DISCLAIMER!
Il testo di questa fic è stata scritta interamente da me e
me sola, mi
sono ispirata però al video dei Breaking Benjamin (i miei
amati Breaking Benjamin),
permettendomi di aggiungere qualche particolare, tempo fa questo video
mi aveva
colpito in modo particolare, e inizialmente questa era solo una vaga
idea nella
mia mente, di quelle che pensi che le farai solo quando finirai la
marea di
cose da fare –cioè mai- ma che alla fine
è venuta fuori, chissà come. Grazie a
lei -> Layla_Aspasia
che
ha mostrato tanto entusiasmo quando le ho
comunicato la notizia che mi sarebbe piaciuto scrivere qualcosa su di
loro :)
Purtroppo
su EFP non esiste la sezione “artisti
musicali –Breaking Benjamin” Quindi, visto il
contenuto del testo sono
costretta a inserirlo tra le Originali – Sovrannaturale
(sezione fantasmi).
Ora mi diletto in banner, per quanto possa
sembrare banale… a me piace.
Vi lascio, Buona lettura ;)
Forgotten
"Disperata,striscerò
Aspettando così a lungo
Nessun amore,non c'è alcun amore
Morta per tutti
Che cosa sono diventata"
[Breaking Benjamin - The Diary of Jane]
Una
vecchia casa che pareva abbandonata, il
terreno smosso e i mattoni di muri accasciati a terra come minuscole
lapidi ricordavano
l’ ambientazione di un cimitero, impregnato di aria pesante e
cupa, il terreno
sarebbe potuto sembrare melmoso, ma qualcosa, forse nel terreno stesso
o nelle
piante robuste che vi crescevano faceva capire quanto potesse essere in
realtà
duro e freddo, la luce del Sole filtrava attraverso i rami dei numerosi
alberi
contorti creando giochi di luce e che spesso la gente chiamava con il
melanconico soprannome di ‘raggi divini’.
Numerosi spiazzi si aprivano nell’ ampiezza di
quel triste luogo, deserti anch’ essi.
Pochissimi moniti di pietra giacevano
raggruppati nel remoto di quel luogo, a segnare la prematura sepoltura
di
povere persone ormai dimenticate, sepolti a loro volta da foglie secche
e
piante rampicanti che chissà come riuscivano ancora a
sopravvivere in quell’
ambiente dimenticato da Dio, ma forse non da tutti.
Pareva bianca e immacolata sotto i raggi
luminosi del Sole, ma avvicinandovisi si potevano notare le numerose
macchie di
umidità o di semplice sporcizia intaccare la bellezza di
quella vecchia villa,
era grande, sembrava una di quelle case dei film Horror, una di quelle
in cui
il protagonista resta intrappolato con le sue paure più
grandi.
Una
donna dai fluenti
capelli corvini e la pelle pallida, con un profilo affilato e gli occhi
chiusi
stava coricata in una vasca da bagno, apparentemente addormentata e
sola, i
boccoli scuri accarezzavano le sue spalle con morbide e curate onde, la
rigidità del suo viso, le palpebre serrate, le labbra
pallide avrebbero potuto
collocare il suo corpo in una bara invece che in una vasca da bagno.
All’ improvviso, come
appena ridestata da un incubo i suoi occhi di ossidiana si aprirono di
scatto e
respirò come se fosse appena riemersa da un’ apnea
troppo lunga, guardandosi in
giro riconobbe a stento il luogo in cui si trovava, la vecchia casa in
cui
aveva abitato durante la sua infanzia con i nonni, quando questi poi
erano
morti una famiglia l’ aveva adottata portandola in un nuovo
posto, ma quella
vecchia e immensa villa era rimasta nel suo animo, si era radicata in
lei come
un ricordo di una splendida infanzia, la migliore che si potesse mai
desiderare,
e nonostante quell’ abitazione le dava un senso di
inquietudine ogni volta che
vi posasse sopra gli occhi non poteva fare a meno che ricollegarla a
vecchi
ricordi piacevoli.
Si accorse di stringere
con forza il bordo della vasca, come se tentasse di aggrapparsi a
qualcosa, i
residui di un sogno sfuggevole, una sensazione fugace, quasi dolorosa.
