La
colpa era tutta di Roberta. Doveva essere per forza così,
perché escludendo i sintomi
da sindrome pre-mestruale e il cambio repentino di temperatura
–lì a Foggia non
si registravano misurazioni inferiori ai 20° C da almeno una
settimana– non le
restava null’altro che giustificasse il suo rombante mal di
testa, a causa del
quale si era chiusa in casa da sola, al buio, sotto un plaid di lana e
con la
guancia affossata nel cuscino. Nulla si muoveva all’interno
della stanza,
eccezion fatta per due punti simmetrici oltre le sopracciglia che
pulsavano con
insistenza.
Si
chiamava Ivonne non perché avesse origini francesi, ma per
via del gusto
eccentrico di sua madre, fortunata nel disporre di cinque figlie
femmine con
cui potersi sbizzarrire; lei era la secondogenita, dichiaratamente
vegetariana
e lesbica, dotata di uno straordinario talento nel far andare tutto per
il
verso sbagliato. In quel momento giaceva inerte sul letto,
raggomitolata su se
stessa ad interrogarsi su che cosa avesse fatto di male quella volta,
per
averne somatizzato le conseguenze in quel modo così doloroso.
Quando
le cose andavano male tirava sempre fuori la solita scusa, la
più fragile,
quella di aver dato troppa confidenza ad una ragazza dallo sguardo
vivace, un
qualsiasi mercoledì di alcuni mesi prima. Se ciò
non fosse avvenuto, si sarebbe
risparmiata moltissime seccature, ne era certa, a cominciare da quel
brutto mal
di testa.
Certo
lei era ignara, a quei tempi, di tutto quel che avrebbe comportato
accettare
l’aiuto di una ragazza che, come lei, doveva caricare i
bagagli sul pullman
diretto verso l’entroterra garganico. Dopo i primi frettolosi
rigurgiti di come
ti chiami, cosa studi, di dove sei, erano passate a quanti fratelli
hai, tieni
per il Foggia o per il Bari, sei fidanzata, oh accidenti sono single
anch’io,
sapessi quante ne ho passate, aspetta cos’hai detto?
«Mi
piacciono le ragazze» aveva ripetuto Ivonne, gli occhi fissi
sull’altra e le
guance sempre più rosse; credeva di averci fatto
l’abitudine, ma evidentemente
così non era se ancora s’imbarazzava nel
rivelarlo, soprattutto ad una ragazza
così carina.
«Quindi…
sei bisessuale?»
«No,
lesbica.»
«Uh
uh. Wow, sei la prima.»
Quella
venatura languida e curiosa nello sguardo di Roberta avrebbe dovuto
metterla
sull’attenti, ma siccome la sua unica reazione era stata
sorridere placidamente
come una fessa, ci era cascata con tutte le scarpe. Da lì in
poi gli eventi si
erano succeduti con tanta naturalezza da sembrare programmati o
comunque
talmente rapidi e concatenati da far presupporre l’esistenza
di un certo
disegno superiore, il cosiddetto destino.
Quando
fece ritorno a casa ed entrò nella camera Roberta la
riconobbe subito, non
tanto perché creava un informe fagotto sul materasso quanto
per i calzini
colorati e a righe che vide spuntare da sotto la coperta. Era contenta
per essere
sopravvissuta ad una giornata molto intensa e non vedeva
l’ora di stringersi
addosso a quella che poteva ormai considerare a tutti gli effetti la
sua
fidanzata. Salì sul letto, le afferrò le caviglie
e la trasse a sé.
«Ivonne?»
«Eh?»
«Che
cos’hai?»
Ivonne
si prese qualche secondo per valutare che cosa risponderle, se
affrontare
direttamente l’argomento oppure limitarsi a scrollare le
spalle per non
metterla di malumore; scelse di mostrarsi vaga.
«Mah…
niente.»
«Oh,
per favore!»
Roberta
le crollò accanto per guardarla in faccia e sincerarsi
personalmente del suo
stato; Ivonne tenne gli occhi chiusi finché non
sentì il naso dell’altra
ragazza premere contro il suo e una mano fresca spostarle i capelli
oltre
l’orecchio. Allora schiuse le palpebre.
