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Autore: logosandpathos    16/05/2012    5 recensioni
Era stato uno dei litigi più violenti che avessimo mai avuto. Dopo la risoluzione di un caso piuttosto complesso di cui non mi aveva parlato ma che, durante le sue riflessioni corredate di borbottii ed esclamazioni di gioia o di avvilimento, ero riuscito ad identificare come un intricato omicidio riguardante due fratelli e il coinvolgimento di una scala a pioli verde come elemento cruciale per la comprensione delle dinamiche del delitto, Sherlock era ricaduto nello stato di tediosa inattività che tanto danneggiava la sua sanità mentale.
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes , Sig.ra Hudson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: A kiss with a fist is better than none.
Summary: In cui si parla di liti domestiche, tossicodipendenza e l'inizio di un amore che era stato solo platonico.
Words: 3456
Rating: PG
Disclaimers: I own nothing.
Notes: Partecipa al secondo round dello Sherlothon dello SFI, col prompt #4 - "Far funzionare il cervello senza materiale sufficiente è come imballare un motore. Va in pezzi." del Team Canon.

A kiss with a fist is better than none.

Era stato uno dei litigi più violenti che avessimo mai avuto. Dopo la risoluzione di un caso piuttosto complesso di cui non mi aveva parlato ma che, durante le sue riflessioni corredate di borbottii ed esclamazioni di gioia o di avvilimento, ero riuscito ad identificare come un intricato omicidio riguardante due fratelli e il coinvolgimento di una scala a pioli verde come elemento cruciale per la comprensione delle dinamiche del delitto, Sherlock era ricaduto nello stato di tediosa inattività che tanto danneggiava la sua sanità mentale.
Seguì la prassi che ormai conoscevo a menadito e che era più che altro una sorta di rituale per riuscire ad impegnare il cervello e a calmare i suoi nervi tesi.
Fase uno. “La sindrome della casalinga selettiva.” Il disordine di Sherlock nei periodi in cui la malavita dava le sue più brillanti prove di prolificità era pari solamente alla meticolosa dedizione con cui riordinava i suoi oggetti – e, badate bene, solamente i suoi – durante i momenti di noia.
Cominciò dal violino, che lucidò con cura ed accordò di nuovo. Controllò che corda dell’archetto fosse tesa al punto giusto e sospirò, compiaciuto della sua scrupolosità.
Era affascinante osservarlo mentre accarezzava le curve e gli spigoli dell’amato strumento, studiarlo mentre a sua volta studiava le venature del legno di abete rosso, cogliere la sua espressione sognante e soddisfatta nel pizzicare con i polpastrelli le corde di budello e seta rivestite in metallo, godere della beatitudine nei suoi profondi occhi azzurri che parevano sorridere insieme alle labbra carnose di fronte al suono zuccheroso delle note.
Lo sentii accennare qualche virtuosismo prima di posare, appagato, l’oggetto di tanta attenzione in un incavo del muro sotto la finestra, lontano da qualsiasi fonte di calore che avrebbe potuto far gonfiare – e quindi rovinare irrimediabilmente – il pregiato legno alpino.
Poi passò all’apparecchiatura scientifica, che smacchiò da ogni traccia di sangue e di altri liquidi e sostanze di cui non aspiro a sapere il nome. Ripose nelle scaffalature i barattoli dei catalizzatori chimici, con l’etichetta bene in vista, classificati in ordine alfabetico. La vetreria e le pipette millimetrate erano ben lavate e sistemate in una mensola specifica. Il microscopio stava su un angolo del tavolo in modo da lasciare spazio a due posti per mangiare e, accanto al bollitore, impilò una serie di libri di chimica che avevano tutta l’aria di essere particolarmente antichi.
Le bottiglie contenenti acidi, solventi e concentrati di materiali altamente reagenti furono posizionate con grande cura sul mobile a fianco al frigorifero, conferendo a tutta la cucina l’aspetto di una sorta di magazzino ordinato ma, al contempo, inevitabilmente caotico: era l’abitazione di due coinquilini di sesso maschile costretti a stare spesso fuori casa e le cui vite mancavano della pulizia e delle direttive pratiche di una donna.
