-Titolo storia: Gli accordi del cuore.
-Fandom: // Originale.
-Rating:Verde. -Genere: Romantico (One-Shot).
-Prompt: 1.“Giovanni Allevi-Go with the flow”. 2.L’immagine sottostante
~
“La
musica è la voce dell’anima e del cuore insieme,
che mette le ali anche alle rocce.”
Klara Erzsebet Bujtor.
~
La
luce obliqua dei
riflettori faceva scintillare la pece sul parquet sporco come un
firmamento stellato.
Il pubblico seguiva ogni movimento, ogni accordo della musica, con un
pizzico
d’ansia crescente e col fiato sospeso. La ragazza seguiva il
suo corpo, vittima
di quella meravigliosa magia, al ritmo incalzante di
quell’assolo di piano.
Nota dopo nota, attimo dopo attimo, il cuore sembrava aver messo le
ali.
Leggero e felice volava in un luogo dorato e incontaminato, dove la sua
mente era
trasportata ogni qual volta la musica giungesse lieta alle sue
orecchie.
Emily
aveva due
grandi occhi azzurri, simili a vetro luminoso attraversato da un timido
raggio
di sole primaverile. Profondi e lucenti, i suoi occhi, apparivano come
due
pozze di acqua limpida, pura alla fonte. Essi erano soggetti a una
strana
magia: si scurivano gradualmente di varie sfumature del grigio e del
turchese
quando le lacrime li raggiungevano. Ogni volta che Emily ballava, ogni
volta
che il suo corpo era schiavo del ritmo, ogni volta che era felice, lei
piangeva. Era un riflesso incondizionato, come se fosse la ragione
stessa del
suo essere viva, facile e naturale
come respirare.
Magia.
Non trovava un'altra parola più
accurata per descrivere con la stessa precisione ciò che si
muoveva in lei
quando danzava. E ancora, mistero.
Le
note sfioravano il suo cuore in una morsa delicata, una carezza
confortante. Le
pupille tremolavano, e dai suoi occhi sgorgava felicità
pura. La felicità aveva
la consistenza di una corsa folle per le strade, e come unica meta la
scuola di
danza. Il cuore che sembrava salirle in gola, in parte per lo sforzo,
in parte
per la gioia. Batteva energico nello sterno, e già
tamburellava in perfetta
sincronia al ritmo della sua anima, la melodia perfetta che
accompagnava la sua
vita; anche quel suono che le rimbombava nelle orecchie sembrava una
grazia
divina, un dono meraviglioso del cielo. Molto spesso i passanti
soppesavano la
sua figura con attenzione: alcuni rimanevano incantati dal suo
entusiasmo,
dalla vita che sembrava fluire a zampilli dal suo corpo e dai suoi
occhi, e si
chiedevano ammirati quale fosse il suo segreto; cosa potesse rendere
anche le
loro vite così piene, amabili e degne di essere vissute fino
all’ultimo attimo,
quasi con ingordigia crescente. Altri, i più bigotti, si
limitavano a stringere
le labbra in una linea sottile e livida, e a scuotere il capo in senso
di
diniego. Probabilmente,
quegli occhi
così pieni di entusiasmo, incutevano loro solo fastidio,
alla consapevolezza di
aver dimenticato cosa significasse vivere per davvero. Vivere. Diverso
dal
trascinare la propria vita stancamente, guidata
dall’impotenza dell’inerzia,
tra obblighi e rinunce.
Lei,
invece, la
sentiva davvero la vita. La sentiva in ogni sua più piccola
gradazione. La
sentiva sulla pelle, in ogni fibra del suo essere. La sentiva nei
sospiri del
pubblico quando ballava, nella tensione e nelle emozioni che le
sembrava di
poter percepire, come la risacca del mare che la investiva. La sentiva
nelle
lacrime che le scendevano tacite sulle guance, e che i riflettori
facevano somigliare
a piccoli astri inargentati. E la sentiva nell’applauso
scrosciante ed
entusiastico del pubblico, la più dolce musica di sempre
alle sue orecchie.
Questo
la spingeva a
ballare: un istinto interiore, prepotente e silenzioso, che
s’insinuava in lei con
la forza di una tormenta.
