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Autore: _FrenkieFaye_    15/05/2012    3 recensioni
«Capisco...» disse Caleb in tono apprensivo. «Ma così facendo non sarà tanto diverso... insomma... senza offesa... guardati, sei una morta che cammina!»
«Come, scusa?»
«Sì, ecco... sei comunque una bella morta vivente, niente da dire, ma potresti esserlo ancora di più se solo sorridessi!».
«Ma io sorrido!!!» replicò lei, sulla difensiva.
«Non davvero!ۛ» ribatté lui, e una strana idea cominciò a prender vita nella sua testa.
E' una storia di due vite che entrano in risonanza l'una con l'altra.
Di due anime che si trovano nel momento del bisogno.
E' una storia semplice, limpida, come le emozioni più complesse e vere.
Seconda classificata al contest "Musica e parole" indetto da "SuzieInTheSky" sul forum di EFP.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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-Nickname: _CandyStar_  (FORUM) _FrenkieFaye_ (EFP).
-Titolo storia: Gli accordi del cuore.
-Fandom: // Originale.                                                  
-Rating:Verde.                                                                                                                                                      -Genere: Romantico (One-Shot).                                                            
-Prompt:
1.“Giovanni Allevi-Go with the flow”. 2.L’immagine sottostante

~



“La musica è la voce dell’anima e del cuore insieme, 
che mette le ali anche alle rocce.” 

Klara Erzsebet Bujtor.

~

La luce obliqua dei riflettori faceva scintillare la pece sul parquet sporco come un firmamento stellato. Il pubblico seguiva ogni movimento, ogni accordo della musica, con un pizzico d’ansia crescente e col fiato sospeso. La ragazza seguiva il suo corpo, vittima di quella meravigliosa magia, al ritmo incalzante di quell’assolo di piano. Nota dopo nota, attimo dopo attimo, il cuore sembrava aver messo le ali. Leggero e felice volava in un luogo dorato e incontaminato, dove la sua mente era trasportata ogni qual volta la musica giungesse lieta alle sue orecchie.

Emily aveva due grandi occhi azzurri, simili a vetro luminoso attraversato da un timido raggio di sole primaverile. Profondi e lucenti, i suoi occhi, apparivano come due pozze di acqua limpida, pura alla fonte. Essi erano soggetti a una strana magia: si scurivano gradualmente di varie sfumature del grigio e del turchese quando le lacrime li raggiungevano. Ogni volta che Emily ballava, ogni volta che il suo corpo era schiavo del ritmo, ogni volta che era felice, lei piangeva. Era un riflesso incondizionato, come se fosse la ragione stessa del suo essere viva, facile e naturale come respirare.

Magia. Non trovava un'altra parola più accurata per descrivere con la stessa precisione ciò che si muoveva in lei quando danzava. E ancora, mistero. Le note sfioravano il suo cuore in una morsa delicata, una carezza confortante. Le pupille tremolavano, e dai suoi occhi sgorgava felicità pura. La felicità aveva la consistenza di una corsa folle per le strade, e come unica meta la scuola di danza. Il cuore che sembrava salirle in gola, in parte per lo sforzo, in parte per la gioia. Batteva energico nello sterno, e già tamburellava in perfetta sincronia al ritmo della sua anima, la melodia perfetta che accompagnava la sua vita; anche quel suono che le rimbombava nelle orecchie sembrava una grazia divina, un dono meraviglioso del cielo. Molto spesso i passanti soppesavano la sua figura con attenzione: alcuni rimanevano incantati dal suo entusiasmo, dalla vita che sembrava fluire a zampilli dal suo corpo e dai suoi occhi, e si chiedevano ammirati quale fosse il suo segreto; cosa potesse rendere anche le loro vite così piene, amabili e degne di essere vissute fino all’ultimo attimo, quasi con ingordigia crescente. Altri, i più bigotti, si limitavano a stringere le labbra in una linea sottile e livida, e a scuotere il capo in senso di diniego.  Probabilmente, quegli occhi così pieni di entusiasmo, incutevano loro solo fastidio, alla consapevolezza di aver dimenticato cosa significasse vivere per davvero. Vivere. Diverso dal trascinare la propria vita stancamente, guidata dall’impotenza dell’inerzia, tra obblighi e rinunce.

