roca, stentata,
profonda. Lei si portò un dito al mento e inclinò la testa
osservandolo con attenzione, come se non si ricordasse più la forma
del suo viso, come se fosse un completo sconosciuto. Non è lei,
pensò William, mentre Grell lo radiografava. Eppure, eppure,
obiettò la parte razionale della sua mente, eppure guarda i suoi
capelli rossi, le dita dei piedi che si arricciano sul bracciolo del
divano, la mano decorata da unghie finte troppo lunghe e rosse pure
quelle, guarda. Guarda la gonna di crespo che si arriccia sui
fianchi, le gambe troppo magre, il suo rossetto che finisce sempre a
colorare la pelle oltre che le labbra, guarda. È lei, no?
Eppure,
eppure, gridò lui dentro di sé. Strinse i denti, quando una
scarica elettrica gli tagliò il cervello in due parti. William
contrasse la mascella e allora Grell rise piano.
«Ancora
il mal di testa, tesorino?» chiese, allegra. Fece schioccare le
labbra. I suoi occhi erano scuri, lo fissavano. Lui rabbrividì,
mentre lei continuava a sorridere. Cos'era quella paura? William si
schiarì la gola ed emise un suono disarticolato. Cos'era quel sudore
freddo che gli colava lungo la fronte, cos'era quella tremenda,
incontrollabile voglia di urlare, di urlare fino a consumarsi e a
strappare la gola, cos'era quel tremito alle gambe? Ebbe l'improvviso
impulso di correre e sbattere la porta di casa e premere con forza il
pulsante dell'ascensore una volta, due volte, tre volte; poi fuggire,
fuggire fino a quando non sarebbe crollato in mezzo alla strada
ansante..
«Dovresti
sdraiarti al buio, Willy» commentò lei, a quel punto. Si arrotolò
una ciocca di capelli attorno al dito, studiò William fino a quando
lui non emise un suono disperato e abbassò gli occhi. «Dovresti
proprio, proprio sdraiarti con me» cantilenò lei. Lui serrò la
mascella, scosse la testa con forza e vide lampi rossi e viola
saettargli davanti allo sguardo.
«Non
posso» Allargò le labbra in un sorriso stentato. «Ti vomiterei
addosso, credo».
E poi i tuoi denti, i
tuoi denti e la tua lingua che lecca le labbra e dio dio perché mi
fai così paura, non mi facevi così paura prima, prima che tornassi,
ma io perché non ti caccio di casa perché perché perché mi guardi
così non guardarmi così dio io non resisto io io io piantala di
leccarti le labbra e ridacchiare io io non posso resistere io devo-
«Sei
noioso» si
lamentò Grell, con il suo ghigno inquietante dipinto sul volto. Si
grattò una caviglia con la punta dell'altro piede. Una ciocca di
capelli le ricadde sul naso e lei sbuffò, ricacciandola
all'indietro. «Ti prego, Will. Dai». La sua voce arrochita mutò di
tono: salì di due ottave, ritornò di nuovo chioccia, poi si spezzò
sulla sillaba finale e si trasformò in un gridolino soffocato.
William sgranò gli occhi, mentre Grell contraeva il volto in una
smorfia di dolore e inspirava con forza, mentre cercava di...
resistere? A cosa? Cosa stava facendo? Lei si passò una mano sul
viso, stese le gambe e si alzò dal divano. Si piazzò di fronte a
lui e William fece d'istinto un passo indietro, sbigottito, ma lei
sollevò la sua mano che tremava piano e gli accarezzò la guancia.
Le sue dita colpivano la pelle irritata dalla rasatura di William
come se non sapessero dosare la loro forza, come se non fossero mai
passate sulla sua pelle prima di quel momento. E non era vero. Chiuse
gli occhi, mentre le unghie di Grell affondavano e lo graffiavano.
«Adesso» lo pregò
lei. Lui non rispose. Quanto tempo era passato dalla scomparsa di
Grell? Un anno. Un lungo, lunghissimo anno.
