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Autore: Pichichi    14/05/2012    2 recensioni
La storia di una coppia imperfetta: le ragazze vivono insieme, spesso non si sopportano a vicenda, litigano dimenticando di chiedersi scusa, sono gelose e invidiose l'una dell'altra... eppure qualcosa c'è, che fa sì che si vogliano bene.
Dopo i primi frettolosi rigurgiti di chi sei, cosa studi, da dove vieni, erano passate a quanti fratelli hai, tieni per il Foggia o per il Bari, sei fidanzata, oh accidenti sono single anch'io, sapessi quante ne ho passate, aspetta cos'hai detto?
«Mi piacciono le ragazze» aveva ripetuto Ivonne, gli occhi fissi sull'altra e le guance sempre più rosse; credeva di averci fatto l'abitudine, ma evidentemente così non era se ancora s'imbarazzava nel rivelarlo, soprattutto ad una ragazza così carina.
«Quindi… sei bisessuale?»
«No, lesbica.»
[...]
Ed era stata la cosa più semplice del mondo allungarsi e posarle un bacio sulla bocca, tanto naturale che Roberta, come se non aspettasse altro, l’aveva assecondata senza esitare. Fortunatamente ebbero la prontezza di non lasciarsi sfuggire di mano le buste e, dopo un primo momento di tenerezza, di riprendere il loro cammino fino all’automobile. Erano incuranti del resto, e molto innamorate.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CINQUE POSATE

Prima

La colpa era tutta di Roberta. Doveva essere per forza così, perché escludendo i sintomi da sindrome pre-mestruale e il cambio repentino di temperatura –lì a Foggia non si registravano misurazioni inferiori ai 20° C da almeno una settimana– non le restava null’altro che giustificasse il suo rombante mal di testa, a causa del quale si era chiusa in casa da sola, al buio, sotto un plaid di lana e con la guancia affossata nel cuscino. Nulla si muoveva all’interno della stanza, eccezion fatta per due punti simmetrici oltre le sopracciglia che pulsavano con insistenza.

Si chiamava Ivonne non perché avesse origini francesi, ma per via del gusto eccentrico di sua madre, fortunata nel disporre di cinque figlie femmine con cui potersi sbizzarrire; lei era la secondogenita, dichiaratamente vegetariana e lesbica, dotata di uno straordinario talento nel far andare tutto per il verso sbagliato. In quel momento giaceva inerte sul letto, raggomitolata su se stessa ad interrogarsi su che cosa avesse fatto di male quella volta, per averne somatizzato le conseguenze in quel modo così doloroso.

Quando le cose andavano male tirava sempre fuori la solita scusa, la più fragile, quella di aver dato troppa confidenza ad una ragazza dallo sguardo vivace, un qualsiasi mercoledì di alcuni mesi prima. Se ciò non fosse avvenuto, si sarebbe risparmiata moltissime seccature, ne era certa, a cominciare da quel brutto mal di testa.

Certo lei era ignara, a quei tempi, di tutto quel che avrebbe comportato accettare l’aiuto di una ragazza che, come lei, doveva caricare i bagagli sul pullman diretto verso l’entroterra garganico. Dopo i primi frettolosi rigurgiti di come ti chiami, cosa studi, di dove sei, erano passate a quanti fratelli hai, tieni per il Foggia o per il Bari, sei fidanzata, oh accidenti sono single anch’io, sapessi quante ne ho passate, aspetta cos’hai detto?

«Mi piacciono le ragazze» aveva ripetuto Ivonne, gli occhi fissi sull’altra e le guance sempre più rosse; credeva di averci fatto l’abitudine, ma evidentemente così non era se ancora s’imbarazzava nel rivelarlo, soprattutto ad una ragazza così carina.

«Quindi… sei bisessuale?»

«No, lesbica.»

«Uh uh. Wow, sei la prima.»

Quella venatura languida e curiosa nello sguardo di Roberta avrebbe dovuto metterla sull’attenti, ma siccome la sua unica reazione era stata sorridere placidamente come una fessa, ci era cascata con tutte le scarpe. Da lì in poi gli eventi si erano succeduti con tanta naturalezza da sembrare programmati o comunque talmente rapidi e concatenati da far presupporre l’esistenza di un certo disegno superiore, il cosiddetto destino.