Lei, invece, la sentiva davvero la vita. La sentiva in ogni sua più piccola gradazione. La sentiva sulla pelle, in ogni fibra del suo essere. La sentiva nei sospiri del pubblico quando ballava, nella tensione e nelle emozioni che le sembrava di poter percepire, come la risacca del mare che la investiva. La sentiva nelle lacrime che le scendevano tacite sulle guance, e che i riflettori facevano somigliare a piccoli astri inargentati. E la sentiva nell’applauso scrosciante ed entusiastico del pubblico, la più dolce musica di sempre alle sue orecchie.

Questo la spingeva a ballare: un istinto interiore, prepotente e silenzioso, che s’insinuava in lei con la forza di una tormenta.

Mancava poco alla fine dell’esibizione. Mai, prima di allora, le era capitato di trovare i riflettori così fastidiosi, esageratamente forti e accecanti. Mai le era capitato di perdere la concentrazione durante le piroette, e di smarrire un punto fisso, da guida, avanti agli occhi. Adesso la testa le vorticava fortemente, e un dolore acuto alla bocca dello stomaco sembrava quasi piegarla in due. Non poteva permettersi di lasciarsi andare, l’esibizione doveva concludersi, e lei doveva stringere i denti e i pugni fino alla fine.

La musica andò a scemare gradualmente, così come le luci. Il pubblico applaudì. Ma Emily non poté sentirli né vederli, così come loro non poterono vedere lei. Perché nello stesso istante in cui il buio inghiottì il palcoscenico, e il sipario calò, le sue palpebre si chiusero, gravi e pesanti. La guancia premuta contro il parquet freddo. Sul viso ancora il fantasma di una lacrima, unica e sola, e anche l’ultima.

Perché da quel giorno Emily non pianse più. Anche se aveva occasione di farlo più che in qualunque altro momento della sua vita. Piangere per disperazione le sembrava assurdo, quasi una bestemmia. Non l’aveva mai fatto, e si era ripromessa di non farlo mai. E, allo stesso modo, non riusciva più a piangere per gioia; era evaporata via da lei, lasciandola sola, e vuota, come una bambola inanimata.

Passeggiava tranquillamente per la strada, mescolandosi al via vai di persone che si affrettavano a rincasare prima che il sole calasse. Si stringeva nella felpa verde di cotone, più grande di lei di due taglie, quasi come se volesse sparirne all’interno, rendendosi invisibile agli occhi degli altri. Camminava in ogni caso spavalda, ostentando una sicurezza che non aveva. Osservava i visi dei passanti alla ricerca di chissà che cosa... un senso di apatia sembrava gelarle il cuore.

Il cuore.

Istintivamente Emily si portò una mano al petto, i palmi aperti e attenti alla ricerca dei battiti cardiaci. Sentiva il suo cuore, forte e vigoroso, continuare a pompare sangue, e gli sembrava assurdo. Un paradosso. Non si sentiva viva, non davvero, non più. Era solo un agglomerato di frustrazione, colpe, rabbia, e qualcos’altro che non riusciva bene a mettere a fuoco.  Forse un pizzico di rassegnazione, ma comunque insignificante, al confronto di quintali e quintali di rabbia che era costretta a ingoiare, giorno dopo giorno. Arrabbiata con il mondo intero, con la vita, con se stessa. Perché forse era lei il problema, pensava. Era lei a essere sbagliata;

Per questo suo padre non aveva mai voluto conoscerla. E nella sua crudele semplicità tutto questo risuonava nella mente di Emily come un acuto dolore. Sapeva poco di lui. E lui sapeva ancor meno di lei, e non avrebbe potuto essere altrimenti. Lui non c’era mai stato.

Lo spuntare del primo dentino. I primi passi.
Il primo giorno di scuola. La sua prima cotta ai tempi delle elementari.
Il suo primo saggio di danza.

In un attimo tutto sembrò colpirla come un enorme masso sulla testa. Prima ancora di formulare quel pensiero già se n’era pentita. Suo padre non l’avrebbe mai vista danzare, e mai avrebbe più potuto farlo. Era stanca. Stanca di tutto. Stanca persino di non saper mettere un freno ai suoi pensieri, che a briglia sciolta vagavano su un campo minato e inesplorato con noncuranza, da buona masochista qual’era.

