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Autore: Hika86    21/05/2012    0 recensioni
Poteva accadere qualsiasi cosa, il giorno dopo lui sarebbe stato lì per lei, così come lei, per quanto le fosse possibile, sarebbe stata sempre al suo fianco, per lui e per nessun altro. Per il suo papà.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Satoshi Ohno
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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'Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, nè offenderla in alcun modo'
ATTENZIONE: questa ff è uno spin off della One Shot "TARAREBA. Nantoshitemo Arashi!". Spin off, per le fanfiction, indica una storia che sviluppa una parte, un risvolto particolare di un'altra, quindi in questa storia trovate uno spoiler di quella. Poi in realtà ci si rende conto che questa storia sviluppa proprio una parte e di Tarareba in sì non si viene a sapere assolutamente nulla, quindi penso si possa anche leggere questa e rimanere invogliati a leggere l'altra per capire. Se però qualcuno avesse timore.. beh leggetevi prima quell'altra one shot XD

Era cominciato tutto un Lunedì. E non avrebbe mai dimenticato quel Lunedì mattina. Essendo il primo giorno della settimana la gente vi andava incontro svogliatamente, mentre per lui era un giorno qualsiasi: all'epoca non lo distingueva da nessun altro, il tempo scorreva, uguale, un po' confuso e allo stesso tempo piatto. Stava masticando svogliatamente un muffin, guardando distratto fuori dalle vetrate del locale. Aveva una tazza di matcha cappuccino fumante davanti a sè e il vapore saliva fino all'altezza dei suoi occhi, illuminato dai raggi del sole che spuntava finalmente da sopra gli alti grattacieli. Essendo Lunedì lo Shibuya crossing era poco popolato rispetto ai suoi standard e lo stesso Starbucks, dove solitamente si faceva fatica a trovar posto, quella mattina era quasi deserto: gli studenti erano a scuola, i lavoratori erano negli uffici, le mamme erano a casa o al supermercato. Lui, sfaccendato venticinquenne, era lì a ciancicare un muffin circondato dalla musica delle ultime hit del momento che uscivano basse dagli altoparlanti dello Tsutaya, il negozio dove si trovava lo Starbucks. Faceva solo un lavoro part time e quel giorno cominciava di pomeriggio.
Suonò il cellulare, che aveva posato sul tavolo di fianco al vassoio. «Pronto?»
⎨Pronto, Satoshi? Sono la mamma⎬
«Ciao mà» salutò ingoiando l'ultimo boccone
⎨Dove sei?⎬
«Shibuya» rispose seguendo con gli occhi una donna in tailleur azzurro
⎨Hanno chiamato da un ospedale di Chiba chiedendo di te⎬
«Da Chiba?» domandò pulendosi le labbra con il tovagliolo di carta e aggrottando le sopracciglia
⎨Non hanno voluto dire niente, parleranno solamente con te quindi devi presentarti là il prima possibile. Namiyoka san sta bene?⎬chiese lei con voce allarmata
«Non la sento da un mese, mi ha mandato solo un paio di mail perchè da lei non c'è campo. Comunque è nel Kyushu dai suoi» spiegò «Vado a vedere cosa vogliono» concluse rapidamente prima di chiudere la comunicazione. Satoshi rimise il cellulare sul tavolo, scocciato, e prese un altro sorso di matcha cappuccino. Non fece in tempo a mandarlo giù che l'apparecchio suonò ancora. Il numero era sconosciuto. «Pronto?» chiese sospirando
⎨Sì, pronto. Chiamo dall'ospedale Generale di Chibanishi, della città di Chiba. Potrei parlare con Ohno Satoshi san?⎬
«Sono io» rispose appoggiando la tazza al vassoio e raddrizzando la schiena. La cosa cominciava a farsi preoccupante: avevano chiamato prima a casa e poi al cellulare, numero che probabilmente aveva dato sua madre, ma era pronto a scommettere che lei avesse detto loro che lo avrebbe avvisato subito. Perchè chiamavano quindi? Cosa mai poteva avere in comune con loro? Chiba era lontana da Tokyo e anche lui abitava fuori dalla capitale, ma dalla parte opposta, quindi come poteva essere collegato a quell'ospedale? «Cosa succede?» chiese allora
⎨Dovrebbe presentarsi in ospedale da noi con urgenza⎬
«Sono stato avvisato del fatto che avete chiamato a casa, ma posso sapere cos'è successo?» ripetè con il cuore che cominciava a battere più forte
⎨Mi perdoni, la chiamo dal centralino, io non so dirle cosa sia successo. Quando può venire qui?⎬
«Anche ora» rispose prima di riattaccare. Si alzò dal tavolo finendo la bevanda d'un fiato ed uscì dirigendosi verso la stazione. Non aveva voglia di fare nulla in realtà: in quel momento non voleva andare fino a Chiba e in generale non voleva cercarsi un lavoro qualsiasi, non voleva studiare (studiare "cosa" poi?) e non avrebbe voluto nemmeno svegliarsi quella mattina. Ma qualcosa doveva pur fare e quella storia cominciava a preoccuparlo non poco: dopotutto, ammise mentre osservava senza grande interesse lo schermo al di sopra delle porte del vagone del treno, il fatto di non sapere perchè un ospedale lo volesse urgentemente lo spaventava. Dato che era mattina tarda, i treni che portavano fuori Tokyo erano abbastanza liberi da dargli modo di sedersi: si accomodò e si mise le mani nelle tasche dei jeans. Cosa poteva essere successo? Non aveva amici a Chiba, a meno che qualcuno non si fosse trasferito o non avesse fatto un incidente grave girando da quelle parti, ma il silenzio sul motivo per cui veniva chiamato era così strano che Satoshi era portato a pensare a cose ben peggiori. Se qualcuno si fosse fatto male gliel'avrebbero detto che serviva per una trasfusione, un trapianto di midollo, un testamento... qualsiasi cosa! Non ne sapeva niente di ospedali, non sapeva nemmeno immaginarsi per cosa potesse essere utile. La donna al telefono però non aveva accennato a nulla, cosa diavolo era successo? Nel tentativo di calmarsi cercò solo di concentrarsi sullo schermo del vagone: stava passando la pubblicità di un cracker dolce alla frutta e Satoshi si mise a fissarla osservando il ragazzino che vi compariva. Dal giorno del diploma erano passati quasi sei anni e da allora di televisione ne aveva vista anche troppa, così ora riconosceva i visi di molti personaggi importanti. Quando finì la pubblicità cominciò un video sulla sicurezza nei treni, totalmente inadatto a rilassarsi.
Alla stazione chiese indicazioni per raggiungere l'ospedale e si avviò a piedi: non era vicino, ma non poteva permettersi un taxi e poi era giovane quindi non sarebbe morto per quattro passi. Semmai di tensione. Cominciava ad avere la nausea, nella sua testa erano passate tutte le ipotesi possibili e immaginabili: parenti sconosciuti e lontani che l'avevano citato nel testamento, un amico di cui si era dimenticato che lo voleva al suo fianco... oltrepassò le porte dell'ospedale con tanta fretta e nervosismo da sembrare un passante alla ricerca urgente di una toilette. «Salve» salutò al banco di accettazione
«Buongiorno, può prendere il numero di prenotazione per favore?» domandò cortesemente l'addetta
«Veramente sono stato chiamato d'urgenza dall'ospedale e non so dove andare. Mi hanno chiesto di venire il prima possibile e...» si girò a guardare la folla stipata nella sala d'attesa «Non so se "il prima possibile" includesse anche aspettare il proprio turno non prima di un centinaio di persone» concluse con un sospiro
«Mi può dare il suo nome?» chiese
«Ohno Satoshi, si scrive con i caratteri di grande e campo» specificò, ma non servì perchè la donna nemmeno si mise a cercare il suo nome nel terminale. Lo osservò improvvisamente allarmata «Ah certo. Allora la prego, vada infondo al corridoio, c'è l'ufficio della sicurezza. Si presenti» gli spiegò. Sicurezza? Un criminale in fin di vita aveva fatto il suo nome? Ma lui non conosceva criminali... a meno che qualcuno non lo fosse diventato senza averglielo detto, chiaramente. «Buongiorno, scusate» annunciò bussando alla porta dell'ufficio e aprendola
«Sì, avanti» rispose un uomo in divisa che sorseggiava caffè: se era così tranquillo non doveva trattarsi di un'omicida che aveva fatto il suo nome. «Salve, mi hanno chiamato dall'ospedale e mi hanno detto di venire qui. Mi chiamo Ohno Satoshi» spiegò rapidamente e se anche questi lo avesse spedito da qualcun altro avrebbe imboccato le porte d'uscita: era stufo di non sapere cosa fosse successo e se nessuno diceva nulla... beh, allora non era così grave!
«Oh, certo! Può darmi i documenti?» esclamò alzandosi subito. Stessa reazione della donna alla reception. Questi però controllò di parlare con la persona giusta. «Prego mi segua» fece prendendo la giacca della divisa e raggiungendolo sulla porta per uscire. Si avviarono all'ascensore e attesero che arrivasse. «Mi perdoni, nessuno mi ha detto cos'è successo. Almeno lei può spiegarmi come mai sono stato chiamato qui d'urgenza?» chiese
«Conosce una certa Namiyoka Miki?» domandò il poliziotto lasciando che Satoshi lo precedesse nell'ascensore
«Sì, certo» annuì stupito «E' la mia ragazza» spiegò. Era impossibile che si trattasse di lei: era nel Kyushu dai suoi genitori ed era partita cinque mesi prima, e Chiba non era il Kyushu. «Sa dove si trova ora?» chiese ancora il poliziotto
«Sì, è a Fukuoka dalla sua famiglia da circa cinque mesi» rispose titubante. Il poliziotto non stava rispondendo alla sua domanda, ma aveva semmai cominciato a fargli un interrogatorio. «Nel sud eh?» borbottò questi prima che le porte si aprissero «Certo i voli Tokyo-Fukuoka non sono lunghissimi. E' probabile che sia tornaat in poche ore» ragionò «Sa dov'era tre giorni fa?»
«Mi perdoni, sono sospettato di qualcosa? Perchè... non so, forse in questo caso dovrei avere un avvocato o... dovrebbe leggermi i miei diritti» borbottò confuso
«Ha visto troppi telefilm americani» sorrise questi «Buongiorno, è arrivato Ohno Satoshi» disse alla reception del reparto
«Buongiorno» salutò l'infermiera, guardandolo con faccia greve «Scusi la riservatezza, ma ciò che è successo è di grande imbarazzo per l'ospedale» cominciò pacata «Questo è il reparto maternità. Una donna, Namiyoka Miki, è stata accolta qui sei giorni fa. Ha partorito e lei e il bambino sono stati nostri ospiti per il naturale periodo di degenza post parto. Due giorni fa però la donna è scomparsa dopo aver lasciato in ospedale tutti i documenti per disconoscere il neonato»
«Durante la degenza, non si è presentato nessun parente, la ragazza ha sempre lamentato malori pur di entrare in contatto il meno possibile con il personale medico e per non vedere il neonato. Sospettiamo che progettasse la fuga fin dall'inizio» gli spiegò l'uomo della sicurezza
«Miki chan? Qui?» trovò la forza di chiedere. Non era tanto sicuro di star capendo ciò che gli veniva detto: parlavano giapponese quelle persone?
«Naturalmente stiamo cercando la donna da ieri sera, quando il personale ospedaliero si è accorto della sua scomparsa, ma nel frattempo ha lasciato il neonato in ospedale, senza una famiglia» continuò il poliziotto
«Il suo nome compare sul certificato di nascita». Satoshi battè le palpebre osservando l'infermiera «Deve esserci un errore» fece scuotendo il capo «La mia ragazza non è incinta e non è nemmeno a Tokyo: è nel Kyushu da alcuni mesi»
«Mi perdoni, non credo ci siano errori. Se non la vede da mesi può averle nascosto la gravidanza» spiegò questa «Per quel che la riguarda invece non c'è nessuna certezza che lei sia il padre. Dovremo fare un test del DNA»
«Com... chi?» farfugliò in un primo momento, incredulo «Cosa significa? Non c'è certezza? Padre?». Il ragazzo appoggiò le mani al bancone e strinse le dita sul bordo, abbassando lo sguardo. La stanza aveva improvvisamente cominciato a girare.
Namiyoka Miki era il suo amore fin dal primo anno di liceo. Lui, svogliato e tranquillo di natura, aveva scoperto dentro di sè un'energia sconosciuta che era stata mossa dai suoi sentimenti per lei. Le aveva fatto una corte spietata per ben due anni, senza essere invadente, ma impegnandosi nel farle notare il suo interesse, nel darle tante piccole attenzioni o dimostrazioni del suo affetto. Si era tanto impegnato da stupire persino se stesso! Alla fine, all'inizio del terzo anno, lei aveva ceduto e infatti quello era stato i miglior anno della sua carriera scolastica. Improvvisamente era schizzato in cima alla classifica dei migliori della classe, uscivano insieme e con gli amici, aveva cominciato a cucinare, la riempiva di regali e avevano fatto brevi viaggi. Era tanto travolto dai suoi sentimenti, che aveva perso di vista se stesso. Sua madre l'aveva avvisato più volte, ma lui era stato il classico adolescente sciocco, così, dopo il diploma si era trovato solo davanti alla grande incognita della vita: aveva sperperato i suoi risparmi in regali e viaggi per lei, non aveva fatto domanda per nessuna università, non aveva pensato a nessuna scuola professionalizzante, non aveva doti particolari, nè alcuna aspirazione per un qualsivoglia lavoro. Non sapendo bene che fare aveva cominciato a lavorare nella piccola azienda in cui era impiegato il padre già da lungo tempo, ma non avendo altri titoli di studio faceva solo il tuttofare. Aveva resistito fino ai 22 anni, poi aveva lasciato tutto capendo di non voler fare quella vita. Da allora passava da un part time all'altro: cameriere, commesso, rappresentante di prodotti. All'età di 24 anni Satoshi ancora non sapeva che direzione prendere, brancolava nel buio. Quello stesso autunno aveva litigato con Namiyoka san, che ancora non l'aveva lasciato dopo tanti anni: improvvisamente, invece di limitarsi a lamentarsi quando lui non poteva permettersi di farle qualche regalo, aveva cominciato a preoccuparsi molto e l'aveva più volte ripreso per la sua scarsa risolutezza nella vita. Eppure fino a quel momento Miki non aveva dato troppo significato alla loro relazione: la differenza tra l'impegno che lei metteva in quel rapporto e quello che lui invece aveva profuso in tutti quegli anni era evidente. Improvvisamente si era detta delusa, non voleva un fallito come fidanzato, uno che non sapeva cosa voleva fare nella sua vita e che non era nemmeno interessato a seguire le orme del padre. Dopo tutto quello che aveva fatto per lei non erano quelli i discorsi che si aspettava. Ferito nell'orgoglio, le aveva detto di volere un periodo di riflessione e da Novembre Miki era andata a Fukuoka dove viveva la gran parte della sua famiglia. In quel periodo, dopo anni che stavano insieme tutti i giorni, non si erano visti e si erano sentiti ben poco: non funzionavano i cellulari dove stava lei.
... come faceva a non esserci campo a Fukuoka?
Solo quando si ritrovò appoggiato al bancone dell'ospedale si rese conto della realtà: Miki non lo aveva mai amato. Aveva amato le sue attenzioni e i suoi regali, non lui. Una volta scoperta la gravidanza, una ragazzina viziata come lei, doveva essersi sentita rovinata. L'unica possibilità che aveva era fargli mettere la testa a posto così da incastrarlo con un figlio ed assicurarsi di venire mantenuta vita natural durante. Satoshi comunque non era stato malleabile come invece era stato altre volte: non aveva alcuna aspirazione per il futuro e non gli interessava di guadagnare più della somma che gli permetteva di rimanere negli agi della casa paterna; e quando si era resa conto che non l'avrebbe mantenuta aveva deciso di lasciarlo. A quel punto era tornata dalla famiglia, il cui nucleo principale era nel Kyushu (solo suo padre si era trasferito a Tokyo per lavoro), nella speranza di ricevere assistenza e aiuto. Ma lì nessuno doveva aver accolto la notizia del nipotino con gioia: erano cristiani convinti e lei si era fatta mettere incinta prima del matrimonio. E a quel punto, chi avrebbe voluto sposare una ragazza per poi crescere un figlio non suo? Anche l'aborto era escluso. Non le era rimasto altro che far nascere il bambino e abbandonarlo per poi scappare il più lontano possibile, così da fingere che quell'evento non fosse mai accaduto. Aveva avuto quantomeno la decenza di non lasciarlo orfano e solo al mondo ma di lasciargli il secondo genitore. E per quanto orribile fosse l'atto di abbandonare un figlio, Satoshi avrebbe giudicato quel gesto caritatevole come un'attenuante, se non fosse che quel secondo genitore era lui.
Quanto era stato sciocco...
«Solitamente i padri hanno nove mesi per abituarsi all'idea e il più delle volte è un evento che ci si aspetta prima o poi, se non è addirittura espressamente voluto e ricercato» spiegò l'infermiera senza che Satoshi muovesse un muscolo. «Ohno san?» domandò guardandolo con preoccupazione.
Doveva essere andata così, non c'era altra spiegazione. Il figlio era suo, altrimenti perchè lasciargli il bambino di un altro? Il test del DNA sarebbe stato positivo. Se non lo fosse stato Miki avrebbe rischiato una condanna per abbandono di minore, mentre era certo che per non tornare a sentir parlare di quella storia lei doveva aver agito in modo legalmente pulito: non aveva riconosciuto il figlio come suo e lo aveva lasciato al secondo genitore. Fine della storia. «Posso sedermi?» domandò sentendo il bisogno di abbandonarsi da qualche parte. La forza gli serviva a tenere insieme i pensieri, non poteva usarla anche per tenersi in piedi: se non avesse sostenuto la sua mente sconvolta sarebbe scappato di lì urlando. Venne lasciato solo sulle poltroncine comode della sala d'aspetto all'ingresso del reparto maternità. Non aveva nemmeno fatto caso al settore dove si trovavano mentre arrivava con il poliziotto: era stato più preoccupato di doversi difendere in caso di accusa. La presenza delle forze dell'ordine lo agitava sempre, anche se magari non aveva fatto nulla di male.
«Mamma?» domandò con voce tremante, dopo aver composto il numero sul cellulare
⎨Satoshi, sei arrivato? Cosa ti hanno detto?⎬chiese la donna, in apprensione. Come si comunica alla propria madre che improvvisamente è nonna, senza i canonici nove mesi per prepararsi all'idea, ma con un nipotino già vivo e vegeto in una culla? «Mamma... Miki è...»
