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Autore: La sposa di Ade    22/05/2012    5 recensioni
“Io penso che venire dimenticati sia un po’ come morire, perché, pensaci, se nessuno si ricorda di te e nessuno ti cerca allora si diventa inutili, come lo sono in questo caso i morti sottoterra, solo che così si muore di una morte diversa, molto più lunga e dolorosa, non pensi?”
Purtroppo su EFP non esiste la sezione “artisti musicali –Breaking Benjamin” Quindi, visto il contenuto del testo sono costretta a inserirlo tra le Originali – Sovrannaturale (sezione fantasmi).
Genere: Angst, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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DISCLAIMER! Il testo di questa fic è stata scritta interamente da me e me sola, mi sono ispirata però al video dei Breaking Benjamin (i miei amati Breaking Benjamin), permettendomi di aggiungere qualche particolare, tempo fa questo video mi aveva colpito in modo particolare, e inizialmente questa era solo una vaga idea nella mia mente, di quelle che pensi che le farai solo quando finirai la marea di cose da fare –cioè mai- ma che alla fine è venuta fuori, chissà come. Grazie a lei -> Layla_Aspasia che ha mostrato tanto entusiasmo quando le ho comunicato la notizia che mi sarebbe piaciuto scrivere qualcosa su di loro :)
Purtroppo su EFP non esiste la sezione “artisti musicali –Breaking Benjamin” Quindi, visto il contenuto del testo sono costretta a inserirlo tra le Originali – Sovrannaturale (sezione fantasmi).
Ora mi diletto in banner, per quanto possa sembrare banale… a me piace.
Vi lascio, Buona lettura ;)

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Forgotten

"Disperata,striscerò
Aspettando così a lungo
Nessun amore,non c'è alcun amore
Morta per tutti
Che cosa sono diventata"

[Breaking Benjamin - The Diary of Jane]

Una vecchia casa che pareva abbandonata, il terreno smosso e i mattoni di muri accasciati a terra come minuscole lapidi ricordavano l’ ambientazione di un cimitero, impregnato di aria pesante e cupa, il terreno sarebbe potuto sembrare melmoso, ma qualcosa, forse nel terreno stesso o nelle piante robuste che vi crescevano faceva capire quanto potesse essere in realtà duro e freddo, la luce del Sole filtrava attraverso i rami dei numerosi alberi contorti creando giochi di luce e che spesso la gente chiamava con il melanconico soprannome di ‘raggi divini’.
Numerosi spiazzi si aprivano nell’ ampiezza di quel triste luogo, deserti anch’ essi.
Pochissimi moniti di pietra giacevano raggruppati nel remoto di quel luogo, a segnare la prematura sepoltura di povere persone ormai dimenticate, sepolti a loro volta da foglie secche e piante rampicanti che chissà come riuscivano ancora a sopravvivere in quell’ ambiente dimenticato da Dio, ma forse non da tutti.
Pareva bianca e immacolata sotto i raggi luminosi del Sole, ma avvicinandovisi si potevano notare le numerose macchie di umidità o di semplice sporcizia intaccare la bellezza di quella vecchia villa, era grande, sembrava una di quelle case dei film Horror, una di quelle in cui il protagonista resta intrappolato con le sue paure più grandi.

Chi era questa volta il protagonista? Chi era la paura?

Una donna dai fluenti capelli corvini e la pelle pallida, con un profilo affilato e gli occhi chiusi stava coricata in una vasca da bagno, apparentemente addormentata e sola, i boccoli scuri accarezzavano le sue spalle con morbide e curate onde, la rigidità del suo viso, le palpebre serrate, le labbra pallide avrebbero potuto collocare il suo corpo in una bara invece che in una vasca da bagno.
All’ improvviso, come appena ridestata da un incubo i suoi occhi di ossidiana si aprirono di scatto e respirò come se fosse appena riemersa da un’ apnea troppo lunga, guardandosi in giro riconobbe a stento il luogo in cui si trovava, la vecchia casa in cui aveva abitato durante la sua infanzia con i nonni, quando questi poi erano morti una famiglia l’ aveva adottata portandola in un nuovo posto, ma quella vecchia e immensa villa era rimasta nel suo animo, si era radicata in lei come un ricordo di una splendida infanzia, la migliore che si potesse mai desiderare, e nonostante quell’ abitazione le dava un senso di inquietudine ogni volta che vi posasse sopra gli occhi non poteva fare a meno che ricollegarla a vecchi ricordi piacevoli.
Si accorse di stringere con forza il bordo della vasca, come se tentasse di aggrapparsi a qualcosa, i residui di un sogno sfuggevole, una sensazione fugace, quasi dolorosa. Uscì dalla vasca e con gesti dettati dall’ abitudine si rivestì accarezzandosi lentamente le spalle quando alzava le spalline della veste, sentiva la sua stessa pelle fredda e dura, si sentiva stanca e fiacca, come se avesse dormito troppo profondamente o troppo a lungo,  un senso di pesantezza e apatia stava dilagando lentamente dentro di lei spingendola verso il basso, e le balenò in mente la banale ipotesi di una lieve influenza, probabilmente se si sarebbe sdraiata si sarebbe sentita meglio, forse.

