Titolo: A kiss with a fist is better than none.
Summary: In cui si parla di liti domestiche, tossicodipendenza e l'inizio di un amore che era stato solo platonico.
Words: 3456
Rating: PG
Disclaimers: I own nothing.
Notes: Partecipa al secondo round dello Sherlothon dello SFI, col prompt #4 - "Far funzionare il cervello senza materiale sufficiente è come imballare un motore. Va in pezzi." del Team Canon.
A
kiss with a fist is better than none.
Era
stato uno dei litigi più
violenti che avessimo mai avuto. Dopo la risoluzione di un caso
piuttosto
complesso di cui non mi aveva parlato ma che, durante le sue
riflessioni
corredate di borbottii ed esclamazioni di gioia o di avvilimento, ero
riuscito ad
identificare come un intricato omicidio riguardante due fratelli e il
coinvolgimento di una scala a pioli verde come elemento cruciale per la
comprensione delle dinamiche del delitto, Sherlock era ricaduto nello
stato di
tediosa inattività che tanto danneggiava la sua
sanità mentale.
Seguì la prassi che ormai
conoscevo a menadito e che era più che altro una sorta di
rituale per riuscire
ad impegnare il cervello e a calmare i suoi nervi tesi.
Fase uno. “La
sindrome della
casalinga selettiva.” Il disordine di Sherlock nei
periodi in cui la
malavita dava le sue più brillanti prove di
prolificità era pari solamente alla
meticolosa dedizione con cui riordinava i suoi oggetti – e,
badate bene,
solamente i suoi – durante i momenti di noia.
Cominciò dal violino, che lucidò
con cura ed accordò di nuovo. Controllò che corda
dell’archetto fosse tesa al
punto giusto e sospirò, compiaciuto della sua
scrupolosità.
Era affascinante osservarlo
mentre accarezzava le curve e gli spigoli dell’amato
strumento, studiarlo
mentre a sua volta studiava le venature del legno di abete rosso,
cogliere la
sua espressione sognante e soddisfatta nel pizzicare con i polpastrelli
le
corde di budello e seta rivestite in metallo, godere della beatitudine
nei suoi
profondi occhi azzurri che parevano sorridere insieme alle labbra
carnose di
fronte al suono zuccheroso delle note.
Lo sentii accennare qualche
virtuosismo prima di posare, appagato, l’oggetto di tanta
attenzione in un
incavo del muro sotto la finestra, lontano da qualsiasi fonte di calore
che
avrebbe potuto far gonfiare – e quindi rovinare
irrimediabilmente – il pregiato
legno alpino.
Poi passò all’apparecchiatura
scientifica, che smacchiò da ogni traccia di sangue e di
altri liquidi e
sostanze di cui non aspiro a sapere il nome. Ripose nelle scaffalature
i
barattoli dei catalizzatori chimici, con l’etichetta bene in
vista,
classificati in ordine alfabetico. La vetreria e le pipette
millimetrate erano
ben lavate e sistemate in una mensola specifica. Il microscopio stava
su un
angolo del tavolo in modo da lasciare spazio a due posti per mangiare
e,
accanto al bollitore, impilò una serie di libri di chimica
che avevano tutta
l’aria di essere particolarmente antichi.
Le bottiglie contenenti acidi,
solventi e concentrati di materiali altamente reagenti furono
posizionate con
grande cura sul mobile a fianco al frigorifero, conferendo a tutta la
cucina
l’aspetto di una sorta di magazzino ordinato ma, al contempo,
inevitabilmente
caotico: era l’abitazione di due coinquilini di sesso
maschile costretti a
stare spesso fuori casa e le cui vite mancavano della pulizia e delle
direttive
pratiche di una donna.
Sherlock mise le mani affusolate
tra i ricci corvini e si sistemò la giacca. Ad un cenno del
capo, intuii che la
sua missione non era ancora terminata. Infatti, con passo deciso e
pugni serrati,
si diresse come un uragano nella sua camera da letto dove
rovesciò a terra il
contenuto di tutti i cassetti, con particolare attenzione per quello
dei
calzini che rassettò con maggiore cura rispetto agli altri.