Quando fece ritorno a casa ed entrò nella camera Roberta la riconobbe subito, non tanto perché creava un informe fagotto sul materasso quanto per i calzini colorati e a righe che vide spuntare da sotto la coperta. Era contenta per essere sopravvissuta ad una giornata molto intensa e non vedeva l’ora di stringersi addosso a quella che poteva ormai considerare a tutti gli effetti la sua fidanzata. Salì sul letto, le afferrò le caviglie e la trasse a sé.

«Ivonne?»

«Eh?»

«Che cos’hai?»

Ivonne si prese qualche secondo per valutare che cosa risponderle, se affrontare direttamente l’argomento oppure limitarsi a scrollare le spalle per non metterla di malumore; scelse di mostrarsi vaga.

«Mah… niente.»

«Oh, per favore!»

Roberta le crollò accanto per guardarla in faccia e sincerarsi personalmente del suo stato; Ivonne tenne gli occhi chiusi finché non sentì il naso dell’altra ragazza premere contro il suo e una mano fresca spostarle i capelli oltre l’orecchio. Allora schiuse le palpebre.

«Non ti senti bene?»

«Ho mal di testa» spiegò con voce lamentosa. «Forte.»

Roberta si sedette composta, tirando un sospiro e lasciandole un’altra carezza sulla guancia. Cominciò a togliersi il giubbino, ci pensò su e poi chiese:

«Be’, che stai aspettando? Che ti passi da solo?»

Ivonne non rispose, perciò Roberta interpretò quel silenzio come la conferma della sua ipotesi; quando si fu sgranchita le dita dei piedi e infilate le pantofole si alzò, con l’intenzione di avviarsi verso la cucina.

«Non hai preso nulla?» s’informò.

«No.»

«Okay. Vedo cosa c’è.»

Roberta non poté evitare di domandarsi, mentre recuperava il tubetto di Vivin-C, che cosa avrebbe fatto Ivonne se lei non fosse in quel momento tornata a casa. Sarebbe rimasta lì inerte, a soffrire nel buio?

Roberta le voleva tanto bene, ma a volte proprio non la capiva. Di solito Ivonne lasciava che fosse lei a sbrigare la maggior parte delle faccende, come pagare le bollette, ritirare le raccomandate alla posta, prenotare il tavolo in pizzeria e cose del genere; fin qui non c’era nulla di male, faceva parte della natura della ragazza, dotata di uno spiccato senso pratico. Ivonne era invece più un tipo svagato, un po’ troppo ingenua e sognatrice per occuparsi delle cose di questo mondo; poi c’era quell’enorme problema che era l’estrema timidezza unita alla facile tendenza a buttarsi giù, cose che la rendevano uno di quei soggetti assolutamente indifesi, pronti ad aggrapparsi a chiunque offrisse loro protezione. A volte si sentiva proprio così, come assediata da un parassita.

A riguardo Roberta bisognava dire che era una ragazza molto paziente; di più, aveva imparato ad essere paziente e ad accordare le sue reazioni secondo quelle di Ivonne. Non era stato semplice: le veniva quasi da ridere al pensiero dei problemi che si era posta all’inizio, quando si era accorta di provare qualcosa per lei.

Aveva sempre sospettato che anche Ivonne ricambiasse i suoi sentimenti – di certo non doveva rivolgere quei sorrisi dolci e quelle occhiate affettuose a chiunque –, eppure si accorgeva che l’altra ragazza, in risposta alle sue espressioni concilianti e a certi tentativi forzati di condividere il maggior contatto fisico possibile – abbracci, baci gratuiti e carezze superflue erano all’ordine del giorno –, non reagiva assolutamente. O meglio: sì, aveva visto chiaramente che diventava tutta rossa se solo si azzardava a pettinarle i capelli con una mano, aveva notato il suo essere sempre sorridente nel rivolgerle la parola, ma il tutto moriva lì. Dopotutto, si era detta Roberta, era o non era lei quella omosessuale? Non avrebbe dovuto condurla lei sulle dolci vie della perdizione?

