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Autore: snowfeather    21/05/2012    2 recensioni
Odiava odiava odiava quella parte di sé che l'aveva e l'avrebbe allontanato ineluttabilmente da Arthur. Odiava la magia. Odiava dovergli mentire. Odiava doversi nascondere e, più di tutto, odiava se stesso perché non era capace di essere sincero con l'uomo che amava.
***
L'autoanalisi introspettiva dello stregone segretamente innamorato del suo principe. I pensieri e le sensazioni di un giovane ragazzo alle prese con se stesso, con i suoi sentimenti e con un ulteriore segreto che gli ruba l'anima e la volontà di essere...
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Disclaimer: I personaggi presenti in questa storia non mi appartengono. Essa è stata creata esclusivamente per piacere personale e non a scopo di lucro.
Warning: missing moments, one-shot, slash
Genere: angst, introspettivo, triste
Rating: giallo
Autore: snowfeather

 

  

Little wizard, broken heart


Seduto con le gambe a penzoloni sul fossato del maestoso castello bianco, la schiena arcuata, le mani giunte in grembo, la testa incassata fra le scapole sporgenti, il viso volto al cielo notturno, stava un ragazzo.

La fronte alta, increspata da piccole rughe d'espressione, era nascosta da ciocche di capelli neri, leggeri sbuffi di fumo sfuggenti che danzavano con la tramontana di novembre.

Gli occhi lucidi di un dolore segreto scrutavano lontano, persi dietro a pensieri troppo grandi.

Le labbra erano sottili, la bocca stretta in una smorfia che deformava il suo bel viso affusolato, quasi a cercare conforto nel dolore che la pelle soffice sentiva stretta nella crudele morsa dei denti.

Sulle guance arrossate dal freddo - quegli zigomi così definiti da sembra quasi scolpiti nel marmo di Canova - si rincorrevano impietosamente gocce di lui, lui che non aveva più saputo contenere tanto dolore nel suo piccolo cuore grande e che lo lasciava uscire attraverso gli specchi della sua anima lacerata. Cercando un sollievo che non sarebbe arrivato mai.

Perché la consapevolezza era una lama rovente che gli dilaniava le carni senza pietà, affondando malevola a ripetizioni sempre più ravvicinate, togliendo il fiato dall'angoscia, la luce, la speranza la vita. Tutto, tutto andato.

E la cosa che faceva più male di tutte era che lui sapeva essere solo ed esclusivamente colpa sua.

 

Era arrivato a Camelot oramai due anni prima, nella sacca leggera solo un carico di sogni.
Cosa credeva, che il destino lo avrebbe condotto a trovare la sua strada? Sperava forse di trovare la felicità? No, il destino era stato crudele, addirittura beffardo, perché a lui aveva fatto trovare solamente l'illusione della felicità. Aveva fatto a pezzi i suoi sogni, le sue speranze, tutto ciò che lui aveva sempre pensato di poter essere di buono.
E in fondo non si era neppure dovuto sforzare, non aveva fatto granché, non ci aveva messo chissà quanto, non aveva neppure fatto fatica, perché gli aveva semplicemente messo sul cammino lui.

 
L'aveva amato fin dal principio, adesso ne era consapevole, anche troppo. Tutto di lui l'aveva attratto in un istante, come una calamita con un magnete recettivo. Il suo baricentro si era spostato, tutto di lui puntava verso Arthur; non aveva più senso di esistere, se non in funzione di Arthur; ogni azione, ogni pensiero, ogni parola, ogni sogno era votato indissolubilmente ad Arthur. Non avrebbe più potuto fare a meno di lui, neanche volendo, nemmeno combattendo contro se stesso con tutte le sue forze.

 

Arthur era bello, alto, biondo... un vero principe dagli occhi azzurri e il mantello rosso svolazzante nel vento. Aveva le mani più grandi che avesse mai visto e non riusciva a fare a meno di incantarsi ogni volta che, brandendo la spada, si allenava con i suoi cavalieri, concentrato e perfetto sulla sabbia dell'arena.
Più gli stava vicino, più si accorgeva che c’era qualcosa di strano nel modo in cui piano piano iniziava a guardarlo. Più lo conosceva e più sentiva il desiderio di conoscerlo ancora di più. Più lo scopriva e più lui lo incantava.

Ma era l'immediata affinità che aveva avvertito fra le loro anime che lo aveva travolto, sconvolto, totalmente ribaltato. Perché Arthur, a dispetto della maschera altezzosa e superba che spesso indossava, era buono.
Era nobile.
Era disinteressato e fedele.
Idealista, modesto, attento.
Aveva occhi che non sapevano (e non volevano) mentire.
Era cristallino, diretto, sincero.
Non si nascondeva, Arthur.
E ciò che era più doloroso era il fatto che, nel tempo, si era lasciato conoscere da lui. Ormai era un libro aperto e non si vergognava mai di ciò che era, non aveva paura. Era coraggioso, Arthur.