⎨E' lei? Sta bene?⎬domandò subito
«No, è scomparsa» spiegò chiudendo gli occhi e tenendosi la testa con la mano libera. Appoggiò entrambi i gomiti alle ginocchia, chinandosi in avanti e guardando a terra.⎨Scomparsa? Che significa?⎬
«Sei giorni fa ha partorito e sabato è scappata» disse cominciando a tremare «E' mio» concluse. Avrebbe potuto dire altre mille cose, anzi, avrebbe voluto raccontarle tutto il suo ragionamento perchè aveva bisogno di qualcuno che lo smentisse o che lo confermasse, che gli dicesse insomma che non era impazzito. Ma non si fidava di se stesso: riusciva a malapena ad evitare il tono isterico, se avesse parlato troppo avrebbe perso il controllo e magari avrebbe anche pianto. Era semplicemente terrorizzato: qualche ora prima era un venticinquenne nullafacente e ora era un padre.⎨Ho capito. Satoshi. Ora arrivo, tu bevi qualcosa di caldo e stai calmo⎬tentò di rassicurarlo prima di chiudere la conversazione. Rapida ed efficace, senza parole di troppo. Da qualcuno lui doveva pur aver preso, no? Avvisò il poliziotto e l'infermiera che non sarebbe scappato e che avrebbe fatto il test non appena sua madre fosse arrivata. Il primo sembrò rilassarsi, la seconda continuava a guardarlo con ansia. Quando questi se ne andò gli si avvicinò «Ohno san, posso offrirle qualcosa?» domandò con cortesia
«Qualcosa?» domandò stranito
«E' il minimo che io possa fare per lei. Siamo... mortificati per l'accaduto» spiegò inchinandosi profondamente. Satoshi la guardò: capiva perchè parlava così, ma l'ospedale non aveva alcuna responsaiblità: la fuga era un fatto dovuto esclusivamente alla paura e all'inesperienza di Miki, mentre l'abbandono -che era ciò che più lo aveva colpito- era stato pianificato alla perfezione molto prima. Pensando a quelle cose ebbe un brivido lungo la schiena e si rese conto che dopo quel gesto non era più in grado di provare alcun sentimento per Miki, era semplicemente pietrificato dalla spietatezza con la quale il suo egoismo l'aveva fatta agire. Persino lui, che pure non si poteva considerare un bravo ragazzo data la totale irresponsabilità con cui viveva la sua vita, non sarebbe mai stato in grado di un simile gesto. No, quello no. Significava quindi che una volta accertata la paternità si sarebbe portato a casa il neonato?
Sgranò gli occhi a quel pensiero e si impose di respirare profondamente per mantenere il controllo. Fu aiutato da un gruppetto di persone che attraversavano rumorosamente l'atrio e lo distrassero dai suoi pensieri. Un uomo giovane teneva tra le mani un trasportino per neonati nuovo di zecca con un grosso fiocco azzurro sopra, mente una donna più anziana aveva in mano il sacchetto di un negozio di abbigliamento per bambini. Li osservò parlare con l'infermiera, tutti sorridenti, e avviarsi verso la porta a vetri che dava sul corridoio delle stanze riservate alle degenti. Quando scomparirono Satoshi si morse il labbro inferiore quindi si alzò lentamente dalla poltroncina e si avvicinò di nuovo al bancone della reception. «Ho una domanda» mormorò piano. La giovane donna si girò a guardarlo e sorrise incoraggiante: quanti padri impauriti aveva già incontrato? «Mi dica»
«Se la madre non c'è... cosa sta mangiando?» domandò con voce insicura
«C'è il latte in polvere» spiegò quella, come se lui gli avesse appena chiesto in che mese fossero. "Maggio no?". Che domanda cretina! "Latte in polvere", è logico! «Oh capisco... e cosa indossa il neonato?» insistè
«Abbiamo le tutine dell'ospedale, sono la prima cosa che i nascituri indossano prima di poter dare loro le tutine che hanno comprato i familiari»
«Ah, certo» annuì per poi girarsi e tornare a sedersi.
Improvvisamente invece del panico si sentì addosso una tristezza devastante. Lui era un figlio amato, i suoi genitori erano dei santi per sopportare tutta quella sua insicurezza e per mantenerlo ancora all'età di 25 anni. Inoltre aveva tutto quello che voleva: vestiti, libri, una casa, una famiglia e degli amici; mentre quel bambino non aveva assolutamente niente. Non solo non aveva una mamma, ma non aveva un vestitino tutto per sè, un giochino, un ciuccio. Non c'era nulla in quel mondo che fosse suo se non se stesso e la pelle che si portava addosso. Se non si fosse lasciato uscire già alcune lacrime per il panico che la situazione gli aveva procurato, l'avrebbe fatto sicuramente dopo aver realizzato quella desolante realtà. Scrisse una rapida mail e per l'ennesima volta andò al bancone dell'accettazione. «Mi scusi... posso, cioè... potrei» farfugliò confuso «Come si chiama il neonato?»
«La madre non ha dato istruzioni precise» rispose ancora lei, con una nota di tristezza «Quindi l'abbiamo chiamata "Shiyou"* in via provvisoria, secondo la data di nascita»
«Ah, è una femmina?» il ragazzo sbattè le palpebre, stupito. Perchè aveva dato per scontato che fosse un maschio? «Posso vedere Shiyou?» chiese allora. Fu il turno dell'infermiera di rimanere sorpresa. Però non disse nulla e annuì. Avvisò una collega che stava lasciando la postazione e lo pregò di seguirla verso la nursery.
Un ampia sala era divisa a tre quarti da uno spesso vetro che andava dal pavimento al soffitto. Una balaustra azzurra stava nel quarto di spazio accessibile al pubblico, così che chi andava a vedere potesse chinarsi appoggiandosi lì invece che mettendo le mani sul vetro. Nella metà più ampia della stanza stavano le culle con le rotelle che ospitavano i neonati. Ognuna era un po' diversa dalle altre. Ogni bimbo, esclusi quelli che erano chiaramente nati quella stessa mattina o il giorno prima, aveva una tutina diversa da quella degli altri. Sopra le culle stavano dei cartellini estraibili su cui venivano scritti in penna i nomi completi di nome e cognome. Il vetro era tanto spesso che non si sentiva nessuno degli strilli che invece dovevano emettere i bambini che vedeva piangere a bocca spalancata. L'infermiera lo lasciò lì e si allontanò rapidamente, così non gli rimase che scrutare con imbarazzo le varie culle alla ricerca di quella col nome che gli avevano detto. Però, nonostante avesse ricontrollato due volte i nomi, non la trovò e cominciò ad agitarsi: possibile che non riuscisse a vederla? Improvvisamente fu preso dall'angoscia, l'idea di lasciare quella bambina ancora sotto lo sguardo di estranei lo spaventava: lui era lì, com'era possibile che non la trovasse, prolungando così la sua solitudine? A tranquillizzarlo fu la stessa infermiera che entrava in quel momento da una porta infondo alla nursery spingendo un carrellino nuovo per aggiungerlo agli altri. Con premura cominciò a spostare altre culle per farle spazio e poterla mettere in prima fila. Satoshi si appoggiò con le mani alla balaustra e si tese in avanti, sfiorando il vetro con il naso, impaziente di guardare il contenuto della culla. Quando se la ritrovò davanti si abbassò con il viso all'altezza del bordo del lettino, osservandola con stupore. Aveva il faccino tondissimo, il naso piccolo e la bocca appena aperta. Era veramente minuscola, con le braccia e le gambe piegate e pochi capelli spettinati in testa. Pensò che bastava guardarla in quel momento per capire che era sua figlia: era il primo importante momento della sua vita -l'incontro con il papà- e lei dormiva! Satoshi allungò un dito e lo picchiò una volta sul vetro prima di rendersi conto che non aveva alcun senso farlo, non stava attirando l'attenzione di un animale in una gabbia, eppure voleva un modo per svegliarla. Alzò lo sguardo sull'infermiera che ridacchiava divertita, ma a lui non importava di darsi un contegno, quel vetro era diventato improvvisamente di troppo: voleva toccare la bambina. Gesticolò verso la donna per farle capire che voleva prendere in braccio la neonata e lei lo guardò dubbiosa, non perchè non avesse capito, ma proprio perchè non sembrava convinta di volergli dare quell'occasione. Alla fine riprese con sè la culla e uscì dalla nursery. Satoshi la attese nel corridoio e rimase profondamente deluso al vederla arrivare a mani vuote. «Ohno san, è sicuro di quel che sta facendo?» domandò questa con evidente preoccupazione «E' quasi certo che sia figlia sua, ma dovremo prima fare il test. Se poi risultasse che...» e lasciò la frase in sospeso
«L'ha detto lei: è quasi certo» rispose stringendosi nelle spalle. L'infermiera lo scrutò attentamente negli occhi e lui fece lo stesso, anche se non capiva bene perchè dovessero comportarsi a quel modo: era "quasi certo" che era sua no? Allora aveva il diritto di tenerla in braccio.
Mentre stava per entrare nella parte del reparto maternità dedicato al solo personale sua madre comparve nel corridoio. «Satoshi kun!» esclamò alzando un braccio per farsi notare. Lui si fermò tenendo la maniglia della porta nella mano, per non farla chiudere. La donna gli si avvicinò e lo guardò con attenzione, poi fece un sorriso. «Mi sembra che tu sia meglio rispetto a quando ti ho sentito al telefono» disse sollevata «Ho fatto quello che mi hai chiesto» aggiunse tendendogli un sacchetto e senza chiedergli altro. Avrebbe potuto tempestarlo di domande: cos'era successo? Dov'era Miki? Era veramente sua quella bambina? Perchè prima l'aveva chiamata terrorizzato e ora era tranquillo? Ma era la sua mamma, sapeva come trattare con lui. E poi non voleva aspettare un minuto di più, avrebbero parlato dopo. «Grazie»
«Ti aspetto alle poltroncine» annuì per poi lasciarlo andare.
La saletta pulita e ordinata in cui erano ospitate le culle quando non erano nella nursery era esposta a sud e quindi luminosa, con le finestre coperte solo da un paio di lunghe tende bianche e leggere. Si lasciò guidare fino all'ingresso poi gli indicarono il lettino. Per qualche secondo rimase sulla soglia, fermo e silenzioso, poi si girò a cercare nuovamente l'inserviente. «Come si fa?» domandò. Quella ridacchiò, e con lei altre colleghe, quindi si offrì di accompagnarlo per fargli vedere come comportarsi. La bambina sonnecchiava ancora, ma aveva girato la testina dall'altra parte: come faceva a non svegliarsi con tutto il baccano che facevano i suoi compagni di stanza? Uno solo di loro strillava tre volte più forte della sua sveglia e dato che lì dentro i piagnucoloni erano più di uno, l'unione dei vari strilli in certi momenti sembrava sfidare le capacità vocali umane per somigliare più a quelle ultrasoniche di un pipistrello. La donna prese la bambina in braccio, con cautela, senza che questa accennasse a smettere di ronfare, quindi gli fece osservare la posizione delle braccia perchè capisse in che modo andava sorretta la piccola. Satoshi bofonchiò un paio di versi di conferma mentre imitava l'infermiera. «Bene, ora provi lei» lo incoraggiò prendendogli da una mano il sacchetto che gli aveva lasciato sua madre. Lo fece pur tenendo le braccia nella stessa posizione, quindi con molta attenzione gli passò la neonata. Lui aveva gli occhi sgranati dalla paura di farla cadere, gli sembrava di muoversi proprio come un elefante in una stanza di specchi. Quando il trasferimento fu completo era tutto piegato con le spalle rigide per la tensione. Altre infermiere li osservavano divertite dalla soglia: a quanto pare la piccola abbandonata dalla madre era famosa e l'arrivo del papà era un evento seguito con emozione da tutti lì dentro. Da tutti, meno che dalla protagonista: possibile che continuasse a ronfare? «Come si sveglia?» domandò dubbioso all'infermiera
«Si rilassi, non è mica un bambolotto completo di libretto di istruzione» sospirò quella «Cosa vuole fare con questo?» fece, accennando al sacchetto
«Si può mettere il pacchetto sulla culla?». Satoshi avrebbe voluto pregare la donna di rimanere con lui, ma alcune colleghe l'avevano chiamata per un urgenza e lui si rese conto di non volersi rendere ridicolo più di quanto non avesse già fatto. La guardò allontanarsi e cercò di non sembrare disperato o spaventato, ma piuttosto di concentrarsi qualche secondo per rilassare i muscoli delle spalle e raddrizzare la schiena: era un uomo accidenti!
Quando riabbassò lo sguardo sulla bambina due occhietti lo guardavano insistenti. Quando si era svegliata? Ohno la fissò a sua volta. Aveva le iridi castano scure e sembrava fissarlo con stupore. Sapeva chi aveva davanti? Sapeva chi era la persona che stava guardando? Satoshi ne dubitava, anzi era certo che l'intensità con cui lei lo fissava non era dovuta alla consapevolezza di chi lui fosse, ma fu sorpreso nello scoprire che gli piaceva pensare che invece fosse così. Dopo quattro giorni di completa solitudine quella bambina era finalmente tra le braccia della famiglia: la sua famiglia. Satoshi sorrise, per la prima volta in quella mattinata surreale. «Ora c'è una cosa che è tua» le sussurrò lentamente. Si sentiva utile, sentiva di aver fatto qualcosa di veramente significativo come non gli capitava da tempo. «Guarda, c'è un'altra cosa» le spiegò, mettendosi a parlarle come se fosse la cosa più naturale del mondo. Imitando l'infermiera allungò una mano senza muovere le braccia. Si chinò mentre cercava di scartare il pacchetto senza muoversi troppo, così la bambina ne approfittò per allungare le mani piccolissime e tastargli la faccia a caso, rendendo l'operazione ancora più difficile. Alla fine ce la fece e prese un respiro profondo prima di allargare la copertina che aveva fatto comprare a sua madre sulla via per raggiungerlo. «Anche questa è tua» concluse. Con qualche gesto goffo stese la stoffa sulla neonata che aveva tra le braccia: era giallo chiaro -perchè sua madre non sapeva ancora se era maschio o femmina- con delle pagnotte di dimensioni diverse stampate al centro. Ora la bambina possedeva lui e una coperta gialla: il mondo si conquista a piccoli passi. Dal canto suo il ragazzo continuava a provare una soddisfazione incredibile. «Beh, non è tanto difficile» si disse con un sospiro tranquillo e la strinse tra le braccia per sorreggerla con un po' più di sicurezza. Allora, forse per l'abbraccio più dolce e meno rigido, lei gli sorrise per la prima volta da quando si era svegliata. Bastò quello e Satoshi si innamorò perdutamente.

Una parte di sè sarebbe rimasta all'ospedale tutto il tempo. Non avrebbe potuto stare con la bambina, ma avrebbe speso volentieri tutta la giornata a guardarla da dietro il vetro. Trovare il coraggio di prenderla in braccio era stato difficile, ma rimetterla nella culla e andarsene lo era stato ancora di più. Gli avevano dato il permesso di lasciarle la copertina gialla, quindi sperava che potesse essere un caldo sostituto in sua assenza, ma da quando si era dichiarato alla bambina come di sua proprietà era come averle fatto una promessa eternamente vincolante: non avrebbe più dovuto lasciarla. Ma le implicazioni legali del caso erano più forti del suo desiderio di stare con lei, quindi era stato rimandato a casa. Così, steso nell'ofuro, con la nuca appoggiata al bordo della vasca e il viso immerso nell'acqua fino al naso, si osservava le braccia come se ancora potesse trovarvi la bambina.
Gli avevano prelevato un campione di saliva per fare il test e nonostante normalmente ci volessero almeno 3 giorni lavorativi per i risultati, nel suo caso avevano attuato la procedura d'emergenza così avrebbe avuto il responso in circa 48 ore. Si abbracciò incrociando le braccia al petto e appoggiando le mani sulle spalle, piegandosi leggermente su se stesso. L'ofuro era silenzioso, nemmeno una goccia cadeva sull'acqua fermissima della vasca ed avendo una casa a due piani un po' vecchiotta non avevano un rimpianto di deumidificazione, così dovevano aprire la finestra quando finivano per lasciar uscire l'umidità. L'aria era densa, piena di caldo vapore bianco. Quell’ambiente così chiaro, quell’immobilità assoluta, il caldo avvolgente, quasi bruciante della vasca: tutto sembrava isolarlo dal resto del mondo e così aveva chiuso gli occhi con un sospiro.
Prima di lasciare l'ospedale, e dopo aver svolto tutte le pratiche del caso, gli avevano lasciato mostrare la bambina a sua madre anche se solo dal vetro della nursery. Lei non aveva detto nulla, aveva sorriso alla piccola poi si era preoccupata per lui. Probabilmente se le avesse indicato una neonata qualsiasi si sarebbe comportata allo stesso modo e questo lo aveva un po' scoraggiato, ma sapeva perchè lei avesse agito a quel modo: aspettava che parlassero tutti insieme, anche con suo padre. Una cosa era certa su sua madre, era lei a indossare i pantaloni in quella casa. Lui e suo padre erano troppo simili: silenziosi, svampiti, osservatori; era lei a mandare avanti la baracca, perchè se fosse stato per loro sarebbero probabilmente andati alla deriva. Ma l'abilità di quella donna stava nel gestire ogni cosa senza che loro ne fossero coscienti. Era rimasta in silenzio quel giorno, perchè sapeva stare al suo posto: l'uomo di casa era suo padre, non lei; e questo in molte occasioni appagava il bisogno di quest’ultimo di sentirsi dominante davanti alla famiglia riunita. Poi si scopriva che lei gli aveva già parlato, convincendolo a pensarla allo stesso modo, quindi ciò che suo padre annunciava come dogma del padrone di casa era, in realtà, proprio quello che voleva sua madre. In parte era stata così anche con Satoshi. Lui era sempre stato un ragazzo tranquillo, quindi non è che fosse stato difficile crescerlo, ma a volte si era bloccato davanti ai dubbi o si era impuntato su qualcosa. Ecco, quelle volte sua madre era stata ben attenta a parlargli con serietà, ad ascoltarlo e a confrontarsi. In quel modo l’aveva fatto sentire compreso, certo, ma gli aveva anche fatto capire che stava facendo una stupidata. Insomma alla fine faceva quello che voleva lei, senza però sentirsi costretto.