Sherlock mise le mani affusolate tra i ricci corvini e si sistemò la giacca. Ad un cenno del capo, intuii che la sua missione non era ancora terminata. Infatti, con passo deciso e pugni serrati, si diresse come un uragano nella sua camera da letto dove rovesciò a terra il contenuto di tutti i cassetti, con particolare attenzione per quello dei calzini che rassettò con maggiore cura rispetto agli altri.
L’incombenza lo occupò per una buona mezz’ora, dopo la quale tornò in cucina per lavare alla bell’e meglio e mettere via solamente i suoi piatti, le sue posate, e le sue tazze per il caffè, alzando talvolta lo sguardo per lanciare occhiate di disapprovazione alla mia sedentarietà, alla poltrona su cui riposavo, al giornale che stavo leggendo e al sorriso di scherno lievemente sprezzante che avevo dipinto in volto e che gli avevo gentilmente dedicato. Riuscivo a intuire in quelle iridi cerulee la tacita richiesta di andarlo ad aiutare o, quanto meno, di rendermi utile in un qualsiasi modo, ma con una scrollata di spalle posai di nuovo lo sguardo sullo scandalo politico del giorno, mettendo così fine ad ogni nostra forma di comunicazione alternativa.
Fase due. “Commentatore delle dinamiche dell’intrattenimento trash”. Si sedette sulla poltrona, nella sua solita posizione con le gambe piegate contro il petto. Frugò nello spazio fra il cuscino e il bracciolo fino a trovare il telecomando, con cui accese la TV ad un volume talmente alto che avrei detto fosse stato impostato in quel modo solo per potermi infastidire. Misi via il giornale, rassegnato, e volsi lo sguardo verso il mio coinquilino – in questi momenti non riuscivo proprio a chiamarlo amico – che continuava a fare zapping senza sosta, commentando questo o quel programma. Nel momento in cui incappò nelle repliche de L’ispettore Colombo fui costretto a spegnere l’apparecchio per placare l’irritante flusso di critiche che Sherlock continuava a fare sui metodi deduttivi del malcapitato investigatore. Misi le mani sui fianchi e lo fissai con occhi severi.
« John, mi porteresti una tazza di caffè? » chiese con un tono di sufficienza che mi fece venire istantaneamente voglia di prenderlo a calci.
« Una sostanza eccitante? – risposi inarcando un sopracciglio – Così che tu possa continuare in questo modo per tutta la notte? No. Ti faccio una camomilla. Mi sembra una soluzione decisamente migliore» conclusi.
Accesi il bollitore e preparai l’infuso mentre Sherlock, da parte sua, si rimetteva a guardare la TV e ricominciava a cambiare canale freneticamente, senza smettere un attimo di borbottare il suo parere.
Quando gliela portai, sorseggiò la camomilla lentamente, tenendo la tazza fumante con entrambe le mani. Restò così per un po’, raggomitolato sulla poltrona come un drago trincerato in una fortezza, a bere la sua tisana, le mani giunte sulla tazza e una concentrazione quasi innaturale per le immagini che si succedevano sullo schermo.
