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Autore: Alucard Belmont    16/05/2012    2 recensioni
Quando il mio pugno si aprì, l’ultima manciata di terra cadde lentamente sul cumulo ai miei piedi, reso umido dalla pioggia scrosciante.
Non ci fu alcun rumore, nessun teatrale suono di fine atto.
Eppure era finito, tutto.
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Leini, 1486.
Anche il tempo era partecipe del mio dolore. O forse, era infuriato con me per ciò che non ero stato capace di evitare.
Quando il  mio pugno si aprì, l’ultima manciata di terra cadde lentamente sul cumulo ai miei piedi, reso umido dalla pioggia scrosciante.
Non ci fu alcun rumore, nessun teatrale suono di fine atto.
Eppure era finito, tutto.
Nel cimitero di quel paese senza nome, ogni pianta, ogni sassolino e persino l’erbaccia fra le lapidi sembrava sussurrare funebri lamenti, e preghiere che sarebbe restate inascoltate.
Fra le pozzanghere di acqua e fango, in quella piccola radura di morte, costellata dai marmorei ricordi di chi vi aveva lasciato i propri cari, c’ero anche io, Alucard, sconvolto  e stremato dai singhiozzi repressi e dalle ferite che bruciavano sul mio corpo insanguinato.
Lacrime disperate si mischirono alle fredde gocce che sferzavano il mio viso; un vuoto nel mio già vuoto petto prese il sopravvento in quelle ore di dolore, ore in cui il mio corpo ed ogni muscolo e nervo rimase immobile, incurante del freddo. Immobile davanti alla terra che copriva il suo corpo.
Le immagini affollarono la mia mente, le parole rimbombarono fredde e acute per poi scemare lentamente fino a scomparire. Ogni suono, ogni movimento, rivivevo tutto.