«Non
ti senti bene?»
«Ho
mal di testa» spiegò con voce lamentosa.
«Forte.»
Roberta
si sedette composta, tirando un sospiro e lasciandole
un’altra carezza sulla
guancia. Cominciò a togliersi il giubbino, ci
pensò su e poi chiese:
«Be’,
che stai aspettando? Che ti passi da solo?»
Ivonne
non rispose, perciò Roberta interpretò quel
silenzio come la conferma della sua
ipotesi; quando si fu sgranchita le dita dei piedi e infilate le
pantofole si
alzò, con l’intenzione di avviarsi verso la cucina.
«Non
hai preso nulla?» s’informò.
«No.»
«Okay.
Vedo cosa c’è.»
Roberta
non poté evitare di domandarsi, mentre recuperava il tubetto
di Vivin-C, che
cosa avrebbe fatto Ivonne se lei non fosse in quel momento tornata a
casa.
Sarebbe rimasta lì inerte, a soffrire nel buio?
Roberta
le voleva tanto bene, ma a volte proprio non la capiva. Di solito
Ivonne
lasciava che fosse lei a sbrigare la maggior parte delle faccende, come
pagare
le bollette, ritirare le raccomandate alla posta, prenotare il tavolo
in
pizzeria e cose del genere; fin qui non c’era nulla di male,
faceva parte della
natura della ragazza, dotata di uno spiccato senso pratico. Ivonne era
invece
più un tipo svagato, un po’ troppo ingenua e
sognatrice per occuparsi delle
cose di questo mondo; poi c’era quell’enorme
problema che era l’estrema
timidezza unita alla facile tendenza a buttarsi giù, cose
che la rendevano uno
di quei soggetti assolutamente indifesi, pronti ad aggrapparsi a
chiunque
offrisse loro protezione. A volte si sentiva proprio così,
come assediata da un
parassita.
A
riguardo Roberta bisognava dire che era una ragazza molto paziente; di
più,
aveva imparato ad essere paziente e ad accordare le sue reazioni
secondo quelle
di Ivonne. Non era stato semplice: le veniva quasi da ridere al
pensiero dei
problemi che si era posta all’inizio, quando si era accorta
di provare qualcosa
per lei.
Aveva
sempre sospettato che anche Ivonne ricambiasse i suoi sentimenti
– di certo non
doveva rivolgere quei sorrisi dolci e quelle occhiate affettuose a
chiunque –,
eppure si accorgeva che l’altra ragazza, in risposta alle sue
espressioni
concilianti e a certi tentativi forzati di condividere il maggior
contatto
fisico possibile – abbracci, baci gratuiti e carezze
superflue erano all’ordine
del giorno –, non reagiva assolutamente. O meglio:
sì, aveva visto chiaramente
che diventava tutta rossa se solo si azzardava a pettinarle i capelli
con una
mano, aveva notato il suo essere sempre sorridente nel rivolgerle la
parola, ma
il tutto moriva lì. Dopotutto, si era detta Roberta, era o
non era lei quella
omosessuale? Non avrebbe dovuto condurla lei sulle dolci vie della
perdizione?
Ma
nessuna si decideva a fare il primo passo, e ciò dovette
accumulare fra loro
una tale quantità di parole inespresse e tensione sessuale
che fu sufficiente
un evento del tutto casuale a far scattare la scintilla.
Roberta
se lo ricordava bene, sovrapponeva l’immagine di
quell’Ivonne, così serena e
allegra, a quella triste e demoralizzata che di tanto in tanto
rispuntava
fuori, come quella volta. Quando le portò il bicchiere con
la compressa accanto
aspettò che finisse d’ingoiare e si protese per
baciarle una guancia, ma venne
bruscamente respinta.
«No,
lasciami stare.»
«Hai
preferenze per cena?»
«No,
va bene tutto. Anzi no, non ho fame, non voglio nulla.»