Mancava
poco alla
fine dell’esibizione. Mai, prima di allora, le era capitato
di trovare i
riflettori così fastidiosi, esageratamente forti e
accecanti. Mai le era
capitato di perdere la concentrazione durante le piroette, e di
smarrire un
punto fisso, da guida, avanti agli occhi. Adesso la testa le vorticava
fortemente, e un dolore acuto alla bocca dello stomaco sembrava quasi
piegarla
in due. Non poteva permettersi di lasciarsi andare,
l’esibizione doveva
concludersi, e lei doveva stringere i denti e i pugni fino alla fine.
La
musica andò a
scemare gradualmente, così come le luci. Il pubblico
applaudì. Ma Emily non poté sentirli
né vederli, così
come loro non poterono vedere lei. Perché nello stesso
istante in cui il buio
inghiottì il palcoscenico, e il sipario calò, le
sue palpebre si chiusero,
gravi e pesanti. La guancia premuta contro il parquet freddo. Sul viso
ancora
il fantasma di una lacrima, unica e sola, e anche l’ultima.
Perché
da quel giorno
Emily non pianse più. Anche se aveva occasione di farlo
più che in qualunque altro
momento della sua vita. Piangere per disperazione le sembrava assurdo,
quasi
una bestemmia. Non l’aveva mai fatto, e si era ripromessa di
non farlo
mai. E, allo stesso modo, non
riusciva più a piangere per gioia; era
evaporata via da lei, lasciandola sola, e vuota, come una bambola
inanimata.
Passeggiava
tranquillamente per la strada, mescolandosi al via vai di persone che
si
affrettavano a rincasare prima che il sole calasse. Si stringeva nella
felpa
verde di cotone, più grande di lei di due taglie, quasi come
se volesse
sparirne all’interno, rendendosi invisibile agli occhi degli
altri. Camminava in
ogni caso spavalda, ostentando una sicurezza che non aveva. Osservava i
visi
dei passanti alla ricerca di chissà che cosa... un senso di
apatia sembrava
gelarle il cuore.
Il
cuore.
Istintivamente
Emily
si portò una mano al petto, i palmi aperti e attenti alla
ricerca dei battiti cardiaci.
Sentiva il suo cuore, forte e vigoroso, continuare a pompare sangue, e
gli
sembrava assurdo. Un paradosso. Non si sentiva viva,
non davvero, non più. Era solo un agglomerato di
frustrazione, colpe, rabbia, e qualcos’altro che non riusciva
bene a mettere a
fuoco. Forse un
pizzico di
rassegnazione, ma comunque insignificante, al confronto di quintali e
quintali
di rabbia che era costretta a ingoiare, giorno dopo giorno. Arrabbiata
con il
mondo intero, con la vita, con se stessa. Perché forse era lei il problema, pensava. Era
lei a essere sbagliata;
Per
questo suo padre non
aveva mai voluto conoscerla. E
nella sua crudele semplicità tutto questo risuonava nella
mente di Emily come
un acuto dolore. Sapeva poco di lui. E lui
sapeva ancor meno di lei, e non avrebbe potuto essere
altrimenti. Lui non
c’era mai stato.
Lo
spuntare del primo
dentino. I primi passi.
Il
primo giorno di scuola. La sua prima cotta ai tempi delle elementari.
Il
suo primo saggio di danza.
In un attimo tutto sembrò
colpirla come un
enorme masso sulla testa. Prima ancora di formulare quel pensiero
già se n’era
pentita. Suo padre non l’avrebbe
mai
vista danzare, e mai avrebbe più potuto farlo. Era
stanca. Stanca di tutto.
Stanca persino di non saper mettere un freno ai suoi pensieri, che a
briglia
sciolta vagavano su un campo minato e inesplorato con noncuranza, da
buona
masochista qual’era.
Il
sole tramontava nel
mare colorandolo di sfumature rosee e cangianti. Si era stretta ancora
di più
nella sua felpa, per proteggersi dalla frescura della sera, e poi era
successo:
un brivido le aveva percorso la schiena. Non ebbe neanche il tempo di
capire
cosa stava succedendo che già si era voltata repentinamente,
da rischiare di perdere
l’equilibrio. Gli occhi le erano diventati due fessure e, per
poco, non
digrignò i denti dalla rabbia.