Il sole tramontava nel mare colorandolo di sfumature rosee e cangianti. Si era stretta ancora di più nella sua felpa, per proteggersi dalla frescura della sera, e poi era successo: un brivido le aveva percorso la schiena. Non ebbe neanche il tempo di capire cosa stava succedendo che già si era voltata repentinamente, da rischiare di perdere l’equilibrio. Gli occhi le erano diventati due fessure e, per poco, non digrignò i denti dalla rabbia.

A una decina di metri da lei c’era un ragazzo. Stava seduto scompostamente su una cassapanca di legno dall’aria trasandata. Aveva il capo chino, e dei ciuffi di capelli castani gli ricadevano sulla fronte. Era concentrato, e una ruga buffa gli si formava sul mento quando arricciava le labbra in una smorfia. Stava suonando. Sulla sua spalla era poggiato un violino rosso fiammante, e con il mento lo bloccava tra le sue braccia. Le mani robuste e poderose stringevano l’arco con decisione e forza. Sembrava suonare più per urgenza che per piacere, tant’era il rancore che sembrava fluire dal suo corpo e riversarsi sullo strumento. Produceva un suono stridente, quasi rabbioso. Lui alzò il viso verso di lei e in quell’attimo Emily si sentì invadere da una marea di emozioni. Si spaventò, si sentì fuori posto, ruppe il contatto visivo tra loro e scappò via a gambe levate. Correva di nuovo tra la gente, il cuore continuava a rimbombare nelle sue orecchie. Tutto aveva il sapore del passato, dei ricordi. Ricordi che non potevano tornare. Si richiuse in camera sua, s’infilò sotto le coperte e, mentre il sonno incominciava a gravarle addosso, poté giurare di sentire una lacrima scenderle lungo la guancia.

Non era possibile, doveva star sognando sicuramente. Lei non piangeva, non più, non lo faceva da quel giorno. I suoi sogni si riempirono delle note di uno spartito, della melodia di un violino. E di due occhi plumbei come due pozzi di carbone.

~

Il pomeriggio successivo si ostinò a capire cosa le era successo. La sua apatia era stata incrinata da qualcosa, un sentimento che non riusciva ben a capire, qualcosa che l’aveva scossa dallo stato di torpore in cui era piombata. Alla stessa ora tornò nello stesso posto in cui aveva visto il violinista. Era ancora una volta lì, seduto a gambe leggermente divaricate, la testa china, e ricci capelli castani che gli celavano lo sguardo. Doveva avere e una ventina d’anni, solo un paio in più a lei. Fu tentata di seguire la scia del giorno precedente e di tornare a casa, ma riuscì a mettere a tacere il cervello e, a piccoli e incerti passi, si avvicinò.

Mentre lui pensava a come migliorare il suo ‘si’ bemolle, uno scintillio lo distrasse. Alzò il capo e restò attonito per un minuto buono. Una ragazza minuta, con indosso un paio di jeans scuri, una t-shirt a mezze maniche bianca, capelli lunghi e mori e occhi azzurri era davanti a lui. Gli sembrò stesse dicendo qualcosa, ma per la distrazione non capì.

«Prendi... è per te!», ripeté lei, tendendogli una moneta, bloccata tra le dita sottili. Quando il ragazzo capì cosa stava tentando di fare s’imbarazzò tremendamente.

«Oh... no!», si affrettò a dire, «Non suono per questo...» Si passò una mano tra i capelli, impacciato. «È solo che... dove vivo non posso suonare, purtroppo». Sorrise amichevolmente, poi tornò a prestare attenzione al suo strumento.                                      

«Ok... come vuoi!» Emily ritrasse la mano, chiudendola a pugno, e se la portò al petto. Poi continuo: «Posso chiederti un piacere?»

«Certo! Cosa ti serve?»

«Mi serve che tu te ne vada!», disse quasi in un sussurro triste. Il ragazzo sgranò gli occhi plumbei che si tinsero di confusione. Il suo sorriso si spense fulmineamente. «Scusa... saresti così gentile da ripetere? Forse non ho capito bene...» Sperò che la stanchezza gli avesse giocato un brutto scherzo procurandogli delle allucinazioni, o più semplicemente di esserselo immaginato.

