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Autore: None to Blame    20/05/2012    7 recensioni
« Non te ne andare, John. »
« Non posso. Purtroppo cause di forza maggiore me lo impediscono. »
« Ma vuoi. »
« Certo! Sei irritante quando parli dall’alto del tuo dannatissimo piedistallo robotico e giudichi tutti noi esseri umani sulla base del concetto “il sentimento è uno stupido punto debole”! »
« Ma il sentimento è un punto debole. Accidenti, John, ma guardami! Stavo per finire spiaccicato sul marciapiede! »

*
[ambientazione: prima di Baskerville, più o meno]
Genere: Generale, Sentimentale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«   Come ha detto che si chiama, signor dottore?   »

«   Non l’ho detto.   »

«   Oh, va bene lo stesso. Odio i nomi. Limitano l’immaginazione.   »

Una danza sinuosa seguiva la tremolante fiammella della candela. Una luce opaca, platealmente spaventosa, una piccola ombra dorata che gli baciava il volto.

«   Non mi ha detto dove siamo.   »

Aveva una voce calma, John. Nel suo petto qualcosa borbottava insistentemente, ma l’apparenza placida lo difendeva meglio di uno scudo.

«   Non glielo dirò.   »

«   Avrò pure il diritto di conoscere il luogo in cui morirò.   »

Una risatina divertita, sommessa, insicura – disturbata.

«   Bene, bene, bene. Allora si prepari, signor dottore..   »

Una bagliore possente si impossessò della stanza. John serrò le palpebre, ferite dall’imprevista ondata di luce.

«   Su, animo, signor dottore. Si guardi intorno.   »

Seguì il consiglio di quella voce alle sue spalle e, con cautela, dischiuse gli occhi.

E se ne pentì.

Un brivido d’orrore navigò per la sua schiena, mentre permetteva alle immagini di fissarsi sulla retina, mescolandosi e acquistando un senso.

Colori. Bianco, rosso. Rosso, bianco.

Bianche le piccole mani, rosse le lucide labbra. Rossi i merletti e gli orli, bianchi i fiocchetti. Bianca la pelle, rosse le gote.

Bambole. Fragili, terrificanti bambole.

«   Sa, signor dottore, queste bambole di porcellana sono incredibilmente pregiate. Preziose. Altissimo valore. Potrei rivenderle e comprarmi due isole. Ma..   »

Passi leggeri si avvicinavano a John – lo sguardo fisso su quelle inquietanti opere d’arte.

«   Cuore. Cuore. Cuore. Non c’è il cuore. Sono fredde, pallide. Vuote.   »

I passi lo superarono.
Una scura figura si stagliò nel suo campo visivo. Una mano guantata di nero sfiorò con la delicatezza di un amante i boccoli biondi di una bambola vestita di verde. L’afferrò voltandosi verso John.

Un volto maciullato dalla follia si impiantò nella coscienza del dottore – non l’avrebbe più dimenticato.
Solo l’evidente disturbo psichico forniva un tratto di distinzione su quella fisionomia più che banale.
Un’espressione angosciosamente dissennata.

«   Le vede? Sono belle. Eternamente, dannatamente belle. Confinate nell’esteticità pura, prive di tempo.   »

La voce si incrinò, lo sguardo si abbassò sulla ceramica di quel roseo viso senza età.

«   Sono morte. Morte.   »

John deglutì. Non gli piaceva la piega che stava prendendo quella situazione.
Con voce farneticante, l’altro continuò.

«   Hanno bisogno di un cuore.   »

E la mente del dottore lo riportò alle fotografie di sette cadaveri aperti in due – come maiali nelle macellerie – affogati nel loro stesso sangue, con un pezzo mancante: il cuore.

John scrollò piano le spalle, nel tentativo di controllare la resistenza delle corde che lo imprigionavano ad una sedia. Inutile.

L’altro fissò l’ostaggio e scoprì i denti bianchi in un ghigno.

«   Mi piace parlare con lei, signor dottore. Mi piace perché non piagnucola come la donna di ieri – quella con le mutandine gialle. E nemmeno urla come il piccolo liceale – il primo, un tipo dimesso, con gli occhiali tondi. Mi piace. La tratterò benissimo.   »

Posò con delicatezza la bambola che aveva in mano sul ripiano, insieme alle altre, quindi scomparve di nuovo dalla sua vista per dirigersi a grandi falcate in un punto alla sua sinistra.

Si sentirono molti rumori metallici – una cassetta degli attrezzi? – altri indistinti – cerniere che si aprivano, vetri che tintinnavano.
Poi ancora dei passi leggeri, che si bloccarono alle sue spalle.