Dopo
esser tornata sotto la coperta ed averle voltato le spalle, si chiuse
nel
silenzio più impenetrabile; Roberta decise che era meglio
lasciar perdere, che
nonostante avesse molta voglia di essere stretta fra le sua braccia e
poggiare
la testa sul suo corpo per cinque minuti, cinque soli minuti di
beatitudine che
l’avrebbero ripagata di tutta la stanchezza accumulata
durante il giorno, vi avrebbe
rinunciato per non urtare la sensibilità della sua
fidanzata. Quell’Ivonne non
aveva molti punti in comune con quella che, una luminosa mattinata di
febbraio,
si era offerta di accompagnarla a fare la spesa.
C’era
da far provviste per tutta la settimana e Roberta aveva avuto bisogno
di un
aiuto supplementare, così Ivonne l’aveva seguita
fino al supermercato e l’aveva
assistita molto volentieri nello spingere il carrello della spesa. Non
era
accaduto niente di speciale, anzi quel giorno le ragazze sembravano
essere meno
occupate a farsi gli occhi dolci per concentrarsi sulla lista di cose
da
comprare; nemmeno quando Roberta aveva chiesto a Ivonne se, per
piacere,
potesse allungare una mano e afferrare la scatola di corn-flakes era
cambiato
qualcosa, nonostante la ragazza, nel farlo, avesse rischiato di far
cadere le
altre confezioni e perdere l’equilibrio, necessitando il
sostegno dell’amica.
Sembrava insomma che fosse la giornata più normale del
mondo, o così aveva
pensato Roberta con una punta di delusione mentre si erano avviate
oltre le
porte automatiche del negozio.
Avevano
parcheggiato non proprio vicino e si erano affannate a percorrere il
tragitto
trascinando due buste consistenti a testa; sentendo la stanchezza,
Ivonne aveva
chiesto:
«Dov’è
la macchina?»
«Un
altro po’, siamo quasi arrivate. Ma sei stanca?»
Roberta si era voltata a
guardarla mentre imboccavano una discesa. «Vuoi darmi una
busta?»
«No,
no, ce la faccio.»
Capitò
che in quel momento passasse una moto, di gran carriera, e che il
rumore del
motore coprisse le loro voci. Roberta, che aveva ripreso a guardare
avanti a
sé, si fermò ad un tratto voltandosi tutta.
«Scusa,
che hai detto? Non ho capito niente, con quel rumore.»
Ma
tanto brusca era stata la sua fermata quanto rapido fu il movimento di
Ivonne,
fermatasi giusto qualche centimetro prima di finirle addosso. Anche se
non
pareva esser la situazione più romantica del mondo, con la
strada trafficata,
le sciarpe e i cappotti ingombranti addosso, le buste della spesa in
mano,
forse alle ragazze non serviva che un pretesto qualsiasi per prendere
coraggio
e smuovere la situazione. Ivonne aveva pensato che non importava se si
trovavano in una via cittadina in cui l’intimità
non esisteva affatto, perché
tanto Roberta le piaceva comunque, anche col fiatone e le guance rosse
come in
quel momento.
Ed
era stata la cosa più semplice del mondo allungarsi e
posarle un bacio sulla
bocca, tanto naturale che Roberta, come se non aspettasse altro,
l’aveva
assecondata senza esitare. Fortunatamente ebbero la prontezza di non
lasciarsi
sfuggire di mano le buste e, dopo un primo momento di tenerezza, di
riprendere il
loro cammino fino all’automobile. Erano incuranti del resto,
e molto
innamorate.
A
dispetto di quel che aveva affermato Ivonne, Roberta si
presentò in camera da
letto, poco dopo le dieci, reggendo un vassoio.
«Sei
sveglia?» domandò.
«Sì.»
La
compressa aveva agito con efficacia ed Ivonne aveva trovato sollievo da
quel
dolore opprimente; sembrava essersi tranquillizzata e rilassata a
sufficienza
da permettere alla fidanzata di rivolgerle la parola.
Accettò con un certo
imbarazzo quel che Roberta le aveva preparato – due fette di
mozzarella con
accanto dell’insalata – e, mettendosi seduta,
cominciò a mangiare in silenzio. Roberta
nel frattempo prese a spogliarsi, sospirando fra sé riguardo
all’umore volubile
dell’altra.