William
si ricordava fin troppo bene di quella volta che si era trovato
davanti a un corridoio completamente pulito e sgombro da ogni scarpa
a tacco alto. Il portaombrelli, che quella mattina rischiava di
scoppiare per via dei vezzosi parasole di pizzo che erano stati
infilati dentro a forza, era vuoto. Dall'appendiabiti penzolava solo
il suo cappotto beige che William metteva la domenica. Sul pavimento
era rimasto un rossetto rosso, con la punta che sporgeva dalla
scarpiera, che doveva essere caduto dalla sua borsa mentre cercava la
copia delle sue chiavi.
Lui aveva sospirato, rassegnato. Si era
sfilato la giacca e l'aveva appese sul gancio, accanto al cappotto.
Almeno adesso erano due, aveva pensato. Si era diretto lento verso la
camera, muovendo le spalle per allentare la tensione accumulata
durante le ore di lavoro. Aveva guardato il letto – che lei non
aveva rifatto prima di andarsene, ovviamente – poi la sua
attenzione era spostata sull'armadio in legno accanto alla finestra,
che solo quella mattina conteneva ancora vestiti con le maniche a
sbuffo e maglioncini rossi. Vuoto anche quello, se non si contavano
le grucce e una giacca scura di taglio maschile, abbandonata
nell'angolo più scuro.
Quella, la lasciava sempre lì.
Will si era ricordato di quando
gliel'aveva regalata: era il periodo in cui cercava ancora di
riconciliarla con il suo sesso maschile. Grell l'aveva scartata,
osservata con attenzione ed era corsa ad abbinarla con una minigonna
a pieghe e collant scuri. Poi era tornata da lui, si era appoggiata
allo stipite della porta con le gambe accavallate e gli aveva
soffiato un bacio.
«Grazie, tesoro, sei stato
gentilissimo» aveva sussurrato, stridula. Si era passata una mano
tra i capelli lunghi, aveva lasciato scivolare un braccio lungo gli
infissi. «Però, davvero, cuoricino, lo sai che alle gentili
signore piacciono i pizzi» aveva aggiunto, con un sorriso che
metteva in mostra quei denti, che erano cosi affilati da sembrare
tutti canini. «E dovresti proprio, proprio capirlo, insomma». Aveva
piegato le labbra in un broncio da bambina.
Inculcarle l'idea che fosse un maschio
era stato impossibile.
Si era seduto tra
le lenzuola. Aveva
fissato le sue mani.
C'era una macchia di inchiostro sul
dito medio.
Era rimasto solo.
Si era riscosso solo la sera, quando la
luce arancione dei lampioni aveva iniziato a filtrare dalle fessure
dell'avvolgibile abbassato.
Non
era mai
riuscito a capire quando se ne sarebbe andata e non ci sarebbe mai
riuscito.
La mattina della
sua partenza era seduta pacifica al tavolo della cucina con le gambe
accavallate, mentre spalmava con cura della marmellata di fragole sul
toast. Una volta aveva ficcato i suoi vestiti in valigia ed era corsa
via mentre William si trovava al supermercato all'angolo per prendere
un paio di mele. Quant'era? Questione di dieci, quindici minuti?
E dove andava?
Dove? Da altri? Quando Grell tornava da lui, lasciava sempre i
souvenir dei suoi viaggi sparsi per casa: un paio di occhiali dalla
montatura di celluloide troppo spessa trovati nella dispensa, dietro
una scatola di cereali scaduti. O un orologio da taschino.
William si
ricordava fin troppo bene di quella volta che aveva messo la mano
nella tasca del suo cappotto buono e ne aveva estratto la cipolla.
All'inizio aveva pure pensato che fosse uno di quei stupidi
gingillini che piacevano tanto a Grell, ma sulla cassa c'erano incise
una S e una M. Aveva stretto nel pugno quel dannato oggetto
ticchettante e aveva marciato fino in cucina, con il sangue che
iniziava piano a pulsare alla base del collo.
Ed
è proprio a
quell'orologio che William stava pensando quando afferrò il polso di
Grell e bloccò il suo movimento. Lei trasalì e il suo volto si
trasfigurò un'altra volta: i suoi occhi -troppo scuri dall'ultima
volta che li aveva visti- si fecero taglienti, rossastri; la bocca si
piegò in una smorfia beffarda e si aprì come una ferita male
coagulata. Voce cupa. Voce arrochita.
