Clementine era arrivata a Londra già morta da un pezzo. 
 
Nella borsa aveva un fardello di libri, un telefono rotto e i cocci di un cuore spezzato. Ed un cofanetto rivestito di raso, sapete, di quelli in cartone plastificato dove si raccolgono le cartoline e i vecchi ricordi.
Aveva subaffittato un monolocale al terzo piano di una palazzina nei pressi di Sheperd’s Bush ( Hammersmith ), ad ovest della città. Ne aveva lasciati intatti l’arredamento e la polvere, condannando all’anonimato le sole quattro pareti in cartongesso, spoglie ed ammaccate dal precedente trasloco, che esibivano ancora le impronte luride dei quadri che fino a poco tempo fa vi si erano aggrappati. Aveva nascosto nei cassetti qualche vestito e un paio di lettere consumate, un album di fotografie senza volto, un piccolo stereo sul comodino e una cassetta di birra nel frigorifero. Eppure, quando la trovarono morta sul pavimento della cucina, l’intero appartamento era vuoto – come se il suo addio avesse riempito ogni interstizio tra i mobili, ogni buco nel muro, ogni fessura, ogni scomparto della credenza, senza lasciar spazio a qualsiasi altra sua traccia in questo mondo.
 
… Un’impronta, per quanto insignificante, voglio però trovare il coraggio di lasciarla.
Ho combattuto. Ho perso. E voi tutti, dove eravate?
Le mine esplodono. Lo sento, lo sento che adesso ( io ) esplodo.
Ma sapete,
 
Clementine si era imbottita i polmoni di gas.
Lo aveva respirato fin quando non aveva suonato l’antincendio, la vicina non aveva bussato con insistenza alla porta e la sirena dei pompieri non aveva musicato sui suoi ultimi istanti. Ma era morta, Clementine, ancor prima di scappare da Bristol. Era morta che non lo voleva davvero, ma aveva dovuto.
 
la guerra è finita, aveva scritto. Almeno per me.





















NdA: sproloquio di duecentottantanove parole, procreato da un ascolto insano dei Baustelle e dalla canzone che dà cadenza ed ispirazione alla storia intera, ma al titolo il particolare: Clementine, dei Decemberists.