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Autore: postergirl84    16/05/2012    13 recensioni
Embry Call, per la gente della piccola riserva indiana di La Push, era sempre stato il bambino senza padre, il ragazzino senza origini, quello che tutti si sforzavano di non guardare mai negli occhi, per paura di leggerci dentro una verità scomoda da accettare.
Embry Call crescendo era poi divenuto un lupo, un protettore , motivo d’orgoglio per la tribù.
Embry Call ragazzino senza padre e lupo Quileutes non ha mai saputo rispondere a quell’unica, semplice e fondamentale domanda “Chi sono io?”
Finché un giorno…
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Embry Call
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più libri/film
- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Lupi'
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FATHER’S DAY

 

 

“Quindi non aver paura di commettere errori o di inciampare e cadere, perché la maggior parte delle volte i premi migliori, vengono quando si fa quello di cui si ha più paura.
Forse riuscirai in tutto ciò che desideri.
Forse, avrai più di quanto avresti mai immaginato.
Chissà dove ti porterà la vita.
La strada è lunga e alla fine, ogni giornata è la destinazione.

(One Tree Hill)

 

 

Embry Call, per la gente della piccola riserva indiana di La Push, era sempre stato il bambino senza padre, il ragazzino senza origini, quello che tutti si sforzavano di non guardare mai negli occhi, per paura di leggerci dentro una verità imbarazzante.
Di chi era davvero figlio?
Di chi era la colpa che rappresentava?
Perché sua madre Tiffany aveva deciso di tornare a La Push mettendo in pericolo le loro perfette famiglie?
Queste le domande che avevano accompagnato la sua crescita.
Più volte  aveva sentito la madre piangere chiusa nella propria stanza; allora si avvicinava piano alla porta, l’apriva e abbracciava stretta la donna che lo aveva messo al mondo sussurrandole “ti voglio bene.”
Fu così che imparò a non farle mai domande e ad essere più forte delle prese in giro e dei bisbigli alle sue spalle. Fu così che imparò a sorridere sempre.
Infatti, se c’era qualcosa che non era mai mancata nella sua vita era proprio il sorriso.
Sia quando tutto era sembrato diventare troppo difficile, sia quando le circostanze lo avevano costretto ad affrontare dolore e solitudine lui sorrideva.
Sorrideva quando scoprì che le leggende Quileutes erano vere e lui poteva trasformarsi in un grosso lupo. Niente luna piena, la versione hollywoodiana era decisamente poco attendibile, era la rabbia a determinare la trasformazione, ma imparò presto a dominarla. Sorrideva quando all’improvviso i suoi due migliori amici lo lasciarono solo: uno impegnato a fare da baby-sitter ad una bambina di quattro anni che il destino gli aveva donato come imprinting, l’altro occupato a passare il tempo con la donna di cui era follemente innamorato.
E sorrideva persino la notte prima della battaglia contro un esercito di vampiri neonati in cui avrebbe potuto rimetterci la vita.
C’era poi, però, quell’ unico giorno all’anno in cui proprio non gli riusciva di sorridere. Terza domenica di giugno: la festa del papà.*
Fu proprio in un giorno come quello, infatti, che tanti anni prima scoprì di essere diverso da tutti gli altri bambini. Certo, a volte si era domandato perché all’uscita della scuola non ci fosse mai qualche signore alto a prenderlo e a caricarselo sulle spalle, come invece succedeva al suo amico Jacob. A volte si era chiesto perché lui aveva solo una mamma, ma in realtà la risposta non gli importava molto. Sua madre era in gamba, era il suo eroe.
Sua madre era in grado di fare la miglior torta di pesche dell’intera riserva e poi giocare con lui per ore a far scontrare le macchinine. Tuttavia, quel giorno di inizio estate, seduto da solo al suo banco dell’ asilo, con una manciata di conchiglie per fare una cornice che avrebbe dovuto essere riempita con una foto del proprio padre da donargli la domenica successiva, Embry avrebbe tanto voluto essere come tutti gli altri bambini.
Non volle piangere, e allora strinse forte i pugni contro le gambe del tavolo, finché non sentì alle spalle i passi di Quil e Jacob. Loro lo guardarono, presero le tre cornici e le gettarono nel cestino lì accanto.
“ Mi sono incollato tutte le dita… andiamo a giocare a palla, è più divertente.”
Esclamò Jacob sorridendo e cercando un modo per sgattaiolare via dallo sguardo attento della maestra.
Non ci riuscirono, ma non tornarono lo stesso ad occuparsi di quella stupida cornice.
All’uscita del asilo però, vide Leah porgere con orgoglio il regalo al proprio padre, mentre lui rivolgeva ad Embry un’ occhiata che, a quell’ epoca, il bambino non avrebbe mai potuto decifrare. Corse dalla madre, ma su di sè sentiva ancora quegli occhi scuri. Quella notte nel suo letto, abbracciato al suo trenino preferito, una lacrima scese a solcargli le guance.
Aveva dodici anni, poi, quando la riserva decise di inaugurare una nuova tradizione per celebrare la festa del papà: una gara di pesca padri e figli.
Embry scappò al campetto da basket, sapeva che sarebbe stato l’unico a non recarsi al lago in quella mattinata estiva.
Ancora una volta fu Jacob a trovarlo.
“Quil e suo nonno sono già al lago, mio padre ha detto che puoi venire con noi. Certo, i suoi panini fanno schifo, ma sempre meglio che stare qua tutto solo!”
Provò ad obbiettare ma, se c’era una cosa che aveva imparato in quegli anni di amicizia, era che Jake non sapeva accettare i “no” come risposta. E, inaspettatamente, si era divertito con Jake e Quil, che ricacciavano in acqua tutti i pesci che pescavano; con Billy, che li guardava sorridendo, e il nonno di Quil, che non faceva che scuotere la testa.
Nessuno di loro vinse quell’anno.
Embry non seppe mai se l’amico era davvero diventato sensibile riguardo la sorte tutte le forme di vita o semplicemente non voleva metterlo in imbarazzo, scattando una foto senza un padre. Non lo chiese mai ma, anno dopo anno, la pesca dei padri trasformata in “libera tutti” divenne la loro personale tradizione.