Ma nessuna si decideva a fare il primo passo, e ciò dovette accumulare fra loro una tale quantità di parole inespresse e tensione sessuale che fu sufficiente un evento del tutto casuale a far scattare la scintilla.

Roberta se lo ricordava bene, sovrapponeva l’immagine di quell’Ivonne, così serena e allegra, a quella triste e demoralizzata che di tanto in tanto rispuntava fuori, come quella volta. Quando le portò il bicchiere con la compressa accanto aspettò che finisse d’ingoiare e si protese per baciarle una guancia, ma venne bruscamente respinta.

«No, lasciami stare.»

«Hai preferenze per cena?»

«No, va bene tutto. Anzi no, non ho fame, non voglio nulla.»

Dopo esser tornata sotto la coperta ed averle voltato le spalle, si chiuse nel silenzio più impenetrabile; Roberta decise che era meglio lasciar perdere, che nonostante avesse molta voglia di essere stretta fra le sua braccia e poggiare la testa sul suo corpo per cinque minuti, cinque soli minuti di beatitudine che l’avrebbero ripagata di tutta la stanchezza accumulata durante il giorno, vi avrebbe rinunciato per non urtare la sensibilità della sua fidanzata. Quell’Ivonne non aveva molti punti in comune con quella che, una luminosa mattinata di febbraio, si era offerta di accompagnarla a fare la spesa.

C’era da far provviste per tutta la settimana e Roberta aveva avuto bisogno di un aiuto supplementare, così Ivonne l’aveva seguita fino al supermercato e l’aveva assistita molto volentieri nello spingere il carrello della spesa. Non era accaduto niente di speciale, anzi quel giorno le ragazze sembravano essere meno occupate a farsi gli occhi dolci per concentrarsi sulla lista di cose da comprare; nemmeno quando Roberta aveva chiesto a Ivonne se, per piacere, potesse allungare una mano e afferrare la scatola di corn-flakes era cambiato qualcosa, nonostante la ragazza, nel farlo, avesse rischiato di far cadere le altre confezioni e perdere l’equilibrio, necessitando il sostegno dell’amica. Sembrava insomma che fosse la giornata più normale del mondo, o così aveva pensato Roberta con una punta di delusione mentre si erano avviate oltre le porte automatiche del negozio.

Avevano parcheggiato non proprio vicino e si erano affannate a percorrere il tragitto trascinando due buste consistenti a testa; sentendo la stanchezza, Ivonne aveva chiesto:

«Dov’è la macchina?»

«Un altro po’, siamo quasi arrivate. Ma sei stanca?» Roberta si era voltata a guardarla mentre imboccavano una discesa. «Vuoi darmi una busta?»

«No, no, ce la faccio.»

Capitò che in quel momento passasse una moto, di gran carriera, e che il rumore del motore coprisse le loro voci. Roberta, che aveva ripreso a guardare avanti a sé, si fermò ad un tratto voltandosi tutta.

«Scusa, che hai detto? Non ho capito niente, con quel rumore.»

Ma tanto brusca era stata la sua fermata quanto rapido fu il movimento di Ivonne, fermatasi giusto qualche centimetro prima di finirle addosso. Anche se non pareva esser la situazione più romantica del mondo, con la strada trafficata, le sciarpe e i cappotti ingombranti addosso, le buste della spesa in mano, forse alle ragazze non serviva che un pretesto qualsiasi per prendere coraggio e smuovere la situazione. Ivonne aveva pensato che non importava se si trovavano in una via cittadina in cui l’intimità non esisteva affatto, perché tanto Roberta le piaceva comunque, anche col fiatone e le guance rosse come in quel momento.

Ed era stata la cosa più semplice del mondo allungarsi e posarle un bacio sulla bocca, tanto naturale che Roberta, come se non aspettasse altro, l’aveva assecondata senza esitare. Fortunatamente ebbero la prontezza di non lasciarsi sfuggire di mano le buste e, dopo un primo momento di tenerezza, di riprendere il loro cammino fino all’automobile. Erano incuranti del resto, e molto innamorate.

A dispetto di quel che aveva affermato Ivonne, Roberta si presentò in camera da letto, poco dopo le dieci, reggendo un vassoio.