Eri un angelo una volta. Ora sei solo un'ombra fra gli artigli della notte.

Sollevò lo sguardo, per specchiarsi nello specchio e assicurarsi di avere un buon aspetto, ma lo specchio non c’ era, o meglio, la cornice era al suo posto ma mancava il vetro al suo interno, la sua assenza aveva lasciato un buco di legno scuro e ruvido. Istintivamente vi passò la mano sopra e sentì il contatto con il legno ruvido e pieno di schegge, ritirò la mano nel timore di ferirsi, la sua pelle era ancora immacolata e pallida, forse un po’ troppo.
Raccolse uno specchio più piccolo dalla mensola, ma anche quello era privo di vetro e ancora lei non riuscì a vedersi.
Con un senso di urgenza e frenesia uscì dalla stanza, sentendo qualcosa premere sul suo cuore, un peso fastidioso e funesto, ricordava a memoria quella casa, ed erano tante le stanze con gli specchi, si diresse in quella più vicina.
Non era tanto per l’ urgenza di osservarsi riflessa in una specchio, tanto quanto avere la certezza di esserci e stare bene, di vedersi inserita in una cornice e contornata dalla vita intorno a lei, di sentirsi una parte di essa, fare parte di qualcosa. Ma il fatto era che non sapeva neanche lei cosa ci faceva lì.
La camera da letto era esattamente come la ricordava, con le lenzuola blu cielo sul letto fatto, coperte però a loro volta da un lenzuolo bianco per impedire alla polvere di posarvici sopra, si guardò un attimo intorno incerta e tentennante, tutti i mobili in quella stanza erano coperti da lenzuoli più o meno bianchi.
Ma neanche lì riuscì a specchiarsi, anche lì mancava la superficie argentea su cui vedere il suo stesso volto.
Si guardò di nuovo intorno in cerca di un qualsiasi oggetto potesse riflettere la sua immagine, ma niente, solo teli bianchi di lino e polvere e pareti azzurre scrostate dal tempo.
Di nuovo, si mise a correre entrando nella stanza degli ospiti, ricordava che ci fosse uno specchio sopra il camino perché la prima volta che ci era passata davanti si era spaventata temendo che nella stanza ci fosse un’ altra persona, non essendosi accorta che in realtà non era che il proprio riflesso. E ancora sperava di provare quella sensazione di sollievo nell’ accorgersi che sul vetro c’era solo il riflesso del suo viso leggermente scosso. Scosse la testa, come per scacciare delle preoccupazioni che troppo facilmente stavano facendo presa nella sua mente, ancora si guardò intorno e ancora le uniche cose che vedeva erano coperte da teli bianchi. Tornò ancora una volta a posare gli occhi sulla cornice priva di specchio e la tristezza dell’ abbandono le avvolse il cuore.

Non c’ è più niente, né amore né vita in questa casa desolata, solo la tristezza dell’ abbandono e della morte.

Uscì di corsa dalla stanza aprendo una porta che si mosse con un raccapricciante cigolio che sembrò riecheggiare nella casa deserta.
Scese al piano di sotto reggendosi al corrimano di ferro battuto nero, le sembrava di non sentire neanche il freddo del marmo sotto i suoi piedi, il frusciare della veste sugli scalini e sulle sue caviglie.
Arrivò nell’ atrio ampio e freddo come non era mai stato, da cui si diramavano diversi corridoi e si trovavano porte per molte stanze, una in particolare attirò la sua attenzione, o meglio, fu un lieve bagliore proveniente da dietro una porta socchiusa a catturare i suoi occhi, il riverbero dei raggi del Sole su una superficie riflettente.
Appoggiò le mani sul legno provando quasi timore all’ idea di entrare, ma nell’ arco di un solo respiro le sue insicurezze vennero spazzate via dall’ urgenza di smentire un’ idea che si era formata nella sua mente.
Entrò nella stanza lentamente, camminando con passo leggero e iniziando a guardarsi intorno; una quantità sproporzionata di specchi era ammassata alle pareti, non ne aveva mia visto tanti e fu certa che lì non c’ erano solo quelli di casa sua, ma per la maggior parte erano tanto sporchi e opachi e invece che riflettere la luce della stanza la facevano sembrare ancora più cupa e deserta. Continuò ad avanzare lentamente mentre le sembrava di sentire il suo stesso cuore battere con forza esagerata contro lo sterno, anche se non era così, in verità non percepiva il suo stesso battito, segno che il cuore stava pulsando normalmente,o almeno così credeva.
C’erano sedie e tavolini anche lì, poltrone e oggetti del mobilio coperti anch’ essi da teli bianchi.
Uno solo, era solo uno lo specchio che avrebbe potuto riflettere bene la sua immagine, quello in fondo alla stanza, e in quel momento le sembrava lontanissimo e irraggiungibile, quasi inconsciamente allungò il passo, con la febbrile smania di volersi vedere riflessa e tranquillizzarsi.