Sarebbe stato in grado di costruire una famiglia? Come ci si comportava con i bambini? E se sua figlia non fosse stata così tranquilla come lui? Il cuore cominciò a battergli forte e alzò la testa per uscire dall'acqua fino alle spalle. Satoshi guardava dritto davanti a sè con un'improvvisa ansia. Fino a quel momento era stato scosso dalla notizia e si era lasciato abbindolare dalla bellezza della bambina, ma non aveva affatto riflettuto sul fatto che quel fagottino dormiente non sarebbe rimasto tale. Lui, che nemmeno sapeva che direzione dare alla propria vita, come avrebbe potuto crescere un altro essere umano? Si rese conto in quel momento che avere un figlio significava avere nelle sue mani la formazione futura di una persona: che fosse diventata una brava ragazza o una sgualdrina dipendeva solo da lui, che avesse fatto l'infermiera o la serial killer dipendeva da come lui l'avrebbe cresciuta. E se avesse detto una frase sbagliata procurandole un trauma infantile terribile? Se lei lo avesse odiato perchè non aveva cercato sua madre? Si riprese da quei pensieri quando sentì la porta d'ingresso chiudersi e decise di alzarsi dalla vasca. La famiglia non si sarebbe riunita finchè suo padre, appena tornato, non avesse mangiato e fatto il bagno, il che significava che lui aveva circa quaranta minuti per capire cosa voleva fare con sua figlia, con se stesso e con la sua vita, poi doveva raccogliere il coraggio e informare i genitori. Perchè una cosa era certa: se era figlia sua, allora l’avrebbe presa con sè. Il suo terrore momentaneo non avrebbe mai retto il paragone con la paura che la bambina avrebbe provato se lui l'avesse abbandonata.
Erano degli ottimi propositi. Satoshi era bravissimo a farne, era il passo successivo che gli creava qualche problema. Infatti un’ora dopo essere uscito dal bagno, invece di essere in camera sua a riflettere, era in cucina. Aveva speso circa quindici minuti steso sul letto a chiedersi disperatamente “Cosa posso fare? Cosa posso fare?”, poi aveva deciso che un atteggiamento simile era sia noioso, sia inutile, così si era alzato e aveva fatto altro. Si era dedicato alla lista della spesa, come faceva quasi sempre il venerdì sera, o il sabato mattina, di modo che nel weekend andassero a comprare tutto ciò che gli serviva per cucinare la cena della domenica. Da quando era entrato al liceo aveva sofferto del fatto che il piano di studi della sua scuola non prevedesse economia domestica per i ragazzi, che venivano invece costretti a fare ore di educazione fisica in più. Così, essendo diventato ormai grande, sua madre gli aveva lasciato libera la cucina ogni tanto e con gli anni si era consolidata una tradizione in famiglia: la focaccia della domenica. Ogni domenica a cena il menù era in mano sua e tutte le volte si dilettava nel provare nuove ricette o affinarne di già provate e preparava pizzette, focacce o torte salate. Con il tempo infatti aveva scartato tutto ciò che non gli piaceva cucinare e dato che a casa sua, a differenza della scuola, era libero di preparare quello che voleva, alla fine il nucleo principale dei piatti che preparava si era affermato nella categoria di pane, focacce e simili, insomma niente a che vedere con la normale cucina giapponese. Si poteva dire che quello era diventato il suo hobby, praticamente l’unica cosa che lo impegnasse seriamente, ma dato che notoriamente un hobby è qualcosa che si fa quando si ha tempo libero e lui aveva solo tempo libero, non era certo che quel passatempo si potesse ancora definire tale.
Quando suo padre entrò in sala, sfamato e lavato, con addosso uno yukata da casa, Satoshi stava scrivendo le ultime cose da comprare. I genitori si sistemarono entrambi sotto il kotatsu perché la sera faceva ancora fresco, quindi attesero che lui fosse pronto. Infatti non bastava che finisse di scrivere gli ingredienti, ma doveva anche trovare il coraggio di andare a quel tavolo. Non era una cosa facile, ma ormai aveva venticinque anni, non poteva permettersi di avere paura di confrontarsi con i genitori. «La mamma mi ha già detto tutto» spiegò suo padre. Aveva l’espressione seria, ma non era corrucciato, né sembrava particolarmente arrabbiato. «Hai provato a contattare Namiyoka san?» domandò guardandolo in faccia
«Sì» annuì. Non avrebbe voluto farlo, ma si sentiva in dovere di fare un minimo sforzo per rintracciare la madre della bambina. «Il numero è inesistente. Erano almeno tre settimane che non la sentivo quindi non so quando l’abbia disabilitato»
«Non ti è venuto nessun dubbio dato che non avevi sue notizie da tanto tempo?»
«Ci eravamo praticamente lasciati, mi è sembrato normale» rispose scuotendo il capo, guardando il legno scuro del tavolo
«Non hai pensato che potesse stare male? Che fosse in ospedale?» insistè l’uomo, alchè Satoshi corrugò la fronte. «Se si pensasse ad una catastrofe ogni volta che non mi faccio sentire, i miei amici sarebbero perennemente al pronto soccorso» spiegò stringendosi nelle spalle
«Quello che vuole dire papà, è se avevi qualche sospetto sulla gravidanza» si intromise sua madre
«No… no certo che no!» disse sgranando gli occhi «Se avessi saputo non sarebbe successo niente di tutto questo. Come…?» fece sbalordito
«Stai tranquillo Satoshi kun, non volevamo insinuare nulla» lo rassicurò lei
«E’ solo che con i figli non si può mai sapere» spiegò l’uomo, con le mani nascoste nelle ampie maniche dello yukata «I figli cambiano le persone, Satoshi. Cambiano la nostra percezione del mondo che ci circonda, il nostro modo di giudicare noi stessi… molte volte, invece di unire una coppia, la separano. Se tu avessi saputo e se fossi scappato… beh, non sarebbe stato un atteggiamento coraggioso, né corretto, ma per certi versi è comprensibile, seppur non giustificabile»
«Non sapevo che fosse incinta» sentenziò il ragazzo, seriamente
«Va bene. Ti crediamo. Ora dicci, cosa pensi di fare?» chiese ancora suo padre. Il suo rapporto con lui gli era sempre sembrato quello di due alleati, forse perché erano i due maschi di casa e poi si era sempre sentito molto affine a suo padre dato che si somigliavano tanto nel carattere. In realtà quell’uomo non doveva mai averlo trattato come suo pari, ma sempre come un figlio, un bambino, un ragazzo da proteggere. E anche ora che lui era cresciuto, non potevano essere eguali perché a prescindere dall'età lui sarebbe sempre stato suo figlio. In quel momento invece, quella precisa domanda era stata fatta con un distacco e una serietà tali che Satoshi sentì come se avesse avuto un estraneo davanti a sé: quello significava essere trattato da pari da suo padre? Un uomo di fronte ad un altro uomo, niente di più, niente di meno. Colui che padre lo era già da tanto e quello che si accingeva a diventarlo dall'oggi al domani. Satoshi voleva deglutire per rilassarsi un po', rendendosi conto che da quando si era seduto aveva contratto tutti i muscoli delle spalle, ma aveva l'impressione che qualsiasi movimento sarebbe stato un segno di debolezza. Doveva pensare ad una risposta: pensarla in fretta e dirla subito. «Se è mia la porterò a casa domani stesso» disse infine. Non era sicuro di niente, tranne che di quello. «Tutto qui?» domandò il padre
«Dove vivrete? Come la manterrai? Con i soldi dei part time non mantieni nemmeno te stesso» fece notare la madre. Quelle domande lo spiazzarono: pensava che avrebbe ricevuto un aiuto, invece parlavano come se la cosa riguardasse esclusivamente lui, come se dal giorno seguente avesse dovuto trasferirsi. «Non lo so» rispose con sincerità «Però non posso lasciarla da sola» aggiunse. Solitamente non era di molte parole, ma quella volta non poteva rimanere in silenzio: quello era il suo momento per parlare e se solitamente stava zitto perchè non amava parlare a vanvera, quando era doveroso farlo invece era giusto che si sforzasse di aprir bocca. E quello era uno di quei momenti. «Quando ti ho chiesto di comprare una coperta lungo la strada non l'ho fatto per capriccio personale. Ho pensato che c'era un essere umano che non aveva niente di proprio. Mi sono sentito triste» spiegò continuando a fissare il legno del tavolo «Ho provato pietà. Non pensate sia sbagliato provare pietà per un neonato?» domandò, alzando lo sguardo a fissarli «Non è normale. La prima cosa che si dovrebbe sentire è la felicità di una nuova vita, non la pietà. E' sbagliato, e se fosse mia figlia io non vorrei abbandonarla sapendo che per il resto dei suoi giorni la guarderanno con pietà. Non voglio più provare pietà per lei. E se posso, voglio che... voglio che la guardino con invidia. Voglio che le amiche non pensino "la sua mamma l'ha abbandonata", ma che le invidino il papà»
«Allora cosa vuoi fare?» domandò di nuovo il padre
«Voglio crescere mia figlia. Troverò un lavoro, lo prometto. Io... metterò la testa a posto»
«Cercherai un lavoro?» chiese la madre sorpresa
«Sì» annuì «Farò tutto ciò che è necessario fare»
«Almeno hai idea di cosa sia necessario?» continuò lei «Prima di tutto verrà lei, i suoi desideri e i suoi bisogni. Significa non uscire con gli amici per badare a lei, smettere di divertirti quando ti pare per vegliarla quando è malata, scordarti una fidanzata per un po'. Devi cominciare una vita fatta di lavoro e di casa, di notti insonni, di preoccupazioni costanti. E' una vita di responsabilità, Satoshi kun: responsabilità in quello che si fa per se stessi, in quello che si costruisce per i propri figli, responsabilità sul lavoro, serietà davanti ai problemi»
«Come ho detto: farò tutto ciò che è necessario» pronunciò chinando il capo e piegando il busto in avanti «Voglio portarla a casa, perciò vi prego: fateci stare qui per un po'» li pregò serrando gli occhi. Il silenzio che seguì fu lungo, rotto solo dal gocciolare incostante del lavandino della cucina e dal ronzio del frigorifero. Fu tanto lungo che alla fine alzò la testa perchè cominciava a venirgli mal di schiena. Sua madre si era aggrappata ad una manica dello yukata del marito e tratteneva a stento le lacrime. «Che c'è?» domandò stupito Satoshi
«Sono anni che non esprimi un desiderio» farfugliò la donna per poi farsi scappare un singhiozzo, sorridendo dietro le dita con cui si copriva la bocca
«Sembra un secolo che non ti sentiamo dire "voglio questo" o "voglio quello"» spiegò il padre con un sorriso pacifico. Improvvisamente erano tornati ad essere i suoi genitori, e lui il loro unico figlio. La durezza con cui gli avevano parlato non era da loro, ma lui non si era posto domande e aveva risposto con altrettanta serietà. In quel momento invece erano di nuovo una famiglia. «Ti aiuteremo Satoshi kun» disse sua madre passandosi la mano sugli occhi per asciugare quelle poche lacrime che si era concessa «E potete stare qui, ci mancherebbe. Ma ricordati che è figlia tua, non nostra»
«Se ti diremo di no per qualcosa non dovrai arrabbiarti, dovrai cavartela da solo» spiegò il padre arricciando il naso, con fare di superiorità
«Sì» annuì con un sorriso «Grazie»
«E raddrizzati. Non mi va che mio figlio debba inchinarsi così» farfugliò l'uomo, imbarazzato
«Papà ha detto che domani ti accompagna in macchina all'ospedale, io vado a cercarti delle riviste per il lavoro» pianificò subito la madre. Eccola, la loro donna di casa. Se la bambina fosse venuta sù con almeno metà della sua forza d'animo sarebbe stato solo positivo. «Avevi qualcosa in mente di particolare?» gli chiese. Satoshi si bloccò a guardarla. Il lavoro... quello era sempre stato un problema spinoso. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per la bambina, certo, ma se avesse dovuto fare un lavoro orribile per poi tornare a casa a cambiare pannolini, faceva prima a cercarsi una corda e un albero abbastanza alto. Perplesso abbassò lo sguardo e lesse distrattamente il foglio della lista della spesa. «Qualsiasi cosa, credo» rispose titubante
«Satoshi kun» lo richiamò lei «"qualsiasi cosa" non va bene» scosse il capo «Sono felice che tu abbia le idee chiare in merito a quella bambina, ma non voglio che tu ti costruisca una vita che non ti piace»
«Lo so...» mormorò
«Devi pensare a cosa ti piace» gli suggerì «Cos'è che ti piace?»
«Ascoltare la musica?» tentò di rispondere
«Oh si! Facciamolo diventare un cantante» scherzò mestamente suo padre, ridacchiando tra sè
«Ormai è troppo grande. E poi se non ha successo ci serve un piano B» spiegò lei con molto pragmatismo «C'è un'altra cosa che ti piace no?» incalzò con un sorriso
«Un'altra cosa?» domandò stupito
«Oh, avanti Satoshi... certe volte sei talmente stordito che mi chiedo se sei veramente mio figlio»
«Infatti è anche mio» borbottò l'uomo al suo fianco
«Ti stai dando dello stordito, papà?» chiese il ragazzo, ridacchiando divertito
«Cosa c'è scritto qui?» domandò la madre puntando il dito sul foglio davanti a lui
«Mh? ... peperoni» rispose guardando la parola vicina al dito della donna
«Sì, bravo» sospirò quella, alzando gli occhi al soffitto «Ti piace cucinare, Satoshi. E' l'unica cosa che fai con passione nella tua vita. Ti piace stare al forno, quindi cercati un lavoro in una panetteria!». Il ragazzo la guardò con gli occhi sgranati: a quella soluzione non aveva mai pensato. Insomma, cucinare era un hobby, in teoria, non pensava di poter trasformare quel suo piccolo svago in una professione, in qualcosa di serio. Però era l'idea migliore avuta fino a quel momento, se non l'unica, quindi l'accettò.
A quel punto scoprì che sua madre era rimasta estasiata dalla bambina e fremeva di gioia all'idea di diventare nonna. Erano tutti consapevoli del fatto che quello che stavano per cominciare era un periodo di duri sacrifici, ma quella sera si abbandonarono al chiacchiericcio continuo su dettagli inutili e piccoli progetti: cosa si doveva comprare per la bambina, dove mettere la culla, cosa le si voleva insegnare, a quale scuola sarebbe andata. Venne fuori anche che suo padre, sulla via del ritorno dal lavoro, si era fermato in una libreria del centro e aveva comprato un libro di nomi per bambini, perchè aveva saputo che la bambina ne aveva solo uno provvisorio, ma il giorno dopo, se l'avessero portata a casa, doveva possedere un'identità propria. Fecero l'una a discutere sul nome, su come suonava con il loro cognome, sui kanji che dovevano comporlo o sul numero dei tratti finali. Alla fine Satoshi aveva deciso per "Kasaki**", con il kanji di "meravigliosa" e quello di "fioritura". Gli piaceva l'immagine che evocavano i kanji posti al fianco del suo cognome "Ohno", che significavano "grande campo". Voleva un'immagine luminosa e splendida per scacciare via la tristezza di quei primi giorni di vita, e quando si sentì pienamente convinto di quella scelta si sentì smanioso di tornare in ospedale per annunciarlo alla diretta interessata. "Hai un papà, una coperta e un nome!" voleva dirle "Ohno Kasaki".