 

Per Tiffany, invece, sorridere non era mia stato facile come per Embry. Lei, la straniera con un figlio bastardo in grembo, in quella riserva non si era mai sentita accettata completamente. Pensò tante volte di andare via, per cercare di dare al ragazzo un futuro diverso e forse migliore, ma non ebbe mai il coraggio di farlo davvero.
Se infatti era consapevole che La Push non sarebbe mai stata la sua casa, sentiva che il figlio a quella terra era legato indissolubilmente.
Non seppe mai di aver avuto ragione. Embry non le parlò della sua trasformazione, ma quando avvenne lui capì tutto: il suo posto in quella riserva, il suo compito, quello che davvero era.
Non più un ragazzino senza padre, senza radici, ma un protettore, motivo di orgoglio per tutta la tribù.
L’essere diventato un licantropo mise così a tacere le molte domande irrisolte che  avevano caratterizzato la sua crescita.
Embry accettò, forse unico fra tutti, quel suo alter ego ingombrante e peloso. Il lupo gli donò un passato di cui non doveva vergognarsi, saldando maggiormente il legame con Quil e Jacob che diventarono davvero suoi fratelli.
Per far sì, poi, che anche la madre potesse essere orgogliosa di lui, ricompensandola in qualche modo di tutte le bugie che era stato costretto a raccontarle, ottené una borsa di studio per il Peninsula College e, finito il Liceo si trasferì a Port Angeles per seguire i corsi.
Il campus del Peninsula College si rivelò, infatti, il compromesso ideale per quanti di loro avessero deciso di continuare gli studi. Non troppo lontano da La Push, gli  avrebbe permesso di fare ritorno ogni sera per adempiere ai doveri di protettori senza rinunciare ai propri sogni e progetti futuri.
Embry si ritrovò di nuovo a pensare e a rimettere in discussione tutto se stesso.
Pensò al suo passato, pensò a sua madre e ai sacrifici che aveva fatto  per crescerlo. Pensò a come il lupo lo avesse salvato e capì che lui avrebbe voluto fare altrettanto per chi affrontava i suoi stessi problemi. Decise di diventare un assistente sociale.
E fu proprio all’università che incontrò una ragazza che cambiò ancora una volta la sua vita.
La prima volta che vide Vivian fu in biblioteca. Embry rideva con Jake per l’ennesimo scherzo fatto a Quil la sera prima, lei si girò infastidita intimandogli il silenzio e lui rimase senza respiro, perdendosi dentro le pozze verdi dei suoi occhi e, sì lo ammetteva, anche dentro la scollatura del suo maglioncino bianco.
Il suo cuore accelerò e le mani iniziarono a sudare mentre la rincorreva per i corridoi invitandola a bere un caffè per farsi perdonare del disturbo. La scusa, ammise poi lui stesso, fu alquanto idiota, ma dopo quel caffè ce ne furono molti altri. E qualche cena e a volte solo una pizza, sdraiati sul letto della stanza di lei, con le lenzuola sfatte attorno a loro, e i quaderni degli appunti buttati a terra.
Era bella, Vivian.
Possedeva una di quelle rare bellezze che ti entrava dentro e non andava più via.
Perfetta in tutti i suoi difetti. Gli occhi grandi dietro le lenti,  le lentiggini sul naso e la piccola ruga che le si formava sulla fronte quando studiava. Le labbra rosa che si mordeva quando facevano l’amore, i riccioli rossi che si posavano sul suo petto quando giaceva stanca sopra di lui e le mani piccole che quasi si perdevano dentro le sue. Ma la temperatura corporea di Embry era sempre troppo calda e le sue mani tremavano ogni volta che discutevano. Lui iniziò ad avere paura, paura di allontanarsi da lei per le troppe bugie, così come era già successo con la madre, paura di non essere accettato. Paura di essere considerato un mostro. Il lupo, che gli aveva fatto scoprire il suo vero io, ora minacciava di portargli via tutto.
Non poteva rivelarle il suo segreto, ma sapeva comunque che non sarebbe stata una stupida magia a decidere per lui. Il legame che lo univa a Vivian lo sentiva vero e unico. Non c’era stata nessuna forza scaturita all’improvviso che tranciava tutti i legami del passato, ma c’era stato un rapporto nato e cresciuto lentamente, giorno per giorno. Non era l’imprinting, era amore.
Jake, che nel frattempo era divenuto il nuovo Alpha, lo liberò dall’obbligo del segreto e lo incoraggiò a raccontare a Vivian tutta la verità. In fondo era stato proprio lui ad averne parlato per primo ad un’estranea alla tribù.
Embry non si pentì mai della decisione presa, non ci fu più paura nella sua vita da quel giorno. Non avrebbe mai dimenticato lo sguardo stupito ed incredulo di Vivian,
le labbra che si posarono sulle sue  ed il fiume di parole  che lo investì.
Tra tutte, le uniche che contarono furono:
“Ti sei fidato di me… non mi importa del resto.”
Lui la strinse al suo corpo e, per la prima volta, provò quella sensazione sconosciuta, la sensazione di trovarsi a casa. Non importava il come e il dove, quell’abbraccio, capì, l’avrebbe sempre fatto tornare a casa.