L’incombenza lo occupò per una
buona mezz’ora, dopo la quale tornò in cucina per
lavare alla bell’e meglio e
mettere via solamente i suoi
piatti,
le sue posate, e le sue
tazze per il caffè, alzando talvolta
lo sguardo per lanciare occhiate di disapprovazione alla mia
sedentarietà, alla
poltrona su cui riposavo, al giornale che stavo leggendo e al sorriso
di
scherno lievemente sprezzante che avevo dipinto in volto e che gli avevo
gentilmente dedicato. Riuscivo a intuire in quelle iridi cerulee la
tacita
richiesta di andarlo ad aiutare o, quanto meno, di rendermi utile in un
qualsiasi modo, ma con una scrollata di spalle posai di nuovo lo
sguardo sullo
scandalo politico del giorno, mettendo così fine ad ogni
nostra forma di
comunicazione alternativa.
Fase due. “Commentatore
delle
dinamiche dell’intrattenimento trash”. Si
sedette sulla poltrona, nella sua
solita posizione con le gambe piegate contro il petto. Frugò
nello spazio fra
il cuscino e il bracciolo fino a trovare il telecomando, con cui accese
la TV
ad un volume talmente alto che avrei detto fosse stato impostato in
quel modo
solo per potermi infastidire. Misi via il giornale, rassegnato, e volsi
lo
sguardo verso il mio coinquilino – in questi momenti non
riuscivo proprio a
chiamarlo amico – che continuava a fare zapping senza sosta,
commentando questo
o quel programma. Nel momento in cui incappò nelle repliche
de L’ispettore Colombo fui
costretto a
spegnere l’apparecchio per placare l’irritante
flusso di critiche che Sherlock
continuava a fare sui metodi deduttivi del malcapitato investigatore.
Misi le
mani sui fianchi e lo fissai con occhi severi.
« John, mi porteresti una tazza
di caffè? » chiese con un tono di sufficienza che
mi fece venire
istantaneamente voglia di prenderlo a calci.
« Una sostanza eccitante? –
risposi inarcando un sopracciglio – Così che tu
possa continuare in questo modo
per tutta la notte? No. Ti faccio una camomilla. Mi sembra una
soluzione
decisamente migliore» conclusi.
Accesi il bollitore e preparai
l’infuso mentre Sherlock, da parte sua, si rimetteva a
guardare la TV e
ricominciava a cambiare canale freneticamente, senza smettere un attimo
di
borbottare il suo parere.
Quando gliela portai, sorseggiò
la camomilla lentamente, tenendo la tazza fumante con entrambe le mani.
Restò
così per un po’, raggomitolato sulla poltrona come
un drago trincerato in una
fortezza, a bere la sua tisana, le mani giunte sulla tazza e una
concentrazione
quasi innaturale per le immagini che si succedevano sullo schermo.
Risolse uno o due casi di un
programma che si occupava di persone misteriosamente scomparse, dopo di
che
saltò giù dalla sua postazione e, come se stesse
annunciando l’arrivo della
Regina Elisabetta, mi comunicò che si era fatto tardi, che
era stanco e che
sarebbe andato a dormire. E devo ammettere che la cosa mi
sollevò non poco, in
quanto mi illusi che fosse stata concessa anche a me qualche ora di
riposo. Ma
credo sia ovvio a questo punto dire che mi stavo sbagliando di grosso.
Infatti
Sherlock, nonostante la sua presunta stanchezza, non riusciva a
prendere sonno
e continuava a vagare dalla sua stanza alla cucina, facendo ogni volta
un
baccano assordante. Più e più volte durante la
nottata mi interrogai
sull’esistenza di leggi che mi avrebbero tutelato nel caso
fossi stato indotto
a compiere l’omicidio del mio compagno di appartamento e,
calcolate le varie
attenuanti e i cavilli che si possono trovare, mi chiedo ancora oggi
per quale
motivo non abbia agito secondo i suggerimenti dell’istinto.
