FATHER’S
DAY
“Quindi
non aver paura di commettere errori o di
inciampare e cadere, perché la maggior parte delle volte i
premi migliori,
vengono quando si fa quello di cui si ha più paura.
Forse riuscirai in tutto ciò che desideri.
Forse, avrai più di quanto avresti mai immaginato.
Chissà dove ti porterà la vita.
La strada è lunga e alla fine, ogni giornata è la
destinazione.
(One Tree Hill)
Embry
Call, per la gente
della piccola riserva indiana di La Push, era sempre stato il bambino senza padre, il ragazzino
senza origini, quello che
tutti si sforzavano di non guardare mai negli occhi, per paura di
leggerci
dentro una verità imbarazzante.
Di chi era davvero figlio?
Di chi era la colpa che rappresentava?
Perché sua madre Tiffany
aveva deciso di tornare a La Push mettendo in pericolo le loro perfette
famiglie?
Queste le domande che avevano
accompagnato la sua crescita.
Più volte aveva
sentito la madre piangere chiusa nella
propria stanza; allora si avvicinava piano alla porta,
l’apriva e abbracciava
stretta la donna che lo aveva messo al mondo sussurrandole
“ti voglio bene.”
Fu così che imparò a non
farle mai domande e ad essere più forte delle prese in giro
e dei bisbigli alle
sue spalle. Fu così che imparò a sorridere sempre.
Infatti, se c’era qualcosa
che non era mai mancata nella sua vita era proprio il sorriso.
Sia quando tutto era sembrato diventare troppo difficile, sia quando le
circostanze lo avevano costretto ad affrontare dolore e solitudine lui
sorrideva.
Sorrideva quando scoprì
che le leggende Quileutes erano vere e lui poteva trasformarsi in un
grosso
lupo. Niente luna piena, la versione hollywoodiana era decisamente poco
attendibile, era la rabbia a determinare la trasformazione, ma
imparò presto a
dominarla. Sorrideva quando all’improvviso i suoi due
migliori amici lo
lasciarono solo: uno impegnato a fare da baby-sitter ad una bambina di
quattro
anni che il destino gli aveva donato come imprinting, l’altro
occupato a
passare il tempo con la donna di cui era follemente innamorato. E sorrideva persino la notte
prima della battaglia contro un esercito di vampiri neonati in cui
avrebbe
potuto rimetterci la vita.
C’era poi, però, quell’
unico giorno all’anno in cui proprio non gli riusciva di
sorridere. Terza
domenica di giugno: la festa del papà.*
Fu proprio in un giorno
come quello, infatti, che tanti anni prima scoprì di essere
diverso da tutti
gli altri bambini. Certo, a volte si era domandato perché
all’uscita della
scuola non ci fosse mai qualche signore alto a prenderlo e a
caricarselo sulle
spalle, come invece succedeva al suo amico Jacob. A volte si era
chiesto perché
lui aveva solo una mamma, ma in realtà la risposta non gli
importava molto. Sua
madre era in gamba, era il suo eroe.
Sua madre era in grado di
fare la miglior torta di pesche dell’intera riserva e poi
giocare con lui per
ore a far scontrare le macchinine. Tuttavia, quel giorno di inizio
estate,
seduto da solo al suo banco dell’ asilo, con una manciata di
conchiglie per
fare una cornice che avrebbe dovuto essere riempita con una foto del
proprio
padre da donargli la domenica successiva, Embry avrebbe tanto voluto
essere
come tutti gli altri bambini.
Non volle piangere, e
allora strinse forte i pugni contro le gambe del tavolo,
finché non sentì alle
spalle i passi di Quil e Jacob. Loro lo guardarono, presero le tre
cornici e le
gettarono nel cestino lì accanto.
“ Mi sono incollato tutte
le dita… andiamo a giocare a palla, è
più divertente.”
Esclamò Jacob sorridendo e
cercando un modo per sgattaiolare via dallo sguardo attento della
maestra.
Non ci riuscirono, ma non
tornarono lo stesso ad occuparsi di quella stupida cornice.
All’uscita del asilo però,
vide Leah porgere con orgoglio il regalo al proprio padre, mentre lui
rivolgeva
ad Embry un’ occhiata che, a quell’ epoca, il
bambino non avrebbe mai potuto
decifrare. Corse dalla madre, ma su di sè sentiva ancora
quegli occhi scuri.
Quella notte nel suo letto, abbracciato al suo trenino preferito, una
lacrima
scese a solcargli le guance.
Aveva dodici anni, poi,
quando la riserva decise di inaugurare una nuova tradizione per
celebrare la
festa del papà: una gara di pesca padri e figli.