Percepiva la presenza di quello squilibrato che lo sovrastava dietro di lui.

«   Voglio che mi dica una cosa.   »

Il tono era cambiato.
La voce aveva subito una tale metamorfosi che un soffio di panico percorse la pelle di John.

«   Ha mai ucciso?   »

Il dottore si schiarì la gola.

«   Sì.   »

Poté sentire distintamente un verso di disappunto.

«   Perché?   »

«   Guerra.   »

 Il grugnito deluso divenne un sospiro pesante.

«   E in nessun’altra occasione?   »

«   Perché queste domande?   »

«   Le mie bambole devono rimanere pure. Non voglio cuori avidi e consumisti, ricolmi d’odio o rabbia.   »

«   Sì, ho ucciso.   »

«   Perché?   »

John fece una pausa.

«   Per salvare qualcuno.   »

L’altro proruppe in un moto di sorpresa.

«   La sua donna?   »

«   Un mio amico.    »

«   Mi sta bene comunque.   »

Si posizionò davanti al dottore, il quale poté constatare che i rumori metallici erano probabilmente dovuti ad una gran quantità di armi da taglio.

Ora, lo squilibrato reggeva fra le mani un enorme machete.

«   Confermo ciò che ho detto prima: lei mi piace, signor dottore. Il suo cuore lo userò per la mia bambola più bella.   »

Fece un passo avanti, l’arma sollevata, gli occhi sbarrati.

John iniziò a dimenarsi, le corde che gli segavano le spalle, il ventre, le gambe.

«   Non si muova. Sarà più doloroso.   »

Era vicino, pericolosamente vicino.

Si contorceva, sfruttando tutta il proprio vigore fisico.

Come unico risultato, fece cadere la sedia su un lato, ottenendo parole di disapprovazione.

«   Ma no, guardi cos’ha combinato. È un bene che sia tanto legato alla vita, ma il suo cuore mi serve, capisce?   »

«   Sta’ lontano da me.   »

«   Come vuole. Si squarterà il petto da solo, allora?   »

«   Mi lasci andare, diamine.   »

«   Temo sia impossibile.   »

Vicino.

John sentiva il lezzo acre di urina e sudore, era accecato dal baluginio del machete – troppo vicino.
Vi vedeva il proprio riflesso, l’apoteosi del terrore.

Vicino. Vicino.

E poi vide quella luminosa lama affondare verso il suo petto – velocemente.

Vicino.

E poi non la vide più.
 
 
 
 


 
 
Uno sparo.


 
 
 
 
 
 
Un clangore metallico.
Lo squilibrato dischiuse le labbra, espressione stupita. E un po’ delusa.
Si accasciò al suolo, a pochi centimetri dal volto esterrefatto e sollevato del dottore.

John strinse le palpebre, abbandonandosi alla inebriante percezione della vita.

«   JOHN!   »

Se l’aspettava.
Nemmeno per un istante aveva dubitato del tempismo del suo migliore amico.

Uno, due, tre. Tanti passi che celermente lo raggiungevano.
Una confortante presenza.

Percepì una pressione lieve all’altezza della spalla.

«   John, stai bene? Ti prego, dimmi che stai bene.   »

«   Sto bene.   »

Quella calda pressione non abbandonava il braccio, mentre sentiva l’amico armeggiare con una qualche impalpabile lametta.

«   Sherlock, potresti usare il machete per tagliare le corde.   »

Il coinquilino accolse il consiglio e lo liberò da quella prigione di canapa.

Sherlock allontanò la sedia e, accertatosi delle condizioni dell’amico, estrasse il cellulare dalla tasca, digitando un sms a indirizzo di Lestrade.

«   Mi sono stufato di fare la parte della donzella in pericolo.   »

Le dita dell’altro continuavano a saltellare freneticamente da un tasto all’altro, gli occhi focalizzati solo sullo schermo.

«   Sei tu quello che si è fatto rapire.   »

«   Ho per caso un cartello appeso al collo con la scritta “Prego, rapitemi pure” ?   »

Sherlock inviò il messaggio e ripose il cellulare nella tasca del cappotto, alzandosi dalla scomoda posizione assunta per liberare John dalle corde.

«   Jeremiah Plath, 47 anni. Disoccupato da sei mesi. Due anni fa ha perso moglie e figlia in un incidente d’auto. Lui era alla guida. Se l’è cavata con un rene in meno.   »

John spostò lo sguardo sul cadavere, strabiliato ancora una volta dalle capacità deduttive del suo amico.
Questa volta quale dettaglio aveva visto sul corpo? Un capello? Un tipo di polvere?