Uscì
dalla vasca e con gesti dettati dall’ abitudine si
rivestì accarezzandosi
lentamente le spalle quando alzava le spalline della veste, sentiva la
sua
stessa pelle fredda e dura, si sentiva stanca e fiacca, come se avesse
dormito
troppo profondamente o troppo a lungo, un
senso di pesantezza e apatia stava dilagando lentamente dentro di lei
spingendola verso il basso, e le balenò in mente la banale
ipotesi di una lieve
influenza, probabilmente se si sarebbe sdraiata si sarebbe sentita
meglio,
forse.
Sollevò
lo sguardo, per
specchiarsi nello specchio e assicurarsi di avere un buon aspetto, ma
lo
specchio non c’ era, o meglio, la cornice era al suo posto ma
mancava il vetro
al suo interno, la sua assenza aveva lasciato un buco di legno scuro e
ruvido. Istintivamente
vi passò la mano sopra e sentì il contatto con il
legno ruvido e pieno di
schegge, ritirò la mano nel timore di ferirsi, la sua pelle
era ancora
immacolata e pallida, forse un po’ troppo.
Raccolse uno specchio più
piccolo dalla mensola, ma anche quello era privo di vetro e ancora lei
non
riuscì a vedersi.
Con un senso di urgenza e frenesia
uscì dalla stanza, sentendo qualcosa premere sul suo cuore,
un peso fastidioso
e funesto, ricordava a memoria quella casa, ed erano tante le stanze
con gli
specchi, si diresse in quella più vicina.
Non era tanto per l’
urgenza di osservarsi riflessa in una specchio, tanto quanto avere la
certezza
di esserci e stare bene, di vedersi inserita in una cornice e
contornata dalla
vita intorno a lei, di sentirsi una parte di essa, fare parte di
qualcosa. Ma
il fatto era che non sapeva neanche lei cosa ci faceva lì.
La camera da letto era
esattamente come la ricordava, con le lenzuola blu cielo sul letto
fatto,
coperte però a loro volta da un lenzuolo bianco per impedire
alla polvere di
posarvici sopra, si guardò un attimo intorno incerta e
tentennante, tutti i
mobili in quella stanza erano coperti da lenzuoli più o meno
bianchi.
Ma neanche lì riuscì a
specchiarsi, anche lì mancava la superficie argentea su cui
vedere il suo
stesso volto.
Si guardò di nuovo intorno
in cerca di un qualsiasi oggetto potesse riflettere la sua immagine, ma
niente,
solo teli bianchi di lino e polvere e pareti azzurre scrostate dal
tempo.
Di nuovo, si mise a
correre entrando nella stanza degli ospiti, ricordava che ci fosse uno
specchio
sopra il camino perché la prima volta che ci era passata
davanti si era
spaventata temendo che nella stanza ci fosse un’ altra
persona, non essendosi
accorta che in realtà non era che il proprio riflesso. E
ancora sperava di
provare quella sensazione di sollievo nell’ accorgersi che
sul vetro c’era solo
il riflesso del suo viso leggermente scosso. Scosse la testa, come per
scacciare delle preoccupazioni che troppo facilmente stavano facendo
presa
nella sua mente, ancora si guardò intorno e ancora le uniche
cose che vedeva
erano coperte da teli bianchi. Tornò ancora una volta a
posare gli occhi sulla
cornice priva di specchio e la tristezza dell’ abbandono le
avvolse il cuore.
Uscì
di corsa dalla stanza
aprendo una porta che si mosse con un raccapricciante cigolio che
sembrò
riecheggiare nella casa deserta.
Scese al piano di sotto
reggendosi al corrimano di ferro battuto nero, le sembrava di non
sentire
neanche il freddo del marmo sotto i suoi piedi, il frusciare della
veste sugli
scalini e sulle sue caviglie.
Arrivò nell’ atrio ampio e
freddo come non era mai stato, da cui si diramavano diversi corridoi e
si
trovavano porte per molte stanze, una in particolare attirò
la sua attenzione,
o meglio, fu un lieve bagliore proveniente da dietro una porta
socchiusa a
catturare i suoi occhi, il riverbero dei raggi del Sole su una
superficie
riflettente.
Appoggiò le mani sul legno
provando quasi timore all’ idea di entrare, ma
nell’ arco di un solo respiro le
sue insicurezze vennero spazzate via dall’ urgenza di
smentire un’ idea che si
era formata nella sua mente.
Entrò nella stanza
lentamente, camminando con passo leggero e iniziando a guardarsi
intorno; una
quantità sproporzionata di specchi era ammassata alle
pareti, non ne aveva mia
visto tanti e fu certa che lì non c’ erano solo
quelli di casa sua, ma per la
maggior parte erano tanto sporchi e opachi e invece che riflettere la
luce
della stanza la facevano sembrare ancora più cupa e deserta.