 
Quando, qualche anno dopo, andò a convivere con lei ricevette un ulteriore regalo, del tutto inaspettato.
Gli scatoloni del trasloco ingombravano interamente il pavimento, i piatti erano stati sistemati nella credenza e i vestiti negli armadi.
Quil, Jake e Bella se n’erano appena andati, lasciandoli per la prima volta da soli nella loro nuova casa.
Vivian allora si alzò, recuperò un biglietto dalla sua borsa allungandoglielo e sorridendogli nervosamente e lui lo aprì incerto, inarcando un sopracciglio.
“Un biglietto per la festa del papà?” chiese.
“Sì. Sai, è oggi…”
“ Lo so, ma cerco sempre di non pensarci.”
“Appunto, un ricordo felice dovrebbe risistemare le cose.”
Una piccola fotografia in bianco e nero cadde dalla busta fra le sue mani ed il dubbio sparì dal suo volto.
“Sei… tu sei… “
“Incinta, sì. Lo so, non era previsto, ci siamo appena trasferiti, il matrimonio è fra un mese…” rispose Vivian, ma il suono della risata roca di Embry le impedì di continuare la frase mentre la sollevava in aria, ancora ridendo, per poi ricadere insieme sul divano.
“Chiamalo ricordo felice.”

 

E ora, ad un anno esatto da quel giorno, lui si ritrovava a posteggiare la macchina nel vialetto di casa. Riusciva a scorgere Vivian, da dietro le tende gialle della finestra, indaffarata a cucinare.
Dormiva ancora, quando quella mattina lui si era alzato. Erano mesi che non si concedeva otto ore di sonno filato e non aveva avuto cuore di svegliarla. Le aveva posato un lieve bacio sulla testa e silenziosamente si era vestito, con l’intento di andare in ufficio, prendere la pratica che aveva scordato sulla scrivania, girarla via e-mail al collega e tornare a casa. Il tutto in meno di un ora.
Un piano perfetto, se non fosse che, come al solito, si era fatto risucchiare dalla storia dell’ennesimo ragazzino sfortunato. Ben, in particolar modo, gli ricordava così tanto se stesso che non avrebbe trovato pace fino a quando  non avesse persuaso il giudice a non togliere l’affidamento alla madre che, per mantenerlo, lavorava quasi diciotto ore al giorno. Proprio come aveva sempre fatto Tiffany.
Varcando la soglia di casa era comunque certo che Vivian lo avrebbe ucciso. Odiava quando  arrivava in ritardo al pranzo della domenica. Non che avesse potuto davvero causargli danni fisici, in fondo era ancora un grosso lupo mannaro, ma c’erano molto modi in cui la sua non- tanto- dolce- da- incazzata- metà poteva decidere di dargli la morte.
Uno: lo avrebbe guardando con i suoi magnifici occhi verdi colmi di delusione.
Due: l’avrebbe costretto a lavare i piatti per un mese.
Tre: lo avrebbe mandato a dormire sul divano.
Quattro: No, al punto quattro era decisamente meglio che non ci pensasse.
Si fece coraggio e, mettendo su una faccia da bronzo che avrebbe reso Jake orgoglioso di lui, sorrise alla moglie che gli veniva incontro nel piccolo ingresso.
“Tutto bene? Sei stato a La Push? Qualche emergenza?”
“No, ero in ufficio. Scusa dovevo avvertirti.”
“Già, avresti dovuto e non pensare che non me la pagherai, dopo. Adesso il pranzo è in tavola.”
Entrò in cucina. Hope era già seduta, intenta a mordicchiare un piccolo lupo di gomma. Vivian aveva decisamente uno strano senso del umorismo, pensò Embry non appena la vide.