Il
silenzio continuò per un po’, intervallato dal
rumore delle posate che urtavano
il piatto e dal fruscio degli abiti; Ivonne sapeva di non essersi
comportata
nel migliore dei modi e immaginava che Roberta fosse, se non
arrabbiata,
quantomeno irritata. Non era la prima volta che succedeva e detestava
enormemente essere dalla parte del torto, specie perché non
era sicura del modo
in cui chiederle scusa.
«Vado
in bagno.»
«Va
bene» fece lei, con un filo di voce, seguendola con lo
sguardo nel tragitto
verso il bagno.
Lo
scatto della porta la fece ripiombare nei suoi tristi pensieri; non
sapeva
nemmeno lei cos’avesse, non aveva idea del perché
fosse così preoccupata e
pensierosa. A dirla tutta, Ivonne ammise a se stessa che il fatto che
Roberta
fosse stata parecchio impegnata, quella mattina, senza volerle rivelare
di che
cosa effettivamente si stesse occupando, l’aveva seccata non
poco. Aveva
provato a girarci intorno, a carpirle informazioni, ma Roberta non
aveva
lasciato trapelare nulla.
«Cose
noiose, devo spedire una raccomandata» le aveva risposto,
rassicurandola con un
sorriso, facendo leva sul fatto che la sua fidanzata non nutrisse il
minimo
interesse per quel genere di cose, così quotidiane.
«Ah,
d’accordo.»
Per
tutto il pomeriggio Roberta aveva avuto lezioni
all’università e nel momento in
cui era rientrata Ivonne aveva già somatizzato tutti quei
pensieri.
Come
le accadeva spesso, d’un colpo mutò umore e
considerò la cosa da una
prospettiva diversa: stava facendo tante storie per una sciocchezza,
mentre
Roberta era soltanto stanca e avrebbe certo desiderato tutto un altro
tipo di
accoglienza?
Scalciò
via la coperta che aveva tenuto sulle gambe, poggiò il
piatto sul comodino e si
avviò, scalza, verso il bagno. Abbassò la
maniglia e sgattaiolò nella stanza,
per nulla sorpresa di trovare Roberta piegata sul lavandino, intenta a
sciacquarsi i capelli.
«Che
c’è?» domandò lei, voltandosi
appena per darle un’occhiata che non lasciava
presagire alcun affettuoso benvenuto.
«Vuoi
aiuto per asciugarli?»
Il
rumore dell’acqua che la ragazza si fece scivolare sul capo,
badando che
spazzasse via anche gli ultimi residui dello shampoo, non le diede modo
di
ascoltare alcuna risposta, ammesso che ce ne fosse stata una: Ivonne
notò le
sopracciglia della sua fidanzata appena corrugate ed intuì
che nel lasso di
tempo in cui l’aveva lasciata da sola Roberta doveva aver
meditato pensieri non
molto pacifici nei suoi confronti.
Una
volta che ebbe chiuso il rubinetto e strizzato fra le mani le ciocche
fradice,
si rimise dritta e si strinse nelle spalle.
«Mah,
se proprio vuoi…»
«Sì,
sì! Prendo il phon e la sedia.»
Ivonne
la superò, aprendo l’anta del mobiletto in cui
conservavano tutto il necessario
per igiene personale e cura del corpo, alla ricerca
dell’attrezzo, del
beccuccio adatto e di una spazzola rotonda. Sorrise fra sé,
senza osare farne
mostra all’altra: pur se in modo scorbutico, il permesso di
assisterla in quel
rito era già un passo avanti.
In
tempi più tranquilli e sereni, quella sarebbe stata una
comunissima scenetta
romantica a cui entrambe amavano prendere parte: Roberta lasciava
volentieri a
Ivonne il compito di occuparsi dei suoi capelli ondulati e informi,
mentre
l’altra gioiva nel partecipare a quel momento così
personale. Fin da subito era
stato uno dei loro siparietti d’intimità preferiti.
Ivonne
fece prendere posto alla ragazza su una sedia più bassa del
dovuto, si sedette
sul bordo della vasca da bagno e prese in mano un pettine.
«Riga
a destra?»
«No,
sinistra.»
Con
un lieve sospiro li prese in mano e cominciò a passarci le
dita ed il pettine,
incontrando non poche resistenze. Per i primi momenti rimasero in
silenzio,
l’una concentrata sul suo lavoro e l’altra a
braccia conserte, gli occhi fissi
nello specchio di fronte a sé. Si percepiva
un’atmosfera grave, carica di
parole non dette e di pensieri lasciati a macerare troppo a lungo.