Ad ogni modo, dopo
un paio d’ore di totale agonia, Sherlock riuscì a
trovare pace e a chiudere
finalmente gli occhi. Cosa che io non feci, poiché
continuava a urlare nel
sonno e a pronunciare frasi totalmente sconnesse che riuscivo a
percepire anche
dal piano superiore. Ma questo era nulla in confronto a quello che
sarebbe
successo circa alle quattro del mattino, ovvero all’inizio
della terza fase.
Fase tre. “I
mondiali di tiro
al piattello”. Non mentirei se dicessi che Sherlock
aveva una mira ben
superiore alla mia che comunque, ricordo, gli ha permesso di
sopravvivere ad un
tassista e al suo perverso gioco di scacchi. Come dicevo, erano le
quattro del
mattino e quarantotto colpi di pistola in rapida successione
fracassarono il
silenzio del palazzo. Scesi le scale di volata e lo trovai disteso sul
divano,
avvolto nella sua solita vestaglia blu a righe sottili.
L’arma puntava ancora
verso il bersaglio e io seguii la traiettoria con lo sguardo:
quarantotto fori
ancora fumanti nel muro. Rabbrividii, non per l’abitudine
discutibile del mio
coinquilino di cimentarsi in performance da tiratore scelto nel cuore
della
notte, ma piuttosto per la scritta che i proiettili avevano vergato
nella carta
da parati. JIM. Il nome di Moriarty in stampatello, nella
semplicità di un
epiteto vezzeggiativo. Jim, il piccolo Jim. Il bambino che era stato.
Solo
Sherlock lo chiamava Jim. Io, per una sorta di timore reverenziale
misto a
dispezzo, lo chiamavo per cognome o, al massimo, James. Intanto, mrs
Hudson era
sopraggiunta, trafelata. Aveva lanciato un urlo agghiacciante, come se
le
circostanze non fossero state già abbastanza inquietanti, ma
fu solo quando
cadde svenuta tra le mie braccia che Sherlock si scosse dalla trance in
cui
pareva piombato. I suoi occhi, nella penombra, tradivano uno sconcerto
che non
gli apparteneva. C’era qualcosa che non andava ed era
più che pura e semplice
noia.
« …John » mormorò Sherlock
con
voce roca.
« Cosa c’è?! Che cosa vuoi
adesso? Hai fatto svenire la signora Hudson! » gli berciai
contro in un sentimento
di preoccupazione, insofferenza e rabbia cieca, incurante di sentire le
sue
ragioni o peggio, i miserabili tentativi di scuse di fronte alla furia
incondizionata che pervadeva ormai ogni tratto del mio volto.
Rimanemmo per minuti interi in
silenzio a fissarci. Minuti durante i quali mi resi conto che con tutte
le
probabilità non avrei ricevuto risposta, quindi mi diedi da
fare: prima di
tutto feci sedere la padrona di casa sulla poltrona, le presi il polso
e,
colpendola con dei leggeri schiaffetti sulle guance appassite e
scavate, cercai
di farla rinvenire. Metodi decisamente poco ortodossi per un medico, ma
tanta era
l’agitazione di quel momento, che non badai troppo alle
formalità.
Quando la donna si fu risvegliata
accorsi a porgerle un bicchiere d’acqua in cui avevo fatto
scivolare alla
chetichella qualche goccia di calmante naturale, temendo che un
qualsiasi
composto chimico avrebbe potuto fare reazione con gli antidolorifici
che la
sciagurata signora assumeva per lenire le fitte di dolore che di tanto
in tanto
le partivano dall’anca.
« Tenga – le dissi con un sorriso
rassicurante – e ora vada nel suo appartamento.
Penserò io a Sherlock. » E con
queste parole le porsi il braccio per aiutarla a rialzarsi. Quando si
fu
stabilizzata, mollai la presa.
La vidi camminare incerta fino
all’uscio, su cui si fermò per voltarsi e
lanciarmi un’occhiata d’intesa. E
riuscivo a comprendere fin troppo bene il concetto espresso: gli
eccentrici
comportamenti del detective stavano diventando eccessivamente strani
anche per
lui. Si richiedeva un intervento tempestivo.