Embry scappò al campetto
da basket, sapeva che sarebbe stato l’unico a non recarsi al
lago in quella mattinata
estiva.
Ancora una volta fu Jacob
a trovarlo.
“Quil e suo nonno sono già al lago, mio padre ha
detto che puoi venire con noi.
Certo, i suoi panini fanno schifo, ma sempre meglio che stare qua tutto
solo!”
Provò ad obbiettare ma, se
c’era una cosa che aveva imparato in quegli anni di amicizia,
era che Jake non
sapeva accettare i “no” come risposta. E,
inaspettatamente, si era divertito
con Jake e Quil, che ricacciavano in acqua tutti i pesci che pescavano;
con
Billy, che li guardava sorridendo, e il nonno di Quil, che non faceva
che
scuotere la testa.
Nessuno di loro vinse quell’anno.
Embry non seppe mai se l’amico era davvero diventato
sensibile riguardo la
sorte tutte le forme di vita o semplicemente non voleva metterlo in
imbarazzo,
scattando una foto senza un padre.
Non lo chiese
mai ma, anno dopo anno, la pesca dei padri trasformata in
“libera tutti”
divenne la loro personale tradizione.
Per
Tiffany, invece,
sorridere non era mia stato facile come per Embry. Lei, la straniera
con un
figlio bastardo in grembo, in quella riserva non si era mai sentita
accettata
completamente. Pensò tante volte di andare via, per cercare
di dare al ragazzo
un futuro diverso e forse migliore, ma non ebbe mai il coraggio di
farlo
davvero.
Se infatti era consapevole
che La Push non sarebbe mai stata la sua casa, sentiva che il figlio a
quella
terra era legato indissolubilmente.
Non seppe mai di aver
avuto ragione. Embry non le parlò della sua trasformazione,
ma quando avvenne
lui capì tutto: il suo posto in quella riserva, il suo
compito, quello che
davvero era.
Non più un ragazzino senza padre, senza radici, ma un
protettore, motivo di
orgoglio per tutta la tribù.
L’essere diventato un
licantropo mise così a tacere le molte domande irrisolte che avevano caratterizzato la
sua crescita.
Embry accettò, forse unico
fra tutti, quel suo alter ego ingombrante e peloso. Il lupo gli
donò un passato
di cui non doveva vergognarsi, saldando maggiormente il legame con Quil
e Jacob
che diventarono davvero suoi fratelli.
Per far sì, poi, che anche
la madre potesse essere orgogliosa di lui, ricompensandola in qualche
modo di
tutte le bugie che era stato costretto a raccontarle, ottené
una borsa di
studio per il Peninsula College e, finito il Liceo si
trasferì a Port Angeles
per seguire i corsi.
Il campus del Peninsula
College si rivelò, infatti, il compromesso ideale per quanti
di loro avessero
deciso di continuare gli studi. Non troppo lontano da La Push, gli avrebbe permesso di fare
ritorno ogni sera per
adempiere ai doveri di protettori senza rinunciare ai propri sogni e
progetti
futuri.
Embry si ritrovò di nuovo
a pensare e a rimettere in discussione tutto se stesso.
Pensò al suo passato,
pensò a sua madre e ai sacrifici che aveva fatto per crescerlo.
Pensò a come il lupo lo avesse
salvato e capì che lui avrebbe voluto fare altrettanto per
chi affrontava i
suoi stessi problemi. Decise di diventare un assistente sociale.
E fu proprio
all’università che incontrò una ragazza
che cambiò ancora una volta la sua
vita.
La prima volta che vide
Vivian fu in biblioteca. Embry rideva con Jake per l’ennesimo
scherzo fatto a
Quil la sera prima, lei si girò infastidita intimandogli il
silenzio e lui
rimase senza respiro, perdendosi dentro le pozze verdi dei suoi occhi
e, sì lo
ammetteva, anche dentro la scollatura del suo maglioncino bianco.
Il suo cuore accelerò e le
mani iniziarono a sudare mentre la
rincorreva per i
corridoi invitandola a bere un caffè per farsi
perdonare del disturbo. La scusa, ammise poi lui stesso, fu alquanto
idiota, ma
dopo quel caffè ce ne furono molti altri. E qualche cena e a
volte solo una
pizza, sdraiati sul letto della stanza di lei, con le lenzuola sfatte
attorno a
loro, e i quaderni degli appunti buttati a terra.
Era bella, Vivian.
Possedeva una di quelle rare bellezze che ti entrava dentro e non
andava più
via.