«Vai a suonare da qualche altra parte... ti prego». Replicò scandendo parola per parola asetticamente, con una freddezza raggelante.

«Io sono qui ogni pomeriggio! Non capisco... non puoi andartene tu? E poi perché non dovrei suonare?» disse lui, gli occhi tinti di confusione.

 «... mi dai... fastidio.» proseguì lei, seccata.  Se possibile il ragazzo sgranò ancora di più gli occhi. Intanto la mente di Emily stava ritornando lucida, e lentamente la vergogna le stava salendo alla gola. Cosa le era preso?

Il ragazzo ricordava di averla già vista, il pomeriggio precedente. L’aveva ascoltato suonare, e sul suo viso non sembrava comparire nessuna traccia di fastidio, anzi. Indubbiamente aveva un’espressione difficile da decifrare, ma per un millesimo di secondo gli era sembrato di riuscire quasi a scorgere nei suoi occhi un barlume di luce.

«Ti ho visto qui ieri. Mi stavi ascoltando suonare, e non mi sembravi contrariata dalla mia musica... per un momento mi è sembrato quasi che apprezzassi...»

«Apprezzavo, sì... forse un tempo l’avrei fatto!» concluse Emily, gli occhi rivolti nel vuoto, pieni di vecchi ricordi.

«Sai che c’è? Ho come la sensazione che tu stia mentendo! A te piace la mia musica... se davvero t’infastidisse, non saresti ancora qui, non ti saresti avvicinata, non mi avresti dato quella moneta.» Emily si sentì ancora una volta invadere da un miscuglio di sensazioni che non riusciva a capire. Fastidio, tristezza, rimpianto, speranza. «Guardati... sei ancora qui!» continuò lui, posando il violino ai suoi piedi e incrociando le braccia. Stava ridendo, non era offeso, solo incuriosito.

«Come non detto... me ne vado» sussurrò Emily fiaccamente. Si voltò pronta per tornare a casa, ferita nell’orgoglio. Voleva scappare, in quel momento più che mai. Correre lontano, non fare mai più ritorno. Aveva ragione allora, era lei a essere sbagliata, non c’erano più dubbi. Riuscì a fare massimo un passo prima che una mano le cingesse il polso. Era calda contro la sua pelle e, per una strana ragione, si sentì arrossire. Imbarazzo. Sì, doveva essere sicuramente imbarazzo. Cos’altro se no? Aveva fatto una pessima figura a comportarsi in quel modo con quel ragazzo. Cosa le era passato per la testa? Che persona era diventata? Osservò il polso sottile stretto tra la mano del ragazzo. Si stupì di come la stessa mano che prima stringeva l’arco con tanta forza, fosse anche capace di essere così... delicata.

«Stavo scherzando, non devi andar via per forza. Non andartene perché te l’ho detto io. Come ti chiami?» 

«Emily...»                                            
«Piacere, io sono Caleb». Solo quando lei ritornò a guardare le sue dita strette attorno al suo polso, arrossendo, lui sembrò accorgersi di starla ancora trattenendo e, con la stessa delicatezza con la quale l’aveva afferrata, sciolse il fugace contatto tra loro, portandosi poi le mani in tasca, imbarazzato a sua volta.

«Farò finta di crederti e reggerti il gioco, Emily. Perché t’infastidisce la mia musica?» Chiese lui, incuriosito.

«Non sei tu... è la musica che oramai m’infastidisce in generale». Caleb sospirò di sollievo e poi continuò: «E per quale ragione odi la musica... se posso sapere, ovviamente?»

A Emily le parole s’incastrarono in gola, fuggiva ogni volta da quel discorso per paura di impazzire, di urlare a squarciagola, di imboccare la via dei ricordi. Adesso che si trovava in procinto di cadere sull’orlo di un precipizio si rese conto di non riuscire a dire neanche una parola, per questo tentò di liquidare Caleb con un semplice: «È una lunga storia». Ma non poteva certo sapere che il ragazzo che aveva davanti era ostinato a scoprire il suo mistero, tanto quando lei era trincerata nella convinzione di tenersi tutto per sé.

«È personale. Mi dispiace per averti infastidito, io... non so cosa mi è preso. Come ho già detto è una lunga storia, e non mi va di ripercorrerla di nuovo».