1 kg di farina
Camminava con attenzione sul sottile materassino colorato. Era in gomma morbida fatto come i pezzi di un puzzle. Lei e il suo papà lo costruivano da due settimane ed erano riusciti a completarlo solo la sera prima. «Dov'è la "chi"?» domandava la nonna, in piedi al banco della cucina che preparava la cena. Kasaki si guardò intorno, osservando i segni sul materassino: la particolarità di quell'oggetto era che ogni pezzo conteneva una lettera dell'alfabeto hiragana e incastrati tra loro formavano la tabella completa. Era possibile anche incastrarli in ordine differente. La bambina allungò un piede per indicare il carattere che le sembrava corretto. «No Kasaki chan, pensaci bene. Non è "chi" quello, è "ki"» scosse il capo la nonna. La bambina si rimise sul bordo della grande tabella, sull'attenti, le mani dietro la schiena e lo sguardo concentrato, per cercare la risposta corretta. Si era messa in testa di indovinare tutto l'alfabeto, almeno una volta, prima che tornasse suo padre, ma non c'era verso: era solo alla sedicesima sillaba su quarantasei. Lei e la nonna avevano mischiato i pezzi del puzzle ricomponendo il materassino di modo che i caratteri non fossero in ordine, così le era più difficile trovare quello che cercava. Ma forse era troppo difficile e questo la mortificava, però il senso di sconfitta non era nulla se paragonato all'idea di non poter fare una sorpresa a suo padre, quando fosse rientrato. Ci aveva sperato tanto, ma era chiaro che sembrava impossibile se era tanto lenta ad imparare i caratteri. Dopo due buoni minuti di silenziosa contemplazione la bambina camminò sul puzzle e arrivò all'angolo in alto a destra. Si piegò e puntò il dito sulla sillaba. «Sicura Kasaki?» domandò la donna con un sorriso «Quella è "sa", lo vedi che c'è disegnato un cucchiaino? Quello è zucchero***». La bambina guardò il disegno trattenendo il respiro, sperando che la nonna non ci vedesse bene, ma non era così: era "sa" e lei aveva sbagliato ancora una volta. Si sedette in un unico movimento, sbilanciandosi all'indietro e atterrando sul sedere sopra il pezzo del "mu". Il disegno del cucchiaino sul puzzle sbiadì ai suoi occhi quando senti arrivarle le lacrime. Non era il non indovinare che la feriva, ma l'idea di come suo padre avrebbe reagito allo scoprire che lei non aveva ancora imparato l'alfabeto dopo che avevano passato due settimane a guardarlo insieme per costruire il materassino nel modo corretto. Quando sapeva che lui si aspettava qualcosa da lei, ma non riusciva a soddisfarlo le veniva l'ansia: come avrebbe reagito? Si sarebbe rattristato? Avrebbe provato vergogna per una figlia così stupida? E se avesse deciso di non volere una bambina che non sapeva leggere? Chiedendosi cose simili, ma in maniera più semplice, come solo una mente infantile poteva formularle, continuò a fissare il "sa" e tirò su con il naso cercando di fare meno rumore possibile: non voleva che la nonna si accorgesse che stava piangendo, nessuno doveva saperlo perchè le brave bambine non piangono davanti all'hiragana, loro lo sanno già. Alzò la testa a cercare con gli occhi la sua coperta gialla e nel gattonare per recuperarla guardò l'orologio sul mobiletto: erano le 18 meno 5. Per Kasaki, che non era in grado di leggere l'orario, semplicemente mancava poco al momento in cui le due stanghette si sarebbero messe in fila dividendo a metà il tondo in cui giravano. Quello era il momento che aspettava per tutto il giorno. Con un po' di ansia, per essersi accorta solo in quel momento che era quasi ora e perchè aveva ancora gli occhi pieni di lacrime, prese con sè la piccola coperta gialla e uscì silenziosa dal salotto. A piedi nudi attraversò il corridoio prima di fermarsi vicina alla bassa scarpiera in legno di fianco all'entrata. Con cura vi stese sopra la copertina, quindi fece forza sulle braccia e si arrampicò sopra. Mentre attendeva che si aprisse la porta, seduta a gambe incrociate al centro della coperta, si passò le piccole mani sugli occhi per asciugarseli e si concesse di tirare su col naso più forte, pensando che la nonna non potesse sentirla dalla cucina. Quando delle chiavi girarono nella toppa spalancò appena gli occhi e serrò le labbra, fissando con intensità l'entrata, finchè non venne aperta e comparve il suo papà. «Papi, bentornato» esclamò piegando le labbra in un sorriso debole, perchè si stava sforzando di non piangere e perchè in parte era anche terrorizzata all'idea di far sapere a suo padre che non era riuscita a combinare nulla. «Sono tornato» rispose lui sorridendole a sua volta e chiudendosi la porta alle spalle. Il suo papà faceva sempre così: non si voltava mai per chiuderla bene, ma continuava a guardarla e sorriderle. Anche per togliersi le scarpe si sedeva sul gradino, leggermente voltato verso di lei, nonostante tutte le volte, dopo essersi salutati, non aggiungessero nient'altro. Kasaki guardava le dita del suo papà che scioglievano i nodi dei lacci, lo osservava mentre apriva il vano sotto di lei, dove riponevano sempre tutte le calzature, e solo una volta che questi aveva messo le ciabatte, salendo finalmente sul pavimento di casa, sollevava le braccia verso di lui. Anche quel giorno, ignaro del fallimento della bambina, Satoshi la prese in braccio mentre lei gli si aggrappava al petto come facevano i koala con gli alberi. In quel caso lo stringeva con affetto, ma la "presa del koala" -come l'avevano chiamata loro- aveva molteplici usi, a volte anche la tortura del papà che, così stritolato, non poteva dirle di no. «Cos'hai fatto oggi?» domandò Kasaki mentre riprendeva tra le mani la coperta gialla che lui le stava ridando
«La pasta frolla» rispose questi mentre attraversava il corridoio. La voce di suo padre non era tanto profonda come quella del nonno, era più leggera, forse perchè non alzava mai il tono, e suonava sempre molto gentile: era sicura che, se fosse stato possibile, tutti gli orsacchiotti di peluche del mondo avrebbero parlato con una voce come quella. Era possibile che un papà con una voce tanto dolce la sgridasse e la abbandonasse solo perchè era lenta ad imparare un alfabeto? «Frolla?» chiese per temporeggiare, appoggiando la testa al suo petto e allentando la presa dato che sentiva il braccio di Satoshi sotto di lei a sorreggerla
«Ricordi le tortine di frutta? Quelle di domenica» e lei annuì cominciando a passare l'indice sulle righe della camicia che indossava lui, come a ridisegnarle «Quella lì. Tu cosa hai fatto?» le rigirò la domanda lasciando lo zaino nella loro camera e avviandosi in salotto. Era arrivato il fatidico momento. «Dalla "a" alla "chi"» spiegò «Sono lenta» aggiunse velocemente schiacciando la faccia contro il petto di suo padre: non voleva vederlo, nè sentirlo dopo quella rivelazione, la sua reazione le faceva troppa paura. «Sei lenta, sì» convenne il ragazzo con molta calma, entrando in salotto «Ciao mamma». Kasaki non seppe come reagire a quella risposta: non si era arrabbiato, ma non le aveva nemmeno detto che non era grave. Era lenta! E lui aveva detto che era vero! Come offesa, premette le labbra contro la camicia a righe del padre e cominciò a soffiare, riempiendo le guance d'aria. «Satoshi kun, tutto a posto a scuola?» domandò la nonna
«Sì, ma sono ancora scarso sui dolci» spiegò lui sedendosi al tavolo della cucina
«Non sono tanti mesi che hai cominciato e poi hai sempre fatto cose salate al lavoro, devi solo farci la mano» lo rassicurò la donna «Come ti sembra questa scuola?»
«Mi trovo bene» annuì «Kasaki chan, mi stai sbavando sulla camicia?» domandò piegando la testa verso di lei. A quel punto la bambina staccò le labbra dal suo petto e guardò prima la camicia bagnata, poi il viso del suo papà, vicinissimo. In realtà aveva anche ripreso a lacrimare, mortificata. «Sì» annuì «Perchè sono lenta» spiegò e il ragazzo ridacchiò stringendola con entrambe le braccia, intenerito. «Lo finiamo insieme?» le domandò piano. Non disse niente delle sue lacrime e non accennò al fatto che non la voleva più o che preferiva bambine più intelligenti a lei. Il suo era il papà più buono del mondo. «Puoi?» fece rinserrando la presa-del-koala, come temendo che potesse sfuggirle ora che non aveva paura di affrontare la sua mancanza dato che non si era arrabbiato
«Possiamo?» chiese Satoshi alzando lo sguardo sulla nonna
«Tu devi preparare il piatto a Kasaki chan e dovete farvi entrambi il bagno dopo mangiato» spiegò quella socchiudendo gli occhi «Quindi prima fate queste cose e poi potrete giocare. Conosco voi due pelandroni»
«Nooo, noooo ora!» si lagnò la bambina. Era appena tornato, non lo vedeva dalla sera prima e già dovevano fare cose diverse senza stare insieme? No. «Oraaa, oraaa, oraaaa!!» continuava a ripetere
«Se non la smetti...» pronunciò Satoshi vicino al suo orecchio
«Oraaa, oraaa, oraaaa, oraaaa»
«... il papà ti fa cadere!» esclamò Satoshi aprendo di scatto le braccia. Le richiuse subito, ma quel rapido gesto era bastato a farla ammutolire. «Dov'è che sei arrivata?» domandò lui girandosi sulla sedia per guardare il materassino
«Chi» rispose
«Mentre ti faccio la pappa arrivi a "to" da sola. Dopo facciamo insieme»
«No» ribattè «Da sola no»
«Allora papà ti lascia cadere e tu rimarrai per sempre lentaaaa... sei leeeeentaaaa» cantilenò lui facendola piegare all'indietro con il busto, tanto da farle perdere l'equilibro. Con un urletto la bambina allungò le braccia alzandole sopra la testa, ma Satoshi la teneva per i fianchi. «Leeentaaaa» continuava a dire mentre pian piano la faceva scivolare verso terra. Quando toccò il pavimento con le mani Kasaki stava ridendo a crepapelle. Alla fine si sostenne con le braccia e quando si sentì pronta piegò le gambe in avanti liberandosi della presa del padre. Rimase in verticale per pochi attimi e infine appoggiò i piedi a terra, rannicchiandosi su se stessa. «Solo fino a "to"» ammonì verso Satoshi, arricciando il labbro, quindi tornò al materassino, ripiegando la coperta gialla in un angolo di modo che non la intralciasse durante il suo compito.
Con difficoltà riconobbe le sillabe fino a "to", che ritrovò sul materasso nel momento in cui il nonno rientrava in casa. Tutti e tre gridarono un "bentornato" dalla cucina, quindi, mentre il papà e la nonna finivano di apparecchiare, lei lo andò ad accogliere quando già si stava avviando verso la propria camera per cambiarsi. Gli voleva bene, ma suo padre era l'unico che lei attendesse sulla soglia, perchè lui era più speciale di tutti.
Mangiò gli spaghetti con il cucchiaio. I grandi li mangiavano con le bacchette, tutti interi, mentre Satoshi, una volta che era pronto il piatto della figlia, li tagliuzzava sempre. A volte il nonno non cenava con loro, perchè lavorava fino a tardi, ma quando era a tavola con loro alternava la sua attenzione dai discorsi della nonna alla televisione. Il suo papà non parlava molto e non faceva mai molto caso ai programmi che giravano sul televisore. Per lo più guardava il piatto, faceva attenzione a lei e andava in cucina a prendere le portate. «Oh guarda» fece il nonno con le bacchette a mezz'aria cariche di spaghetti «Alza un po'» chiese indicando il telecomando. Satoshi lo premette girandolo verso l'apparecchio. Il servizio era su un giovane giapponese, trasferitosi ormai da 4 o 5 anni in America, per studiare regia cinematografica a Los Angeles. Da circa due settimane era uscito nelle sale il suo ultimo film ed era la prima volta che riceveva il successo di pubblico che sperava: il fatto che il regista fosse giapponese -con una pronuncia inglese buonissima- aveva attirato l'attenzione dei più importanti media Giapponesi e così eccolo sugli schermi della sua terra natale. «Accidenti... chissà come dev'essere stato difficile» mormorò il nonno «I nuovi giovani sono quelli che porteranno alto il nome del Giappone nel mondo»
«Guarda Kasaki chan, c'è l'hiragana del nome. Riesci a leggerlo?» sussurrò suo papà indicandole la fascia colorata in basso sullo schermo
«Ni... ninomi...ya» pronunciò lentamente e a fatica «Ninomiya?» domandò infine
«Sì. Ninomiya» annuì «Vedi di fianco? Quello è "regista" e ancora prima c'è scritto "giapponese". E' quello che sei anche tu»
«Giapponese... si scrive così» riflettè la bambina, poi sia lei che Satoshi tornarono concentrati sul loro piatto. Quella sera le fu permesso anche di aiutare a sparecchiare, portando le posate dal tavolo alla cucina e i bicchieri, ma uno alla volta. Quando ebbero finito si prepararono i pigiami puliti, mettendoli ognuno sul suo letto, quinsi si avviarono svogliati verso il bagno. Lei e suo padre erano pigri: a loro non piaceva prepararsi per il bagno e ogni tanto in inverno riuscivano ad evitarlo, poi però una volta che erano dentro era difficilissimo convincerli ad uscire, prima di tutto perchè si mettevano a giocare e poi perchè si stava bene nel calduccio dell'ofuro. «Girati Kasaki chan» disse lui, seduto su uno sgabello con un asciugamano legato in vita. La bambina fece come le era stato detto e gli diede le spalle, rimanendo seduta sul proprio sgabello, più piccolo degli altri. Con una spugna Satoshi cominciò a lavarle la schiena, accuratamente, ma con delicatezza. «Com'è la scuola?» domandò d'improvviso lei
«La mia?» fece muovendo il tubo della doccia per sciacquarla dal sapone
«Uhn» annuì
«Facciamo tante cose. Nelle scuole vere ci sono tanti tavoli, molti libri e bisogna leggerli. Noi invece stiamo in cucine grandi, sudiamo per il caldo e prepariamo tante cose» le spiegò
«Cucine più grandi della nostra?»
«Sì. Molto, molto più grandi» annuì lasciandole in mano la spugna. Era il suo turno di aiutare suo papà. Si alzò dallo sgabello e guardò Satoshi che si girava a darle le spalle. La schiena del suo papà era grandissima. La conosceva bene perchè, da quando era diventata abbastanza grande per fare il bagno nell'ofuro come tutti, l'aveva sempre lavata lei. Inoltre quando dormiva nel letto con lui aveva sempre preferito appoggiarsi contro la sua schiena piuttosto che farsi abbracciare. Strinse la spugna tra le dita e cominciò a sfregare contro la pelle chiara del suo papà. «Siamo... siamo più di dieci» le spiegò aprendo le mani e alzandole. Kasaki le guardò, si immaginò delle persone al posto delle dita e capì che erano tanti e che serviva una cucina grande. «Per ognuno serve uno spazio per cucinare, quindi le stanze sono come delle groooosse, groooosse cucinone» continuava a spiegarle, mentre lei alzava le braccia per arrivare a passargli la spugna dietro al collo «Anche nella prima scuola in cui andrai tu ci saranno poche cose da leggere e tante cose da fare»
«Come si chiama la scuola dove andrò?» domandò prendendo la doccia con entrambe le mani per direzionare meglio il getto d'acqua
«Si chiama "asilo"»
«Asilo... perchè ha un nome più facile della tua?»
«Uhm... perchè... all'asilo vanno i bambini che devono imparare, quindi cominciano dalle cose semplici. Nella mia invece ci vanno i grandi che sanno tante cose e possono usare parole difficili come "scuola di specializzazione"»
«Anche io posso diventare una bambina grande che va alla s... scuola di spechializzazione?»
«Spe-cia-liz-za-zio-ne» la corresse suo padre ridendo e girandosi a spegnere la doccia ora che si erano lavati per bene entrambi «Anche tu puoi, sì. Ma prima devi imparare l'hiragana» le ricordò
«Oh...» sospirò, ricordandosi del suo compito. Certo, se non si legge non si impara.
Satoshi le raccolse i capelli in una cipolla alta sulla testa, quindi entrarono insieme nella vasca. Era il momento che Kasaki preferiva. A volte stavano semplicemente a mollo in silenzio, altre giocavano nell'acqua. Il gioco che preferiva era quando suo padre fingeva di pescare, usando una canna giocattolo, e lei gli attaccava altri giocattoli al filo senza farsi vedere, mentre lui si distraeva a guardare altrove: faceva delle facce buffissime quando scopriva di aver pescato una papera di gomma o un trenino colorato e ogni volta si lamentava di non riuscire a recuperare nessun pesce lì dentro. Chissà perchè!?
Dopo un po' uscirono dal bagno, per lasciarlo libero al nonno, si vestirono rapidamente e lui le asciugò i capelli con il phon. Una volta pronti, tornarono in salotto indossando il pigiama così da andare a dormire non appena avessero finito l'alfabeto. Mentre lei cercava le sillabe, insieme pensavano a delle parole che iniziassero con quel suono. Le era più facile cercare di pensare a come scrivere la parola e, allora, ricordarsi il carattere da ritrovare nel materassino. In un'oretta arrivarono fino a "ya". «Allora ya... "yatta"» cominciò guardando le sillabe colorate sotto di lei. Attese qualche secondo, ma suo padre non rispose, quindi alzò lo sguardo. Si era steso vicino ad un angolo del materassino, per osservarla mentre cercava le sillabe, ma per trovare "mo" ci aveva impiegato un po' di tempo e nel mentre lui si era appisolato. «Papi?» fece avvicinandosi a lui e posandogli una mano sulla spalla «Papi?» ma non rispose. Respirava lentamente. Doveva essere stanchissimo per essersi addormentato di sasso in pochi minuti, oppure lei per trovare "mo" ci aveva messo più tempo di quando non avesse creduto. Al vederlo, rilassato e tranquillo, la bambina si rese conto di essere stanca anche lei, come se l'ansia del portare avanti la sua ricerca le avesse fatto dimenticare che ormai era tardi e aveva sonno. «Papi... papi, lo "ya"» cercò di insistere, poco convinta, sbadigliando
«"ya" come "riposo"****» sussurrò la nonna, entrando in salotto in quel momento e spegnendo le luci, così che solo la lampada della cucina rischiarasse un po' la stanza. «Mi sa che papà non ce la fa più, Kasaki chan. Continuate domani?»
«Ha detto che a scuola fanno tante cose» annuì la bimba
«Per quello è stanco. Però ha giocato con te fino ad ora» le spiegò piegandosi su di loro e facendole una carezza sulla testa «Ci penso io a farlo venire in stanza, tu gli prepari il letto?». Lei annuì, raccolse la coperta gialla e trottò rapidamente in camera. Doveva solo scostare la soffice coperta del futon e sistemare i cuscini. Sentì le voci del papà e della nonna che confabularono in cucina per un paio di minuti. Nell'aspettarlo, decise di mettersi sotto le coperte del lettone e scaldare il materasso prima che arrivasse: lui l'aveva aiutata con l'hiragana, il minimo che potesse fare era fargli trovare il letto caldo ad attenderlo.
Quando una mano le accarezzò i capelli, Kasaki aprì a fatica gli occhi: si era addormentata ad aspettare ed era rimasta stesa per orizzontate in mezzo al materasso. Le forti braccia di suo padre la sollevarono leggermente e la depositarono su un lato del materasso prima di smuovere le coperte e stenderle morbidamente su entrambi. Non si dissero nulla. Tante volte non parlavano affatto loro due, ma nel gesto con cui Satoshi si girò ad offrirle la schiena c'era l'invito a rimanere a dormire con lui, ad avvicinarsi e ad addormentarsi contro il tepore del suo corpo. La pelle del suo papà era calda e profumava di bagnoschiuma, lo stesso che usava lei, anche se era per bambini. Lui studiava tutto il giorno, ma quando tornava a casa giocavano insieme, mangiavano le stesse cose e facevano il bagno. Inoltre ridevano per gli stessi motivi e rimanevano in silenzio quando non c'era niente da dire. Se faceva tutte quelle cose per lei, come poteva aver pensato che la lasciasse solo perchè ricordava male l'hiragana? Che sciocchina!

Sale fino
L'aria nel vagone era irrespirabile. Nonostante fosse quasi primavera e cominciassero ad arrivare alcune giornate un po' più calde, i treni ancora tenevano acceso il riscaldamento. Satoshi arrivò addirittura ad aprirsi la zip della felpa per evitare di sudare eccessivamente. Quando la maggior parte delle persone scesero, si sistemò nel suo angolino preferito: si sedeva sempre nell'ultimo posto infondo di modo da potersi accoccolare contro la barriera in plastica che dalla parete del vagone arrivava al tubo per aggrapparsi. Gli impediva di vedere la porta d'entrata a fianco, ma era solida e molto alta, così era normale che ci si addormentasse contro: sempre meglio che cadere addormentati piegati su se stessi o con la testa appoggiata al vetro del finestrino alle proprie spalle. Chiuse gli occhi, stringendo al petto il proprio zaino e sospirò stancamente: come faceva a trovare il coraggio di alzarsi tutte le mattine? Dove trovava la forza di affrontare la propria vita? Ogni giorno era composto da colazione, corsa all'asilo, corsa a scuola, lezione tutto il giorno, corsa di nuovo all'asilo, pomeriggio a giocare, cena e studio fino a tardi. E il giorno dopo ancora: colazione, corsa all'asilo, corsa a scuola, lezioni... la verità era che il suo unico desiderio era chiudere gli occhi e rimanere rannicchiato in un angolo del mondo a guardar passare i giorni, i mesi, gli anni, senza fare niente...