“Tu mi appartieni figlio mio, mi apparterrai sempre!”
Poi le bianche zanne erano scattate rapide, violente, precise...
A lacerare la tenera pelle del collo di lei, indifesa e impaurita. I miei occhi sbarrati. Le mie mani e le mie membra immobilizzate.
Mio padre, il Conte, la più infernale delle creature presenti in terra, era in piedi d’innanzi a me; dopo avermi dato la caccia per un intero secolo, a seguito della mia ribellione al male che egli incarnava, e dalla mia fuga dal castello sui Carpazi.
Teneva lei con un solo braccio… lei. Immobilizzata dall’influsso maligno che quelle creature esercitano sui mortali.
Ricordai perfettamente il suo viso, sempre sereno, macchiato dal terrore e segnato dal dolore, mentre il sangue fluiva fuori dalle sue vene, per scivolare caldo ed inebriante come un dolce vino, fra le zanne fameliche di quell’mostro che aveva da tempo abbandonato l’umanità.
Fermati! Mi avrai, mi avrai ma fermati per Dio!”
Le mie parole cariche di tensione si erano infrante nel nulla, poiché la fame demoniaca ed il perverso piacere non avevano avuto termine.
Non prima che la morte fosse giunta da lei per condurla via da me. Vidi il suo corpo scivolare nel fango, battuto dalla pioggia e martoriato dalla crudeltà dell’inferno. Il ghigno sazio di lui, che incurante la lasciava sprofondare nell’oblio.
In me qualcosa si spezzò in quel momento, e svanì per sempre.
“Vedi Alucard, credevi di poterti ribellare a me? Di poter cancellare la bestia infernale che si cela nel tuo sangue? Sei patetico. Debole. Credevi di poter essere come un umano, ma guarda dove ti ha portato la tua stupidità! La tua metà umana non può nulla contro il demone.”
Parole di scherno e sdegno pronunciate da quel demone che avrei dovuto chiamare padre, mentre due dei suoi sgherri mi tenevano immobilizzato e sanguinante.
“Non hai potuto salvare lei, come pensi di poter salvare altri? Abbraccia il male.”
Avevo chinato il capo. Avevo perso. Tutto.
Tutto era accaduto d’innanzi alla chiesa del paese, non lontano dalla capanna in avevo vissuto con lei; la pioggia ticchettava furente contro il povero e sporco rosone della casa di Dio, casa da cui nessuno era uscito. I servitori del Misericordioso, sempre pronti a trattarmi come un mostro, non avevano avuto il coraggio di uscire contro la belva. Pregando con un tono di voce più alto, avevano cercato di coprire le nostre urla disperate e di preservare pulita la loro già macchiata coscienza.
Il grigio plumbeo del cielo, il colore bagnato della paglia che ricopriva i nostri tetti, l’innaturale bruma che scivolava dalla brughiera verso le umili capanne; tutto dipingeva quel luogo di morte e lo imprimeva a fuoco nella mia mente.
Gli sgherri mi avevano lasciato e neppure me ne ero reso conto inizialmente. Quando riacquistai capacità cognitive però corsi, arrancai e vacillai verso il suo corpo steso nel fango. Pregai, tentai. Fu inutile.
“Perché?! Perché lei!?”
Avevo gridato con la forza della disperazione, dell’odio: nulla restava nel mio cuore immobile mentre il mio viso premeva contro il suo petto silenzioso e svuotato . Il suono del suo cuore, che ogni notte ascoltavo mentre facevamo l’amore, si era dissolto. Il calore del suo corpo che tanto a lungo avevo stretto fra le mie braccia e avevo assaporato, era scomparso fra le ombre dei defunti.  Cercai traccia della vita che le era stata sottratta, del calore che la animava. Nulla restava se non la morte. La sua mano stretta nella mia, i suoi capelli bagnati a inumidire il mio volto. Il sangue della ferita a macchiare i miei abiti.
Ecco cosa restava.
“Perché solo il suo amore ti rendeva umano, è semplice. Per te significava ogni cosa, ogni suo respiro per te era speranza, era vita. Era ciò che manteneva viva la parte umana, e assopita quella vampira, Alucard. E’ bastato toglierti quello. Vedrai come il male ti abbraccerà e tu lo seguirai. Verrai da me, stanne certo.”
Quelle sue parole prive di ogni sentimento avevano però scatenato la parte più demoniaca e furente del mio sangue dannato. Era quello che voleva, e lo avevo accontentato. In pochi istanti, tutto ciò che lei era riuscita a tenere segregato nei meandri più infernali del mio animo, si era risvegliato e gridava la sua brama di sangue.
Il paletto stretto con sicurezza fra le mani, l’impeto nel balzare contro di lui… e la disfatta. Fu tutto inutile.
Il mio corpo, seppure rianimato da furia demoniaca, si muoveva troppo lentamente per poter ferire la creatura che mi si parava davanti. Il paletto che più volte aveva cercato il suo petto,  scivolò lontano da me, e le sue unghie lacerarono il mio viso tumefatto.
Non aveva avuto difficoltà a respingermi, e guardandomi con disgusto ad allontanarsi impedendomi la tanto agognata vendetta. Scomparve con la bruma e per più di un secolo della mia vita dannata non lo avrei più rivisto.
Non mi era rimasto nulla, privato della donna che avevo amato e che mi aveva reso vivo, umano.
Costretto a vederla morire, a guardare i suoi occhi supplicanti e speranzosi in un mio intervento.
Intervento che non era giunto.
Io l’avevo lasciata morire.
Privato della mia anima dal dolore e dal desiderio di vendetta, cosa mi restava?
Questo pensiero straziava il mio animo.
 
Un tuono mi risvegliò dal mio doloroso torpore; non sapevo quanto tempo fosse trascorso.
Aprii una mano col palmo rivolto al cielo, per sentire qualcosa, il freddo, l’umida sensazione della pioggia. Ma non sentivo nulla se non vuoto.
A tormentarmi, la consapevolezza che le ero stato accanto fino all’ultimo, ma ogni mia promessa di proteggerla si era rivelata una menzogna. Ero stato tanto vicino da poterla salvare, ma tanto debole da non riuscirci.
“Perdonami, amore mio.”
Avevo così tante cose da dire, avevamo così tante cose da vivere.
Il vento sferzò con più impeto il mio viso, insensibile a ogni cosa.
Lasciai cadere un giglio bianco sulla tomba;  il suo fiore preferito.
Mi voltai, con la morte nel cuore e l’inferno nell’anima, e mossi il primo passo. Il primo passo verso il mio destino.
Non avevo potuto proteggere lei,  l’unica vivente che mi avesse mai considerato umano e non disprezzato per ciò che la mia genia mi aveva imposto. Un Dampiro, erede di un mostro, rinnegato e cacciato dall’umanità per il mio sangue in parte dannato. Era questo il mio modo di chiedere perdono alla donna che avevo amato, tentare di impedire che altri subissero il suo stesso fato.
“Aspettami, padre. Verrò da te, come tu hai predetto, e pagherai. Dracula, pagherai! lo giuro su questa tomba.
Mentre un pallido sole sorgeva ad est, illuminando le statue degli angeli poste all’entrata, la percepii.
L’ultima folata di vento mentre varcavo il cancello del cimitero, fu delicata, come una carezza sul mio viso.
La sua ultima carezza, l’ultimo tocco della sua mano.
  
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