«Non ne hai mai parlato con nessuno?» chiese lui, mal celando la sua curiosità.

«Esatto!» mugugnò lei, guardandosi intorno. In strada le macchine continuavano a incedere nella loro lenta corsa. Famiglie, anziani, coppie e bambini passeggiavano sul lungomare, godendosi il panorama mozzafiato delle prime stelle che pallide e timide spuntavano nel cielo di sfumature rosee e violacee come il tramonto.

«Sai... non voglio insistere più del dovuto, ma ho come l’impressione che tenerti tutto dentro non ti faccia poi così bene. Insomma... prima mi stavi quasi sbranando vivo, anche solo con lo sguardo. Sempre con calma e una strana gentilezza anche nell’offendere, ma pur sempre sbranando... capisci cosa intendo?» Caleb sorrise divertito. «E poi sono abituato alle storie lunghe e complicate, delle mie ne ho fin sopra la testa, sentire due sventure altrui non può essere così male!» Per quanto quell’ultima frase risuonasse assurda, Emily non poté non sorridere a sua volta di fronte alla sua scoraggiante ostinazione. “Oddio, Emily Wright sta di nuovo sorridendo. Avvertite i media.” Pensò tra sé e sé.

«Non sarà un patetico tentativo di abbordaggio?» chiese inarcando un sopracciglio e incrociando gli occhi nei suoi in due fessure.

«Ma scherzi? Mi fai un tipo del genere? Andiamo...» Nonostante non potesse davvero sapere che tipo era, dato che lo conosceva da soli pochi minuti, si rese conto di non avere comunque niente da perderci.  Continuò a fissarlo con serietà, riuscendo a metterlo dopo poco in soggezione, e costringendolo a essere più convincente.

«Mettiamola così: sei arrivata qua e mi hai ordinato di smettere di suonare, anzi, mi hai  chiesto di smettere di suonare ferendo il mio orgoglio da artista da strapazzo, il minimo che puoi fare adesso è farti conoscere... così mi assicurerò della tua sanità mentale, appurerò che una pazzoide non cammini in giro a piede libero e la mia coscienza da cittadino onesto rimarrà intatta. Allora... ci stai?» propose lui, pronto a non cedere al silenzio della ragazza.  «E se questo non è abbastanza comodo per te...» disse indicando la cassapanca su cui era seduto, «... allora vorrà dire che ci andremo a sedere lì!» E indicò il muretto che costeggiava il porto. Emily non rispose né sì, né no. Si voltò semplicemente su se stessa e incominciò a camminare verso il tramonto. Pensò che forse, dopotutto, parlarne non poteva che farle bene. Si rese conto del modo in cui aveva reagito quando Caleb aveva incominciato a suonare e che reprimere tutte quelle frustrazioni era troppo, perfino per lei. Si sedette sul muretto di mattoni e volse lo sguardo verso il tramonto, cercando di trovare la forza per iniziare. Stava parlando della cosa che più le stava cuore a uno sconosciuto, assurdo.

«Io... ballavo. Prima. Ho sempre ballato, fin da piccola.» Era certa che Caleb fosse vicino, e quindi non si sorprese quando lo sentì sedersi al suo fianco, ancora stringendo il violino e l’arco tra le mani.

«Poi, un giorno, è successa una cosa... ho perso i sensi durate un saggio finale, uno spettacolo. Nessuno se n’è accorto in realtà, sono riuscita a finire il numero appena in tempo...» Ripercorrere quei momenti faceva male, e nonostante tutto, a Emily, sembrò di raccontare qualcosa di così lontano, così estraneo, da appartenere quasi a un’altra persona.

«All’inizio presi la cosa con leggerezza. Non dissi niente a mia madre, chiesi alle mie compagne di corso e alla mia insegnante di non dirle niente per non farla preoccupare inutilmente, o si sarebbe fatta prendere dall’ansia e avrebbe distrutto la mia pazienza con le sue soffocanti accortezze. Pensavo si trattasse solo di un po’ di stanchezza...»

«E invece cos’era?» chiese Caleb, già immaginando ciò che era accaduto dopo.