Dopo la nascita di Kasaki aveva continuato a lavorare part time per un altro anno, stavolta però scegliendo con più giudizio gli impieghi. Per molti mesi aveva fatto domanda ed era stato preso come assistente in panetterie, pasticcerie, forni e cose simili. Era stato costretto a farlo per mantenere sia se stesso che sua figlia e per non pesare eccessivamente sulle spalle dei genitori, anche perchè sua madre aveva lasciato apposta il lavoro ed era diventata nonna a tempo pieno per prendersi cura della bambina nelle ore in cui lui era via. Dopo un anno però Satoshi si era reso conto che i contratti part time e l'assenza di un diploma serio gli impedivano di fare carriera e di guadagnare di più in vista della crescita della figlia. Alla fine di quel primo anno, in primavera, si era deciso a parlare con i suoi e li aveva pregati di sostenerlo ancora due anni di modo da poter frequentare una scuola di specializzazione e ottenere così una qualifica che gli avrebbe dato accesso a lavori migliori. Si aspettava un "no" deciso, perchè con l'arrivo di una nuova bocca da sfamare e con tutte le spese che richiedeva una bimba in crescita, le casse di famiglia erano già sotto torchio. A sorpresa invece nè sua madre nè suo padre si opposero: sembravano semplicemente felici che lui avesse finalmente trovato la direzione che voleva dare alla sua vita, e se questo richiedeva sforzi li avrebbero fatti volentieri per il loro figlio. Alla fine si era iscritto alla Tamachō Chōri Seika Senmongakkō di Tokyo e ora anche quel percorso stava per concludersi: in qualche mese avrebbe avuto gli esami finali e il diploma.
Si svegliò a metà strada tra la stazione precedente e quella a cui doveva scendere lui, ormai era talmente tanto tempo che faceva quella strada che il suo corpo calcolava da solo il tempo che si poteva concedere per riposare. Scese dal treno e si avviò a passo spedito verso l'asilo di Kasaki. Era un piccolo edificio in prefabbricato. Le pareti interne erano colorate con colori pastello e tutti i mobili erano piccolissimi, tanto che ogni volta che andava lì gli sembrava di essere finito sull'isola di Lilliput! Una giovane educatrice lo accolse all'ingresso, lo invitò a togliersi le scarpe, lasciandole all'ingresso, e a mettersi un paio di ciabatte per gli ospiti per poi seguirla. Mentre camminava per i corridoi sbirciò nelle finestre che dal corridoio davano sulle aule e vide le varie classi di bambini intente a decorare striscioni o provare passi di danza: anche per loro si avvicinava la festa di primavera con lo spettacolino di fine anno.
Era già passato un anno da quando avevano iscritto Kasaki a quell'asilo. Anche quella era stata una scelta obbligata. Alla fine del suo primo anno alla scuola di specializzazione si erano resi conto che non potevano andare avanti in quattro con le sole entrate del padre, addirittura rischiavano di non poter pagare la retta del secondo anno per lui. Fortunatamente avevano trovato un asilo che aveva accettato l'iscrizione di Kasaki nonostante non avesse ancora fatto 3 anni e sua madre aveva potuto così riprendere il suo vecchio lavoro. Ecco come si era creato il ritmo di vita che Satoshi quel giorno non riusciva a sopportare. L'asilo era comodo, certo, ma lui non si fermava un attimo: la mattina doveva alzarsi prima per preparare la colazione ad entrambi, doveva accertarsi che Kasaki si vestisse per bene, che si lavasse e pettinasse, che preparasse giusto lo zainetto, poi doveva accompagnarla fino all'asilo (il che significava calibrare gli orari dei loro spostamenti di modo che lui non arrivasse in ritardo a scuola) e poi andare alla sua scuola che era in piena Tokyo, quindi non vicinissima. E lo stesso valeva per il pomeriggio, quando usciva alle cinque e doveva andare a prenderla, tornare a casa, giocare con lei, preparare la cena, attendere i genitori, mettere la bambina a letto e solo allora mettersi a studiare. Immaginava che avrebbe dovuto fare molti sacrifici nell'accettare di prendere con sè Kasaki, ma c'erano giorni in cui era talmente a pezzi da andare avanti per pura inerzia, mentre dentro di sè aveva solo voglia di sparire. Di far sparire tutto e tutti dalla sua vita.
La responsabile della classe di Kasaki non si decideva a presentarsi nella sala dello staff, che era praticamente l'unico ambiente della scuola ad esser parte del mondo in formato-adulto. Satoshi decise allora di uscire nel giardino e prendere un po' d'aria per rilassarsi: non solo era moralmente abbattuto, ma quel giorno lo avevano chiamato durante l'orario delle lezioni per un'urgenza e lui era scappato fin lì lasciando il corso a metà. Se sua figlia si fosse fatta male seriamente gliel'avrebbero detto subito, quindi doveva essere successo qualcosa di non troppo grave, ma questo comunque non giovava ai suoi nervi: era teso come una corda di violino e al tempo stesso si sentiva fiacco e svogliato. Nel giardino trovò proprio la responsabile, stava chiacchierando con un giovane fattorino in divisa. Entrambi ridevano e scherzavano tranquilli e dai gesti e dalle espressioni di lei era chiaro che stava flirtando. Satoshi li guardò fermandosi sulla soglia e per un attimo ebbe un moto di rabbia. Era geloso: aveva tempo a malapena per se stesso, figuriamoci per una donna, ma questo non significava che in certe giornate non ne desiderasse una. Non provava più nulla per la sua ex fidanzata, la madre di Kasaki, ma gli capitava di pensare a come sarebbe stata la sua vita se lei non fosse scappata o se almeno ci fosse stata un'altra ragazza ad aiutarlo, a condividere con lui le difficoltà di quel periodo. L'occhiata del fattorino lo richiamò al momento presente e si rese conto di essere rimasto impalato a fissarli. «Oh! Ohno san. Buongiorno!» esclamò la maestra facendo un profondo inchino, imbarazzatissima «Aiba san, ci siamo distratti...» si girò a guardare il ragazzo con cui aveva chiacchierato fino a quel momento
«Ah, scusa ti ho fatto perdere tempo e ho dimenticato che stai lavorando!» fece questo sgranando gli occhi. La sua sorpresa sembrava genuina: poteva esistere un tipo tanto sbadato? «Torno al mio lavoro così ti lascio libera, scusami tantissimo» fece questi venendo verso Satoshi «Mi scusi anche lei, seriamente. Non se la prenda con la maestra, è solo colpa mia che perdo sempre il tempo con i clienti: anche al ristorante mi rimproverano sempre perchè perdo tempo quando faccio le consegne» spiegò con un inchino e un sorriso timido. Quel giovane era sincero, aveva un bel sorriso e gli occhi brillanti. Al guardarlo Satoshi si rese conto che oltre alle donne, non aveva buoni amici da un po'. Alcuni compagni di corso erano brave persone, simpatiche, ma nessuno poteva essere definito "amico". «Non importa» rispose pacato, inchinandosi a sua volta
«Allora, buon lavoro» salutò il giovane entrando nella sala per poi scappare lungo il corridoio. Sulla schiena aveva scritto il nome del ristorante, "Keikarou". «Mangiate cinese?» domandò con un filo di voce
«E' per i pasti delle maestre» spiegò la donna «Molte non riescono a prepararsi da mangiare, così ci facciamo portare qualcosa di pronto e ogni tanto ordiniamo a quel locale... è buono» concluse, dopodichè si scusò ancora e smise solo dopo cinque minuti dato che Satoshi la guardava in silenzio, quieto e per nulla arrabbiato. Lui lì dentro era famoso: difficile non diventarlo quando si è il padre più giovane dell'intero istituto. I primi tempi era stato scambiato per il fratello maggiore da tutte le mamme e tutte le insegnanti, poi un giorno Kasaki si era offesa quando le avevano fatto i complimenti per "questo fratellone così premuroso". Aveva messo il broncio e, stringendosi ai suoi pantaloni, aveva borbottato «Questo è il mio papà!». Mentre ripensava a quell'episodio seguì la maestra lungo i corridoi dell'asilo finchè non arrivarono alla saletta dell'infermeria. «Non è nulla di grave. Si è slogata il polso cadendo, ma non si è rotta nulla» gli spiegò l'insegnante
«Come è caduta?» domandò sorpreso. Sua figlia non era una bambina particolarmente esagitata, ma soprattutto, quando si muoveva sembrava avere un'agilità felina: non era mai caduta nemmeno una volta in quei primi due anni. «E' stato un compagno a spingerla. La stava prendendo in giro e... sa com'è fatta Kasaki chan, non risponde mai a nessuna provocazione. Yasu kun invece è un monello e quando vuole attaccar briga ci si mette d'impegno, così quando ha visto che non riusciva a far piangere, nè a far arrabbiare la bambina, l'ha spinta». Era tutto chiaro, la caduta era colpa di un altro e non un errore di sua figlia, sarebbe stato troppo strano altrimenti. «Sta riposando sul lettino infondo alla stanza. Mi spiace aver chiamato all'improvviso, ma dato come sta, io credo che per oggi sia meglio se la riporta a casa» suggerì prima di lasciarlo entrare da solo in infermeria. Satoshi guardò la figlia da lontano, per un minuto, tenendosi con una mano alla parete. Stranamente Kasaki non stava dormendo: solitamente si addormentava ovunque, in qualsiasi posto e con qualsiasi quantità di rumore ci fosse intorno a lei; quel giorno invece era stesa sotto le coperte del lettino dell'infermeria, con il braccino sinistro piegato sul petto e guardava fuori dalla finestra. Aveva lo sguardo terribilmente serio e quell'espressione plumbea non prometteva nulla di buono. Improvvisamente il ragazzo si sentì ancora più stanco, se una stanchezza ulteriore era possibile dato che già faceva fatica a trascinarsi in giro. Per sua fortuna però la bambina lo salutò e non aggiunse altro, così Satoshi decise di non chiedere nulla in quel momento: sembrava assorta in un ragionamento complesso e profondo dal quale si guardava bene di distrarla se questo gli permetteva di risparmiare le forze prima di arrivare a casa. La prese in braccio e lei si fece trasportare fino a casa rimanendo appoggiata al suo petto, senza forze. Nel silenzio dell'appartamento deserto Satoshi mise Kasaki a riposare nel suo lettone, le portò la sua coperta gialla e andò in cucina a prepararle del riso caldo. Nell'attesa si sedette al tavolo osservando fuori dalle finestre mentre ascoltava il sommesso brusio della cuociriso in funzione. C'era il sole fuori, gli alberi erano già verdi di gemme che in qualche settimana si sarebbero aperte a rivelare le prime foglie della stagione. In capo ad un mese sarebbero fioriti i primi ciliegi. Eppure tutte quelle promesse di rinnovamento e di colore sembravano non toccarlo: osservava il mondo con sguardo opaco, come se fosse una realtà che non gli apparteneva, come se la fissasse da un oblò con il vetro spesso che lo separava e lo imprigionava nel suo mondo di pensieri cupi. Solo, con una figlia a carico e un futuro di incognite: avrebbe trovato veramente lavoro dopo il diploma? E come avrebbe fatto con i nuovi orari e il nuovo anno di asilo di Kasaki? Se non avesse trovato nulla come avrebbe mantenuto entrambi? Sarebbe mai uscito da quella casa? Avrebbe mai veramente preso una strada, quella definitiva, per potersi permettere la vita che voleva e offrire a sua figlia tutto quello che avevano anche gli altri bambini? All'improvviso sentì che stava per piangere, ma il suono improvviso della cuociriso lo spaventò e le lacrime si bloccarono prima di potersi affacciare ai suoi occhi. Preparò una ciotolina di plastica rossa e un cucchiaio giallo con sopra Pikachu, quindi tornò in camera. Lì l'atmosfera si adattava di più al suo umore: aveva tirato le tende pesanti e la stanza era illuminata solo dalla luce del sole che filtrava debolmente da sotto la tenda scura che non arrivava fino a terra. Non era buio, ma la penombra era sufficiente a dover aspettare qualche secondo prima di abituare gli occhi e poter cogliere tutti i particolari della stanza. «Ci ho messo il formaggino» le spiegò mettendo una sedia di fianco al letto
«Quello con la mucca?» domandò Kasaki. Era la frase più lunga che avesse pronunciato da quando era andato a prenderla all'asilo. «Quello con la mucca» ripetè annuendo «Vuoi schiacciarlo?» le chiese tenendole la ciotola. La bambina la prese insieme al cucchiaino e cominciò a spiaccicare il formaggio morbido su tutta la superficie del riso, lentamente, usando la mano sinistra. «Non l'ha fatto apposta» pronunciò dopo un po' che erano rimasti così in silenzio, lei semi distesa sul letto e lui seduto lì vicino. «No?»
«No» rispose prendendo una prima cucchiaiata di riso
«Oh... ok» annuì Satoshi appoggiando i gomiti alle ginocchia. Kasaki rigirò la posata tra i chicchi prima di riprendere a parlare «E' che sua mamma non ha mai tempo di fargli il bentō così mangia sempre quelli dei negozi. Ha visto il mio e forse era geloso» spiegò stringendosi nelle spalle. «Voleva fare a cambio e quando gli ho detto di no mi ha minacciato»
«Minacciato eh?» che minacce poteva mai fare un marmocchio di 3 anni ad una di 2?
«Sì, ha detto che sono stupida»
«Non è una minaccia, è un'offesa» la corresse
«Offesa» ripetè lei per capire bene la parola «Ma non sono stupida, quindi non importa» concluse stringendosi nelle spalle. Riprese a mangiare chiudendosi nuovamente nel silenzio. C'era dell'altro, Satoshi lo sapeva: quel ragionamento era logico, pure troppo per una bambina tanto piccola, e la conclusione era più che pacifica, quindi doveva esserci dell'altro se si angustiava così. Voleva saperlo e in parte aveva paura di chiederlo: quale che fosse stato il motivo del litigio, per Kasaki era serio e lui si sentiva girare la testa per la stanchezza, non sapeva in quale angolo del suo animo cercare il coraggio e la voglia di affrontare quel problema. Con terrore si rese conto che una parte di sè avrebbe preferito sorvolare sul problema e lasciare sua figlia nella sofferenza, pur di avere un po' di pace: quella cosa era sbagliata. «Cosa c'è?» domandò infine, sforzandosi
«Ha detto "non devi darti tante arie"» rispose «"Perchè i bentō più buoni sono quelli delle mamme, ma tu non ce l'hai quindi non avrai mai un bentō buono"» concluse e abbassò la ciotola appoggiando il cucchiaio sul bordo. Osservava il riso rimasto tenendo lo sguardo basso, con i lisci capelli scuri a nasconderle il viso. Il ragazzo deglutì a fatica: non era ancora troppo piccola per farsi domande sulla mancanza di una figura materna che invece tutti gli altri bambini avevano? Doveva essere proprio quello il momento in cui affrontavano l'argomento? Lui non voleva, non ne aveva le forze. «Ma tu sei bravo con il bento, papi» annuì piano la bambina, senza alzare lo sguardo. Stava piangendo? «Beh, bene... i migliori cuochi del mondo sono maschi comunque» disse la prima cosa che gli venne in mente poi, stancamente, appoggiò la fronte alle mani aperte, chinandosi su se stesso. Perchè era solo lui ad affrontare tutto quello? «Quando Yasu kun mi ha spinto è caduto il pranzo... io ho fatto cadere il cibo per terra e non ho potuto mangiarlo» continuò lei con voce tremante «Mi dispiace papi, mi dispiace tanto» farfugliò piagnucolando. Satoshi rialzò lo sguardo e la fissò con gli occhi sgranati: non erano le offese del compagno a rattristarla, non era il litigio con lui, non era il dolore al braccio e nemmeno l'idea di non avere una mamma. Quello che rattristava sua figlia era il pensiero di non aver potuto mangiare quello che il suo papà le aveva cucinato quella mattina. Kasaki pensava sempre a lui, lui era il centro del suo mondo e Satoshi invece aveva avuto dei pensieri orribili quel giorno, aveva desiderare scappare da tutto e da tutti, e Kasaki non era stata un'eccezione. La bambina si girò verso di lui, con le lacrime agli occhi, e l'attimo dopo lo fissò con stupore «Pe-perchè piangi papi?» gli chiese. Senza che se ne fosse accorto le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento gli erano rotolate giù dalle guance. «Papi?» domandò ancora lei smettendo di lacrimare e guardandolo preoccupata. Non sapeva cosa risponderle e ormai era troppo tardi per fermarsi: scoppiò in singhiozzi e si piegò in ginocchio ai piedi del letto, scivolando giù dalla sedia. Il ragazzo strinse le coperte nelle mani, con forza, mentre quel pianto liberatorio lo scuoteva ad capo a piedi, senza alcun controllo. Cercava di chiudere la bocca e soffocare ogni singhiozzo, di chiudere gli occhi per fermare le lacrime, consapevole che quel comportamento doveva essere pedagogicamente sbagliato, ma ormai era inarrestabile.
Le piccole braccia di sua figlia gli cinsero il collo e il profumo del loro shampoo gli arrivò alle narici quando gli appoggiò la testa alla spalla. Conosceva quella stretta, gli era cara e gli trasmetteva tutta la fiducia che Kasaki aveva in lui: era il suo papà, il suo eroe. Ma quella volta quell'abbraccio fu diverso: era una dolcezza diversa, perchè la bambina non chiedeva protezione o conforto da lui, ma al contrario glieli stava offrendo. Satoshi si commosse e sentì di voler piangere ancora di più, ancora più forte.