 

E lui cos'era? Lui era solo un bugiardo, era un satellite buio che gravitava attorno ad un pianeta luminoso, sempre nascosto nell'ombra.

Sì, perché si era finalmente reso conto che lui, per Arthur come per chiunque altro, non esisteva in quanto Merlin. Lui non si era mai lasciato conoscere veramente, era importante solamente dal momento in cui "faceva", mai semplicemente nell'essere se stesso. Anche perché, effettivamente, chi era lui realmente? Era così abituato a fingere per la paura di farsi vedere, per il terrore folle e irrazionale di essere scacciato, incompreso, deriso, che ormai aveva preso a farlo sempre. Era abituato a sorridere, a mostrare la battuta pronta, al sarcasmo salace, quando avrebbe voluto solamente morire. Ormai non sapeva neppure lui chi fosse veramente.
Quanto esisteva in quanto Merlin?
O quanto invece esisteva in quanto utile per gli altri?
Quanto, in realtà, esisteva per gli altri?
E quanto esisteva per se stesso?

 

A parte sua madre, Gaius e Will, suo amico di infanzia, ora lontano, nessuno l'aveva mai amato.

E la colpa era sua, solamente sua, perché non si era lasciato conoscere.

 

Guardò una nuvola solitaria, staccata dal fronte compatto gravido di pioggia che incombeva su di lui. Si sentiva così: diverso, inadeguato, misero, solo. Non sarebbe mai stato felice veramente. Non sarebbe mai stato amato. Non ne era degno, quasi non voleva, irrazionalmente. Perché lui si disprezzava, si faceva schifo, era solo un rifiuto della natura, uno scherzo sarcastico del destino.
Non meritava nulla, nemmeno l'amicizia che Arthur sembrava condividere con lui. Se fosse stato qualcun altro al suo posto, per Arthur sarebbe stato uguale, non sarebbe cambiato niente.

Si fermava sì a parlare con lui, ma solo quando aveva bisogno di qualcosa, specialmente se aveva bisogno di sfogarsi dell'idiozia di suo padre o quando era turbato dai suoi sentimenti per Gwen (quella strega... ma perché a lei riusciva così semplice farsi amare da lui?).
Merlin c'era sempre, e ascoltava.
Ecco un'altra cosa che "faceva". Lui ascoltava e dava sempre buoni consigli, mettendo a tacere il suo cuore quando gli consigliava di buttarsi, di sopportare, di amarla. Era solamente più semplice fingere, recitare una parte. Era l'unica maniera che conosceva per mettere a tacere quel fottuto dolore. Non voleva provare dolore, non voleva stare male, e allora si nascondeva.
Non parlavano mai di loro, non lo avevano mai fatto. Probabilmente perché non esisteva alcun loro.

Aveva capito che era un gatto che si mordeva la coda, era perso in un circolo vizioso maledetto: fino a che non si fosse lasciato conoscere, avrebbe sofferto e sarebbe rimasto solo, ma non riusciva a lasciarsi andare perché il terrore del rifiuto e della solitudine era troppo.

Aveva tentato una volta, a Ealdor, lontano dalla routine di Camelot. Era stato a tanto così da svelare il suo segreto ad Arthur che, per una volta, sembrava incuriosito, sinceramente interessato a lui. Ma non ci era riuscito e si era fatto ancora più pena.

 

Lui era innamorato di Arthur, cazzo!
E Arthur neppure sapeva chi lui fosse veramente!
Ma si poteva essere più patetici?
Si poteva essere più miseramente inutili?

 

L'ultima volta che si erano visti, la sera precedente, nelle stanze del principe, dopo averlo preparato per la notte, lui accucciato vicino al fuoco, Arthur seduto a gambe incrociate sul suo grande letto a baldacchino, avevano parlato per ore.

E mentre l'erede al trono gli spiegava con ardore perché non riusciva più a fare a meno di Guinevere nella sua vita, Merlin avrebbe solamente voluto prendergli il viso fra le mani e baciarlo fino a fargli dimenticare anche il suo nome.

Arthur aveva detto che oramai, alla loro età, innamorarsi era una questione di affinità delle anime, di conoscenza e di amicizia reciproca, che non poteva più essere una questione puramente fisica. E lo stregone si chiedeva come cazzo facesse, quell'asino reale, a non accorgersi che praticamente stava parlando di loro, Arthur e Merlin. Che non c'era nessuno di più perfetto di loro due insieme. E invece quel cretino patentato continuava a sbavare sul culo secco di una donna che non avrebbe mai ricambiato il suo amore (non era scemo - e non lo era neppure Arthur -, si era accorto che il cuore di Gwen apparteneva totalmente a Lancelot...), che lo avrebbe tradito, che gli avrebbe fatto patire le pene dell'inferno, che gli avrebbe spezzato il cuore e ne avrebbe buttato i cocci come se niente fosse. Che lo avrebbe fatto soffrire.

Aveva dovuto recitare bene la sua parte, perché le espressioni del viso avevano rischiato di tradirlo più di una volta.

