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Autore: DeadConvinction    12/05/2012    0 recensioni
Rose è una ragazza appena diciottenne che vive a Londra durante la Seconda Guerra Mondiale.
Dopo un attacco, vede cambiare la sua vita monotona e stressante in maniera drastica e confusionaria, rendendola movimentata e piena di sovrannaturale.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Oltre la Nebbia
Capitolo 1 - La Lettera per L'Ignoto



La guerra ormai infuriava per le strade di Londra ed erano sempre più evidenti i suoi effetti. Sempre più sirene suonavano, ogni giorno, due, tre, a volte anche sei volte al giorno. La popolazione britannica non ne poteva più, era una vita di terrore, di fuga, sembrava di giocare a nascondino, ma bisognava nascondersi bene dagli aerei nemici che continuavano costantemente a bombardare il suolo che tanto era amato dalla gente.
L'attenzione si sposta su di una famiglia in particolare, una famiglia apparentemente comune, con uno stile di vita normale, senza controversie col vicinato, dalla buona reputazione in tutto il quartiere in cui risiedevano. Eppure i continui bombardamenti preoccupavano la famiglia Berkeley, che sfiorò più di una volta la distruzione della propria residenza. Ormai quell'area era stata presa di mira e solo una piccola svista avrebbe potuto provocare una disgrazia.
La famiglia Berkeley conduceva una vita modesta in quella che era la Londra durante la seconda guerra mondiale. Essa era composta da Mary e Thomas, madre e padre di tre figlie, di cui Rose era la maggiore, Diana la mediana e Lucy la minore; quest'ultima di appena sette anni, era la più vivace e la più ingenua delle tre: vedeva gli aerei come giocattoli e si divertiva a vedere i soldati sfilare per le strade della città. Rose e Diana invece erano più mature, la prima di diciottanni, compiuti da poco e la seconda di solo un anno in meno. Le due aiutavano i genitori nella bottega di famiglia, un forno rinomato, proprio agli inizi di Portobello Road, la strada dove vi era un'enorme quantità di negozi. L'attività della famiglia Berkeley ebbe inizio una generazione precedente, fondata dai nonni delle tre ragazze, precedente dello scoppio della prima guerra mondiale. A tempo era solamente un piccolo forno, che non incassava molti guadagni, ma che rendeva comunque la vita dei coniugi Berkeley abbastanza vivibile. Col passare degli anni e col cambio di gestione, affidata a quelli che ora sono i genitori di Rose, Diana e Lucy, il forno si modernizzò, adeguandosi alle necessità della gente che sempre più frequentemente si recava a farvi compere; così da panetteria si allargò a pasticceria. Essa era la favorita di marinai e soldati, che molte volte andavano per corteggiare la minore delle due aiutanti, che poi obligava loro a comprare una fetta di torta o quant'altro. Mentre Diana era bella e vivace, con una buona parlantina ed un carisma invidiabile, sempre pronta a far cadere ai suoi piedi ogni uomo che incontrava, Rose era più chiusa e si limitava ad eseguire il lavoro, facendosi oscurare sempre più dalla sorella, che ovviamente non aveva cattive intenzioni. Rose vestiva sempre con un vestito verdastro, quasi verde acqua, abbastanza gonfio sulle gambe, con pizzi bianchi svolazzanti. Portava calze bianche e scarponcini di pelle, che non le davano di certo un'aria femminile, ma che lei amava tanto, glieli aveva regalati sua sorella, Lucy, con i soldi raccimolati in due anni. Aveva sopracciglia fini, nere, come i capelli che arrivavano sulle spalle con grandi boccoli; gli occhi erano azzurri, profondi come il mare, grandi e penetranti, che le delineavano un viso simile a quello di una bambola. La pelle era molto chiara, infatti era solita ritrovarsi scottature anche con un sole appena accennato d'Aprile, cosa molto rara e flebile. Inoltre aveva un anello, regalatogli quando era ancora piccina da un uomo di cui non ricordava né nome né aspetto; stranamente, però, ne udiva continuamente la voce ogni volta che pensava a lui. Come se, da qualche parte, lui sentisse il suo pensiero e la chiamasse, con una voce calda ed echeggiante nella sua testa, persa in pensieri vaghi. L'anello era d'oro, con un piccolo rubino incastonato su di esso, che risplendeva al sole in un luccichio rosso vivido, che amava guardare, come persa, mentre le sorelle tentavano di disincantarla da una specie di magia, che le rapiva l'attenzione, continuamente. Amava le sue sorelle, anche se non era più matura e consapevole della situazione in cui si trovava tutto il mondo, una situazione sgradevole, che la faceva sospirare continuamente, mentre sognava l'America e la pace, la felicità che erano soliti contare i soldati passanti per il negozio.