Mi lasciai cadere a terra,
accanto a lui, che intanto si era voltato con il busto verso lo
schienale del
sofà e respirava in modo decisamente anomalo. Riuscivo a
sentire il cuore che
batteva violento, quasi impazzito, contro la cassa toracica che vibrava
come un
diapason.
« …John, le sigarette. » fu la
richiesta epigrafica di Sherlock.
« Mi hai chiesto tu stesso di
oppormi ad ogni tua richiesta del genere, Sherlock. »
« So benissimo cosa ti ho
chiesto! – gridò a denti stretti, girandosi per
guardarmi in cagnesco – E ora
ti chiedo di darmi le sigarette, per l’amor di Dio!
»
« Sherlock, non… » ribattei
incerto.
« Dammi. Le. Sigarette. ORA! »
Dubbioso sul da farsi, tentennai
un poco. Poi, però, fu lampante che avrei dovuto
assecondarlo. Un pacchetto di
sigarette, uno solo. Che male gli avrebbe fatto?
Dopo aver fumato ad un ritmo che
avrei giudicato insostenibile per chiunque, sembrò
finalmente trovare la calma
che fino a quel momento avevo bramato per lui. Sprofondò in
un sonno placido e
senza sogni, ma l’inquietudine si era ormai impadronita di me
e non riuscii a
fare altrettanto. Il respiro,
così come
il battito cardiaco, si era normalizzato, ma ero ancora troppo ansioso
per
smettere di preoccuparmi della sua salute. Decisi quindi di vegliare su
di lui
e sul suo sonno che sembrava un evento miracoloso e mi ritrovai, mio
malgrado,
seduto accanto a lui ad affondare le dita tra i suoi capelli, con un
sorriso
mesto che era tanto somigliante a quello di un padre di fronte ad un
figlio
malato o a quello di… oh, beh. Non importa.
Mentre già Londra si tingeva del
rosa dell’aurora, il mio amico diede i primi segni della fine
della sua, ahimè,
breve dormita. Ritirai la mano dai morbidi ricci, dolorante a causa
delle tante
carezze che mi ero imposto di fare a quella testolina incomprensibile e
pazza.
Era inquieto, di nuovo e forse
peggio di prima. Scattò in piedi come una molla e
barcollò per qualche istante,
come succede sempre a chi si alza con troppa foga dopo aver passato del
tempo
disteso.
Lo vidi correre verso la sua
stanza a testa bassa ma l’apprensione si manifestò
solo quando udii il suono
della chiave che girava nella toppa: Sherlock non si barricava mai
nella sua
camera da letto in questo modo.
Cominciai a bussare sulla porta
ma, più non udivo risposta, più le mie
preoccupazioni crescevano e si tingevano
dell’orribile agonia dell’ignoto. Mi ritrovai ad
immaginare cosa potesse fare
lì dentro un uomo che solo un paio di ore prima aveva
impallinato il muro per
vederci scritto il nome del suo acerrimo nemico e l’angoscia
si trasformava in
disperazione mentre i battiti sul legno diventavano pugni. Fu quando
sentii
quel gemito trattenuto, ma cristallino come un filo che si tende e
vibra, che
dentro di me un impulso naturale completamente nuovo sembrò
farmi bollire il
sangue nelle ossa. Accadde tutto in una specie di flash: la spallata,
la porta
che cadeva a terra con un tonfo assordante, l’ago che usciva
fuori dalla pelle
diafana del suo avambraccio, quella sua espressione da bambino colto
sul luogo
del misfatto. Poi, il bianco.
Non so dire esattamente quanto
fosse durata quella strana sensazione di cecità in cui ero
piombato, ma quando gli
occhi si ripresero potei constatare che il mio corpo aveva agito come
un ente
del tutto separato e indipendente dall’apparato visivo. Mi
ritrovavo a cavalcioni
sopra la pancia di Sherlock, immobilizzato dal mio peso, e le mani
erano ferme
sul suo collo, strette tanto da fargli male, tanto da soffocarlo,
mentre la sua
pelle diventava cianotica e il respiro si faceva sempre più
affaticato.