«Sei sveglia?» domandò.

«Sì.»

La compressa aveva agito con efficacia ed Ivonne aveva trovato sollievo da quel dolore opprimente; sembrava essersi tranquillizzata e rilassata a sufficienza da permettere alla fidanzata di rivolgerle la parola. Accettò con un certo imbarazzo quel che Roberta le aveva preparato – due fette di mozzarella con accanto dell’insalata – e, mettendosi seduta, cominciò a mangiare in silenzio. Roberta nel frattempo prese a spogliarsi, sospirando fra sé riguardo all’umore volubile dell’altra.

Il silenzio continuò per un po’, intervallato dal rumore delle posate che urtavano il piatto e dal fruscio degli abiti; Ivonne sapeva di non essersi comportata nel migliore dei modi e immaginava che Roberta fosse, se non arrabbiata, quantomeno irritata. Non era la prima volta che succedeva e detestava enormemente essere dalla parte del torto, specie perché non era sicura del modo in cui chiederle scusa.

«Vado in bagno.»

«Va bene» fece lei, con un filo di voce, seguendola con lo sguardo nel tragitto verso il bagno.

Lo scatto della porta la fece ripiombare nei suoi tristi pensieri; non sapeva nemmeno lei cos’avesse, non aveva idea del perché fosse così preoccupata e pensierosa. A dirla tutta, Ivonne ammise a se stessa che il fatto che Roberta fosse stata parecchio impegnata, quella mattina, senza volerle rivelare di che cosa effettivamente si stesse occupando, l’aveva seccata non poco. Aveva provato a girarci intorno, a carpirle informazioni, ma Roberta non aveva lasciato trapelare nulla.

«Cose noiose, devo spedire una raccomandata» le aveva risposto, rassicurandola con un sorriso, facendo leva sul fatto che la sua fidanzata non nutrisse il minimo interesse per quel genere di cose, così quotidiane.

«Ah, d’accordo.»

Per tutto il pomeriggio Roberta aveva avuto lezioni all’università e nel momento in cui era rientrata Ivonne aveva già somatizzato tutti quei pensieri.

Come le accadeva spesso, d’un colpo mutò umore e considerò la cosa da una prospettiva diversa: stava facendo tante storie per una sciocchezza, mentre Roberta era soltanto stanca e avrebbe certo desiderato tutto un altro tipo di accoglienza?

Scalciò via la coperta che aveva tenuto sulle gambe, poggiò il piatto sul comodino e si avviò, scalza, verso il bagno. Abbassò la maniglia e sgattaiolò nella stanza, per nulla sorpresa di trovare Roberta piegata sul lavandino, intenta a sciacquarsi i capelli.

«Che c’è?» domandò lei, voltandosi appena per darle un’occhiata che non lasciava presagire alcun affettuoso benvenuto.

«Vuoi aiuto per asciugarli?»

Il rumore dell’acqua che la ragazza si fece scivolare sul capo, badando che spazzasse via anche gli ultimi residui dello shampoo, non le diede modo di ascoltare alcuna risposta, ammesso che ce ne fosse stata una: Ivonne notò le sopracciglia della sua fidanzata appena corrugate ed intuì che nel lasso di tempo in cui l’aveva lasciata da sola Roberta doveva aver meditato pensieri non molto pacifici nei suoi confronti.

Una volta che ebbe chiuso il rubinetto e strizzato fra le mani le ciocche fradice, si rimise dritta e si strinse nelle spalle.

«Mah, se proprio vuoi…»

«Sì, sì! Prendo il phon e la sedia.»

Ivonne la superò, aprendo l’anta del mobiletto in cui conservavano tutto il necessario per igiene personale e cura del corpo, alla ricerca dell’attrezzo, del beccuccio adatto e di una spazzola rotonda. Sorrise fra sé, senza osare farne mostra all’altra: pur se in modo scorbutico, il permesso di assisterla in quel rito era già un passo avanti.

In tempi più tranquilli e sereni, quella sarebbe stata una comunissima scenetta romantica a cui entrambe amavano prendere parte: Roberta lasciava volentieri a Ivonne il compito di occuparsi dei suoi capelli ondulati e informi, mentre l’altra gioiva nel partecipare a quel momento così personale. Fin da subito era stato uno dei loro siparietti d’intimità preferiti.