Poi Arthur l'aveva congedato, soddisfatto di essere riuscito a parlare così tanto di lei, convinto che Merlin facesse il tifo per loro. E lui se ne era dovuto andare ancora una volta, con mille domande inespresse a fior di labbra, col cuore pesante, con una necessità soffocante di un confronto che non sarebbe mai venuto.

E aveva pianto, attraversando i corridoi bui, aveva pianto e singhiozzato, lasciandosi cadere vicino al pozzo nel grande cortile lastricato del castello, prima di ritrovare un minimo di contegno e ritornare silenzioso nella sua stanzetta, sotto lo sguardo preoccupato e tuttavia rassegnato di Gaius.

 

Lo voleva, lo desiderava, non faceva che sognarlo ad occhi aperti e nel sonno più profondo, mentre faceva di tutto per allontanarlo da sé, spingendolo nelle braccia della regina del passato e del futuro.

 

Quanto sarebbe stato bello sentire le mani forti del principe su di lui, tese ad esplorare il suo corpo trepidante d'attesa.

Quanto sarebbe stato vero il sentimento con cui avrebbe risposto ai suoi timidi baci, che mai avrebbe pensato di poter donare a lui, Merlin, il suo servo.

Quanto sarebbe stato giusto il fondersi dei loro corpi, delle loro anime, delle loro vite, del loro destino.

E quanto era effettivamente massacrante sapere che tutte quelle immagini vivide e letali sarebbero rimaste solo e solamente in lui.

Ma valeva la pena stare così male, se ciò significava poter restare vicino ad Arthur, anche se solo come servo.

 

Arthur era il tutto che rendeva il suo niente degno di essere vissuto.

Difficile, doloroso, mortale, ma degno.

 

Almeno gli doveva la sua lealtà. E quella l'avrebbe sempre avuta, anche a costo della sua stessa vita.

Odiava odiava odiava quella parte di sè che l'aveva e l'avrebbe allontanato ineluttabilmente da Arthur. Odiava la magia. Odiava dovergli mentire. Odiava doversi nascondere e, più di tutto, odiava se stesso perché non era capace di essere sincero con l'uomo che amava.

Forse, la cosa migliore per lui sarebbe stata andarsene, lasciare Camelot, tanto nessuno avrebbe sentito la sua mancanza. La vita sarebbe comunque andata avanti anche senza di lui. Sarebbe stato velocemente dimenticato.

E nonostante tutto sentiva nelle orecchie una voce proveniente dal futuro, una voce destabilizzante e così simile alla sua, una voce accompagnata da una strana melodia elettronica (e quella parola da dove gli era rimbalzata così inaspettatamente in testa?), una voce che cantava:

 

I am not my own
for I have been made new.
Please, don't let me go.
I desperately need you.**

 

Non voleva andare via... O meglio, voleva che Arthur gli chiedesse di restare.

Aveva la necessità di sentirsi importante per lui.

Ah, maledetti pensieri!

Era una contraddizione vivente, anche con se stesso!

 

 

Col dorso della mano asciugò le lacrime che non avevano avuto il tempo di seccarsi nel vento, tanto scendevano copiose dai suoi insondabili, profondi, bugiardi occhi blu.

Tirò su col naso guardando l'alba in lontananza, un tenue chiarore che rompeva il tempo che ogni notte si prendeva, per lasciare sfogare il suo dolore.

E come ogni mattina guardò in su, verso la torre che ospitava le stanze del suo signore, del suo principe, sperando irrazionalmente che le tende fossero scostate, che lui lo scorgesse nel suo momento di debolezza, che riuscisse a vedere per un secondo la sua dilaniante verità di essere. E poi che lo raggiungesse e, con un braccio intorno alla sua spalla, gli domandasse dolcemente "Merlin, perché piangi?"
Sperò che il suo amore si accorgesse di lui, anche se era Merlin a non farsi vedere da Arthur.

 

Come ogni giorno le tende chiuse lo riportarono alla realtà dei fatti. Lui era diverso, era solo e lo sarebbe sempre stato.

E come ogni iniziare del giorno, il ragazzo dai capelli neri strinse i pugni e spense il cuore, pronto come sempre ad inseguire solo i propri doveri.

 

 

 

*Angolo dell'autrice*

A chi leggerà, scusate la stranezza, ma credo che questi possano benissimo essere i pensieri di un Merlin innamorato e disperato. Guarda caso sono esattamente i miei in questo momento, perciò, anche se è un po' anomala come cosa, voglio dedicare questa fiction al protagonista, Merlin. Grazie, senza di te non sarei riuscita a mettere così chiaramente nero su bianco tutto quello che ho nel cuore. Sei un amico prezioso e, anche se non sei reale, ti voglio bene.

 ** "Meteor shower" - Owl City

Non sono me stesso, perché sono stato creato nuovamente.
Ti prego, non lasciarmi andare.
Ho un disperato bisogno di te.

  
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