«Siamo
arrabbiati?» mormorò. William fremette e la lasciò andare. Lei
strizzò l'occhio destro.
«Siamo arrabbiati»
confermò, con una punta di delusione che contrastava con le sue
labbra incurvate verso l'alto. «Beh, cuoricino, non posso certo dire
di essere stupita. Però, sai» gli appoggio una mano sulla spalla e
lui si ritrasse di scatto. «davvero, pasticcino mio, mi aspettavo
un'accoglienza migliore da parte tua». Inclinò il viso appuntito e
tacque. William sentì l'inquietudine premergli sulla testa assieme
al mal di testa: il cervello nella scatola cranica pulsava e mandava
segnali -allarme, allarme, allarme- ma le gambe non si
muovevano e lui rimaneva davanti alla predatrice. Coniglio appena
promosso, tradito, confuso.
«O forse no»
aggiunse Grell, pensierosa, mentre arrotolava le maniche della
camicia fino all'avambraccio e mostrava una bruciatura circolare
appena sopra il polso. William fissò con repulsione la carne rossa e
annerita attorno ai bordi. Poi la sua attenzione si risvegliò:
quella non è una semplice ustione, sussurrò la sua vocina
razionale, non trovi, William Spears? Non trovi che quello sia un
cerchio troppo perfetto, per essere una scottatura? E quella macchia,
se guardi bene, guarda bene William, non la vedi?
Sentì un brivido
bloccargli la schiena, i palmi delle mani appiccicosi e sudati.
«È un pentacolo»
commentò lui, monocorde. La testa gli sarebbe scoppiata da un
momento all'altro. Fuggire. Premere il pulsante. Ascensore.
Ingresso, gli ordinò il suo cervello, ma lui non lo ascoltò e
lo scacciò con un gesto convulso della mano. Ci doveva essere Grell
in quella presenza, ci doveva essere rimasto qualcosa di lei in quel
goffo gesto contro la sua guancia. «Come te lo sei fatto».
«Oh oh»
canticchiò lei roca, mentre passava il suo pollice elegante sul
marchio. «Sei stato bravo a indovinare, cuoricino. Questo, questo»
Picchiettò il centro della stella « è un segno. Una macchia, una
traccia, un tatuaggio, una decalcomania appiccicata da un vecchio, un
disegno a pennarello di un bambino di tanti, tantissimi anni fa» Il
suo sguardo si fece distante, fisso in un punto dietro William. «è
il segno della tua sventura, darling» disse allegra. Il suo
viso bianco si spezzò e la maschera dileggiatrice svanì per un
istante.
«E anche della
mia, tesoro» sussurrò flebile l'altra Grell, con la bocca che si
contraeva per lo sforzo.
«Sai, io sono morta» aggiunse a fatica. «Tanto tempo fa. Sei mesi».
«Non è...» la interruppe William con violenza, ma lei non lo lasciò terminare: scoppiò a ridere. Le sue urla roche riempirono la stanza, rimbombarono sulle pareti, rimbalzarono sul divano, penetrarono nelle orecchie di William. Lui gemette e si portò le mani alla testa.
«Non
è possibile,
dici?» gridò. Le sue pupille erano ridotte a sottili linee
verticali. «Certo che è possibile, quando una subdola macchina non
rispetta i codici della strada e ti stira e lascia le tue scarpe
preferite sporche di asfalto e sangue sul marciapiede. È stato
davvero, davvero ingiusto da parte di quella macchina, cuoricino. Non
avrebbe dovuto mai farlo». Si afferrò le sue ciocche di capelli
rossastre e si lasciò sfuggire un singhiozzo teatrale. «E così io,
novella dannata, mi sono ritrovata seduta in un ufficio dalle pareti
verdine tanto démodé. E poi è arrivato un uomo con un cappottino
beige che era lo stesso di quello che metti la domenica, un uomo con
la faccia anonima e gli occhi senza colore. Strano, vero? Un uomo
senza colore...» la voce si incrinò e si trasformò in un lamento.