«Si
son fatti lunghi, Robbé» commentò
Ivonne, accennando un sorriso.
Fu
uno sbaglio: non fece che irritare ancora di più Roberta.
«Sì,
devo andare a tagliarli. Però sbrigati, dai.»
Ivonne
sapeva benissimo che l’arrabbiatura della sua ragazza trovava
giustificazione
da tutti i punti di vista, tuttavia non poté evitare di
sbuffare per il suo
atteggiamento anti-collaborativo.
«Ma
sei arrabbiata, eh?»
«No.»
«Sicura?»
«Sicura.»
Non
passò che qualche secondo di silenzio che Roberta si
contraddisse.
«Ecco,
questo mi fa proprio incazzare.»
«Che
cosa?» domandò Ivonne, smettendo di pettinarla.
«Tu.
Tu quando fai così.»
«E
che cosa ho fatto?»
«Non
lo so! Vengo a casa e ti trovo col muso, che non parli, che sembra che
ti abbia
fatto qualcosa!»
«Avevo
mal di testa…»
«E
ho capito che hai mal di testa, però… anche io
sono stanchissima, oggi ho fatto
un sacco di cose! Non è che quando stai male tu deve
fermarsi il mondo e tutti
sull’attenti!»
Incerta
su che cosa rispondere, Ivonne tentennò. Poi
provò ad obiettare:
«Ma
non ti ho fatto niente di male.»
«Sì,
non mi hai fatto niente di male, ma ci sono dei giorni in cui pare che
ti sia
dovuto tutto, in cui esisti solo tu! Certe volte, certe
volte… non lo so! Certe
volte mi sembri una bambina, guarda! E dai!»
Accompagnò
la tirata con un gesto energico della mano, testimone della
necessità quasi
fisica che aveva di buttar fuori quelle parole; la sua espressione
però mutò in
preoccupata quando vide il viso della sua ragazza rannuvolarsi
d’un tratto.
Ivonne lasciò andare i capelli, si tirò
leggermente indietro e disse:
«Bene.
D’accordo. Fatteli tu i capelli.»
Roberta
diede prova di grande autocontrollo nel trattenere tutti gli improperi
che le erano
saliti alle labbra. Scosse la testa, manifestando disapprovazione, e si
voltò a
guardarla negli occhi.
«Dai,
finiscimi ‘sti capelli.»
«No.
Fatteli da sola.»
«E
dai.»
«Fatteli
da sola ho detto!»
«Ora
ti sei arrabbiata tu?»
«Sì,
sono arrabbiata.»
«Oho!»
A
Roberta sfuggì un sorriso sarcastico. Fece roteare la mano
destra e si girò
completamente verso la sua fidanzata, senza abbandonare
quell’aria divertita.
«Ora
ti sei arrabbiata, eh?»
Ivonne
le lanciò uno sguardo cattivo, fece un bel respiro
perché non le mancasse il
fiato e poi sbottò, le guance improvvisamente rossissime.
«Sì,
mi sono arrabbiata! Che c’è? Non mi posso
arrabbiare, io? Non mi posso
arrabbiare? Anche tu mi fai incazzare, quando fai
così!»
«Ivonne…»
«Tu
mi tratti peggio di una scema! Anzi no, l’hai detto prima,
una bambina! Tu mi
tratti come una bambina, sì! Non capisco niente,
è vero? Una povera scema, non
capisce niente, non diciamole niente!»
«Abbassa
la voce, che è tardi!»
«Non
abbasso niente! Grido quanto mi pare!» fece lei per tutta
risposta, fermandosi
poi a riprendere fiato.
Roberta
dimenticò tutto quel che aveva detto prima, ciò
di cui si era lamentata, più
preoccupata in quel momento dello stato isterico in cui sembrava
vertere
l’altra; agitata e scossa, era tutta un tremito. Ivonne si
fece coraggio, approfittando
dello spiazzamento della ragazza, per deglutire e tirar fuori quello
che aveva
da dire.
«Tu
non mi dici mai niente» concluse.