Non fu come le volte precedenti, il vetro c’ era, era lei a non esserci.
Le scivolò dalle mani lo specchio che ancora teneva, si aspettò anche di sentire il vetro rompersi, ma il vetro non c’ era e la caduta emise solo un suono cupo e spento, se solo lo avesse saputo avrebbe preferito di gran lunga non entrare in quella stanza e continuare a cercarsi su specchi di legno.
Quante domande affollavano la sua mente, uno stato di confusione si era impadronito di lei facendole credere che fosse solo un brutto scherzo, o magari un incubo, uno dei peggori, quelli in cui viendi dimenticata, e si sa,

Venire dimenticati era come morire, e ora quegli specchi erano lì a mostrarle la brutalità di quella situazione.

Semplicemente, non poteva credere a quello che vedeva e a quello che la sua mente le suggeriva, le sembrava di leggere trame di libri dell’ orrore basate su fantasmi intrappolati e soli, morti e dimenticati da tutti.
Eppure lei esisteva, sapeva di esistere, la sua pelle per quanto fredda potesse essere era liscia al tatto delle sue stesse mani, sentiva i suoi capelli corvini accarezzarle con onde sinuose le spalle, e si vedeva, vedeva le sue mani pallide tremare mentre si allungavano verso lo specchio immobile.
Non ottenne nessun risultato, solo la schiacciante certezza di non poter  far nulla.
Ma lei non era morta, o almeno così credeva, eppure una nuova sensazione si era impadronita di lei, lo sentiva premere contro lo sterno, viscido e ghiacciato, qualcosa che si era insinuato in lei e nella sua vita, distruggendola per sempre.

 
In uno spiazzo solitario, illuminato da raggi del Sole che a fatica filtravano attraverso i rami, un’ unica persona stava in piedi davanti a una lapide chiara sulla quale teneva aperto un consunto diario, scritte dalla calligrafia allungata e precisa occupavano varie pagine.
Sarebbe stato l’ unico a leggere i pensieri di Jane e ad andare a trovarla, anche se solo per una sola volta.
Poggiò una rosa rossa tra due pagine, su una delle quali era stata attaccata una foto di una giovane donna da lunghi e mossi capelli corvini, in quella accanto sempre con quella scrittura particolare poche righe la occupavano interamente, allargandosi sul tutto il foglio ingiallito.

“Io penso che venire dimenticati sia un po’ come morire, perché, pensaci, se nessuno si ricorda di te e nessuno ti cerca  allora si diventa inutili, come lo sono in questo caso i morti sottoterra, solo che così si muore di una morte diversa, molto più lunga e dolorosa, non pensi?”
Una cosa che gli era sempre piaciuto di lei era il numero eccessivo, secondo lui, di volte in cui usava la parola ‘pensare’ e che quindi portava la persona che lo leggeva, appunto, a pensare, proprio come stava facendo lei in quel momento, gli piaceva il modo in cui tutte le volte coinvolgeva il lettore rendendolo partecipe dei suoi stessi pensieri e chissà come portandoti a essere d’ accordo con lei.
Un lieve sorriso amaro increspò le sue labbra.
Chiuse il diario, guardando il gambo della rosa che veniva schiacciato tra le pagine ingiallite, nessun’ altro aveva portato fiori o roba simile, solo la natura, aveva pensato bene di avvolgere in un abbraccio la lapide con edera e rovi.
Lasciò scivolare la mano dal diario, come un’ ultima carezza mentre si voltava per andare via un’ ultima volta da quel posto dimenticato.

C’era ancora qualcuno che teneva a te cara, non eri stata dimenticata.

 

 

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Non ho idea di cosa c’ entri Jane Eryre però…

  
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