La abbracciò a sua volta, avvolgendola con le sue braccia, e le si aggrappò come se non vi fosse altro al mondo. Capì allora che c'era una persona con cui poteva condividere le difficoltà di quella vita, e quella persona era proprio Kasaki. Lei che l'aveva sempre atteso, puntualissima, seduta in cima alla scarpiera di casa. Lei che ora attendeva paziente nell'ingresso dell'asilo quando faceva tardi, e non si lamentava mai. Lei che andava a dormire senza fare capricci per lasciargli tempo di studiare almeno la sera. Lei che gli lavava la schiena facendo del suo meglio e faceva attenzione che non si addormentasse nella vasca. Lei che non insisteva mai per avere un giocattolo. Lei che ogni giorno, curiosa, gli chiedeva com'era andata a scuola. Lei, la cui preoccupazione maggiore era rendere felice il suo papà e apprezzare tutti i suoi gesti d'affetto, anche a costo di farsi bistrattare dai compagni. Ciò che gli aveva dato la forza di compiere delle scelte e portarle avanti era anche ciò che illuminava le sue giornate: una figlia che aveva dato uno scopo alla sua vita, più di quanto una fidanzata avrebbe mai fatto. «Puoi rifarmelo domani sai?» disse Kasaki quando finalmente Satoshi ebbe calmato i singhiozzi
«Eh? Cosa?» domandò spiazzato, respirando a fondo per cercare di ridarsi un contegno
«Il bentō... non credevo avresti pianto» spiegò e il ragazzo scoppiò a ridere
«Non era... non era per quello» disse quasi soffocando tra risate e lacrime
«Per cosa allora?» chiese la bambina confusa. Satoshi sciolse l'abbraccio e si passò le mani sugli occhi. «Perchè ero preoccupato per te» le spiegò «Ero preoccupato così tanto, ma così tanto che quando hai detto che eri triste solo per il bentō mi sono tranquillizzato di colpo e mi sono messo a piangere». Lei sgranò gli occhi «Il bentō non è grave?» domandò
«No, Kasaki chan... non è grave» le spiegò accarezzandole la testa «Come dici tu: domani posso rifarlo» sorrise leggermente.

30 gr di lievito di birra
Quella mattina si svegliò d'improvviso. L'attimo prima dormiva, quello successivo aveva gli occhi aperti. Però non era successo niente che lo riportasse alla realtà, probabilmente era solo il suo corpo che ormai si era abituato ai ritmi e ad una certa ora reagiva spontaneamente. Alzò lo sguardo e allungò un braccio verso la sveglia che sapeva essere sul comodino davanti al suo naso. Tastando nel vuoto arrivò infine a toccarla e illuminò il quadrante: le 2 e 58 minuti. Si era svegliato un paio di minuti prima che suonasse. Quando la lucina si spense i suoi occhi si erano abituati al buio della stanza e intuiva le forme dei mobili così piegò il collo per lanciare un'occhiata alle sue spalle: il letto era vuoto. Un senso di tristezza lo invase immediatamente e tornò a guardare davanti a sè come se la vista di quella metà di materasso non occupata gli provocasse dolore fisico. Lentamente scivolò giù dal letto, scostando il lenzuolo che gli era rimasto attorcigliato alla gamba, e in punta di piedi uscì in corridoio. La casa era completamente silenziosa, com'era normale alle 3 del mattino. Satoshi lasciò la propria stanza per entrare in quella a fianco lasciando però le porte socchiuse per non far rumore nel chiuderle o nel doverle riaprire dopo. Quando si guardò intorno in quella nuova oscurità, ancora una volta non vide nulla e gli toccò attendere, così si mosse solo quando finalmente intuì una sagoma scura sul letto dall'altra parte della stanza. Si accucciò vicino al materasso e fissò sua figlia, anche se senza un po' di luce non vedeva altro che la forma del suo corpo, in contrasto sulle lenzuola chiare. Gli scappò un risolino: Kasaki dormiva rannicchiata sul fianco sinistro, come lui, e dormiva nella metà sinistra del letto mentre lui stava sulla destra. Quell'abitudine era rimasta ad entrambi, retaggio di quando ancora stavano nella stessa stanza ed erano state più le volte in cui avevano dormito insieme che quelle in cui lei era rimasta nel suo lettino. Ora la bambina non prendeva sonno se non era girata sul fianco e lui invece faceva fatica in altre posizioni, ma la mattina comunque si svegliava sempre così. Satoshi ascoltò il respiro profondo e lento della figlia, mentre le spostava la piccola sveglia sul comodino e gliela metteva sottosopra, divertito. Era uno scherzo che le faceva tutte le mattine in cui andava a vederla mentre dormiva. La nuova casa con camere separate e il suo nuovo ritmo di vita non li lasciavano incontrare al mattino, com'erano invece abituati, così ogni tanto Satoshi si rattristava. Per ovviare alla cosa sgattaiolava fin lì a guardarla e subito si sentiva meglio, ma dato che lui non sarebbe stato in casa se Kasaki una volta sveglia avesse voluto vederlo, le metteva sottosopra l'orologio come a dire "papà ti pensa!".
Osservando meglio la sveglia capovolta si rese conto di aver perso fin troppo tempo, così si rimise in piedi e uscì dalla stanza silenzioso com'era entrato. Sceso al piano terra si preparò un rapido caffellatte e il pranzo. Alle 3 e 45 era sempre più in ritardo, così impacchettò solo il bento per suo padre e, mentre beveva tutta d'un fiato la sua tazza, scrisse un biglietto per la madre chiedendole di occuparsi lei del pranzo per loro. Tornato al piano superiore indossò una maglietta, dei jeans e si pulì i denti. Alle 4 era fuori casa.
Era buio per la strada, solo una lontana striscia di luce cominciava a rischiarare l'orizzonte, ma lì, tra una casa e l'altra, non c'era traccia del giorno imminente. Era tutto ancora avvolto nel silenzio profondo della notte e a Satoshi piaceva quel momento: aveva ancora addosso la dolcezza della notte, ma in ogni angolo della città tutto sembrava trattenere il fiato. Sembrava che l'immobilità tipica della quiete notturna, diventasse improvvisamente quella dell'attesa: tutto il mondo era fermo aspettando che il giorno arrivasse a riempire ogni angolo, mettendo in moto persone, mezzi, suoni. Era proprio in quell'aria di tensione che gli piaceva pedalare a tutta velocità: per lui il giorno era già arrivato, quindi tutta quell'ansia prima del tuffo nella luce non lo toccava affatto; poteva farsi beffe del tempo. Solo quando passò davanti al tempio della città rallentò, respirando profondamente il profumo che arrivava dal parco oltre il cancello chiuso. Satoshi sorrise. Era per colpa di quel tempio che aveva deciso di aprire lì il suo negozio. Dopo il diploma alla scuola di specializzazione si era attivato per mettersi in proprio e quando si era messo a cercare un locale adatto, tra le tante possibilità, aveva deciso di prendere proprio lo spazio che aveva trovato in quella città perchè vicino c'era quel tempio. Il giorno in cui era arrivato per vedere il posto aveva visto fin dalla stazione degli alberi molto grandi: erano i pini altissimi del parco che circondava quel luogo, tanto che erano visibili da qualsiasi punto della città. Il negozio dava sulla strada accanto, quindi sul retro c'era solo una stradina stretta a dividere le case dal recinto in pietra del parco sacro. Quei rami larghi sembravano spargere quiete e profumo di resina tutto intorno e Satoshi era rimasto affascinato da quella particolarità, così alla fine aveva scartato tutte le altre opzioni e aveva scelto quel locale. Ancora una volta, insomma, aveva agito egoisticamente e da quando si era diplomato, in Aprile, la famiglia aveva subìto così altri cambiamenti: essendo il futuro negozio da tutt'altra parte di Tokyo rispetto a dove abitavano, erano stati costretti a trasferirsi, avevano venduto il vecchio appartamento e comprato una casina piccola, ma indipendente e più grande del precedente appartamento, suo padre doveva fare un tragitto più lungo con i mezzi e Kasaki aveva dovuto salutare tutti gli amici dell'asilo. Ormai però era il primo Agosto 2009, le turbolenze dovute ai grandi cambiamenti erano passate e ogni cosa era pronta e stabilita: il trasloco finito, le scartoffie per avviare la sua attività completate, l'accordo per l'affitto firmato, i lavori nel negozio terminati. Quel giorno si apriva.
Pedalò ancora lungo un vicolo e smontò sul retro dell'edificio a due piani in cui si trovava il negozio. Originariamente a pianoterra c'era un negozio di alimentari freschi e al primo piano ancora vivevano i padroni, ma questi erano ormai troppo anziani per mandare avanti un'attività così erano stati più che disponibili ad affittargli gli spazi e a lasciargli fare le dovute modifiche. Era stato un negozio a conduzione familiare, la cucina era spaziosa per far lavorare comodamente almeno tre persone e non aveva nulla dell'aspetto artificiale e freddo delle cucine in cui aveva lavorato prima e studiato poi. Così, un po' perchè gli piaceva com'era, un po' per mancanza di soldi, le modifiche ai locali erano state poche e basilari: in cucina aveva fatto costruire un forno a legna e istallato dei forni elettrici industriali, mentre nella parte anteriore, quella del negozio aveva voluto mettere ripiani e bancone in legno, proprio come aveva visto in alcune foto di panetterie europee. Entrò dalla porticina sul retro e si cambiò indossando la t-shirt celeste che usava per cucinare e il grembiule. Accese i forni e imboccò la prima porta a destra della grossa cucina. Da lì si andava nel magazzino dove raccolse l'occorrente per fare il pane, le focacce e i croissant, dopodichè tornò in cucina e dispose tutto sul massiccio tavolo in legno che stava al centro della stanza. Si trovava lì già da prima e non aveva voluto cambiarlo perchè presentava due grossi vantaggi: non era nuovo, quindi poteva appoggiarci le teglie bollenti senza paura di rovinarlo, ed era spazioso quanto bastava per lasciare che Kasaki disegnasse seduta da una parte senza il rischio che toccasse niente di pericoloso. Sparse la farina sulla superficie e, senza indugio, si mise a mescolare gli ingredienti con movimenti rapidi e precisi, tipici di chi sa bene cosa fare e come muoversi. Le prime due teglie di focacce semplici entrarono nei forni elettrici alle 5, pochi minuti dopo mise anche quelle con pomodorini e origano e quelle con le patate. Fatto questo raccolse la legna da sotto il forno in pietra e si mise di buona lena ad accendere il fuoco vero e proprio: faceva il pane solo con quello perchè il sapore era totalmente diverso rispetto a quello che veniva fuori usando i forni elettrici. Mentre aspettava che la legna bruciasse guardò fuori dalla finestra dai vecchi infissi traballanti: senza che se ne fosse accorto, il tempo era volato e il cielo si era schiarito completamente. Poteva già sentire i cinguettii degli uccellini, svegli anche loro ormai, e lo sbattere delle prime finestre aperte. Era arrivato il giorno, in capo a mezzora sarebbe spuntato anche il sole e per le 6 e mezza sarebbe arrivata sua madre. Era sempre più convinto che quella donna fosse una vera forza della natura e che entrambi i suoi genitori fossero dei veri Buddha camuffati da genitori per farsi beffe di lui. Per sei anni, dopo il liceo, avevano sopportato un figlio allo sbando, svogliato e apparentemente senza futuro certo, poi, tre anni prima, avevano accettato il suo desiderio di prendere con loro Kasaki. Dopo un anno, avevano acconsentito al suo capriccio di tornare a studiare e lo avevano mantenuto per ben due anni. Ora che avrebbe potuto cominciare a lavorare e guadagnare subito, aveva invece deciso di intraprendere la difficile strada del lavoro in proprio e loro, come già altre volte, gli avevano dato tutto l'appoggio possibile. Cosa spingeva quelle due persone ad accettare ogni suo capriccio, a sopportare di stare ancora dietro al figlio ventottenne? Quando sua madre entrò nella cucina, alle 6 e mezza precise, Satoshi la guardò intensamente in viso, deciso a porle quella domanda. La donna si accorse della sua occhiata solo dopo aver messo da parte l'ombrellino in carta di riso e la borsa. Lo osservò a sua volta, con aria interrogativa «Che succede?» domandò. Rimase in silenzio a cercare le parole con cui esprimersi, ma attese troppo a lungo e lei continuò «Satoshi kun, se ti addormenti il pane non sarà pronto per l'apertura. Non vorrai fare questa gaffe proprio il giorno dell'inaugurazione?» rise. Il ragazzo annuì e prese una ad una le pagnotte che aveva preparato nel frattempo, per metterle nel forno dove la temperatura era arrivata al punto giusto. Non aveva più bisogno di chiederle nulla. Il sorriso che gli aveva rivolto valeva più di ogni parola o spiegazione: era suo figlio e per lui, per la sua felicità, avrebbe fatto tutto il necessario. Così come lui aveva e avrebbe ancora fatto per Kasaki. Per tutto quello che avevano fatto, Satoshi si sentiva profondamente in debito, ma sapeva che ripagarli del tutto era impossibile. Quel che invece poteva fare era non dar loro motivo di pentirsi di tutta la dedizione e l'amore che gli avevano dato. Guardando l'impasto pallido che lentamente, al calore del forno tradizionale, si scuriva, Satoshi si convinse di star facendo la cosa giusta: se avesse avuto successo avrebbe potuto dire di aver sfruttato al meglio gli sforzi dei suoi genitori. Dar loro la possibilità di dire con orgoglio "Mio figlio ha aperto una panetteria" era molto meglio che lasciarli dire solo "Mio figlio lavora nel negozio di...".
«Dov'è Kasaki chan?» domandò d'improvviso, mentre tirava fuori le teglie dai forni e le portava con cautela verso il negozio
«Te ne accorgi ora che manca?» ridacchiò sua madre che stava spolverando le mensole per il pane, dopo aver pulito il bancone e il vetro che evitava che la clientela mettesse le mani sulle focacce lì sopra. «E' troppo tranquilla, a volte devi vederla coi tuoi occhi per realizzare se c'è oppure no, altrimenti non lo sapresti» borbottò lui
«Chissà da chi ha preso» sospirò quella «Aveva sonno. Ha detto che usciva più tardi, con il nonno, e veniva in bici» spiegò «Affacciati in strada, dovrebbe arrivare a momenti e stamattina ho visto più traffico del solito: mi sa che devono fare le riprese di qualcosa qui in zona... ho visto dei camion, dei camper...». Satoshi finì di sistemare le teglie sul bancone, posò le presine sul tavolo della cucina e uscì dalla porta principale, asciugandosi il sudore dalle mani sul grembiule: agosto davanti ai forni era come lavorare part time alle fornaci dell'inferno, un sudore unico. La strada su cui dava il negozio era una delle principali perchè, dopo una ventina di metri ancora in piano, cominciava a scendere verso il centro città. Era la più grande tra quelle che connettevano la metà "bassa" della città, con la stazione dei treni, da quella "alta". Il vecchio affittuario gli aveva raccontato che era stato un suo parente a costruire l'edificio in quel punto perchè perfetto per attirare clienti: chi faceva la salita in bici o a piedi per andare fino al tempio, una volta arrivato voleva rifocillarsi, mangiare qualcosa per riprendersi; e poi al tempo non c'erano molti negozi nella parte alta così aveva avuto molto successo. Lui aveva ereditato l'attività, ma i figli non erano stati interessati a portarla avanti e così, quando era invecchiato troppo per continuare a lavorare, era stata chiusa e i locali inutilizzati. Anche ora, nel nuovo millennio e con tanti negozi ovunque, quello continuava ad essere un buon punto. Di Kasaki comunque non c'era traccia e Satoshi arrivò a camminare fino all'incrocio con la via che portava, sulla destra, al tempio, preoccupato che il traffico di cui gli aveva parlato la madre l'avesse messa in pericolo. La vide solo camminando per tornare verso il negozio, essendo rivolto verso la discesa e dato era una cinquantina di metri più sotto. Era seduta a terra con la bici stesa sul marciapiede. Una macchina aveva accostato e in quel momento ne smontava una persona. Satoshi si mise subito in allarme e, attraversata la strada, prese a correre in discesa per raggiungere la figlia. Quando fu più vicino capì anche che stava piangendo. «Kasaki chan!» disse ad alta voce che ancora non l'aveva raggiunta. La bambina lo sentì e girò lo sguardo lacrimante verso di lui. «Papi!» esclamò con voce rotta dal pianto. L'uomo di fianco a lei lo guardò a sua volta e si alzò subito. «Papi mi fa male!» si lamentò quando finalmente Satoshi si chinò su di lei «Mi fa male, mi fa malissimo!!»
«Sono passati dei ragazzi in moto...» farfugliò lo sconosciuto, ma tacque subito dopo dato che lui non gli prestò attenzione. Il ragazzo, prima di tutto, si accucciò a terra e prese la figlia sotto le ascelle per farla sedere su una delle sue gambe, poi guardò il ginocchio sbucciato e sanguinante. La bambina continuava a singhiozzare rumorosamente. «Ha un fazzoletto?» domandò rivolto allo sconosciuto
«Come? Sì, un attimo» annuì quello tornando alla macchina e aprendo la portiera a lato passeggero per frugare nel cruscotto. Tornò con un pacchetto intero e una borsa in mano. Satoshi guardò verso la bici, dal cestello erano caduti i bento, chiusi nella coperta gialla legata a sacchetto, e alcune bottigliette d'acqua. «Può bagnarlo con una di quelle?» chiese ancora, mentre faceva appoggiare la testa di Kasaki al proprio petto. Tamponò con pazienza il ginocchio mentre lei piangeva un po' meno di prima. «Ecco guarda, è già finito. Non è grave» le disse indicandole la ferita «Ti sei spaventata?»
«Sì» rispose piano nascondendo la faccia nella maglietta, alzando il colletto fin sopra il naso, usandola come fazzoletto. «Tenga» fece lo sconosciuto, che era rimasto lì tutto il tempo. Gli stava porgendo dei cerotti tirati fuori dalla sua borsa. «Mi porto sempre dietro una farmacia, ma ho solo questo per le ferite, mi spiace» spiegò
«La ringrazio molto» fece Satoshi chinando il capo «Ha visto cos'è successo?»
«Sì, ero poco più indietro, ma non è stato nulla di grave: un paio di ragazzini facevano la salita in moto e hanno sgasato passando di fianco alla bambina che credo si sia spaventata» gli rispose tirando in piedi la bici e fermandola con il cavalletto «Non si sono fermati, ma non saprei dire se si fossero accorti della caduta di sua figlia»
«Perchè crede che sia mia figlia?» gli venne spontaneo chiedere, erano troppo poche le volte in cui succedeva per non meravigliarsi
«Scusi, ho sbagliato? E' che l'ha chiamata "papi" e ho pensato...» spiegò quello imbarazzato, inchinandosi
«No,no, è mia figlia» si affrettò a chiarire «Ti metti in piedi Kasaki chan? Andiamo a farci disinfettare dalla nonna». La bambina annuì e guardò lo sconosciuto con gli occhi ancora lucidi, come indecisa se andarsene sul serio o ripensarci e rimanere lì. Poi si alzò e recuperò i sacchetti dei bento. «Grazie per avermi aiutato» disse educata, inchinandosi verso l'uomo
«Prego» rispose quello, senza aggiungere altro. Satoshi lo fissò: era un bel ragazzo, giovane, dal viso pulito e i capelli più lunghi del normale. Nella sua impacciata risposta a Kasaki lui rivide se stesso di qualche anno prima, quando ancora non sapeva trattare con i bambini. «Matsumoto san! Siamo in ritardo!!» esclamò un uomo sporgendosi dal lato guidatore dell'auto «Mi hanno già chiamato dal set, dovevamo essere lì 10 minuti fa!»