Risolse uno o due casi di un programma che si occupava di persone misteriosamente scomparse, dopo di che saltò giù dalla sua postazione e, come se stesse annunciando l’arrivo della Regina Elisabetta, mi comunicò che si era fatto tardi, che era stanco e che sarebbe andato a dormire. E devo ammettere che la cosa mi sollevò non poco, in quanto mi illusi che fosse stata concessa anche a me qualche ora di riposo. Ma credo sia ovvio a questo punto dire che mi stavo sbagliando di grosso. Infatti Sherlock, nonostante la sua presunta stanchezza, non riusciva a prendere sonno e continuava a vagare dalla sua stanza alla cucina, facendo ogni volta un baccano assordante. Più e più volte durante la nottata mi interrogai sull’esistenza di leggi che mi avrebbero tutelato nel caso fossi stato indotto a compiere l’omicidio del mio compagno di appartamento e, calcolate le varie attenuanti e i cavilli che si possono trovare, mi chiedo ancora oggi per quale motivo non abbia agito secondo i suggerimenti dell’istinto. Ad ogni modo, dopo un paio d’ore di totale agonia, Sherlock riuscì a trovare pace e a chiudere finalmente gli occhi. Cosa che io non feci, poiché continuava a urlare nel sonno e a pronunciare frasi totalmente sconnesse che riuscivo a percepire anche dal piano superiore. Ma questo era nulla in confronto a quello che sarebbe successo circa alle quattro del mattino, ovvero all’inizio della terza fase.
Fase tre. “I mondiali di tiro al piattello”. Non mentirei se dicessi che Sherlock aveva una mira ben superiore alla mia che comunque, ricordo, gli ha permesso di sopravvivere ad un tassista e al suo perverso gioco di scacchi. Come dicevo, erano le quattro del mattino e quarantotto colpi di pistola in rapida successione fracassarono il silenzio del palazzo. Scesi le scale di volata e lo trovai disteso sul divano, avvolto nella sua solita vestaglia blu a righe sottili. L’arma puntava ancora verso il bersaglio e io seguii la traiettoria con lo sguardo: quarantotto fori ancora fumanti nel muro. Rabbrividii, non per l’abitudine discutibile del mio coinquilino di cimentarsi in performance da tiratore scelto nel cuore della notte, ma piuttosto per la scritta che i proiettili avevano vergato nella carta da parati. JIM. Il nome di Moriarty in stampatello, nella semplicità di un epiteto vezzeggiativo. Jim, il piccolo Jim. Il bambino che era stato. Solo Sherlock lo chiamava Jim. Io, per una sorta di timore reverenziale misto a dispezzo, lo chiamavo per cognome o, al massimo, James. Intanto, mrs Hudson era sopraggiunta, trafelata. Aveva lanciato un urlo agghiacciante, come se le circostanze non fossero state già abbastanza inquietanti, ma fu solo quando cadde svenuta tra le mie braccia che Sherlock si scosse dalla trance in cui pareva piombato. I suoi occhi, nella penombra, tradivano uno sconcerto che non gli apparteneva. C’era qualcosa che non andava ed era più che pura e semplice noia.
« …John » mormorò Sherlock con voce roca.
« Cosa c’è?! Che cosa vuoi adesso? Hai fatto svenire la signora Hudson! » gli berciai contro in un sentimento di preoccupazione, insofferenza e rabbia cieca, incurante di sentire le sue ragioni o peggio, i miserabili tentativi di scuse di fronte alla furia incondizionata che pervadeva ormai ogni tratto del mio volto.
Rimanemmo per minuti interi in silenzio a fissarci. Minuti durante i quali mi resi conto che con tutte le probabilità non avrei ricevuto risposta, quindi mi diedi da fare: prima di tutto feci sedere la padrona di casa sulla poltrona, le presi il polso e, colpendola con dei leggeri schiaffetti sulle guance appassite e scavate, cercai di farla rinvenire. Metodi decisamente poco ortodossi per un medico, ma tanta era l’agitazione di quel momento, che non badai troppo alle formalità.
Quando la donna si fu risvegliata accorsi a porgerle un bicchiere d’acqua in cui avevo fatto scivolare alla chetichella qualche goccia di calmante naturale, temendo che un qualsiasi composto chimico avrebbe potuto fare reazione con gli antidolorifici che la sciagurata signora assumeva per lenire le fitte di dolore che di tanto in tanto le partivano dall’anca.
« Tenga – le dissi con un sorriso rassicurante – e ora vada nel suo appartamento. Penserò io a Sherlock. » E con queste parole le porsi il braccio per aiutarla a rialzarsi. Quando si fu stabilizzata, mollai la presa.