«...io non volevo, o meglio, Will, io volevo sì, ma non pensavo che
dicessero sul serio, credimi...». Dondolò sul posto, si premette la
mano sulla fronte e di nuovo ghignò «e l'uomo senza colore mi disse
che avevo una doppia scelta, che potevo marcire giù giù giù
all'inferno nel fango e bruciare nel fuoco... no, era essere
sballottati da una bufera, ma che importanza ha, dimmelo tu,
pasticcino, dimmelo tu. Io ho deciso per la seconda scelta, sai».
Incrociò le dita delle mani e piroettò su se stessa per una volta.
«Libero arbitrio, Willy» spiegò. «Così ho deciso che volevo
ancora esistere anche se il mio cuore non batteva più e i miei
polmoni non respiravano più e il mio cervello si era spento e allora
l'uomo mi ha trasformato nella doppia faccia, nell'ombra, nel mezzo
demone»
William fece per
voltarsi e correre, correre, finalmente scappare, ma la vera voce di
Grell lo inchiodò per un'altra volta sul posto, così acuta, così
petulante, così disperata. Lui fissò costernato la vera Grell che
si contorceva. «William» gridò, «perché sei qui, ancora? Perché
io, io, io sto per fare una cosa terribile che non voglio fare ma che
farò perché lei» un lampo di puro rancore le passò nello sguardo
«lei, tesoro, è forte e mi prende e io, tu, tu devi scappare,
io-».
L'ombra la fece singhiozzare e le rubò il senno. «Stavo
giusto dicendoti che l'uomo poi mi ha detto che mi sarei dovuta
liberare. Dalle mie passioni, Dalle mie tentazioni. Dai miei amori.
Quindi» Grell puntò un lungo dito ossuto contro William «anche da
te, Willy, tesoro. Anzi, tu sei il primo, diciamo. Perché
altrimenti non sarò mai un demone. Solo un disprezzato mezzo uomo
-donna!- ed è terribilmente irritante convivere con quella
piagnucolosa, stridula, appiccicaticcia umana, insomma. Quindi, per
favore, potresti» si chinò e con un unico gesto fluido e veloce
estrasse una motosega dalla fessura tra il divano e il pavimento.
«potresti, dicevo, stare fermo e zitto, mentre ti uccido? Già devo
sopportare i patetici singhiozzi di quell'altra faccia: mi
dispiacerebbe davvero dover ascoltare anche i tuoi, darling».
La motosega iniziò a rombare e William si slanciò verso la porta, la spalancò con un colpo della mano. Ma sapeva di essere troppo lento. Aveva aspettato fino all'ultimo, aveva sperato che Grell lo riconoscesse, che si riscuotesse e schiacciasse il demone chiuso nel suo cuore che non batteva. Era stato uno stupido. Era stato un coglione e sarebbe morto perché era un coglione. Sentì la schiena bruciare e l'intero corpo tremare e liquefarsi. Il mal di testa lo abbandonò per l'ultima volta, sostituito dalle grida del suoi polmoni che collassavano e del sangue che usciva dalle sue arterie. Mentre cadeva sul pavimento con la sega che ancora vibrava tra le sue scapole, William si disse che era da un anno che non vedeva Grell. E poi smise di pensare e il resto del suo corpo si spense. Restarono in due. Un cadavere e una donna, in realtà uomo, che rideva e piangeva nello stesso momento.
Note:
pubblicare una one-shot due mesi dopo averla scritta porta a risultati
veramente inaspettati, specie nel campo della revisione: non so quanti
errori stupidi ho corretto (e avrò sicuramente dimenticato). Temevo che
dopo così tanto tempo non mi sarebbe piaciuta, e invece no: mi piace
ancora (di solito non mi piace mai quello che invento quando lo scrivo,
quindi XD).
Questa shot si è classificata quarta al contest "Dammi la coppia yaoi e
ti fornisco il terzo incomodo!" di BeaLovesOscarinobello sul forum di
EFP: la ringrazio ancora molto per aver organizzato il contest, e ci
tengo a rimarcare che è stata una bravissima giudice ^_^.
Se
siete giunti fin qui, grazie per aver letto! À bientôt! <3
Hikari