«Arrivo!» esclamò in risposta, alzando una mano «Mi scusi, devo andare»
«Grazie mille per aver aiutato Kasaki» disse Satoshi con un inchino profondo «E grazie per i cerotti»
«Si figuri» scosse il capo il giovane prima di tornare di corsa alla macchina. Kasaki nel frattempo aveva recuperato la bicicletta e la spingeva tenendola per il manubrio. Padre e figlia fecero insieme il pezzo di salita e finalmente rientrarono in negozio. Lei non disse nulla dell'accaduto. Da quando si erano trasferiti si era fatta un po' più silenziosa e i pochi capricci che faceva ormai riguardavano esclusivamente lui e il passare il tempo insieme. Qualcosa della situazione economica della famiglia doveva essere stata percepita anche da lei, forse non in modo cosciente, ma già il fatto che non andasse più all'asilo, perchè non avevano soldi per mandarla, doveva averle suggerito qualcosa. La scuola dell'obbligo cominciava solo dalle elementari, quindi non era un problema, ma Satoshi si era sentito molto in colpa a portare via Kasaki dagli amici del precedente asilo e a non poterle nemmeno dare uguali occasioni di amicizia. Apparentemente però le piaceva stare in negozio con lui (anche se fino a quel momento era andato lì solo per provare delle ricette e portare avanti lavori di ristrutturazione) e fortunatamente in quel quartiere avevano a disposizione un jidokan***** che era un'ottima alternativa all'asilo, almeno per le amicizie. «Cos'è successo!?» domandò la nonna allarmata quando entrarono in negozio
«E' caduta dalla bici lungo la salita» spiegò Satoshi
«La salita? Tesoro, perchè eri lì? Casa nostra è dall'altra parte» disse la nonna prendendo in braccio la nipote ancora un po' scossa
«Mi sono persa» rispose lei. Il ragazzo portò la bici sul retro e tornò a controllare il pane che era quasi pronto, giusto in tempo per l'apertura che doveva avvenire entro pochi minuti, alle 7.
Il giorno prima la vetrina era stata decorata da Satoshi e da Kasaki, in verde scuro dato che il nome scelto era stato "Matsuba Panya"******. Prima di aprire il negozio fece sgattaiolare la bambina tra i teli che coprivano il fondo della vetrina, per posizionare una crostata. Anche quella era stata preparata la sera prima, con tanta pazienza, usando uno stampo a ferma di albero di pino che si era fatto fare apposta (insieme a degli altri uguali, ma per biscotti) e riempiendo la torta con marmellata di sudachi******* che aveva una tonalità di verde molto più chiara ma perfetta per intonarsi al resto della composizione. Nonostante sua madre si fosse detta più volte contraria, alla fine Satoshi aveva comunque fatto posare intorno al punto dove sarebbe stata messa la torta, gli hiragana di pasta frolla che aveva tentato di fare Kasaki per scrivere "inaugurazione". Non erano belli e precisi, e lui aveva tentato di migliorarne un po' la forma prima di cuocerli, ma gli piacevano così: imperfetti e un po' casalinghi. Se secondo sua madre davano l'idea di un negozio poco serio, secondo lui invece davano l'impressione di un posto in cui si vendevano cibi genuini: se gliel'avessero chiesto, avrebbe risposto con orgoglio che li aveva fatti sua figlia come regalo per quel primo giorno d'apertura.
Qualcuno nei dintorni già sapeva di quel giorno speciale e infatti furono i primi clienti, poi pian piano le persone aumentarono e dopo tanto tempo Satoshi ritrovò i ritmi delle panetterie in cui aveva lavorato come garzone due anni prima: pane, focacce e croissant al mattino, pizzette e altri salatini per il pranzo, poi i dolcetti semplici che venivano comprati per la merenda, mentre qualcuno più impegnativo era più venduto la sera, portato a casa per la chiusura di una cena in famiglia magari. La campanella della porta d'entrata trillava spesso quel primo giorno, lo scoppiettio della legna che bruciava gli ricordava di fare attenzione a quel che preparava e sempre più spesso suonavano i timer dei forni elettrici per avvisarlo della cottura terminata. Fu proprio in un momento in cui stava correndo dal negozio alla cucina, per recuperare una teglia, che rimase inchiodato sulla soglia: ecco cos'aveva cercato per lungo tempo. Una famiglia unita, un lavoro soddisfacente. Amava la possibilità di variare, di provare tante ricette diverse in ogni momento e di essere creativo. In un modo tutto suo, Satoshi riusciva ad esprimersi quando lavorava in negozi come quello e con un'attività tutta sua era libero di sfogare la propria creatività come voleva lui. Inoltre erano tutti lì, per rendere il suo desiderio, quello di tutti: sua madre si affaccendava al bancone, Kasaki si divertiva a fare pacchetti o, quando era stanca, semplicemente infilava il bigliettino da visita del negozio nei sacchetti prima di porgerli ai clienti. Suo padre sicuramente pensava a loro in quel momento e poi, se non fosse stato per il suo lavoro continuativo in quegli anni, nulla di tutto questo si sarebbe mai realizzato: non era lì in quel momento, ma Satoshi percepiva la sua collaborazione quando guardava il forno a legna nuovo, quando sentiva i passi sul parquet liscio del negozio. Sorrise di nuovo. Dalla finestra, aperta per creare un po' d'aria corrente, entrava l'odore dei pini del tempio e della terra bagnata dalla pioggia della notte precedente. Era passato attraverso mille difficoltà in quei tre anni e la strada era stata tutta in salita. Una salita maledettamente ripida. Se il risultato però erano pagnotte calde e croccanti e profumo di resina fin dal mattino, sarebbe stato disposto a fare ancora qualche chilometro di fatica: magari più avanti lui e la sua famiglia avrebbero ottenuto risultati ancora più meravigliosi.

Acqua quanto basta
Stava seduta sui gradini a mangiare un cono. Ormai era metà settembre quindi faceva già abbastanza freschino per pensare non fosse più stagione di gelati, ma a lei non importava: era buono, perchè limitarsi a mangiarlo quando faceva caldo? Oltretutto in quel momento poteva mangiarlo con calma, mentre il caldo dell'estate la costringeva a fare in fretta. Il calore era anche uno dei motivi per cui era rimasta sui gradini invece di entrare: in cucina c'erano i forni accessi e le si sarebbe sciolto in mano. Cominciò a mordere il cono, ascoltando il *crunch crunch* che le risuonava nella testa, mentre guardava le punte dei pini del tempio che si allungavano al di sopra del muro in pietra intorno al parco. Improvvisamente sentì mancarle l'appoggio alla schiena, segno che la porta dietro di lei era stata aperta. Si tenne in equilibrio e girò la testa, alzando lo sguardo per vedere chi fosse. Il suo papà se ne stava in piedi sulla soglia a guardarla, silenzioso. «Ciao Papi» salutò morsicando ancora il cono. Ormai era quasi alla fine, le rimaneva la punta di cioccolato. «Come sei arrivata?» domandò lui accucciandosi a terra
«La mamma di Kyoko chan mi ha accompagnato fino all'incrocio» spiegò indicando la sua bicicletta appoggiata al muro dell'edificio. In quel suo momento di distrazione, Satoshi si mosse rapidamente e lei non vide cosa avesse fatto, ma bastò tornare attenta al suo gelato per rendersi conto che la mano dove prima teneva la punta del cono, ora non afferrava altro che aria. «Ah!» esclamò spalancando gli occhi nel vedere il suo papà tenersi davanti agli occhi il pezzetto di cialda che le aveva abilmente rubato. L'attimo dopo, sotto il suo sguardo incredulo, se lo mangiò in un boccone. «Ah!» ripetè ancora, ma lui lo inghiottì senza batter ciglio. Si guardarono per qualche secondo: lui totalmente serio, lei a bocca spalancata, stupita; poi il ragazzo scoppiò a ridere di gusto. «Papiiiii!! Era mioooo!!» si lagnò ad alta voce prima di lanciarglisi addosso e gettarlo a terra facendogli perdere l'equilibrio. Stesi all'entrata della cucina ingaggiarono una lotta in cui Satoshi continuava a ridere imperterrito e Kasaki cercava di farlo smettere -o quantomeno di farlo pentire del suo gesto- stringendogli le guance tra le dita. «Sputalo! Sputalo! Era la fine ed è la più buona!» continuava a dire, tutta offesa «Daiii... c'era il cioccolato!» piagnucolò. Poi partì il contrattacco, con il solletico sui fianchi, e allora dovette lasciare la presa sulle guance per cercare di difendersi. Si piegò contro il petto di Satoshi, ridendo convulsamente. «Voi due!» si sentì gridare all'improvviso. Padre e figlia si bloccarono, zittendosi. Quando Kasaki riuscì a respirare normalmente alzò la testa e vide che, sulla porta che dalla cucina dava verso il negozio, era comparsa la nonna. Li guardava arrabbiata. «Vi si sente fin davanti: cosa penserà la gente? Se dovete fare i cretini almeno fatelo a bassa voce!» sbuffò e tornò indietro, chiudendo la porta per isolare la cucina dal negozio. «Ooops» sospirò Kasaki mordendosi le labbra e il suo papà riprese a ridacchiare più sommessamente. «Stasera prima di andare a dormire te ne compro un altro» disse Satoshi, sedendosi a terra e tenendola tra le braccia
«Ma te lo mangi tu» replicò lei «E io ti rubo la parte finale». Lui annuì e si rialzarono da terra «Lavati le mani e cominciamo».
Kasaki una volta aveva fatto delle lettere hiragana con la pasta frolla, ma era stato due anni prima e ormai era cresciuta, così aveva convinto il papà ad insegnarle come si facevano dei veri biscotti. Si erano messi d'accordo, pianificando un giorno in cui lui potesse concederle un po' di tempo in cucina e finalmente erano lì: lei si era messa in piedi su uno sgabello, davanti al grosso tavolo di legno della cucina, arrivando finalmente ad essere alta come lui che, con pazienza, cominciava con il presentarle gli ingredienti e le quantità. Da lassù Kasaki lo osservò amalgamare i primi elementi poi prese la frusta che suo padre le porgeva e provò a girarla nella ciotola. Era stato difficile perchè non era un composto morbido o liquido e dopo qualche giro di frusta, fatto con difficoltà, aveva sentito le braccia del suo papà intorno alle sue spalle: si era messo dietro di lei e aveva messo le sue grandi mani sopra le sue, per aiutarla a stringere bene lo strumento e imparare il movimento giusto. Le parlava con voce gentile e con pazienza l'aiutava a portare a compimento quel suo piccolo desiderio. Dopo qualche minuto di prova però lo aveva lasciato finire da solo o non sarebbero mai andati avanti. Lo guardò fare due montagne con la farina e poi scavarle dentro come se fossero due Monte Fuji coperti di neve. Quella era la parte divertente in cui gli ingredienti mescolati andavano presi e rigirati in quella montagna di polvere chiara. Satoshi, facendone due, aveva fatto sì che anche lei potesse provare e le diede una piccola parte degli ingredienti mescolati, una pallina poco più grossa delle sue manine, poi le aveva mostrato un paio di volte come rigirarli nella farina per unirli ad essa e l'aveva lasciata provare. Le sembrò più facile di quando aveva dovuto girare la frusta e poi era divertente impiastricciarsi le mani! Mentre stavano lì a girare l'impasto rimasero in silenzio, anche se a lei veniva da sbuffare perchè a volte doveva premere con tutta la sua forza sulla pasta, ma si impose di fare la sua parte e non chiese mai aiuto. «La la la la» borbottò canticchiando Satoshi «Ho imparato le parole*******» aggiunse poi
«Sì?» domandò la bambina
«Benvenuto, grazie per esser venuto da tanto lontano» accennò con gli occhi fissi sul lavoro che stava facendo
«Aspettavo il tuo arrivo. Gli amici si sono radunati! Che cosa potremo fare?» canticchiò Kasaki muovendo appena la testa per darsi il tempo
«Disegniamo tutti insieme» attaccò il ragazzo mentre la bambina cantava dei "la la la", facendogli da coro «Le pelle di colori diversi, le parole di lingue diverse! Sì dai, mi batte forte il cuore»
«La sai è vero!» ridacchiò Kasaki sfregandosi un occhio sulla spalla «Insieme! Insieme! Fatti forza, ridi dai! Cantiamo battendo le mani! Se ci sei tu il mio cuore danza: cominciamo a muoverci dall'oggi verso il domani» cantarono in coro. Le piaceva cantare con il suo papà, cambiava sempre qualcosa nella musica che cantava lui, magari faceva una nota più bassa o allungava una parola, ma in quel modo sembrava tutto molto più bello rispetto a quando cantava da sola o con gli amici del jidokan. Probabilmente, se lui avesse saputo miagolare bene, avrebbe potuto dirigere anche un coro di gatti affamati e tirarne fuori una musica bellissima! Cantarono la canzone fino alla fine e allora lui prese la sua pallina di pasta e la unì alla propria, le rigirò tra le sue mani e infine mise tutto in frigo. «Un'ora» annunciò mentre lo chiudeva «Laviamoci le mani e mentre aspettiamo vado a dare il cambio alla nonna» concluse.
Per un po' invece non venne nessuno in cucina. Satoshi era andato verso il negozio dopo aver regolato i forni e la nonna era rimasta in negozio con lui, così Kasaki era rimasta sola lì dentro. Sapendo di non dover toccare nulla recuperò la scatola di pastelli e i fogli da un cassetto e si mise nel suo angolo del tavolo: voleva mettere sul foglio lei e il suo papà che cantavano mentre preparavano i biscotti, per non dimenticare mai quel momento. Avvolta dal calore della cucina, dal quieto ronzio dei forni e dallo scoppiettare della legna, si concentrò sul suo disegno, facendo dondolare i piedini nel vuoto perchè la sedia era troppo alta e lei non toccava terra. Si era abituata a divertirsi con poco, a volte con niente. Non era un problema non avere niente da fare o nulla con cui giocare, in quei suoi primi cinque anni di vita comunque non aveva avuto molti giochi perchè non potevano comprarli, così, invece di continuare a volerli, si era abituata a divertirsi con quello che poteva avere. Insomma star lì da sola a disegnare non era noioso, mentre molti bambini del jidokan non potevano stare un attimo fermi: dovevano avere tutti i giochi per sè, dovevano usarli altrimenti, senza avere nulla tra le mani, non era divertente. Kasaki non voleva giochi, o meglio, li avrebbe voluti, certo, ma dato che un giocattolo in più era meno tempo da passare con il suo papà (perchè per comprare un gioco ci vogliono tante pagnotte!), allora ci rinunciava. «Cosa disegni Kasaki chan?» chiese la nonna, arrivando finalmente in cucina e indossando un grembiule
«Me e il Papi che cantiamo» rispose senza alzare il naso dal foglio
«Glielo regali dopo?»
«Voglio metterlo lì» spiegò indicando la dispensa davanti al tavolo «Così quando fa i biscotti senza di me può far finta che io ci sia guardando il disegno. E canterà» mordicchiò il pennarello, pensierosa «Pensi che canterò anche io se canterà lui?»