La vidi camminare incerta fino all’uscio, su cui si fermò per voltarsi e lanciarmi un’occhiata d’intesa. E riuscivo a comprendere fin troppo bene il concetto espresso: gli eccentrici comportamenti del detective stavano diventando eccessivamente strani anche per lui. Si richiedeva un intervento tempestivo.
Mi lasciai cadere a terra, accanto a lui, che intanto si era voltato con il busto verso lo schienale del sofà e respirava in modo decisamente anomalo. Riuscivo a sentire il cuore che batteva violento, quasi impazzito, contro la cassa toracica che vibrava come un diapason.
« …John, le sigarette. » fu la richiesta epigrafica di Sherlock.
« Mi hai chiesto tu stesso di oppormi ad ogni tua richiesta del genere, Sherlock. »
« So benissimo cosa ti ho chiesto! – gridò a denti stretti, girandosi per guardarmi in cagnesco – E ora ti chiedo di darmi le sigarette, per l’amor di Dio! »
« Sherlock, non… » ribattei incerto.
« Dammi. Le. Sigarette. ORA! »
Dubbioso sul da farsi, tentennai un poco. Poi, però, fu lampante che avrei dovuto assecondarlo. Un pacchetto di sigarette, uno solo. Che male gli avrebbe fatto?
Dopo aver fumato ad un ritmo che avrei giudicato insostenibile per chiunque, sembrò finalmente trovare la calma che fino a quel momento avevo bramato per lui. Sprofondò in un sonno placido e senza sogni, ma l’inquietudine si era ormai impadronita di me e non riuscii a fare altrettanto. Il  respiro, così come il battito cardiaco, si era normalizzato, ma ero ancora troppo ansioso per smettere di preoccuparmi della sua salute. Decisi quindi di vegliare su di lui e sul suo sonno che sembrava un evento miracoloso e mi ritrovai, mio malgrado, seduto accanto a lui ad affondare le dita tra i suoi capelli, con un sorriso mesto che era tanto somigliante a quello di un padre di fronte ad un figlio malato o a quello di… oh, beh. Non importa.
Mentre già Londra si tingeva del rosa dell’aurora, il mio amico diede i primi segni della fine della sua, ahimè, breve dormita. Ritirai la mano dai morbidi ricci, dolorante a causa delle tante carezze che mi ero imposto di fare a quella testolina incomprensibile e pazza.
Era inquieto, di nuovo e forse peggio di prima. Scattò in piedi come una molla e barcollò per qualche istante, come succede sempre a chi si alza con troppa foga dopo aver passato del tempo disteso.
Lo vidi correre verso la sua stanza a testa bassa ma l’apprensione si manifestò solo quando udii il suono della chiave che girava nella toppa: Sherlock non si barricava mai nella sua camera da letto in questo modo.
Cominciai a bussare sulla porta ma, più non udivo risposta, più le mie preoccupazioni crescevano e si tingevano dell’orribile agonia dell’ignoto. Mi ritrovai ad immaginare cosa potesse fare lì dentro un uomo che solo un paio di ore prima aveva impallinato il muro per vederci scritto il nome del suo acerrimo nemico e l’angoscia si trasformava in disperazione mentre i battiti sul legno diventavano pugni. Fu quando sentii quel gemito trattenuto, ma cristallino come un filo che si tende e vibra, che dentro di me un impulso naturale completamente nuovo sembrò farmi bollire il sangue nelle ossa. Accadde tutto in una specie di flash: la spallata, la porta che cadeva a terra con un tonfo assordante, l’ago che usciva fuori dalla pelle diafana del suo avambraccio, quella sua espressione da bambino colto sul luogo del misfatto. Poi, il bianco.