Riuscivo a sentire le metamorfosi di un corpo drogato, sotto le dita
che
spingevano contro la trachea e tentavano di ostruire la vena giugulare
esterna.
Con lo sguardo iniettato di
sangue sibilai: « Che cazzo era? Era cocaina, vero?
– e così dicendo impressi
un po’ più di forza nelle mani, con un rantolo che
gli fuoriuscì flebile dalle
labbra – Era cocaina. Sono un medico, non pensare di
fregarmi. So riconoscere
una pupilla dilatata quando la vedo. Cosa pensi che si sparassero i
soldati lì
in Afghanistan prima di un attacco ai civili, eh? Te lo dico io: di
sicuro non
l’eroina. »
E poi di nuovo la vista si
annebbiò. Bianco. La mano destra aveva smesso di far
pressione e si era
staccata, mentre la sinistra rimaneva salda sulla sua posizione. Un
rumore
sordo mi fece capire che gli avevo colpito il naso con una potenza
inaudita: con
tutte le probabilità era rotto. Poi un altro colpo, il
labbro che si spacca.
Cominciai a sentire il suo sangue sporcarmi ad ogni nuovo pugno che
andava a
segno. Poi però, nel bianco, la sensazione di qualcosa che
sfugge. Sherlock era
riuscito a svincolarsi e, avendo capito che stavo combattendo alla
cieca,
sfruttò il mio disorientamento a suo favore.
Ora ero io, non vedente ed inerme,
sotto di lui, che avrei immaginato più leggero a giudicare
dalla sua
costituzione esile e longilinea, ma che faceva sentire tutta la propria
stazza
sul mio stomaco. Provai a dire qualcosa, ma un poderoso schiaffo mise
fine ad
ogni tentativo di comunicazione. Però, perlomeno, riuscivo
di nuovo a vedere
lui che, col naso e le labbra sanguinanti, mi sovrastava sorridente.
Gli
ematomi cominciavano a diventare gialli, di lì a poco
sarebbero stati rossi e
poi avrebbero assunto il caratteristico colore violaceo. Trovai macabro
e
divertente quello che ero riuscito a fare, pensando alle parole che
Irene Adler
aveva rivolto al detective solo un paio di mesi prima, insinuando che
tra noi
ci fosse un coinvolgimento sentimentale. «
Qualcuno ti ama. Se avessi dovuto picchiarti, anche io avrei evitato il
naso e
i denti. » Una risata gutturale mi
sgorgò dalla gola come un fiume che
straripa dagli argini. In quella rissa erano concentrate tutte quelle
volte che
io e Sherlock ci eravamo odiati, quelle volte in cui avremmo voluto
insultarci,
mandarci al diavolo, rompere qualcosa per la frustrazione.
Ma la battaglia non era finita. Altri
schiaffi, più forti. Il segno della mano affusolata e magra
bruciava
terribilmente sulle guance. E poi ancora io che mi dimenavo, mi
liberavo, ero
di nuovo sopra di lui. E schiaffi, pugni, parolacce, sguardi pieni
d’odio e
insieme di apprensione.
« Quanta te ne sei fatta,
stronzo? »
Tossendo, rispose: « Un solo
grammo. Soluzione al sette per cento. »
« Perché? – ringhiai –
Perché avresti
dovuto? »
« Perché nonostante faccia male
al fisico, è quanto di più stimolante per il
cervello io possa assumere in un
momento di noia. »
Quella risposta, che doveva
essere per lui una sorta di modo per farmi ragionare, fu invece
l’impulso che
mi spinse a fargli ancora più male. Stimolante! Per lui la
droga era
stimolante! Ero allibito. Non credevo che una mente tanto geniale
cadesse così
facilmente nei giochetti della tossicodipendenza.