Un palloncino verde, era appeso al bracciolo del suo seggiolone, svolazzava mosso dal vento che soffiava dalla finestra lasciata aperta, con la scritta: “auguri papà.”
Embry sorrise alla moglie abbracciandola per poi avvicinarsi alla bambina. Le posò un bacio sulla testa e la piccola batté le mani paffute, abbandonando il gioco e producendo un suono strano, che per lui – non importava quanto Paul potesse prenderlo per il culo - era innegabile volesse dire papà.
La guardò, senza capacitarsi davvero che fossero già passati sei mesi da quando, per la prima volta, l’aveva tenuta tra le braccia.
Molto presto, lo sapeva, come già Jacob, Paul e Sam prima di lui, avrebbe smesso di trasformarsi e sarebbe riuscito a passare molto più tempo insieme a lei. Tutti i componenti del branco, infatti, avevano deciso di smettere gradualmente al raggiungimento del loro venticinquesimo anno, cioè quando l’età anagrafica avrebbe raggiunto quella fisica. Mancavano due mesi al suo compleanno.  Della vecchia guardia sarebbe rimasto solo Quil, che era sempre in attesa che Claire diventasse grande.In ogni caso, La Push non aveva avuto più bisogno di un intero branco dopo che i Cullen avevano lasciato Forks. Con un po’ di fortuna nessun vampiro sarebbe tornato ad infestare le loro terre e finalmente loro avrebbero potuto invecchiare e vivere una vita da normali esseri umani.
Avvicinò la sedia a Hope e afferrò il piatto che Vivian gli porgeva. Ne riempì un cucchiaio, soffiandoci sopra e, imitando il volo di un aeroplano, lo portò alla bocca della bambina. Hope trattenne il boccone mentre Embry si girò orgoglioso verso la moglie, felice di come solo lui riuscisse a fare mangiare la pappa alla piccola, e un proiettile tiepido lo colpì dritto al viso. Embry guardò sconcertato la bambina che rideva, afferrando una ciocca dei suoi capelli e stringendola nel pugno. Vivian, dall’altro lato della tavola, lo osservava con un espressione canzonatoria in volto, cercando senza successo di non scoppiare a ridere come la figlia.
E, in quel preciso istante, con il viso ricoperto di uno strato di poltiglia verde e le risate delle persone che amava di più al mondo in sottofondo, Embry riuscì finalmente a rispondere a quella domande che da sempre era rimasta sospesa nella sua mente. “ Chi era lui?”
Un padre. Anche se non ne aveva mai avuto uno, lui era indiscutibilmente ed innegabilmente un padre.

 


*La festa del papà in America, a differenza nostra, si celebra la terza domenica di Giugno.

 

 
NOTE AUTRICE:

Questa  storia è stata scritta per il contest di Luna Ginny Jackson :  Personaggi secondari contest - Perchè non ci sono solo Edward e Bella.

Era da un po’ che avevo in mente di scrivere qualcosa su Embry  finalmente ne ho trovato  l’occasione.

Se avete già letto qualcosa di mio sapete che sono una Team Jacob accanita e che per me non può esistere nessuna riserva di La Push senza che Jacob Black ne faccia parte, e di conseguenza nel mio mondo ed, in tutti i mondi di cui io scrivo, Jacob ha avuto il suo lieto fine con Bella.

Un ringraziamento speciale a xxx_Strange_xxx  e cenerella. Davvero con tutto il cuore.

Andate a leggere le loro storie del contest:

Hendrix Park & Deep Scars.

Al prossimo racconto.

Un bacio

Noemi.

 

 

   
 
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