Continuò ad
avanzare lentamente mentre le sembrava di sentire il suo stesso cuore
battere
con forza esagerata contro lo sterno, anche se non era così,
in verità non
percepiva il suo stesso battito, segno che il cuore stava pulsando
normalmente,o almeno così credeva.
C’erano sedie e tavolini
anche lì, poltrone e oggetti del mobilio coperti
anch’ essi da teli bianchi.
Uno solo, era solo uno lo
specchio che avrebbe potuto riflettere bene la sua immagine, quello in
fondo
alla stanza, e in quel momento le sembrava lontanissimo e
irraggiungibile,
quasi inconsciamente allungò il passo, con la febbrile
smania di volersi vedere
riflessa e tranquillizzarsi.
Non fu come le volte precedenti, il vetro c’ era, era lei a
non
esserci.
Le scivolò dalle mani lo specchio che ancora teneva, si
aspettò anche di sentire il vetro rompersi, ma il vetro non
c’ era e la caduta
emise solo un suono cupo e spento, se solo lo avesse saputo avrebbe
preferito
di gran lunga non entrare in quella stanza e continuare a cercarsi su
specchi
di legno.
Quante domande affollavano la sua mente, uno stato di
confusione si era impadronito di lei facendole credere che fosse solo
un brutto
scherzo, o magari un incubo, uno dei peggori, quelli in cui viendi
dimenticata,
e si sa,
Semplicemente,
non poteva
credere a quello che vedeva e a quello che la sua mente le suggeriva,
le
sembrava di leggere trame di libri dell’ orrore basate su
fantasmi intrappolati
e soli, morti e dimenticati da tutti.
Eppure lei esisteva,
sapeva di esistere, la sua pelle per quanto fredda potesse essere era
liscia al
tatto delle sue stesse mani, sentiva i suoi capelli corvini
accarezzarle con
onde sinuose le spalle, e si vedeva, vedeva le sue mani pallide tremare
mentre
si allungavano verso lo specchio immobile.
Non ottenne nessun
risultato, solo la schiacciante certezza di non poter far
nulla.
Ma lei non era morta, o almeno
così credeva, eppure una nuova sensazione si era impadronita
di lei, lo sentiva
premere contro lo sterno, viscido e ghiacciato, qualcosa che si era
insinuato
in lei e nella sua vita, distruggendola per sempre.
In uno spiazzo solitario,
illuminato
da raggi del Sole che a fatica filtravano attraverso i rami,
un’ unica persona
stava in piedi davanti a una lapide chiara sulla quale teneva aperto un
consunto
diario, scritte dalla calligrafia allungata e precisa occupavano varie
pagine.
Sarebbe stato l’ unico a
leggere i pensieri di Jane e ad andare a trovarla, anche se solo per
una sola
volta.
Poggiò una rosa rossa tra
due pagine, su una delle quali era stata attaccata una foto di una
giovane donna
da lunghi e mossi capelli corvini, in quella accanto sempre con quella
scrittura particolare poche righe la occupavano interamente,
allargandosi sul
tutto il foglio ingiallito.
“Io
penso che venire dimenticati sia un po’ come
morire, perché, pensaci, se nessuno si ricorda di te e
nessuno ti cerca allora
si diventa inutili, come lo sono in
questo caso i morti sottoterra, solo che così si muore di
una morte diversa,
molto più lunga e dolorosa, non pensi?”
Una cosa che gli era
sempre piaciuto di lei era il numero eccessivo, secondo lui, di volte
in cui usava
la parola ‘pensare’ e che quindi portava la persona
che lo leggeva, appunto, a
pensare, proprio come stava facendo lei in quel momento, gli piaceva il
modo in
cui tutte le volte coinvolgeva il lettore rendendolo partecipe dei suoi
stessi
pensieri e chissà come portandoti a essere d’
accordo con lei.
Un
lieve sorriso amaro increspò le sue labbra.
Chiuse
il diario, guardando il gambo della rosa che veniva schiacciato tra le
pagine
ingiallite, nessun’ altro aveva portato fiori o roba simile,
solo la natura,
aveva pensato bene di avvolgere in un abbraccio la lapide con edera e
rovi.
Lasciò
scivolare la mano dal diario, come un’ ultima carezza mentre
si voltava per
andare via un’ ultima volta da quel posto dimenticato.
C’era
ancora
qualcuno che teneva a te cara, non eri stata dimenticata.