«   Come l’hai capito?   »

«   Me l’ha detto sua madre.   »

Il dottore scoppiò a ridere. Sherlock lo guardò stranito e non riuscì a trattenersi.

Un cadavere, decine e decine di terrificanti bambole di porcellana, un machete e loro ridevano sguaiatamente nell’asettica stanza di un anonimo edificio buttato nelle periferie londinesi.

Conclusosi il momento ilare, John provò a mettersi in piedi, ma cadde rovinosamente sotto lo sguardo indifferente dell’altro.

«   Ti ha somministrato delle droghe?   »

«   Tu cosa dici?   »

«   Non l’avevo notato. Maledizione. Cos’era? Iniezione?   »

«   Hai per caso intenzione di aiutarmi ad alzarmi da questo fottutissimo pavimento?   »

Le parole di John gli parvero un violento schiaffo.
Si chinò, passandogli il braccio attorno alle spalle e lo sorresse mentre l’altro si reggeva debolmente sulle gambe. Provarono a mettere insieme qualche passo, ma John non sembrava riuscire a controllare i muscoli.

«   Bastardo. Mi sentirò intorpidito per almeno tre giorni.   »

«   Ora usciamo di qui.   »

«   Aspettiamo Lestrade e l’ambulanza, no?   »

«   Saranno qui entro pochi minuti. Non ho intenzione di rispondere alle loro domande.   »

«   E allora cos’hai in programma di.. EHI!   »

Non ebbe il tempo di finire la domanda, perché Sherlock gli aveva afferrato le gambe, caricandoselo tra le braccia.

«   Sherlock, per l’amor del cielo. Mettimi giù!   »

«   E’ il modo più veloce ed efficace per uscire di qui.   »

Ignorando le imprecazioni dell’amico  –  «   Cristo, la gente parlerà.   »   e    «   Parlavamo di principessine in pericolo, eh?   »  –  l’investigatore si diresse a larghe falcate fuori dalla porta blindata, lasciandola aperta – ottimizzando così i tempi degli agenti, che non avrebbero dovuto scoprire il codice d’accesso.

Si bloccò quando udì le sirene delle autopattuglie.

«   Sono già qui.   »

«   Ti stai comportando come un criminale.   »

«   Prendiamo le scale d’emergenza.   »

Con un calcio, spinse la maniglia della porta che sbucava all’aperto, su un agglomerato di ferro a parecchie decine di metri dal suolo.

Le scale d’emergenza.

Sherlock poggiò cautamente il piede sulla piattaforma arrugginita.

«   Sembra stabile.   »

«   Non posso dire lo stesso della tua mente.   »

«   L’unico muscolo a funzionare perfettamente dev’essere proprio la lingua?   »

Erano a metà della prima rampa quando un sinistro cigolio impose loro di fermarsi.
L’investigatore attese qualche istante, stringendo a sé l’amico.
Quando si convinse che non ci fosse nulla di cui preoccuparsi, continuò la discesa.
Lo stridio dei gradini li accompagnò fino alla seconda piattaforma, dove si fermarono, contemplando le altre due rampe rimanenti.

«   Il sindaco dovrebbe spendere qualche soldo in più nella manutenzione delle scale antincendio. Domani lo contatterò. Mi deve un favore.   »

«   Esiste qualcuno che non ti debba qualcosa?   »

«   Sei pronto, John?   »

Il dottore annuì tentennante.

Il secondo tragitto ebbe come sottofondo ancora lo stridore dei gradini sui quali l’investigatore poggiava i piedi con incredibile cautela.
John, con l’esigua forza che gli scorreva nelle vene, gli si aggrappò al collo, reggendosi al bavero del suo cappotto.

Dopo un tempo che sembrò loro infinito, trovarono temporaneo rifugio sulla seconda piattaforma.

Sherlock iniziava a sentire i segni della stanchezza muscolare.

«   L’ultima fatica. Ce la possiamo fare.   »

«   Non siamo troppo distanti da terra.   »

Ansimando, diede una scorsa alla realtà sottostante – erano a quattro metri e settantatré dal marciapiede – appoggiandosi al corrimano.

Il pezzo di ferro cedette.

L’inerzia li spinse in avanti, ma l’investigatore riuscì a contrastarla buttandosi in direzione opposta, mentre quello che rimaneva della ringhiera andava a schiantarsi a terra, sotto lo sguardo dei passanti. Molti, quindi, iniziarono ad additare due figure sulla piattaforma delle scale d’emergenza.