« Te lo do io qualcosa di
stimolante! » e giù altri schiaffi, altri pugni,
altro sangue che usciva dalle
ferite di entrambi e che si univa nelle piccole macchie disseminate sul
pavimento. L’ultima botta lo frastornò
visibilmente e feci l’errore di
vacillare per un secondo. La mia smorfia piena d’astio si
trasformò in un volto
preoccupato quando cominciai a passare le dita sugli zigomi ormai
tumefatti del
mio amico. Dovevo avergli fatto davvero male, ma nulla gli toglieva
quel
sorriso di sfida dalle labbra, sorriso che si acuì nel
momento in cui le mani,
bloccate dalla morsa delle mie gambe, riuscirono a scivolare fuori e a
spingermi via.
Caddi all’indietro e sbattei la
testa. Lui mi fu sopra in un secondo, la faccia di una belva famelica
pronta a
sbranare la bramata preda. Aspettai ad occhi chiusi un dolore che non arrivava
ma, sorpreso, fui costretto a riaprirli per capire cosa avesse fermato
il mio
avversario. Era ancora lì, quel ributtante spettacolo di
sudore, sangue e pupille
troppo larghe per delle iridi che ormai erano tanto sottili e chiare da
sembrare inesistenti.
« Lestrade aveva ragione, quindi –
dissi con una improvvisa calma – Sei un tossico. »
« Oh, John. Quanto sei idiota e
limitato, come tutti, del resto! – rispose volgendo lo
sguardo in alto,
visibilmente seccato – Tossico è un termine che
usa la polizia per quelle
persone che sono marce di droga. Guardami, John. Sto bene. »
« Bene un cazzo! » fu la mia
laconica replica.
Chiusi di nuovo gli occhi, in
attesa del colpo che mi avrebbe fatto molto più male dei
precedenti. Sherlock
si piegò si di me, fino ad arrivare a pochi centimetri dal
mio orecchio destro.
« Sto bene » disse di nuovo, con
l’alito che mi solleticava la pelle.
Poi fu un movimento repentino,
qualcosa che non fui in grado di calcolare, le sue labbra premettero
sulle mie
e la lingua si fece spazio tra i denti sigillati. Assaggiai il sangue,
l’aroma
di tabacco che ancora gli impregnava la bocca, lo sentii
così mio, così
seducente mentre le sue mani si rincorrevano sul mio cuoio capelluto,
così… Dio,
mi resi conto che mi sentivo allo stesso tempo violato, privato del mio
spazio
vitale, nudo, disarmato.
Lo spinsi via e mi misi in piedi,
tremante. « Sh... Sherlock… » balbettai
in cerca di risposte, ma lui era forse
più perso di me e mi fissò, attonito. Non riuscii
a decifrare quello che stava
cercando di dirmi. Era deluso dal fatto che mi fossi staccato? Era
dispiaciuto
per ciò che aveva fatto? Si sentiva stupido, felice,
rammaricato, soddisfatto?
Come avrei potuto saperlo? Sapevo solo che uscito da quella stanza, di
tutta
quella situazione sarebbe rimasta solo qualche crosticina e forse un
paio di
cicatrici e, nonostante sensazioni contrastanti scuotessero ogni parte
del mio
animo, mi trovai a correre fuori attraverso la porta sfondata e a
rifugiarmi in
bagno, chiudendo a chiave.
Con tocco tremante, aprii l’acqua
del rubinetto e provai a ragionare, ma era del tutto inutile. Il
battito
cardiaco era ancora accelerato e c’erano ferite su tutto il
volto e sulle mani
che avevano bisogno di attenzione, ma non ci badai. Mi sciacquai la
faccia e mi
asciugai lasciando una serie di chiazze rossastre sul tessuto
dell’asciugamano.
Mi misi dritto in piedi di fronte
allo specchio e le dita andarono a sfiorare la bocca, come a voler
riprodurre
il contatto con la sua pelle calda. Chiusi gli occhi e mi resi conto che la
cosa mi
disgustava ed elettrizzava nello stesso momento, ma fu solo quando
sentii
bussare alla porta del bagno, che seppi che ormai non c’era
più via d’uscita:
era stato il nostro primo bacio e già ne avrei voluti altri
cento.