Ivonne fece prendere posto alla ragazza su una sedia più bassa del dovuto, si sedette sul bordo della vasca da bagno e prese in mano un pettine.

«Riga a destra?»

«No, sinistra.»

Con un lieve sospiro li prese in mano e cominciò a passarci le dita ed il pettine, incontrando non poche resistenze. Per i primi momenti rimasero in silenzio, l’una concentrata sul suo lavoro e l’altra a braccia conserte, gli occhi fissi nello specchio di fronte a sé. Si percepiva un’atmosfera grave, carica di parole non dette e di pensieri lasciati a macerare troppo a lungo.

«Si son fatti lunghi, Robbé» commentò Ivonne, accennando un sorriso.

Fu uno sbaglio: non fece che irritare ancora di più Roberta.

«Sì, devo andare a tagliarli. Però sbrigati, dai.»

Ivonne sapeva benissimo che l’arrabbiatura della sua ragazza trovava giustificazione da tutti i punti di vista, tuttavia non poté evitare di sbuffare per il suo atteggiamento anti-collaborativo.

«Ma sei arrabbiata, eh?»

«No.»

«Sicura?»

«Sicura.»

Non passò che qualche secondo di silenzio che Roberta si contraddisse.

«Ecco, questo mi fa proprio incazzare.»

«Che cosa?» domandò Ivonne, smettendo di pettinarla.

«Tu. Tu quando fai così.»

«E che cosa ho fatto?»

«Non lo so! Vengo a casa e ti trovo col muso, che non parli, che sembra che ti abbia fatto qualcosa!»

«Avevo mal di testa…»

«E ho capito che hai mal di testa, però… anche io sono stanchissima, oggi ho fatto un sacco di cose! Non è che quando stai male tu deve fermarsi il mondo e tutti sull’attenti!»

Incerta su che cosa rispondere, Ivonne tentennò. Poi provò ad obiettare:

«Ma non ti ho fatto niente di male.»

«Sì, non mi hai fatto niente di male, ma ci sono dei giorni in cui pare che ti sia dovuto tutto, in cui esisti solo tu! Certe volte, certe volte… non lo so! Certe volte mi sembri una bambina, guarda! E dai!»

Accompagnò la tirata con un gesto energico della mano, testimone della necessità quasi fisica che aveva di buttar fuori quelle parole; la sua espressione però mutò in preoccupata quando vide il viso della sua ragazza rannuvolarsi d’un tratto. Ivonne lasciò andare i capelli, si tirò leggermente indietro e disse:

«Bene. D’accordo. Fatteli tu i capelli.»

Roberta diede prova di grande autocontrollo nel trattenere tutti gli improperi che le erano saliti alle labbra. Scosse la testa, manifestando disapprovazione, e si voltò a guardarla negli occhi.

«Dai, finiscimi ‘sti capelli.»

«No. Fatteli da sola.»

«E dai.»

«Fatteli da sola ho detto!»

«Ora ti sei arrabbiata tu?»

«Sì, sono arrabbiata.»

«Oho!»

A Roberta sfuggì un sorriso sarcastico. Fece roteare la mano destra e si girò completamente verso la sua fidanzata, senza abbandonare quell’aria divertita.

«Ora ti sei arrabbiata, eh?»

Ivonne le lanciò uno sguardo cattivo, fece un bel respiro perché non le mancasse il fiato e poi sbottò, le guance improvvisamente rossissime.

«Sì, mi sono arrabbiata! Che c’è? Non mi posso arrabbiare, io? Non mi posso arrabbiare? Anche tu mi fai incazzare, quando fai così!»

«Ivonne…»

«Tu mi tratti peggio di una scema! Anzi no, l’hai detto prima, una bambina! Tu mi tratti come una bambina, sì! Non capisco niente, è vero? Una povera scema, non capisce niente, non diciamole niente!»

«Abbassa la voce, che è tardi!»

«Non abbasso niente! Grido quanto mi pare!» fece lei per tutta risposta, fermandosi poi a riprendere fiato.