Quel giorno Rose si alzò di malumore, forse per via del tempo che non si prosperava sereno: si potevano intravedere infatti qualche lampo qua e la fra le nuvole sempre più minacciose che coprivano ad alternanza quei flebili raggi di sole. Inoltre, a renderle una giornata ancora più scontenta, vi era una grande moltitudine di marinai che produceva una confusione tale da non riuscirsi a sentire da pochi centimetri di distanza.
« Sorellona, una fetta di torta di mele! » Gridò Diana indaffarata nella massa di gente mai vista prima.
« Sì. »
« E sforna il pane, ormai sarà pronto. »
« Ok. »
« E... »
« Ma insomma, Diana, non rendermi la vita così complicata! Aspetta un attimo! »
« Sorellona, cosa... »
« Sono stufa di tutto questo! »
Rose si tolse il grembiule, lo gettò a terra, sotto il bancone e corse via, alzando con foga il banchetto che separava la sala principale per i clienti dalla sala sul retro, per il personale. « Jean-Claude, pensaci tu perfavore. » Disse Diana sospirando e togliendosi il grembiule pulito e riponendolo su una sedia libera, alle sue spalle.
Rose ormai era stanca di questa vita, che la reprimeva, la faceva diventare sempre più nervosa, giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto, fino allo straboccare del vaso. Corse fino ad una finestra sul retro, affacciandosi ad una finestra, sopra ad una cassa di ciliegie per le torte squisite che preparava con tanto impegno. Si tenne le mani sugl'occhi, sapendo che da un momento all'altro avrebbe rigettato tutta l'angoscia che la pervadeva, che la faceva star male ogni giorno. Quelle lacrime arrivarono, inevitabili, come cascate, bagnando il vestito blu in grandi gocce. Singhiozzava. Diana arrivò sul retro, aspettando un attimo nell'avanzare verso la sorella.
« Sorellona, mi dispiace. » Disse preoccupata e rammaricata per la sorella.
« No, scusami tu. Non dovevo reagire così. »
« Sorellona, sai che a me puoi dire cosa ti tormenta. »
« Diana, a te piace lavorare nel negozio di papà e mamma? »
La giovane non seppe cosa rispondere, sembrava in panico: da un lato la divertiva, anche se strenuante, le piaceva stare a contatto con altra gente e poter ridere; dall'altro, a lei sarebbe sempre piaciuta un'istruzione superiore a quella elementare, avrebbe sempre voluto imparare bene la propria lingua, l'inglese, avrebbe sempre voluto diventare una scrittrice, anche se tutto quello che apprendeva, sebbene fosse poco, era tutto tramite poesie ottocentesche ed anche più arretrate, che molte volte faceva leggere alla madre e si faceva spiegare, in quanto troppo difficili.
« Sì, a me piace lavorare qui. » Disse, titubante.
« Bene, allora tienti stretto il posto, perché io me ne voglio andare in America. » Disse Rose, asciugandosi le lacrime con la manica del vestito.
La sorella rimase pietrificata alla sola idea di dover restare sola. Per lei Rose era tutto, senza di lei sarebbe stata persa, senza un punto di riferimento con cui crescere, senza qualcuno colto che la guidasse nella vita. Lucy, lei non contava, era troppo piccola ed i suoi genitori erano sempre indaffarati e poco presenti. Rose era come una seconda madre e perderla avrebbe significato perdere il proprio futuro. Diana si avvicinò di scatto, afferrandola per le spalle.
« Ma che vai dicendo? America? E con chi poi? Vorresti lasciarci qui, da soli? »
Rose stette zitta. Rivolse lo sguardo verso destra, distogliendolo dalla povera Diana. Rimase un silenzio imbarazzante, di cui tensione cresceva sempre più; ma la tensione fu rotta da un suono alquanto familiare alle due ragazze ed alla città stessa. Era un suono terribile, penetrante, che si ripeteva nella testa di tutta la popolazione come un tormento: la sirena anti-aereo.
« Un bombardiere? » Chiese Diana, rivolgendo lo sguardo verso il cielo, fuori dalla finestra.
« Su, forza, andiamo. » Rose prese la mano di Diana e si diresse verso casa, che distava poco più di qualche centinaio di metri dal negozio. Corsero a più non posso, per la strada che si faceva sempre più infinita in quel momento di panico in cui avrebbero messo in gioco la propria vita. La strada era ormai diventata vuota e silenziosa: tutta la gente che poco prima l'affollava gridando e correndo verso le abitazioni s'era rimboccata le maniche nello scappare e s'era rintanata in casa, temendo il peggio. Riuscirono ad arrivare nel giardino ben curato di casa, salirono le scalette che davano alla porta in legno, blu e forzarono la maniglia, riuscendo ad aprire la porta. Entrarono in casa di corsa, barricandosi dentro. Vi erano i loro genitori; la madre tappava le orecchie alla piccola Lucy, che l'abbracciava fortemente con gli occhi chiusi. Il padre si avvicinò nel trambusto e prese Diana, per poi rivolgersi alla sorella.