«A
che cosa ti riferisci?»
Roberta
allungò un braccio per tirarla vicino a sé e
farla risedere; interpretò la sua
non resistenza come il segno che la ragazza doveva essersi calmata,
perciò si
permise di domandarle, con tono più dimesso e premuroso:
«Cos’è
che non ti dico? Che cosa?»
Ivonne
tacque, guardandola senza dire nulla. Non poteva dire la
verità, non poteva rivelarle
di essere ancora seccata per la faccenda di quella mattina, soprattutto
ora che
aveva ottenuto la sua piena attenzione.
Da
parte sua, Roberta si dispiacque enormemente di averla esasperata a
quel modo,
tanto da farle perdere il controllo; sapeva bene che la sua compagna
soffriva
di bruschi sbalzi d’umore che spaziavano dal malinconico al
collerico,
dall’euforico all’indifferente, sapeva quanto
Ivonne fosse sensibile a queste
variazioni, per questo si maledisse fra sé, sentendosi
terribilmente in colpa.
Aspettò una sua qualche reazione, rassicurata almeno dal non
vederle più sul
volto quell’ansia esagitata di poco prima.
Ivonne
non disse nulla, riprese in mano il pettine e riprese a svolgere i nodi
che
Roberta si ritrovava in testa. Questa aspettò un
po’, per controllare che non
ci fossero da temere altre sfuriate, poi chiese:
«È
per via del vestito?»
Faceva
riferimento ad un episodio accaduto qualche giorno prima. Le due
ragazze si
erano recate in centro alla ricerca di un negozio dove poter reperire
degli
abiti carini e non eccessivamente costosi, in previsione di un
compleanno al
quale entrambe erano state invitate.
Roberta
era stata molto sbrigativa e decisa: scelto il modello, provatolo e
constatata
la perfetta adesione della stoffa al suo corpo un po’ robusto
e formoso, non
aveva avuto dubbi nell’acquistarlo. Ivonne invece aveva
provato e riprovato
vari modelli dei più disparati colori, dal rosa pallido al
blu scuro, passando
per il nero e per un eccentrico tubino giallo che Roberta aveva senza
esitazioni disapprovato; aveva tenuto la commessa per molto tempo
accanto a sé,
incapace di scegliere l’abito che le stesse meglio, portando
al limite la
sopportazione della compagna.
Dopo
aver ingannato il tempo sbirciando i diversi tipi di camicie e giubbini
esposti, sfogliato per tre volte il catalogo della collezione
primavera-estate,
dato un’occhiata alle borse e ai cappelli, così
come ai foulard e persino alle
scarpe da uomo, aveva fatto ritorno nei camerini con la speranza che
Ivonne
avesse finalmente scelto che cosa prendere.
«Non
mi so decidere! Tu che ne pensi?»
La
mente di Roberta aveva lavorato con grande rapidità.
Continuando a dare carta
bianca ad Ivonne, si poteva star certi che le cose sarebbero andate per
le
lunghe; aveva dato un’occhiata al vestito che stava provando:
di color grigio,
morbido, non era nulla di speciale ma nemmeno poteva definirsi
orribile. Aveva
liquidato fra sé la questione asserendo che Ivonne aveva
quel tipo di fisico
naturalmente armonioso, per cui poteva andarle bene tutto.
«A
me piace questo.»
«Sì?»
Lei
si era voltata con aria sollevata, felice di aver trovato un giudizio a
cui
aggrapparsi in quel mare di confusione. Tutto sarebbe andato per il
meglio se
Roberta non si fosse fatta successivamente sfuggire, in un momento
d’ilarità,
che quel vestito le dava l’aria di un fantasma e la faceva
apparire un’anemica
in carenza di vitamine. Ivonne era cascata dalle nuvole: per lei non
faceva
davvero differenza il tipo di vestito da indossare, ma aveva pensato di
prendere quello che più era piaciuto alla sua fidanzata. Si
era imbronciata e
le aveva tenuto il muso per un po’, ma poi Roberta
l’aveva convinta a non
pensarci più di tanto, perché lei era bella in
ogni caso e tutto le stava bene
addosso.
Non
ricevendo risposta, interpretò il silenzio come una conferma.