«Poi è riaccaduto, e ho capito che non era casuale, e non era provocato dallo stress da palcoscenico.  Mi sentivo spossata, avevo spesso sonno, mi stancavo facilmente. Decisi di parlarne con mia madre e andammo da un medico». Emily sospirò, fissandosi le mani con sguardo vuoto, con gli occhi pieni di ricordi che si srotolavano nella sua mente vividi e pulsanti. «Mi ha riscontrato una malformazione congenita al cuore, ereditaria a quanto pare, e devo ringraziare mio padre per quello... almeno qualcosa di suo è ancora qui con me! Il lato positivo di tutta la faccenda era che potevo continuare a vivere la mia vita normalmente senza troppe complicazioni, ma per fare ciò dovevo cambiare stile di vita... e ...».

«E da quel giorno non hai più potuto danzare!» continuò lui, concludendo il pensiero per entrambi. «Ma ancora non mi è chiara una cosa: perché odi così tanto la musica, altre al fatto che non puoi più danzare?»

«Ti sei risposto da solo! Non posso più danzare, e la musica è diventata addirittura pericolosa per me. Potrei facilmente lasciarmi andare, dimenticare tutto, riprendere a ballare, e non nego di averci pensato... ma sarebbe come andare incontro alla morte... tra un’arabesque e una piroette. »

«Capisco...», disse Caleb in tono apprensivo. «Ma così facendo non sarà tanto diverso... insomma... senza offesa... ma guardati, sei una morta che cammina!»

«Come, scusa?»

«Sì, ecco... sei comunque una bella morta vivente, ma potresti esserlo ancora di più se solo sorridessi!».

«Ma io sorrido!!!» replicò lei, sulla difensiva.

«Non davvero!ۛ» ribatté lui, e una strana idea cominciò a prender vita nella sua testa.

«Vediamo un po’, allora...» Prima di far scivolare l’arco sulle corde tese  guardò Emily e disse: «Anche se ci conosciamo da poco mi sembri una di cui ci si può fidare...ti confesso una cosa. Sai io come sopravvivo? Semplice! Grazie alla musica! Hai presente il mio suonare per strada? Il non poter suonare in casa? In realtà io non ho una vera e propria casa. Dopo essere uscito ufficialmente dal sistema affidatario, rispedito indietro come una merce difettosa da tutte le famiglie che mi avevano preso in cura, adesso mi trovo in una struttura di prima accoglienza. I primi tre mesi d’affitto della camera sono gratis, poi mi toccherà trovare un lavoro, altrimenti mi ritroverò per strada!» Emily rimase molto turbata dalla storia di Caleb e, soprattutto, dal modo in cui lui ne parlava. Negli occhi sembrava avere quel dono che ti permette di vedere tutto con positività. Ironizzava perfino sulla sua ipotetica e futura vita da barbone e musicista da quattro spiccioli. «Però...», riprese sorridendo da ebete, «Ho il mio violino, e mi reputo fortunato. Ho le mani e posso ancora suonare. Questo mi fa rimanere me stesso, mi fa sorridere e mi cura da ogni paura e da ogni incertezza. Oggi ci sono io e il mio violino... domani chissà... ma la musica non mi lascerà mai, capisci?» E mentre l’arco aveva ripreso a stridere sulle corde, Emily poté capire ancora meglio perchè suonasse con così tanta forza, con tanta rabbia. Eppure all’apparenza era quieto, sorridente, scaltro.

«Anch’io ero così...» sussurrò, più a se stessa che a lui. «Anch’io vivevo per la musica!» E ricordava benissimo come ci si sentiva. Viva.  Niente poteva intimidirla se con lei aveva la certezza di poter sgombrare la mente, e riempirla degli accordi giusti della sua anima. «Comunque io non so suonare. No, non posso...»

«Sì che puoi, cosa ti ostacola? Cos’hai da perderci?» disse lui, divertito dall’idea.

Lo voleva? Emily non riusciva a capirlo, ma quel piacevole dolore che le provocava allo stomaco quell’idea aveva un qualcosa di familiare. Era simile all’ansia da palcoscenico che aveva sempre avuto prima di ballare. Anche adesso che l’unico riflettore che era puntato su di lei era un sole quasi del tutto tramontato, e due occhi che erano pozzi neri come carbone. Ritrovare quel pezzettino della vecchia se stessa fu per lei la migliore grazia che gli potesse capitare.