« Rose, tu sei la maggiore delle sorelle ... » Disse ansimando, nel trambusto, avvicinandosi per farsi sentire dalla ragazza. Rose era la maggiore delle tre, quindi la prediletta ad avere un futuro ad ampie vedute, comprendente una buona istruzione e poi, nel futuro, un buon marito, possibilmente di stirpe nobile o comunque dai guadagni prosperosi, che avrebbe potuto regalarle una vita nel benessere e comunque nella felicità; ma lei odiava questa visione del futuro. Lei voleva viaggiare, vedere l'america, voleva andare in Canada, in Alaska, senza una dimora, libera nel mondo. Voleva staccarsi da tutto ciò che la opprimeva in quella città grigia e, per lei, quasi come un carcere. Voleva evaderne. Ebbe timore di quel che stava per succedere, deglutì ed osservò attentamente il padre, che l'aveva sempre protetta.
« ... Tieni, prendi questa e consegnala al cocchiere che sta sostando qui fuori, non dire nulla di più, lui sa già dove scortarti. »
« Ma, padre ... »
« Non c'è tempo Rose, ora va! » Detto questo il padre incoraggiò Rose, spingendola verso la porta con foga e consegnandole una piccola busta ingiallita, con scritto sopra "Per Evans", un nome alquanto familiare.
La ragazza s'apprestò ad aprire la porta, mentre la famiglia scappava sul retro, al riparo in cantina. Una piccola scossa travolse il quartiere, una bomba era caduta poco più in la. Rose cadde sulla strada, ormai deserta, ma poi si accorse del cocchio ed aprì velocemente la porta della cabina, buttandosi dentro. Era una carrozza ormai fuori uso da molti anni, se ne vedevano raramente, forse in campagna. Era nera, con grandi ruote ed una tendina bianca che separava il conducente dal passeggero. La tendina s'aprì ed il cocchiere tese la mano dentro alla carrozza, una mano abbastanza grande, coperta da un guanto bianco, con un anello sopra. Era strano, quell'anello era d'oro, simile a quello di Rose, soltanto che questo aveva uno zaffiro incastonato, delle stesse dimensioni del rubino posto su quello della ragazza. Il cocchiere non proferì parola, aspettando qualcosa dalla fanciulla. La ragazza esitò un attimo, scrutò la lettera e la porse all'uomo, che bussò due volte sulla cabina e fece partire la carrozza che scheggiò sul lastricato della strada con una velocità quasi pari a quella di un'automobile.
Questa sarebbe stata l'ultima immagine della sua casa? Non l'avrebbe vista mai più?
« ... Signore, mi può dire dove stiamo andando? » Chiese Rose con un po' d'imbarazzo, ormai lontana dal centro di Londra.
L'uomo tacque, per poi proferirsi tramite uno "Sh" abbastanza seccato. Rose era confusa, era stata mandata in un luogo sconosciuto in cui non sapeva cosa fare. Sperava che qualcuno le disse cosa fare, almeno un segno, un cenno della sua "missione" così segreta affidatale dal padre. Sembrava, però, che questo silenzio, rotto solo dal rumore degli zoccoli del cavallo che calpestavano il lastricato della strada, sarebbe durato per tutto il viaggio. Quindi la ragazza si limitò ad osservare il paesaggio che continuava sempre a mutare fuori dalla carrozza, tramite il finestrino della porta, sbuffando ed appoggiando le guance sulle mani. Passavano le ore, il buio si fece vedere, ma la carrozza continuava ad andare avanti per una meta sconosciuta. Rose si annoiava, ma all'improvviso gli occhi si fecero pesanti e s'addormentò sul sedile in pelle della carrozza, che rendevano il tutto accogliente per la sua stanchezza sempre più evidente e penetrante. Chissà dove l'avrebbe portata quella strana carrozza, solo il tempo avrebbe potuto dirlo.

In quella strana carrozza il tempo parve passare in un lampo, quando Rose si risvegliò dal profondo sonno che durò ben oltre l'attimo. Era già mattino del giorno dopo, aveva dormito molto tempo, anche troppo. Si stiracchiò sul sedile in pelle, sbadigliando, senza portare la mano alla bocca; evidentemente il galateo in quei momenti non serviva, tanto nessuno l'avrebbe guardata in malo modo per tale gesto. Si strofinò un attimo gli occhi, guardando fuori dalla cabina: la carrozza era ferma, ma ci mise un po' a realizzarlo.
« Che sia arrivata a destinazione? » Domandò fra sé e sé.
Poi bussò per attirare l'attenzione del conducente.