A
una decina di metri
da lei c’era un ragazzo. Stava seduto scompostamente su una
cassapanca di legno
dall’aria trasandata. Aveva il capo chino, e dei ciuffi di
capelli castani gli
ricadevano sulla fronte. Era concentrato, e una ruga buffa gli si
formava sul
mento quando arricciava le labbra in una smorfia. Stava suonando. Sulla
sua
spalla era poggiato un violino rosso fiammante, e con il mento lo
bloccava tra
le sue braccia. Le mani robuste e poderose stringevano l’arco
con decisione e
forza. Sembrava suonare più per urgenza che per piacere,
tant’era il rancore
che sembrava fluire dal suo corpo e riversarsi sullo strumento.
Produceva un
suono stridente, quasi rabbioso. Lui
alzò il viso verso di lei e in quell’attimo Emily
si sentì invadere da una marea
di emozioni. Si spaventò, si sentì fuori posto,
ruppe il contatto visivo tra
loro e scappò via a gambe levate. Correva di nuovo tra la gente, il
cuore
continuava a rimbombare nelle sue orecchie. Tutto aveva il sapore del
passato,
dei ricordi. Ricordi che non potevano tornare. Si richiuse in camera
sua, s’infilò
sotto le coperte e, mentre il sonno incominciava a gravarle addosso,
poté
giurare di sentire una lacrima scenderle lungo la guancia.
Non
era possibile,
doveva star sognando sicuramente. Lei
non piangeva, non più, non lo faceva da
quel giorno. I
suoi sogni si riempirono delle note di uno spartito, della melodia di
un
violino. E di due occhi plumbei come due pozzi di carbone.
~
Il
pomeriggio
successivo si ostinò a capire cosa le era successo. La sua
apatia era stata
incrinata da qualcosa, un sentimento che non riusciva ben a capire,
qualcosa
che l’aveva scossa dallo stato di torpore in cui era
piombata. Alla stessa ora
tornò nello stesso posto in cui aveva visto il violinista.
Era ancora una volta
lì, seduto a gambe leggermente divaricate, la testa china, e
ricci capelli
castani che gli celavano lo sguardo. Doveva avere e una ventina
d’anni, solo un
paio in più a lei. Fu tentata di seguire la scia del giorno
precedente e di
tornare a casa, ma riuscì a mettere a tacere il cervello e,
a piccoli e incerti
passi, si avvicinò.
Mentre
lui pensava a
come migliorare il suo ‘si’
bemolle,
uno scintillio lo distrasse. Alzò il capo e restò
attonito per un minuto buono.
Una ragazza minuta, con indosso un paio di jeans scuri, una t-shirt a
mezze
maniche bianca, capelli lunghi e mori e occhi azzurri era davanti a
lui. Gli
sembrò stesse dicendo qualcosa, ma per la distrazione non
capì.
«Prendi...
è per te!»,
ripeté lei, tendendogli una moneta, bloccata tra le dita
sottili. Quando il
ragazzo capì cosa stava tentando di fare
s’imbarazzò tremendamente.
«Oh...
no!», si
affrettò a dire, «Non suono per
questo...» Si passò una mano tra i capelli,
impacciato.
«È
solo che... dove vivo non posso
suonare, purtroppo». Sorrise amichevolmente, poi
tornò a prestare attenzione al
suo strumento.
«Ok...
come vuoi!» Emily ritrasse la mano, chiudendola a
pugno, e se la portò al petto. Poi continuo:
«Posso chiederti un piacere?»
«Certo!
Cosa ti serve?»
«Mi
serve che tu te ne vada!», disse quasi in un sussurro
triste. Il ragazzo sgranò gli occhi plumbei che si tinsero
di confusione. Il
suo sorriso si spense fulmineamente. «Scusa...
saresti così gentile da ripetere? Forse non ho capito
bene...»
Sperò che la stanchezza gli avesse giocato un brutto scherzo
procurandogli
delle allucinazioni, o più semplicemente di esserselo
immaginato.
«Vai
a suonare da qualche altra parte... ti prego».
Replicò
scandendo parola per parola asetticamente, con una freddezza raggelante.
«Io
sono qui ogni pomeriggio! Non capisco... non puoi
andartene tu? E poi perché non dovrei suonare?»
disse lui, gli occhi tinti di
confusione.
«...
mi dai... fastidio.» proseguì lei, seccata. Se possibile il ragazzo
sgranò ancora di più
gli occhi. Intanto
la mente di Emily
stava ritornando lucida, e lentamente la vergogna le stava salendo alla
gola.