Roberta dimenticò tutto quel che aveva detto prima, ciò di cui si era lamentata, più preoccupata in quel momento dello stato isterico in cui sembrava vertere l’altra; agitata e scossa, era tutta un tremito. Ivonne si fece coraggio, approfittando dello spiazzamento della ragazza, per deglutire e tirar fuori quello che aveva da dire.

«Tu non mi dici mai niente» concluse.

«A che cosa ti riferisci?»

Roberta allungò un braccio per tirarla vicino a sé e farla risedere; interpretò la sua non resistenza come il segno che la ragazza doveva essersi calmata, perciò si permise di domandarle, con tono più dimesso e premuroso:

«Cos’è che non ti dico? Che cosa?»

Ivonne tacque, guardandola senza dire nulla. Non poteva dire la verità, non poteva rivelarle di essere ancora seccata per la faccenda di quella mattina, soprattutto ora che aveva ottenuto la sua piena attenzione.

Da parte sua, Roberta si dispiacque enormemente di averla esasperata a quel modo, tanto da farle perdere il controllo; sapeva bene che la sua compagna soffriva di bruschi sbalzi d’umore che spaziavano dal malinconico al collerico, dall’euforico all’indifferente, sapeva quanto Ivonne fosse sensibile a queste variazioni, per questo si maledisse fra sé, sentendosi terribilmente in colpa. Aspettò una sua qualche reazione, rassicurata almeno dal non vederle più sul volto quell’ansia esagitata di poco prima.

Ivonne non disse nulla, riprese in mano il pettine e riprese a svolgere i nodi che Roberta si ritrovava in testa. Questa aspettò un po’, per controllare che non ci fossero da temere altre sfuriate, poi chiese:

«È per via del vestito?»

Faceva riferimento ad un episodio accaduto qualche giorno prima. Le due ragazze si erano recate in centro alla ricerca di un negozio dove poter reperire degli abiti carini e non eccessivamente costosi, in previsione di un compleanno al quale entrambe erano state invitate.

Roberta era stata molto sbrigativa e decisa: scelto il modello, provatolo e constatata la perfetta adesione della stoffa al suo corpo un po’ robusto e formoso, non aveva avuto dubbi nell’acquistarlo. Ivonne invece aveva provato e riprovato vari modelli dei più disparati colori, dal rosa pallido al blu scuro, passando per il nero e per un eccentrico tubino giallo che Roberta aveva senza esitazioni disapprovato; aveva tenuto la commessa per molto tempo accanto a sé, incapace di scegliere l’abito che le stesse meglio, portando al limite la sopportazione della compagna.

Dopo aver ingannato il tempo sbirciando i diversi tipi di camicie e giubbini esposti, sfogliato per tre volte il catalogo della collezione primavera-estate, dato un’occhiata alle borse e ai cappelli, così come ai foulard e persino alle scarpe da uomo, aveva fatto ritorno nei camerini con la speranza che Ivonne avesse finalmente scelto che cosa prendere.

«Non mi so decidere! Tu che ne pensi?»

La mente di Roberta aveva lavorato con grande rapidità. Continuando a dare carta bianca ad Ivonne, si poteva star certi che le cose sarebbero andate per le lunghe; aveva dato un’occhiata al vestito che stava provando: di color grigio, morbido, non era nulla di speciale ma nemmeno poteva definirsi orribile. Aveva liquidato fra sé la questione asserendo che Ivonne aveva quel tipo di fisico naturalmente armonioso, per cui poteva andarle bene tutto.

«A me piace questo.»

«Sì?»

Lei si era voltata con aria sollevata, felice di aver trovato un giudizio a cui aggrapparsi in quel mare di confusione. Tutto sarebbe andato per il meglio se Roberta non si fosse fatta successivamente sfuggire, in un momento d’ilarità, che quel vestito le dava l’aria di un fantasma e la faceva apparire un’anemica in carenza di vitamine. Ivonne era cascata dalle nuvole: per lei non faceva davvero differenza il tipo di vestito da indossare, ma aveva pensato di prendere quello che più era piaciuto alla sua fidanzata. Si era imbronciata e le aveva tenuto il muso per un po’, ma poi Roberta l’aveva convinta a non pensarci più di tanto, perché lei era bella in ogni caso e tutto le stava bene addosso.