« Mi perdoni, siamo arrivati? »
« ... »
« ... Ehi, signore! »
Non ricevette risposta, anche a più richiami. Rose tentò di aprire il piccolo sportello che divideva la zona del conducente da quella del passeggero, ma esso non accennava a spostarsi, sembrava quasi saldato. Si preoccupò in un primo momento, ma poi riuscì ad aprire la porta della carrozza, in un attimo di panico e ad uscirne con un piccolo balzo. Subito andò a constatare la situazione in cui si trovava la carrozza e qui ne fu molto sorpresa: non vi era traccia né del conducente, né del cavallo.
Era rimasta sola, all'entrata di una specie di rovina di un ponte, ormai ricoperto da muschio e vegetazione varia, che, dall'altra parte del piccolo tunnel, ospitava una foresta fitta e scura, che s'intravvedeva malgrado l'ombra che tendeva a coprirne la maggior parte. Si alzò un vento che trapassò Rose, quasi sibilandole delle parole incomprensibili.
« ... Il vento, parla. » Sussurrò fra sé e sé, ammaliata dal posto in cui si trovava.
Le piacevano i posti antici, sperduti e nascosti dalla civiltà, andati in rovina e riscoperti proprio da lei, chissà dopo quanto tempo, chissà dopo quante avventure che videro luogo proprio li davanti a quell'oggetto, anche solo una stradina di montagna, che avessi centinaia e centinaia d'anni. Portandosi le mani strette al petto, avvanzò lentamente, accompagnata lentamente dal vento, quasi come se si muovesse all'unisono con i passi della ragazza, scompigliandone leggermente i capelli e facendone svolazzare i pizzi bianchi del vestito. Passo dopo passo, si ritrovò già a metà del tunnel, immersa nell'ombra, dove l'unica cosa che poteva sentire era l'eco dei suoi passi sul lastricato, rotto in alcuni punti. Avvanzava, senza grandi timori, quasi come sapendo di essere protetta da quel vento che l'aveva condotta fin lì.
Ed ecco il rumore della terra: aveva oltrepassato il ponte ed ora si ritrovava in quella foresta che scorgeva a malapena dall'altra parte. Sembrava come se fosse notte, ma non lo era, soltanto gli alberi, che sovrastavano tutta la zona con le loro possenti chiome, riuscivano a ricreare la volta celeste in una notte serena. Anzi, quasi si potevano vedere le stelle, quanto somigliante era. Rose avvanzò, senza una meta, guidata dal sibilio del vento che sembrava ripeterle: "vieni, Rose, vieni." E lei si fidava, si fidava ciecamente di quello che poteva anche essere un tranello, non si sa di chi o di che cosa. Avvanzò, quando si levò la nebbia. Il vento era presente in minor modo, ora si limitava a scorrere come un flusso continuo sulle sue ginocchia. I piedi si mossero da soli, sempre più velocemente, quasi incontrollati dalla ragazza stessa. Non sapeva più che fare, non riusciva a fermarsi. Destra, sinistra, ancora destra, sembrava una cosa stranissima alla ragazza, anzi, lo era. Non capì più niente, era in panico, chiuse gli occhi e pensò intensamente: "Finiscila."
E così fù, le gambe cessarono improvvisamente di muoversi e lei cadde in avanti, sbattendo la faccia in un soffice cumulo di foglie morte. Si rialzò, scorse una piccola radura, tutt'intorno a lei, più o meno circolare, che si chiudeva lasciando solo la via alle sue spalle come unica via di fuga. Si scrollò le foglie di dosso e sospirò, mentre le scese una lacrima, rigandole la guancia destra, che fu poi asciugata quasi immediatamente dalla manica del vestito. « Perché tutto questo? » Si domandò singhiozzando.
« ... E' tutto così improvviso, così confuso. »
Mentre continuava ad asciugarsi le lacrime che continuarono sempre più a rigarle la faccia, la nebbia si rese più rada, facendo passare un piccolo raggio di luce che illuminaba flebilmente tutta la radura. La ragazza smise di singhiozzare, guardando interrogativa davanti a sé.
« ... Una porta? »
Esatto. Vi era una porta davanti a lei. Era di legno pregiato, con la serratura e la manopola in ottone, lucido e con dei cardini, senza però essere collegata a pareti o, meglio, a case.
Che ci faceva una porta, li, in mezzo ad una radura in un bosco abbastanza strano? Cos'era tutta questa stranezza che circondò così all'improvviso Rose?
La ragazza andò per aprire la porta, avvicinandosi a tentoni, sempre meno convinta di quello che poteva succedere dopo aver girato quella manopola. Porse la mano sulla maniglia. "Che fare? Girarla o tornare indietro?"
Questo era quello a cui pensava Rose, un dilemma che l'angosciava molto in quel momento ed a cui non riusciva a dare una risposta.
  
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