Cosa le era preso?
Il
ragazzo ricordava di averla già vista, il pomeriggio
precedente. L’aveva ascoltato suonare, e sul suo viso non
sembrava comparire
nessuna traccia di fastidio, anzi. Indubbiamente aveva
un’espressione difficile
da decifrare, ma per un millesimo di secondo gli era sembrato di
riuscire quasi
a scorgere nei suoi occhi un barlume di luce.
«Ti
ho visto qui ieri. Mi stavi ascoltando suonare, e non mi
sembravi contrariata dalla mia musica... per un momento mi è
sembrato quasi che
apprezzassi...»
«Apprezzavo,
sì... forse un tempo l’avrei fatto!»
concluse
Emily, gli occhi rivolti nel vuoto, pieni di vecchi ricordi.
«Sai
che c’è? Ho come la sensazione che tu stia
mentendo! A
te piace la mia musica... se davvero t’infastidisse, non
saresti ancora qui,
non ti saresti avvicinata, non mi avresti dato quella
moneta.» Emily si sentì
ancora una volta invadere da un miscuglio di sensazioni che non
riusciva a
capire. Fastidio, tristezza, rimpianto,
speranza. «Guardati... sei ancora qui!»
continuò lui, posando il violino ai
suoi piedi e incrociando le braccia. Stava ridendo, non era offeso,
solo
incuriosito.
«Come
non detto... me ne vado» sussurrò Emily
fiaccamente. Si
voltò pronta per tornare a casa, ferita
nell’orgoglio. Voleva scappare, in quel
momento più che mai. Correre lontano, non fare mai
più ritorno. Aveva ragione
allora, era lei a essere sbagliata, non c’erano
più dubbi. Riuscì a fare
massimo un passo prima che una mano le cingesse il polso. Era calda
contro la
sua pelle e, per una strana ragione, si sentì arrossire. Imbarazzo. Sì, doveva essere
sicuramente imbarazzo. Cos’altro se
no? Aveva fatto una pessima figura a comportarsi in quel modo con quel
ragazzo.
Cosa le era passato per la testa? Che persona era diventata?
Osservò il polso
sottile stretto tra la mano del ragazzo. Si stupì di come la
stessa mano che prima
stringeva l’arco con tanta forza, fosse anche capace di
essere così... delicata.
«Stavo scherzando, non devi andar via per forza. Non andartene perché te l’ho detto io. Come ti chiami?»
«Emily...»
«Piacere,
io sono Caleb». Solo quando lei ritornò a guardare
le sue dita strette attorno
al suo polso, arrossendo, lui sembrò accorgersi di starla
ancora trattenendo e,
con la stessa delicatezza con la quale l’aveva afferrata,
sciolse il fugace
contatto tra loro, portandosi poi le mani in tasca, imbarazzato a sua
volta.
«Farò
finta di crederti e reggerti il gioco, Emily. Perché
t’infastidisce la mia
musica?» Chiese lui, incuriosito.
«Non
sei tu... è la musica che oramai m’infastidisce in
generale». Caleb sospirò di sollievo e poi
continuò: «E per quale ragione odi
la musica... se posso sapere, ovviamente?»
A
Emily le parole s’incastrarono
in gola, fuggiva ogni volta da quel discorso per paura di impazzire, di
urlare
a squarciagola, di imboccare la via dei ricordi. Adesso che si trovava
in
procinto di cadere sull’orlo di un precipizio si rese conto
di non riuscire a
dire neanche una parola, per questo tentò di liquidare Caleb
con un semplice: «È
una lunga storia». Ma non poteva certo sapere che il ragazzo
che aveva davanti
era ostinato a scoprire il suo mistero, tanto quando lei era trincerata
nella
convinzione di tenersi tutto per sé.
«È
personale. Mi dispiace per
averti infastidito, io... non so cosa mi è preso. Come ho
già detto è una lunga
storia, e non mi va di ripercorrerla di nuovo».
«Non
ne hai mai parlato con
nessuno?» chiese lui, mal celando la sua curiosità.
«Esatto!»
mugugnò lei,
guardandosi intorno. In strada le macchine continuavano a incedere
nella loro
lenta corsa. Famiglie, anziani, coppie e bambini passeggiavano sul
lungomare, godendosi
il panorama mozzafiato delle prime stelle che pallide e timide
spuntavano nel
cielo di sfumature rosee e violacee come il tramonto.