Non so dire esattamente quanto fosse durata quella strana sensazione di cecità in cui ero piombato, ma quando gli occhi si ripresero potei constatare che il mio corpo aveva agito come un ente del tutto separato e indipendente dall’apparato visivo. Mi ritrovavo a cavalcioni sopra la pancia di Sherlock, immobilizzato dal mio peso, e le mani erano ferme sul suo collo, strette tanto da fargli male, tanto da soffocarlo, mentre la sua pelle diventava cianotica e il respiro si faceva sempre più affaticato. Riuscivo a sentire le metamorfosi di un corpo drogato, sotto le dita che spingevano contro la trachea e tentavano di ostruire la vena giugulare esterna.
Con lo sguardo iniettato di sangue sibilai: « Che cazzo era? Era cocaina, vero? – e così dicendo impressi un po’ più di forza nelle mani, con un rantolo che gli fuoriuscì flebile dalle labbra – Era cocaina. Sono un medico, non pensare di fregarmi. So riconoscere una pupilla dilatata quando la vedo. Cosa pensi che si sparassero i soldati lì in Afghanistan prima di un attacco ai civili, eh? Te lo dico io: di sicuro non l’eroina. »
E poi di nuovo la vista si annebbiò. Bianco. La mano destra aveva smesso di far pressione e si era staccata, mentre la sinistra rimaneva salda sulla sua posizione. Un rumore sordo mi fece capire che gli avevo colpito il naso con una potenza inaudita: con tutte le probabilità era rotto. Poi un altro colpo, il labbro che si spacca. Cominciai a sentire il suo sangue sporcarmi ad ogni nuovo pugno che andava a segno. Poi però, nel bianco, la sensazione di qualcosa che sfugge. Sherlock era riuscito a svincolarsi e, avendo capito che stavo combattendo alla cieca, sfruttò il mio disorientamento a suo favore.
Ora ero io, non vedente ed inerme, sotto di lui, che avrei immaginato più leggero a giudicare dalla sua costituzione esile e longilinea, ma che faceva sentire tutta la propria stazza sul mio stomaco. Provai a dire qualcosa, ma un poderoso schiaffo mise fine ad ogni tentativo di comunicazione. Però, perlomeno, riuscivo di nuovo a vedere lui che, col naso e le labbra sanguinanti, mi sovrastava sorridente. Gli ematomi cominciavano a diventare gialli, di lì a poco sarebbero stati rossi e poi avrebbero assunto il caratteristico colore violaceo. Trovai macabro e divertente quello che ero riuscito a fare, pensando alle parole che Irene Adler aveva rivolto al detective solo un paio di mesi prima, insinuando che tra noi ci fosse un coinvolgimento sentimentale. « Qualcuno ti ama. Se avessi dovuto picchiarti, anche io avrei evitato il naso e i denti. » Una risata gutturale mi sgorgò dalla gola come un fiume che straripa dagli argini. In quella rissa erano concentrate tutte quelle volte che io e Sherlock ci eravamo odiati, quelle volte in cui avremmo voluto insultarci, mandarci al diavolo, rompere qualcosa per la frustrazione.
Ma la battaglia non era finita. Altri schiaffi, più forti. Il segno della mano affusolata e magra bruciava terribilmente sulle guance. E poi ancora io che mi dimenavo, mi liberavo, ero di nuovo sopra di lui. E schiaffi, pugni, parolacce, sguardi pieni d’odio e insieme di apprensione.
« Quanta te ne sei fatta, stronzo? »
Tossendo, rispose: « Un solo grammo. Soluzione al sette per cento. »
« Perché? – ringhiai – Perché avresti dovuto? »
« Perché nonostante faccia male al fisico, è quanto di più stimolante per il cervello io possa assumere in un momento di noia. »
Quella risposta, che doveva essere per lui una sorta di modo per farmi ragionare, fu invece l’impulso che mi spinse a fargli ancora più male. Stimolante! Per lui la droga era stimolante! Ero allibito. Non credevo che una mente tanto geniale cadesse così facilmente nei giochetti della tossicodipendenza.