«Vorrei imparare,davvero, ma... preferisco ascoltare te al momento! Posso tornare qui ad ascoltarti?», chiese incerta, rendendosi conto di ciò che aveva detto solo quando l’aveva ormai pronunciato. Indietro non si poteva tornare.

«E se decidessi di seguire il tuo consiglio e andarmene a suonare da un’altra parte?» Intercorsero pochi attimi di silenzio, carichi di ansia da parte di Emily. Per un momento si rattristò, ma subito ritornò a sorridere quando lesse negli occhi di Caleb che la stava solo prendendo in giro.

«Certo che puoi! Puoi venire ogni giorno che vorrai. Prendila come una sfida personale con me stesso! Ormai ci sono dentro anch’io fino al collo. Ci vorrà tempo e fatica, dopotutto io ho incominciato a studiare da autonomo, ma i più bravi vanno da veri maestri. Ma farò del mio meglio, diventerai bravissima, vedrai!»

Emily si stupì di come si sentiva in quel momento, e di come fosse facile passare del tempo con quel ragazzo.  Era elettrizzata, tutte le cellule del suo corpo in allerta.  E lui era simpatico, entusiastico, e non gli si poteva negare... sapeva anche come far fare alle persone ciò che lui voleva.

«Adesso non esageriamo. Con un maestro così scarso serviranno molte lezioni!»                       «Non penso... non posso essere così male se ti faccio addirittura piangere, non pensi?» Caleb avvicinò le sue dita e sfiorò la guancia di Emily, proprio sopra lo zigomo, trattenendo la lacrime tra il suo polpastrello caldo. Emily non si era resa conto di aver incominciato a piangere e, dopo tanto tempo che quelle lacrime erano rimaste prigioniere, adesso rincominciavano a pulsare vita nuova. Stava di nuovo piangendo, e di felicità.

Sì, sarebbe tornata quella di una volta. Ci sarebbe voluto tempo e pazienza, ma ancora doveva nascere una più testarda e orgogliosa di lei. Se si prometteva una cosa doveva portarla a termine, a qualunque costo, pensò.

«Caleb... ti ringrazio!», sussurrò, sorridendo come non faceva da tempo.

«Nahhh, niente grazie! Come ti ho già detto è una sfida personale. Lo faccio più per me che per te!» Caleb in cuor suo sapeva che non era vero. L’avrebbe fatto per lei, e non ne capiva ancora il motivo. Il sole era completamente calato nel mare e i lampioni a intermittenza avevano costeggiato la strada illuminandola ancor prima delle stelle splendenti. Mentre Emily si allontanava con la promessa di ritornare lì il giorno successivo, Caleb guardava le stelle con un sorriso sulle labbra. Ma l’unico astro che si rifletteva davvero sulle sue pupille era un sorriso, il sorriso di quella ragazza. E ancora... due pozze d’acqua limpida e pura. Vetro luminoso attraversato da un timido raggio di sole. Anche per lui, quel giorno, si accese una speranza. Anche il suo cuore, all’apparenza coriaceo, privato dall’affetto di una famiglia, dal calore familiare, privato dall’amore, sembrò sciogliersi. Caleb non sapeva cosa sarebbe successo di lì in avanti, se avesse presto trovato un lavoro, se fosse riuscito a pagare l’affitto, ma in quel momento poco gli importava. Aveva uno scopo, aveva una meta. Aveva la sua musica, aveva il suo violino, aveva la voglia di vivere, e da quel giorno... aveva lei.        

“Gli accordi del cuore”si è piazzata seconda classificata al contest “Musica e parole”. Ringrazio Suzie per aver indetto questo contest, ridandomi la possibilità di scrivere dopo un periodo buio e scarso di idee. Ringrazio il caso/destino per aver trovato subito il “pacchetto” adatto a ciò che potevo- e volevo- raccontare. Ringrazio la Dea bendata della fortuna per essere stata dalla mia parte. E presto ritornerò a dedicarmi alla scrittura. Riprenderò “Your Falling Star” dalle redini, cambiando ciò che non mi appartiene più e, sperando, migliorandola, rendendola un po’ più simile a come è nella mia mente bacata. A presto. Francesca.

   
 
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