«Sai...
non voglio insistere
più del dovuto, ma ho come l’impressione che
tenerti tutto dentro non ti faccia
poi così bene. Insomma... prima mi stavi quasi sbranando
vivo, anche solo con
lo sguardo. Sempre con calma e una strana gentilezza anche
nell’offendere, ma
pur sempre sbranando... capisci cosa intendo?» Caleb sorrise
divertito. «E poi
sono abituato alle storie lunghe e complicate, delle mie ne ho fin
sopra la
testa, sentire due sventure altrui non può essere
così male!» Per quanto
quell’ultima frase risuonasse assurda, Emily non
poté non sorridere a sua volta
di fronte alla sua scoraggiante ostinazione. “Oddio,
Emily Wright sta di nuovo sorridendo. Avvertite i media.”
Pensò tra sé e sé.
«Non
sarà un patetico tentativo
di abbordaggio?» chiese inarcando un sopracciglio e
incrociando gli occhi nei
suoi in due fessure.
«Ma
scherzi? Mi fai un tipo del
genere? Andiamo...» Nonostante non potesse davvero sapere che
tipo era, dato
che lo conosceva da soli pochi minuti, si rese conto di non avere
comunque
niente da perderci. Continuò
a fissarlo
con serietà, riuscendo a metterlo dopo poco in soggezione, e
costringendolo a
essere più convincente.
«Mettiamola
così: sei arrivata qua
e mi hai ordinato di smettere di suonare, anzi, mi hai chiesto
di smettere di suonare ferendo il mio orgoglio da artista da strapazzo,
il
minimo che puoi fare adesso è farti conoscere...
così mi assicurerò della tua
sanità mentale, appurerò che una pazzoide non
cammini in giro a piede libero e
la mia coscienza da cittadino onesto rimarrà intatta.
Allora... ci stai?»
propose lui, pronto a non cedere al silenzio della ragazza. «E se questo non
è abbastanza comodo per
te...» disse indicando la cassapanca su cui era seduto,
«... allora vorrà dire
che ci andremo a sedere lì!» E indicò
il muretto che costeggiava il porto. Emily
non rispose né sì, né no. Si
voltò semplicemente su se stessa e incominciò a
camminare verso il tramonto. Pensò che forse, dopotutto,
parlarne non poteva
che farle bene. Si rese conto del modo in cui aveva reagito quando
Caleb aveva
incominciato a suonare e che reprimere tutte quelle frustrazioni era
troppo, perfino
per lei. Si sedette sul muretto di mattoni e volse lo sguardo verso il
tramonto, cercando di trovare la forza per iniziare. Stava
parlando della cosa che più le stava cuore a uno
sconosciuto,
assurdo.
«Io...
ballavo. Prima. Ho
sempre ballato, fin da piccola.» Era certa che Caleb fosse
vicino, e quindi non
si sorprese quando lo sentì sedersi al suo fianco, ancora
stringendo il violino
e l’arco tra le mani.
«Poi,
un giorno, è successa una
cosa... ho perso i sensi durate un saggio finale, uno spettacolo.
Nessuno se
n’è accorto in realtà, sono riuscita a
finire il numero appena in tempo...»
Ripercorrere quei momenti faceva male, e nonostante tutto, a Emily,
sembrò di
raccontare qualcosa di così lontano, così
estraneo, da appartenere quasi a
un’altra persona.
«All’inizio
presi la cosa con
leggerezza. Non dissi niente a mia madre, chiesi alle mie compagne di
corso e
alla mia insegnante di non dirle niente per non farla preoccupare
inutilmente,
o si sarebbe fatta prendere dall’ansia e avrebbe distrutto la
mia pazienza con
le sue soffocanti accortezze. Pensavo si trattasse solo di un
po’ di
stanchezza...»
«E
invece cos’era?» chiese
Caleb, già immaginando ciò che era accaduto dopo.
«Poi
è riaccaduto, e ho capito
che non era casuale, e non era provocato dallo stress da palcoscenico. Mi sentivo spossata, avevo
spesso sonno, mi
stancavo facilmente. Decisi di parlarne con mia madre e andammo da un
medico».
Emily sospirò, fissandosi le mani con sguardo vuoto, con gli
occhi pieni di
ricordi che si srotolavano nella sua mente vividi e pulsanti.