Perfetta in tutti i suoi difetti. Gli occhi grandi dietro le lenti, le lentiggini sul naso e
la piccola ruga che
le si formava sulla fronte quando studiava. Le labbra rosa che si
mordeva
quando facevano l’amore, i riccioli rossi che si posavano sul
suo petto quando
giaceva stanca sopra di lui e le mani piccole che quasi si perdevano
dentro le
sue. Ma la temperatura corporea di Embry era sempre troppo calda e le
sue mani
tremavano ogni volta che discutevano. Lui iniziò ad avere
paura, paura di
allontanarsi da lei per le troppe bugie, così come era
già successo con la
madre, paura di non essere accettato. Paura di essere considerato un
mostro. Il
lupo, che gli aveva fatto scoprire il suo vero io, ora minacciava di
portargli
via tutto.
Non poteva rivelarle il
suo segreto, ma sapeva comunque che non sarebbe stata una stupida magia
a
decidere per lui. Il legame che lo univa a Vivian lo sentiva vero e
unico. Non
c’era stata nessuna forza scaturita all’improvviso
che tranciava tutti i legami
del passato, ma c’era stato un rapporto nato e cresciuto
lentamente, giorno per
giorno. Non era l’imprinting, era amore.
Jake, che nel frattempo
era divenuto il nuovo Alpha, lo liberò
dall’obbligo del segreto e lo incoraggiò
a raccontare a Vivian tutta la verità. In fondo era stato
proprio lui ad averne
parlato per primo ad un’estranea alla tribù.
Embry non si pentì mai
della decisione presa, non ci fu più paura nella sua vita da
quel giorno. Non
avrebbe mai dimenticato lo sguardo stupito ed incredulo di Vivian, le labbra che si posarono sulle
sue ed il fiume di
parole che lo
investì.
Tra tutte, le uniche che contarono furono:
“Ti sei fidato di me… non
mi importa del resto.”
Lui la strinse al suo
corpo e, per la prima volta, provò quella sensazione
sconosciuta, la sensazione
di trovarsi a casa. Non importava il come e il dove,
quell’abbraccio, capì,
l’avrebbe sempre fatto tornare a casa.
Quando, qualche anno dopo,
andò a convivere con lei ricevette un ulteriore regalo, del
tutto inaspettato.
Gli scatoloni del trasloco
ingombravano interamente il pavimento, i piatti erano stati sistemati
nella
credenza e i vestiti negli armadi.
Quil, Jake e Bella se
n’erano appena andati, lasciandoli per la prima volta da soli
nella loro nuova
casa.
Vivian allora si alzò,
recuperò un biglietto dalla sua borsa allungandoglielo e
sorridendogli
nervosamente e lui lo aprì incerto, inarcando un
sopracciglio.
“Un biglietto per la festa
del papà?” chiese.
“Sì. Sai, è oggi…”
“ Lo so, ma cerco sempre
di non pensarci.”
“Appunto, un ricordo
felice dovrebbe risistemare le cose.”
Una piccola fotografia in
bianco e nero cadde dalla busta fra le sue mani ed il dubbio
sparì dal suo
volto.
“Sei… tu sei… “
“Incinta, sì. Lo so, non
era previsto, ci siamo appena trasferiti, il matrimonio è
fra un mese…” rispose
Vivian, ma il suono della risata roca di Embry le impedì di
continuare la frase
mentre la sollevava in aria, ancora ridendo, per poi ricadere insieme
sul
divano.
“Chiamalo ricordo felice.”
Dormiva ancora, quando
quella mattina lui si era alzato. Erano mesi che non si concedeva otto
ore di
sonno filato e non aveva avuto cuore di svegliarla. Le aveva posato un
lieve
bacio sulla testa e silenziosamente si era vestito, con
l’intento di andare in
ufficio, prendere la pratica che aveva scordato sulla scrivania,
girarla via e-mail
al collega e tornare a casa. Il tutto in meno di un ora.
Un piano perfetto, se non
fosse che, come al solito, si era fatto risucchiare dalla storia
dell’ennesimo
ragazzino sfortunato. Ben, in particolar modo, gli ricordava
così tanto se stesso
che non avrebbe trovato pace fino a quando
non
avesse persuaso il giudice a non togliere
l’affidamento alla madre che, per mantenerlo, lavorava quasi
diciotto ore al
giorno. Proprio come aveva sempre fatto
Tiffany.
Varcando la soglia di casa
era comunque certo che Vivian lo avrebbe ucciso. Odiava quando arrivava in ritardo al
pranzo della domenica.
Non che avesse potuto davvero causargli danni fisici, in fondo era
ancora un
grosso lupo mannaro, ma c’erano molto modi in cui la sua non-
tanto- dolce- da-
incazzata- metà poteva decidere di dargli la morte.