«Non lo so Kasaki chan, magari sì» ridacchiò la donna prendendo un matterello e cominciando a stendere della pasta sul tavolo «Ma forse sì, sai?» fece fermandosi d'improvviso e alzando lo sguardo al soffitto «Forse sì. Siete connessi voi due. Io credo che Satoshi sia se stesso solo con te»
«Se stesso?» domandò confusa la bambina, smettendo infine di disegnare e osservando la nonna
«Sì. Sai, per i grandi è diverso che per i bambini. Ci sono tante regole da seguire e questo fa sì che le persone si comportino in maniera diversa: non dicono alcune cose, non ne fanno altre, oppure fanno e dicono qualcosa che non è quello che vorrebbero» cercò di spiegarle «Ma i bambini hanno poche regole, quindi fanno e dicono quello che vogliono. Kasaki chan, sei più libera e quindi sei più sincera»
«E Papi non lo è?» chiese aggrottando le sopracciglia
«Lui non dice bugie, ma tante volte sta solo zitto. Si tiene dentro tante cose... però quando è con te non è così: se vuole fare una cosa con te, la fa, se vuole dire una cosa, te la dice»
«Prima mi ha rubato la punta del cono» spiegò arricciando il naso, infastidita
«Ecco... non l'avrebbe mai fatto con un altra persona, nè con un altra bambina. E' perchè sei tu, Kasaki chan, che Satoshi si sente libero di essere se stesso, completamente» concluse la nonna con un sorriso, per poi tornare a stendere la pasta sul tavolo. Non aveva capito bene, ma il suo papà era sempre sincero solo con lei e agli altri non diceva alcune cose che a lei invece raccontava. Allora era come se condividessero un segreto? Kasaki ridacchiò tutta divertita e riprese a disegnare
La nonna rimase fino alle 16 e mezza, poi tornò verso casa per preparare la cena e Satoshi fu molto impegnato in negozio almeno fino all'ora di chiusura quando rientrò in cucina con un sospiro stanco. Abbozzando un sorriso incoraggiò Kasaki a tirare la pasta col matterello, uno piccolino che aveva comprato apposta. Lei riuscì ad appiattire un po' di pasta dopo che lui ebbe fatto le prime passate, le mostrò che doveva essere tutta alta uguale in ogni punto e, mentre finiva di stenderla, le fece scegliere lo stampino da usare. Fu quando era stata mandata a lavarsi le mani, perchè avevano finito di tagliare i biscotti, che risuonò la campanella dell'ingresso. «Permesso?» si sentì chiedere. La bambina, essendo in corridoio, si affacciò al negozio e vide quattro ragazzi in piedi all'ingresso che si guardavano intorno, come fossero finiti in un mondo strano. Abituata ad accogliere i clienti, quando questi la videro, Kasaki si inchinò educatamente, dopodichè girò sui tacchi e tornò correndo con urgenza verso la cucina «Papiiiii!! Non hai chiuso la porta! Ci sono delle persone di là!» strillò
«Siiiii» sospirò Satoshi a voce alta. Si passò le mani sul grembiule poi se lo slacciò, prese dall'appendiabiti la casacca bianca e pulita del negozio, dai bordi ricamati in verde scuro, e la indossò sopra la t-shirt sporca. «Kasaki chan, guarda i tuoi biscotti o si bruciano» la ammonì indicandole il forno. Lei annuì e fece per avviarsi. «Buona sera» sentì salutare il suo papà e si girò a guardarlo, di spalle. Fu colta da un improvviso dubbio: seguire i biscotti o far compagnia a lui, per non lasciarlo solo con dei clienti, dato che era stanco? Alla fine scrollò le spalle e avvicinò lo sgabello al forno per mettersi sopra di esso e poter vedere verso il fuoco. Guardò le fiamme, lontane da dove si trovava lei, ma comunque dal calore tanto forte da farla quasi sudare, e si incantò a fissare la superficie di un biscotto, decisa a guardarla mentre cambiava aspetto e si induriva per assumere l'aspetto del biscotto e non quello della pasta-non-ancora-biscotto. Fu interrotta però, quando Satoshi tornò in cucina, accompagnato dai quattro clienti. La bambina sbattè le palpebre per riabituarsi alla penombra della stanza. «Vogliono i tuoi biscotti» annunciò a Kasaki e lei rimase a bocca aperta. Chi erano questi clienti che potevano entrare in cucina, che lei considerava come territorio esclusivo della famiglia, a cui il resto del mondo non aveva accesso? Li squadrò sospettosa: uno era vestito di bianco, uno invece era elegante come il nonno quando la mattina andava al lavoro e il terzo sembrava un amico del fattorino che portava i sacchi di farina pesante il lunedì mattina, aveva la divisa come lui. L'ultimo era vestito strano, ma aveva il viso liscio dalla pelle pallida e le ricordava un gonin bayashi********. Un po' contrariata al vedere conosciuti accedere così alla cucina, si girò per tornare a controllare i suoi biscotti: li avrebbe ammessi lì dentro solo perchè avevano detto di volerli comprare. Chi avrebbe mai pensato che i primi che cucinava sarebbero stati subito comprati? Ascoltò distrattamente i loro discorsi finchè non sentì che Satoshi la presentava. «Kasaki» aveva risposto
«Ohno Kasaki» mormorò lo sconosciuto
«E' un bel nome» constatò un secondo. La bambina trattenne un sorrisino orgoglioso: era il nome che il suo papà aveva scelto per lei, certo che era bello! «E' stato difficile?» sentì che chiedeva lui
«No, non troppo... da ragazzo mi sono occupato dei miei fratelli minori con cui ho molta differenza d'età, ho dovuto rifare le stesse cose di allora» spiegava sempre il primo, ma lei non capiva di cosa parlassero perchè si era persa un pezzo del dialogo «E poi c'era mia moglie»
«E' vero, in due è probabilmente più facile» assentì Satoshi. Kasaki ormai sapeva che gli altri bambini avevano un papà e una mamma, mentre lei no. Però, non avendola mai avuta, non capiva ancora bene cosa potesse significare una mamma. Le era chiaro invece che se tutto era stato difficile per il suo papà, era perchè era da solo. Lo vedeva quando lo costringeva a giocare fino a tardi e si addormentava nel bel mezzo della stanza, o poteva immaginarlo quando sentiva la nonna che lo rimproverava di essersi addormentato di nuovo davanti al forno la mattina. "Mamma" forse era sinonimo di "facile" o di "riposo". A Kasaki il riposo non mancava e a parte i biscotti e attraversare la strada, il resto era abbastanza facile, quindi doveva essere qualcosa che mancava proprio al suo papà, non a lei. E questo la rattristava molto: non poteva fare niente per lui, perchè era troppo piccola. Sentendo improvvisamente quel sentimento di impotenza, la bambina si girò verso Satoshi e fece l'unica cosa che sapeva di essere in grado di fare: dargli tutta sè stessa. Sinceramente, come aveva detto la nonna. Allungò le braccia e si fece prendere in braccio dal ragazzo. Gli si strinse al collo con forza: avrebbe percepito quello che voleva dirgli e che non poteva esprimere davanti ad altri? Avrebbe capito che lei era lì per lui? Che anche se non poteva fare tanto avrebbe sempre fatto del suo meglio per fare meno capricci, per essere più paziente, per comportarsi bene e non dargli pensiero? A rovinare quel momento arrivò il brontolio del suo stomaco: era passata da un pezzo l'ora di cena! Satoshi le permise di prendere qualcosa mangiare dalla cucina e il tizio che somigliava al fattorino della farina si propose di darle una mano. Si rivelò simpatico e conosceva più giochi del suo papà, anzi, era pure più bravo di alcune sue amichette. Cominciarono a farne uno in cui si doveva battere le mani a tempo con una filastrocca e i minuti volarono fin quando i biscotti non furono pronti e gli ospiti dovettero andarsene. Kasaki, rimanendo sulla soglia del corridoio, li osservò che uscivano: guardando Satoshi parlare con quei quattro sconosciuti le sembrava di vedere un papà che non era il suo, diverso da come lo conosceva lei. «Kasaki! Bye, bye!» saluto il simil-fattorino
«Bye, bye...» rispose stancamente. Osservò gli altri salutare ed era in parte felice che se ne andassero: era stanca e in un certo senso le sembrava che avessero già invaso troppo il mondo che solo loro due condividevano. «Mi rendo conto che io avevo una moglie ad aiutarmi» stava dicendo il giovane vestito bene che aveva chiesto il suo nome. Aveva dei figli anche lui. «Una sorella già grande e un fratello adolescente che poi è cresciuto abbastanza per darci una mano. Molte persone mi hanno sostenuto, quindi non posso immaginare cosa devi aver passato». Kasaki vide sul viso di quell'uomo un sorriso gentile, un sorriso d'affetto tanto dolce da scaldare il cuore anche a lei, a cui non era stato rivolto. «La madre non c'era» rispose con voce ferma Satoshi «Ma anche la mia famiglia mi ha sostenuto. La cosa positiva è che mia figlia vuole bene solo a me» e ridacchiò. Come aveva potuto essere tanto egoista quando era chiaro che il suo papà le voleva bene come non ne voleva a nessun altro? Come aveva potuto permettere che quattro estranei la facessero sentire insicura circa il legame che avevano? Era o non era la persona con cui lui non doveva fingere? La bambina si avvicinò «Signore, può portare sua figlia qui la prossima volta. E' bello avere amici nuovi e anche a papà farà piacere avere un amico» spiegò
«Posso portare Akira o vuoi solo amichette?» gli domandò lui
«Tutti e due è più divertente» concluse cercando i jeans del padre, allungando la mano, mentre teneva lo sguardo rivolto verso l'alto
«Va bene, la prossima volta verremo tutti e tre»
«Lo promette? Mi piacerebbe che papà avesse un nuovo amico, lui è silenzioso sa?»
«Lo prometto» rispose questi allungando il mignolo verso di lei, proponendole così di sancire la loro promessa. Quel signore le stava simpatico. Le fu ancora più simpatico quando lo vide fare lo stesso verso Satoshi. Trattenne a stento una risata divertita: gli adulti solitamente non facevano cose simili, tranne il suo papà, chiaramente. Ripeterono il gesto e finalmente tutti uscirono dal negozio. «Papi, sono stanca» sospirò subito dopo, lasciando andare i pantaloni del ragazzo che stava chiudendo la porta, dandole le spalle
«Sì. Ora andiamo» le rispose lentamente «Tu... tu raccogli le tue cose, io chiudo tutto». La bambina annuì e con uno sbadiglio andrò in cucina a mettere a posto pastelli e fogli.
Lungo la via del ritorno Satoshi la prese in braccio. Kasaki non si oppose, ma solitamente evitava di chiederglielo la sera, perchè la nonna le aveva sempre detto che in quei momenti lui era più stanco e non poteva chiedergli di fare sforzi altrimenti non sarebbe riuscito a cenare per la stanchezza, e mangiare è importante. Lui invece la strinse a sè, con forza, e non disse nulla per tutto il tragitto. Kasaki osservò le strade che percorrevano e ascoltò il respiro di Satoshi. Per la prima volta le sembrò che quel silenzio non fosse naturale, ma che, anzi, fosse carico di cose non dette. Perchè? «Papi?» lo chiamò timorosa
«Si?» domandò lui. La bambina ascoltò quel timbro di voce lieve e dolce, tanto familiare e caro, poi scosse il capo «No, niente» rispose. Era solo stanca: si era appena sgridata per non aver avuto fiducia nei sentimenti del suo papà per lei e ancora era lì a dubitare? Quando arrivarono a casa Satoshi la lasciò nelle braccia della nonna. «La metti a dormire tu? Devo tornare in negozio, ho dimenticato una cosa» lo sentì dire
«Te ne vai?» domandò Kasaki, riprendendosi dal torpore che l'aveva assalita negli ultimi minuti di tragitto
«Poi... poi torno Kasaki chan» le disse e sorrise per un solo secondo, tornando subito serio. «Devi darmi la buonanotte» gli ricordò
«Certo. Recupero questa cosa in fretta e torno, così dormo anche io» annuì
«Non fare tardi, devi svegliarti presto anche domani» si raccomandò la nonna. Poi Satoshi se ne andò.
Tornò. Ma lei stava già dormendo della grossa. Emerse dal sonno sentendosi toccare la guancia, perchè una parte di lei attendeva proprio che lui tornasse, prima di abbandonarsi totalmente al riposo. Kasaki aprì gli occhi e girò lo sguardo verso la sagoma del padre, rischiarata dalla luce che entrava dalla finestra che non aveva le tende tirate. Il cuore le battè forte. Davanti a lei c'era un giovane ragazzo con i capelli a spazzola e gli occhi scuri. «Papi?» domandò sbattendo le palpebre
«Non volevo svegliarti» le sussurrò e allora riconobbe la sua voce. «Sei venuto a salutarmi ora?» chiese muovendosi un po' sotto le coperte. Aveva avuto un leggero brivido perchè in un primo momento non aveva riconosciuto la persona davanti al suo letto, ma chi altri avrebbe potuto essere? «Sì» le rispose semplicemente dandole un bacio. Kasaki respirò a fondo, sentendo odore di marmellata, di impasto cotto e legna bruciata. Le sembrò di ricordare le sensazioni del calore della cucina, della morbidezza dell'abbraccio di quel papà che dal nulla creava cose buone che facevano uscire le persone dal negozio con un sorriso. Si allungò ad abbracciarlo per togliersi dalla mente il brutto ricordo della stretta che le aveva dato lungo il ritorno a casa. «Papi, saranno piaciuti i biscotti?» domandò riuscendo a trattenerlo. In un primo momento lui non la abbracciò, poi però le accarezzò la testa e lei sorrise, dolcemente, semi sonnecchiante. «A me piacevano» assicurò. E se piacevano a lui che era il più bravo...
«Buonanotte» le disse poi
«Uhn.... 'notte Papi» fece, riprendendosi di colpo prima di ricadere addormentata. Fece per lasciarlo, desiderosa di tornare sotto le coperte, ma lui la trattenne e accompagnò il suo intero corpo di nuovo sul materasso. «Scusa Kasaki chan, scusa» lo sentì sussurrare con voce tremante «Non lo dico spesso, è vero? Però ti voglio bene» le disse lasciandola sul cuscino morbido e sistemandole la coperta gialla sul lenzuolo. Forse aveva intuito qualcosa dell'ostilità che lei aveva avuto per gli ultimi clienti, forse aveva capito che era stata gelosa. Ma non era lui a doversi scusare: era perfetto, era il suo papà, lui andava sempre bene, qualsiasi cosa facesse. la bambina ridacchiò leggermente, assonnata, divertita da come entrambi si volessero bene, se lo dimostrassero, ma pensassero di non farlo mai abbastanza. «Non hai bisogno di parlare» pronunciò con un sospiro, per rassicurare quel papà pasticcione, ma sincero. «Kasaki lo capisce lo stesso» concluse prima di rannicchiarsi bene sotto la coperta.
Non prese subito sonno, continuava a camminare lungo il sottile confine tra l'addormentarsi e l'essere svegli, così sentì i passi leggeri di Satoshi che usciva e sentì chiudersi la porta, con un rumore secco, fastidioso. Stancamente aprì gli occhi e piegò il capo ad osservare oltre i suoi piedi sotto la coperta, verso l'uscita. Ma che motivo aveva di preoccuparsi? Possedeva poche cose, ma una era certa fosse sua: il suo papà; lui le apparteneva ed era il suo mondo, fatto di sveglie capovolte, canzoncine cantate insieme e libri di ricette al posto delle favole. E aghi di pino, ghiaccioli nel caldo estivo, abbracci stretti nella neve invernale. Poteva accadere qualsiasi cosa, il giorno dopo lui sarebbe stato lì per lei, così come lei, per quanto le fosse possibile, sarebbe stata sempre al suo fianco, per lui e per nessun altro. Per il suo papà.

*4 Aprile, ossia 4/4. Il numero 4 ha due letture giapponesi: shi e yon
**華咲 Kasaki
***"satou" è "zucchero" in giapponese
****"yasumi" è "riposo"
*****Spazi pubblici e gratuiti, accessibili dal mattino al pomeriggio tardi, da bambini e mamme. Sono pieni di giochi sia dentro all'edificio che fuori e c'è sempre qualcuno dello staff che controlla, oltre alle mamme di altri bambini presenti
******Letteralmente Panetteria (panya) Ago di Pino (matsuba), ispirato agli alberi del tempio che hanno colpito Ohno. Inoltre la parola "matsuba" è formato dai caratteri 松 (che si trova nel cognome Matsumoto) e 葉 (che si trova nel cognome Aiba)
*******Il sudachi è un agrume tipico giapponese. E' un agrume più gustoso e aromatico rispetto al limone e viene usato spesso per piatti salati (soba, udon, etc) così come per pietanze dolci (gelati, ghiaccioli, bevande, etc). La marmellata esiste, ed è proprio verde!
********La canzone che cantano insieme è "Kyou kara ashita he", una canzone per bambini di cui ho tradotto la prima parte del testo
*********Letteralmente "cinque uomini dell'orchestra". Sono le bambole che stanno nel terzo gradino del "altare" (non saprei come altro definirlo) che si usa per esporre figurine in abiti del periodo Heyan durante la Festa delle Bambole (Hinamatsuri, 3 Marzo). Di bambole ne esistono di diversi tipi, chiaramente, da quelle più tradizionali a quelle più moderne, magari versione più "kawaii". Quelle a cui pensa Kasaki sono chiaramente quelle più delicate e tradizionali che ha visto in giro


Prima di raccontare qualsiasi para mentale e qualsiasi retroscena della fic (di cui potrebbe non interessarvi nulla), voglio che si sappia che se questa ff può essere considerata bella è anche grazie a Lara (kyon), che mi ha fatto da beta-reader e correttrice di bozze, da cavia e da sostegno umano quando ero in dubbio. Che ha ascoltato le mie elucubrazioni (quelle che andrò a raccontare poco più sotto) con infinita pazienza e che mi ha anche sostenuto moralmente dato che ho scritto l'80% di questa storia durante lo stressantissimo periodo degli esami scritti di lingua.
Grazie.
La stessa parola "grazie" non è sufficiente ad esprimere quello che sento. Sei stata una lettrice, una collaboratrice del forum, un'amica e ora un sostegno alla mia piccola mente di scrittrice perversa, pignola e maniacale. Grazie.

Passiamo al mio commento XD
Ma che dire? Se dicessi che non mi piace questa ff direi una bugia, e se così fosse non la pubblicherei no? Sarebbe una modestia farlocca, quasi ipocrisia, quindi dirò le cose come stanno... AMO questa ff. Visceralmente. Per la prima volta in due anni, da quando ho scritto "Kaze", ho scritto qualcosa che si avvicina alla sua bellezza. "Acqua e Farina", nella mia personale classifica, raggiunge il podio e per ora non so dire se ruba il primo posto a "Kaze", se lo divide a pari merito o se si trova al secondo, prima di lei.
Ho pianto... ho pianto praticamente per tutti i "capitoletti" escluso "30 gr di lievito di birra". Per la tristezza, di commozione, di speranza, di gioia... fin da quando ho abbozzato questa coppia in Tarareba sentivo che questi due dovevano essere bellissimi insieme e a lungo ho pensato che avrei voluto approfondirli. Ed eccola... doveva essere una ff futura (ancora adesso sul pc è nella cartella "Acqua e Farina [futuro]"), invece ho avuto l'ispirazione e via... non c'è stato scampo. Questo Ohno alternativo, a tratti così simile a quello che conosciamo noi e a tratti tanto diverso, e questa bambina, forte e fanciullescamente debole allo stesso tempo, mi hanno totalmente conquistata. Ma ancora una volta, come in Tarareba, anche a questa fine non saprei dire quale vorrei fosse la scelta di Ohno, la scelta degli Arashi tutti: in questa vita o nell'altra? Non lo so... non lo so... e forse non è nemmeno quello il punto chissà.

Per quanto riguarda le pare mentali... XD
Per la verità ho cominciato a farmele all'inizio di "1 kg di farina", perchè la prima parte è solo un prologo diciamo. Una sera, discutendo con me stessa, ma su skype con Lara (scusa tesoro,devo esser sembrata una psicopatica!), ho deciso che avrei alternato 2 momenti belli e 2 momenti tristi alternando anche il punto di vista di Ohno con quello di Kasaki. Con 4 capitoli ho trovato i titoli cercando la ricetta base del pane. Gli ingredienti del pane sono gli ingredienti di un rapporto: sostegno, comprensione, condivisione, fiducia. Ma anche se si aggiungono tante variabili, penso che la base per molte delle combinazioni di pasticceria sia proprio un misto di acqua e farina. Così sono loro due: loro sono la base delle loro vite, qualsiasi cosa accada l'importante è che siano insieme poi penseranno a come superare gli ostacoli.
Un'altra fissa era far comparire uno dei membri in ogni capitolo, per puro caso, ma in un crescendo di "vicinanza": così Nino è solo visto in tv, Aiba è di passaggio, poi Jun aiuta Kasaki prima di andare avanti per la sua strada, e infine Sho che, nel mondo di Tarareba, è l'unico che può comprendere ciò che Ohno ha vissuto, ciò a cui dovrebbe rinunciare, ciò che perderebbe se decidesse di tornare con loro.
Un particolare meno rilevante era la coperta gialla. In un modo o nell'altro volevo farla comparire in tutti i capitoletti.
C'è altro? Credo di no XD
Grazie per aver letto fin qui!!

  
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