«Mi ha
riscontrato una malformazione congenita al cuore, ereditaria a quanto
pare, e
devo ringraziare mio padre per quello... almeno qualcosa di suo
è ancora qui
con me! Il lato positivo di tutta la faccenda era che potevo continuare
a vivere
la mia vita normalmente senza troppe complicazioni, ma per fare
ciò dovevo
cambiare stile di vita... e ...».
«E
da quel giorno non hai più
potuto danzare!» continuò lui, concludendo il
pensiero per entrambi. «Ma ancora
non mi è chiara una cosa: perché odi
così tanto la musica, altre al fatto che
non puoi più danzare?»
«Ti
sei risposto da solo! Non
posso più danzare, e la musica è diventata
addirittura pericolosa per me. Potrei
facilmente lasciarmi andare, dimenticare tutto, riprendere a ballare, e
non nego
di averci pensato... ma sarebbe come andare incontro alla morte... tra
un’arabesque e una piroette. »
«Capisco...»,
disse Caleb in
tono apprensivo. «Ma così facendo non
sarà tanto diverso... insomma... senza
offesa... ma guardati, sei una morta che cammina!»
«Come,
scusa?»
«Sì,
ecco... sei comunque una bella
morta vivente, ma potresti esserlo
ancora di più se solo sorridessi!».
«Ma
io sorrido!!!» replicò lei,
sulla difensiva.
«Non
davvero!ۛ»
ribatté lui, e una strana idea cominciò a
prender vita nella sua testa.
«Vediamo
un po’, allora...» Prima
di far scivolare l’arco sulle corde tese guardò
Emily e disse: «Anche se ci conosciamo
da poco mi sembri una di cui ci si può fidare...ti confesso
una cosa. Sai io
come sopravvivo? Semplice! Grazie alla musica! Hai presente il mio
suonare per
strada? Il non poter suonare in casa? In realtà io non ho
una vera e propria
casa. Dopo essere uscito ufficialmente dal sistema affidatario,
rispedito
indietro come una merce difettosa da tutte le famiglie che mi avevano
preso in
cura, adesso mi trovo in una struttura di prima accoglienza. I primi
tre mesi
d’affitto della camera sono gratis, poi mi
toccherà trovare un lavoro,
altrimenti mi ritroverò per strada!» Emily rimase
molto turbata dalla storia di
Caleb e, soprattutto, dal modo in cui lui ne parlava. Negli occhi
sembrava
avere quel dono che ti permette di vedere tutto con
positività. Ironizzava
perfino sulla sua ipotetica e futura vita da barbone e musicista da
quattro
spiccioli. «Però...», riprese sorridendo
da ebete, «Ho il mio violino, e mi
reputo fortunato. Ho le mani e posso ancora suonare. Questo mi fa
rimanere me
stesso, mi fa sorridere e mi cura da ogni paura e da ogni incertezza.
Oggi ci
sono io e il mio violino... domani chissà... ma la musica
non mi lascerà mai,
capisci?» E mentre l’arco aveva ripreso a stridere
sulle corde, Emily poté
capire ancora meglio perchè suonasse con così
tanta forza, con tanta rabbia.
Eppure all’apparenza era quieto, sorridente, scaltro.
«Anch’io
ero così...» sussurrò,
più a se stessa che a lui. «Anch’io
vivevo per la musica!» E ricordava
benissimo come ci si sentiva. Viva. Niente poteva intimidirla
se con lei aveva la
certezza di poter sgombrare la mente, e riempirla degli accordi giusti
della
sua anima. «Comunque io non so suonare. No, non
posso...»
«Sì
che puoi, cosa ti ostacola?
Cos’hai da perderci?» disse lui, divertito
dall’idea.
Lo
voleva? Emily non riusciva a
capirlo, ma quel piacevole dolore che le provocava allo stomaco
quell’idea aveva
un qualcosa di familiare. Era simile all’ansia da
palcoscenico che aveva sempre
avuto prima di ballare. Anche adesso che l’unico riflettore
che era puntato su
di lei era un sole quasi del tutto tramontato, e due occhi che erano
pozzi neri
come carbone. Ritrovare quel pezzettino della vecchia se stessa fu per
lei la
migliore grazia che gli potesse capitare.