Il movimento che li aveva sospinti all’indietro aveva fatto cadere Sherlock, il busto contro il muro, John ancora fra le braccia.

«   Sherlock, stai bene?   »

L’amico annuì.

«   Di’ qualcosa!   »

«   Non urlare. Sto bene.   »

Il dottore sospirò sollevato.
Era ancora avvinghiato al coinquilino come un koala ad un ramo di eucalipto, ma capì che non aveva né la forza né l’intenzione di cambiare posizione.

«   John, prendi il cellulare. Chiama Lestrade.   »

Il dottore non rispose. Si limitò a sorridere ed eseguire.
Con le dita che non compivano bene il loro dovere, riuscì a comporre il numero e pigiare il tasto verde.
Tuttavia la mano si rilassò e il telefono scivolò in grembo all’amico. Sherlock lo prese, portandolo all’orecchio di John.

«   Lestrade, sono John Watson..  Sì..  Sì..  No..  Scale esterne..  Non esattamente..  Va bene.   »

John osservò meccanicamente l’amico mentre chiudeva la chiamata e riponeva il cellulare nella tasca.

«   Scusami.   »

Il dottore strabuzzò gli occhi.

«   Come?   »

«   Hai capito.   »

«   Non è da te scusarti per qualcosa.   »

Sherlock fissava il punto in cui la ringhiera aveva lasciato il posto al vuoto.

«   Sarebbe potuta finire male.   »

«   Sono solo cinque metri. Non ci saremmo fatti nulla di grave.  »

«   Tu hai una non trascurabile quantità di droga in corpo.   »

«   Che c’entra?   »

«   Sei un medico, John. Dovresti saperlo meglio di me.   »

«   Ti sei davvero preoccupato per me?   »

«   Perché sei così sorpreso?   »

«   Perché tu sei una macchina senza sentimenti.   »

Sherlock persistette nell’interessante osservazione di un’antenna parabolica sul tetto di una casa.

«   Provare sentimenti è sintomo di debolezza.   »

«   Debolezza di pensiero, certo. Se avessi un briciolo di energia, ti mollerei un pugno. O me ne andrei.   »

«   Non te ne andare, John.   »

«   Non posso. Purtroppo cause di forza maggiore me lo impediscono.   »

«   Ma vuoi.   »

«   Certo! Sei irritante quando parli dall’alto del tuo dannatissimo piedistallo robotico e giudichi tutti noi esseri umani sulla base del concetto “il sentimento è uno stupido punto debole”!   »

«   Ma il sentimento è un punto debole. Accidenti, John, ma guardami! Stavo per finire spiaccicato sul marciapiede!   »

 Il dottore restò senza parole.
Non lo distrasse nemmeno la comparsa degli agenti di Scotland Yard dietro l’angolo – celeri come un condannato verso il patibolo.

«   Sherlock, dimmi la verità.   »

John parlò con un tono profondo che spiazzò l’amico.

«   Hai ricominciato con l’eroina?   »

Sherlock si mise a ridere veementemente.

«   Cosa c’è da ridere?   »

«   John, tu guardi, ma non osservi.   »

«   Allora dimmi tu qual è il punto! Stai facendo discorsi contraddittori. Non sembri te stesso.   »

L’investigatore tornò serio, piantando il proprio sguardo in quello del dottore.

Il cuore di John perse un battito.

I due corpi iniziarono con un movimento istintivo ad unirsi, a legarsi.

Inavvertitamente, si avvicinò piano al suo volto.
Le mani di Sherlock lo stringevano a sé, circondandolo, proteggendolo.
Le bocche si cercavano, gli occhi mormoravano.

Nessuno dei due se ne accorgeva, però.

Un cigolio improvviso li fece sobbalzare. Erano gli agenti che salivano.

I loro sguardi tornarono ad unirsi, imbarazzati ed incerti.

John abbandonò il capo sulla spalla del suo migliore amico.

Mentre il primo agente – un ragazzetto alle prime armi – li raggiungeva urlando nel walkietalkie, Sherlock scivolò con le labbra sulla guancia di John, annusandone l’essenza con un bacio.


«   Sono debole, John.   »



















NdA

Oooooook. Trucidatemi. 

Era partita come una storia a rating rosso, ma non ci sono riuscita. Non è che sia puritana o bigotta, è solo che ho paura di scadere nel banale. 

Comunque, ecco qui questa cosa. Non ho idea di come si possa classificare. Non ho idea nemmeno di cosa sia! Bah. 

"Ai posteri l'ardua sentenza.."

Accetto critiche costruttive e distruttive! ^_^
   
 
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