Non ricevendo risposta, interpretò il silenzio come una conferma.

«Cioè, allora… ammettiamolo: non è un granché» riprese a parlare, cercando di assumere un tono pratico e di portare la discussione su toni più rilassati. «A me personalmente non importa che vestito tu abbia addosso.»

Ivonne smise di pettinarla, eliminando i capelli che aveva tirato via dai denti del pettine, e infilò il beccuccio sul phon.

«Perché preferisci senza, lo so. Originale.»

«Ma a parte questo, visto che a te piacevano tutti e non riuscivi a deciderti, ho pensato che non interessando a nessuna delle due, non facesse alcuna differenza.»

«Sì sì, certo.»

Il rombo del phon coprì ogni possibile risposta, ma Roberta notò il tono più disteso e ironico dell’altra e si tranquillizzò. Passata la burrasca, entrambe parvero dimenticare quanto accaduto prima; non dissero più nulla e Ivonne continuò a passare la spazzola attorno ai capelli dell’altra, avvolgendola con decisione per conferire loro più volume.

Indubbiamente ci voleva una gran pazienza, pensava Roberta guardandola nello specchio: non erano permessi toni di discussione troppo bruschi, i suoi momenti di umore altalenante non erano sindacabili ed era necessario fare sempre scorta di insalata, verdure e ortaggi che sostituissero la tanto avversata carne, di cui Roberta era molto ghiotta. Tutto ciò passava in secondo piano nel momento in cui si accorgeva di quanto impegno e premura mettesse Ivonne nell’asciugarle i capelli; quando il riflesso della sua ragazza incontrò il suo sguardo e le rivolse un sorriso, oltre che un’amorevole occhiata, si accorse che gli angoli della sua bocca si erano spontaneamente tesi verso l’alto.

Succedeva sempre così, passavano da uno stato d’animo all’altro con grande rapidità, ma questo non le turbava e non accumulava in loro rancore per le controversie non risolte; i problemi sorgevano nel momento in cui una delle due si stabilizzava su una tonalità diversa – solitamente si trattava di Ivonne – e allora era necessaria una discussione energica, un gesto spontaneo e irrazionale per riportare la situazione in parità. Roberta aveva imparato che Ivonne era molto suscettibile alle litigate, producevano in lei una grande impressione ed erano capaci di scuoterla tutta; la cosa fondamentale era capire in tempo quale fosse il punto di non ritorno, quella soglia d’orgoglio oltre la quale Ivonne non sarebbe riuscita ad andare se non mutando radicalmente i rapporti con la sua interlocutrice. Fino a quel momento Roberta era sempre riuscita a perdonarle e farsi perdonare tutto, prima che fosse troppo tardi.

«Allora era per quello che stavi in pensiero?» le domandò più tardi, quando furono entrambe sotto le lenzuola, aggrovigliate a formare un’unica massa corporea.

Ivonne, occupata a rallegrarsi della ritrovata intimità e della rappacificazione, non comprese subito a che cosa si stesse riferendo la ragazza.

«Per il vestito, dici?»

«Dai, al massimo ne indosserai uno vecchio che non t’ha mai visto nessuno.»

Si ricordò della misteriosa faccenda della mattina e fu lì lì per parlargliene sperando che, data la situazione favorevole, Roberta la tranquillizzasse esponendole tutti i dettagli del caso, ma il suo proposito venne meno quando l’altra ragazza allungò una mano a far scattare l’interruttore dell’abat-jour, facendole piombare nel buio più totale.

Ivonne pensò che non era quello stupido vestito il motivo del suo malumore e che forse avrebbe dovuto semplicemente dire la verità, piuttosto che lasciar galleggiare quella raccomandata ignota nei suoi pensieri, ma il percepire una coppia di mani che la tenevano ferma per i fianchi e Roberta salirle sopra per cercare un comodo incastro la distrasse completamente, al punto che quando si ritrovò a torcere il collo per ricambiare e al contempo sfuggire i baci dell’altra aveva già dimenticato tutto.

   
 
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