Uno: lo avrebbe guardando
con i suoi magnifici occhi verdi colmi di delusione.
Due: l’avrebbe costretto a
lavare i piatti per un mese.
Tre: lo avrebbe mandato a
dormire sul divano.
Quattro: No, al punto
quattro era decisamente meglio che non ci pensasse.
Si fece coraggio e,
mettendo su una faccia da bronzo che avrebbe reso Jake orgoglioso di
lui,
sorrise alla moglie che gli veniva incontro nel piccolo ingresso.
“Tutto bene? Sei stato a
La Push? Qualche emergenza?”
“No, ero in ufficio. Scusa
dovevo avvertirti.”
“Già, avresti dovuto e non
pensare che non me la pagherai, dopo. Adesso il pranzo è in
tavola.”
Entrò in cucina. Hope era
già seduta, intenta a mordicchiare un piccolo lupo di gomma.
Vivian aveva
decisamente uno strano senso del umorismo, pensò Embry non
appena la vide.
Un palloncino verde, era
appeso al bracciolo del suo seggiolone, svolazzava mosso dal vento che
soffiava
dalla finestra lasciata aperta, con la scritta: “auguri
papà.”
Embry sorrise alla moglie
abbracciandola per poi avvicinarsi alla bambina. Le posò un
bacio sulla testa e
la piccola batté le mani paffute, abbandonando il gioco e
producendo un suono
strano, che per
lui – non importava quanto Paul
potesse prenderlo per il culo - era innegabile volesse dire
papà.
La guardò, senza
capacitarsi davvero che fossero già passati sei mesi da
quando, per la prima
volta, l’aveva tenuta tra le braccia.
Molto presto, lo sapeva,
come già Jacob, Paul e Sam prima di lui, avrebbe smesso di
trasformarsi e
sarebbe riuscito a passare molto più tempo insieme a lei.
Tutti i componenti
del branco, infatti, avevano deciso di smettere gradualmente al
raggiungimento
del loro venticinquesimo anno, cioè quando
l’età anagrafica avrebbe raggiunto
quella fisica. Mancavano due mesi al suo compleanno.
Della vecchia guardia sarebbe rimasto solo
Quil, che era sempre in attesa che Claire diventasse grande.In ogni
caso, La
Push non aveva avuto più bisogno di un intero branco dopo
che i Cullen avevano
lasciato Forks. Con un po’ di fortuna nessun vampiro sarebbe
tornato ad
infestare le loro terre e finalmente loro avrebbero potuto invecchiare
e vivere
una vita da normali esseri umani.
Avvicinò la sedia a Hope e
afferrò il piatto che Vivian gli porgeva. Ne
riempì un cucchiaio, soffiandoci
sopra e, imitando il volo di un aeroplano, lo portò alla
bocca della bambina.
Hope trattenne il boccone mentre Embry si girò orgoglioso
verso la moglie,
felice di come solo lui riuscisse a fare mangiare la pappa alla
piccola, e un
proiettile tiepido lo colpì dritto al viso. Embry
guardò sconcertato la bambina
che rideva, afferrando una ciocca dei suoi capelli e stringendola nel
pugno.
Vivian, dall’altro lato della tavola, lo osservava con un
espressione
canzonatoria in volto, cercando senza successo di non scoppiare a
ridere come
la figlia.
E, in quel preciso
istante, con il viso ricoperto di uno strato di poltiglia verde e le
risate
delle persone che amava di più al mondo in sottofondo, Embry
riuscì finalmente
a rispondere a quella domande che da sempre era rimasta sospesa nella
sua
mente. “ Chi era lui?”
Un padre. Anche se non ne
aveva mai avuto uno, lui era indiscutibilmente ed innegabilmente un
padre.
Questa storia è stata
scritta per il contest di Luna
Ginny Jackson
: Personaggi
secondari contest - Perchè non ci sono solo Edward e Bella.
Era
da un po’ che avevo in
mente di scrivere qualcosa su Embry
finalmente ne ho trovato
l’occasione.
Se
avete già letto
qualcosa di mio sapete che sono una Team Jacob accanita e che per me
non può
esistere nessuna riserva di La Push senza che Jacob Black ne faccia
parte, e di
conseguenza nel mio mondo ed, in tutti i mondi di cui io scrivo, Jacob
ha avuto
il suo lieto fine con Bella.
Un
ringraziamento speciale
a xxx_Strange_xxx e cenerella.
Davvero con tutto il cuore.
Andate
a leggere le loro
storie del contest:
Al
prossimo racconto.
Un
bacio
Noemi.