«Vorrei
imparare,davvero, ma...
preferisco ascoltare te al momento! Posso tornare qui ad
ascoltarti?», chiese
incerta, rendendosi conto di ciò che aveva detto solo quando
l’aveva ormai
pronunciato. Indietro non si poteva tornare.
«E
se decidessi di seguire il
tuo consiglio e andarmene a suonare da un’altra
parte?» Intercorsero pochi
attimi di silenzio, carichi di ansia da parte di Emily. Per un momento
si
rattristò, ma subito ritornò a sorridere quando
lesse negli occhi di Caleb che
la stava solo prendendo in giro.
«Certo
che puoi! Puoi venire
ogni giorno che vorrai. Prendila come una sfida personale con me
stesso! Ormai
ci sono dentro anch’io fino al collo. Ci vorrà
tempo e fatica, dopotutto io ho
incominciato a studiare da autonomo, ma i più bravi vanno da
veri maestri. Ma
farò del mio meglio, diventerai bravissima,
vedrai!»
Emily
si stupì di come si
sentiva in quel momento, e di come fosse facile passare del tempo con
quel
ragazzo. Era
elettrizzata, tutte le
cellule del suo corpo in allerta.
E lui
era simpatico, entusiastico, e non gli si poteva negare... sapeva anche
come
far fare alle persone ciò che lui voleva.
«Adesso
non esageriamo. Con un
maestro così scarso serviranno molte lezioni!»
«Non penso... non posso
essere così male se ti faccio addirittura piangere, non
pensi?» Caleb avvicinò
le sue dita e sfiorò la guancia di Emily, proprio sopra lo
zigomo, trattenendo
la lacrime tra il suo polpastrello caldo. Emily non si era resa conto
di aver
incominciato a piangere e, dopo tanto tempo che quelle lacrime erano
rimaste
prigioniere, adesso rincominciavano a pulsare vita nuova. Stava di
nuovo
piangendo, e di felicità.
Sì,
sarebbe tornata quella di una volta. Ci sarebbe voluto tempo e
pazienza, ma
ancora doveva nascere una più testarda e orgogliosa di lei.
Se si prometteva
una cosa doveva portarla a termine,
a
qualunque costo, pensò.
«Caleb...
ti ringrazio!», sussurrò,
sorridendo come non faceva da tempo.
«Nahhh,
niente grazie! Come ti
ho già detto è una sfida personale. Lo faccio
più per me che per te!» Caleb in
cuor suo sapeva che non era vero. L’avrebbe fatto per lei, e
non ne capiva
ancora il motivo. Il sole era completamente calato nel mare e i
lampioni a
intermittenza avevano costeggiato la strada illuminandola ancor prima
delle
stelle splendenti. Mentre Emily si allontanava con la promessa di
ritornare lì
il giorno successivo, Caleb guardava le stelle con un sorriso sulle
labbra. Ma
l’unico astro che si rifletteva davvero sulle sue pupille era
un sorriso, il sorriso di quella ragazza. E
ancora... due
pozze d’acqua limpida e pura. Vetro luminoso attraversato da
un timido raggio
di sole. Anche per lui, quel giorno, si accese una speranza. Anche il
suo
cuore, all’apparenza coriaceo, privato dall’affetto
di una famiglia, dal calore
familiare, privato dall’amore, sembrò sciogliersi.
Caleb non sapeva cosa
sarebbe successo di lì in avanti, se avesse presto trovato
un lavoro, se fosse
riuscito a pagare l’affitto, ma in quel momento poco gli
importava. Aveva uno
scopo, aveva una meta. Aveva la sua musica, aveva il suo violino, aveva
la
voglia di vivere, e da quel giorno... aveva lei.
∞
“Gli
accordi del cuore”si è piazzata seconda
classificata al contest “Musica e parole”.
Ringrazio Suzie per aver indetto
questo contest, ridandomi la possibilità di scrivere dopo un
periodo buio e
scarso di idee. Ringrazio il caso/destino per aver trovato subito il
“pacchetto”
adatto a ciò che potevo- e volevo- raccontare. Ringrazio la
Dea bendata della
fortuna per essere stata dalla mia parte. E presto ritornerò
a dedicarmi alla
scrittura. Riprenderò “Your Falling
Star” dalle redini, cambiando ciò che non
mi appartiene più e, sperando, migliorandola, rendendola un
po’ più simile a
come è nella mia mente bacata. A presto.
Francesca.