«Cioè,
allora… ammettiamolo: non è un
granché» riprese a parlare, cercando di assumere
un tono pratico e di portare la discussione su toni più
rilassati. «A me
personalmente non importa che vestito tu abbia addosso.»
Ivonne
smise di pettinarla, eliminando i capelli che aveva tirato via dai
denti del
pettine, e infilò il beccuccio sul phon.
«Perché
preferisci senza, lo so. Originale.»
«Ma
a parte questo, visto che a te piacevano tutti e non riuscivi a
deciderti, ho
pensato che non interessando a nessuna delle due, non facesse alcuna
differenza.»
«Sì
sì, certo.»
Il
rombo del phon coprì ogni possibile risposta, ma Roberta
notò il tono più
disteso e ironico dell’altra e si tranquillizzò.
Passata la burrasca, entrambe parvero
dimenticare quanto accaduto prima; non dissero più nulla e
Ivonne continuò a
passare la spazzola attorno ai capelli dell’altra,
avvolgendola con decisione
per conferire loro più volume.
Indubbiamente
ci voleva una gran pazienza, pensava Roberta guardandola nello
specchio: non
erano permessi toni di discussione troppo bruschi, i suoi momenti di
umore
altalenante non erano sindacabili ed era necessario fare sempre scorta
di
insalata, verdure e ortaggi che sostituissero la tanto avversata carne,
di cui
Roberta era molto ghiotta. Tutto ciò passava in secondo
piano nel momento in
cui si accorgeva di quanto impegno e premura mettesse Ivonne
nell’asciugarle i
capelli; quando il riflesso della sua ragazza incontrò il
suo sguardo e le
rivolse un sorriso, oltre che un’amorevole occhiata, si
accorse che gli angoli
della sua bocca si erano spontaneamente tesi verso l’alto.
Succedeva
sempre così, passavano da uno stato d’animo
all’altro con grande rapidità, ma
questo non le turbava e non accumulava in loro rancore per le
controversie non
risolte; i problemi sorgevano nel momento in cui una delle due si
stabilizzava
su una tonalità diversa – solitamente si trattava
di Ivonne – e allora era
necessaria una discussione energica, un gesto spontaneo e irrazionale
per
riportare la situazione in parità. Roberta aveva imparato
che Ivonne era molto
suscettibile alle litigate, producevano in lei una grande impressione
ed erano
capaci di scuoterla tutta; la cosa fondamentale era capire in tempo
quale fosse
il punto di non ritorno, quella soglia d’orgoglio oltre la
quale Ivonne non
sarebbe riuscita ad andare se non mutando radicalmente i rapporti con
la sua
interlocutrice. Fino a quel momento Roberta era sempre riuscita a
perdonarle e
farsi perdonare tutto, prima che fosse troppo tardi.
«Allora
era per quello che stavi in pensiero?» le domandò
più tardi, quando furono
entrambe sotto le lenzuola, aggrovigliate a formare un’unica
massa corporea.
Ivonne,
occupata a rallegrarsi della ritrovata intimità e della
rappacificazione, non
comprese subito a che cosa si stesse riferendo la ragazza.
«Per
il vestito, dici?»
«Dai,
al massimo ne indosserai uno vecchio che non t’ha mai visto
nessuno.»
Si
ricordò della misteriosa faccenda della mattina e fu
lì lì per parlargliene
sperando che, data la situazione favorevole, Roberta la
tranquillizzasse
esponendole tutti i dettagli del caso, ma il suo proposito venne meno
quando l’altra
ragazza allungò una mano a far scattare
l’interruttore dell’abat-jour,
facendole piombare nel buio più totale.
Ivonne
pensò che non era quello stupido vestito il motivo del suo
malumore e che forse
avrebbe dovuto semplicemente dire la verità, piuttosto che
lasciar galleggiare
quella raccomandata ignota nei suoi pensieri, ma il percepire una
coppia di
mani che la tenevano ferma per i fianchi e Roberta salirle sopra per
cercare un
comodo incastro la distrasse completamente, al punto che quando si
ritrovò a
torcere il collo per ricambiare e al contempo sfuggire i baci
dell’altra aveva
già dimenticato tutto.