« Te lo do io qualcosa di stimolante! » e giù altri schiaffi, altri pugni, altro sangue che usciva dalle ferite di entrambi e che si univa nelle piccole macchie disseminate sul pavimento. L’ultima botta lo frastornò visibilmente e feci l’errore di vacillare per un secondo. La mia smorfia piena d’astio si trasformò in un volto preoccupato quando cominciai a passare le dita sugli zigomi ormai tumefatti del mio amico. Dovevo avergli fatto davvero male, ma nulla gli toglieva quel sorriso di sfida dalle labbra, sorriso che si acuì nel momento in cui le mani, bloccate dalla morsa delle mie gambe, riuscirono a scivolare fuori e a spingermi via.
Caddi all’indietro e sbattei la testa. Lui mi fu sopra in un secondo, la faccia di una belva famelica pronta a sbranare la bramata preda. Aspettai ad occhi chiusi un dolore che non arrivava ma, sorpreso, fui costretto a riaprirli per capire cosa avesse fermato il mio avversario. Era ancora lì, quel ributtante spettacolo di sudore, sangue e pupille troppo larghe per delle iridi che ormai erano tanto sottili e chiare da sembrare inesistenti.
« Lestrade aveva ragione, quindi – dissi con una improvvisa calma – Sei un tossico. »
« Oh, John. Quanto sei idiota e limitato, come tutti, del resto! – rispose volgendo lo sguardo in alto, visibilmente seccato – Tossico è un termine che usa la polizia per quelle persone che sono marce di droga. Guardami, John. Sto bene. »
« Bene un cazzo! » fu la mia laconica replica.
Chiusi di nuovo gli occhi, in attesa del colpo che mi avrebbe fatto molto più male dei precedenti. Sherlock si piegò si di me, fino ad arrivare a pochi centimetri dal mio orecchio destro.
« Sto bene » disse di nuovo, con l’alito che mi solleticava la pelle.
Poi fu un movimento repentino, qualcosa che non fui in grado di calcolare, le sue labbra premettero sulle mie e la lingua si fece spazio tra i denti sigillati. Assaggiai il sangue, l’aroma di tabacco che ancora gli impregnava la bocca, lo sentii così mio, così seducente mentre le sue mani si rincorrevano sul mio cuoio capelluto, così… Dio, mi resi conto che mi sentivo allo stesso tempo violato, privato del mio spazio vitale, nudo, disarmato.
Lo spinsi via e mi misi in piedi, tremante. « Sh... Sherlock… » balbettai in cerca di risposte, ma lui era forse più perso di me e mi fissò, attonito. Non riuscii a decifrare quello che stava cercando di dirmi. Era deluso dal fatto che mi fossi staccato? Era dispiaciuto per ciò che aveva fatto? Si sentiva stupido, felice, rammaricato, soddisfatto? Come avrei potuto saperlo? Sapevo solo che uscito da quella stanza, di tutta quella situazione sarebbe rimasta solo qualche crosticina e forse un paio di cicatrici e, nonostante sensazioni contrastanti scuotessero ogni parte del mio animo, mi trovai a correre fuori attraverso la porta sfondata e a rifugiarmi in bagno, chiudendo a chiave.
Con tocco tremante, aprii l’acqua del rubinetto e provai a ragionare, ma era del tutto inutile. Il battito cardiaco era ancora accelerato e c’erano ferite su tutto il volto e sulle mani che avevano bisogno di attenzione, ma non ci badai. Mi sciacquai la faccia e mi asciugai lasciando una serie di chiazze rossastre sul tessuto dell’asciugamano.
Mi misi dritto in piedi di fronte allo specchio e le dita andarono a sfiorare la bocca, come a voler riprodurre il contatto con la sua pelle calda. Chiusi gli occhi e mi resi conto che la cosa mi disgustava ed elettrizzava nello stesso momento, ma fu solo quando sentii bussare alla porta del bagno, che seppi che ormai non c’era più via d’uscita: era stato il nostro primo bacio e già ne avrei voluti altri cento.

   
 
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