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Autore: Ely79    22/05/2012    2 recensioni
A Morass Hall, un evento imprevisto ha squassato la giornata, distrutto il laboratorio di Thomas Clayborn e indispettito il suo altezzoso mecenate. Mille domande si inseguono nella mente del ricercatore, mentre in compagnia dei fedeli Hermes e U cerca di trovare una risposta tra i frantumi dell'esperimento.
Storia seconda classificata al contest "Sulle ali della fantasia" indetto da Shade Owl.
Genere: Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Failure Storia seconda classificata al contest "Sulle ali della fantasia" indetto da Shade Owl, il cui giudizio è riportato al termine del racconto..

Nick EFP - Nick Forum:
ely79 – ely 79
Canzone scelta: 9) Nightwish – Bye Bye Beautiful / Delusione e amarezza
Prompt scelto: Studioso
Titolo: Failure
Generi: Introspettivo, Science-fiction
Tipologia: One-shot
Avvertimenti: -
RATING: giallo
NdA e varie: ambientazione steampunk nel senso più classico del termine: siamo in Inghilterra, alle prese con ricerche tecnologico-taumaturgiche.

 sergio

Il vento sibilava prepotente contro la finestra e sulle mute ondulazioni delle Mynydd Preseli1. Le poche eriche che spuntavano dalla neve gelata frusciavano disperate, simili a dita scheletrite di dannati che agognavano la salvezza. Non c’era traccia dei cervi che occasionalmente attraversavano la campagna, né tantomeno il volo dei corvi a sfidare le bizze dell’inverno.
Una De Dion-Bouton2 procedeva lungo la strada, sferragliando nella nube di vapore che si lasciava alle spalle.
Le cromature che bordavano la carrozzeria mandavano deboli riverberi tra il fango e la neve che l’incrostavano. Gli ammortizzatori cigolavano sofferenti ad ogni sobbalzo. Il motore sparse borbottii imperiosi nel vuoto delle colline, fin quando scomparve alla vista, imboccando una discesa.
L’uomo seduto sul sedile anteriore guidava rigido ed impettito, nonostante la tortuosità della via e le pesanti coperte in cui era avvolto per proteggersi dal gelo.
Dietro di lui, su un lungo sedile di pelle verde cupo, sedeva un altro uomo. Vestiva con un pesante giaccone foderato di pelliccia scura, dai risvolti lunghi e spessi a tal punto che le maniche formavano un manicotto con cui poteva proteggersi le mani. I piedi poggiavano su una piccola grata, da cui proveniva un costante soffio d’aria calda. Un bastone di legno dalle venature marcate, culminante in un raffinato pomello argenteo, era assicurato con una cinghia ad un montante del tettuccio in tela.
«Moritz?» chiamò annoiato il passeggero.
La voce pastosa tradiva l’abuso di sigari e l’accento secco la provenienza dalle terre del nord est europeo.
«Sì, padrone?»
«Dirigiti a Cardigan. Non ho intenzione di imbarcarmi un’altra volta su una di quelle bagnarole ormeggiate a Newport» ordinò.
Il giovane assistente si volse appena, fissando l’uomo alle sue spalle attraverso gli spessi occhialoni da autista.
«Perdonate l’ardire, padrone, ma ritenete sia una buona idea? Ci vorranno almeno due ore in più, sempre che il tempo regga» osservò.
«Posso tollerare il protrarsi dei miei dolori, se ciò mi garantisce la mia sopravvivenza durante la navigazione verso Londra. Mi rifiuto di metter piede su quelle sottospecie di catini da lavandaia, solo per risparmiare un po’ di fatica a questo trabiccolo. E altrettanto mi rifiuto di attraversare queste lande per giorni, col rischio di perderci e peggiorare ulteriormente il mio stato. Cardigan è il migliore compromesso possibile» disse questi. «L’importante è che tu non abbia intenzione d’ispezionare ogni singola buca di queste cosiddette strade, come hai fatto all’andata. Sono già piuttosto sconfortato dal miserevole esito delle ricerche, non serve che tu vi aggiunga ulteriore sofferenza».
Moritz annuì, ignorando la frecciatina. Aggiustò la presa sul volante mentre schivava di un pelo una buca delle dimensioni di un bovino. Lo sterzo era dannatamente duro e maledisse tra sé gli abitanti di Morass3  Hall, poiché tra di loro non si era trovato un meccanico che potesse dare una regolata alle ghiere ed ai livelli dei fluidi. Pur vantandosi di essere diventato in brevissimo tempo uno dei migliori autisti in circolazione, certo non s’intendeva di quel genere di materie: a malapena sapeva dove inserire l’acqua o il carbone per far muovere la fresca meraviglia delle industrie automobilistiche francesi. Per come la vedeva lui, la mesta residenza appena lasciata era decisamente un covo di sventure e inettitudine.
Il veicolo proseguì nella discesa, rallentando in prossimità di un crocicchio dove una coppia di cartelli male in arnese tentava di indicare la costa e le distanze dai centri principali.

***

Thomas sedeva col capo fra le mani, distrutto dalla stanchezza e dalla vergogna. Il crepitare del fuoco nel caminetto non lo rinfrancava e la generosa dose di scotch che gli circolava nelle vene pareva non sortire alcun effetto. Avrebbe accettato di sprofondare nell’oblio degli acquitrini poco lontani dalla dimora, piuttosto che affrontare gli esiti pietosi del proprio esperimento.  
La mia pazienza ed i miei fondi sono ampi, immensi, ma non infiniti, mr. Clayborn, aveva sentenziato solo pochi minuti prima il suo ospite.
Non aveva aggiunto altro e se n’era andato, lasciando nel corridoio una scia del suo costoso e raffinato profumo francese, il battito delle scarpe di cuoio spagnolo ed il ticchettio del bastone da passeggio in legno d’ulivo italiano. Sapeva che avrebbe inviato altri emolumenti, altro materiale, altri volumi, altre lettere di sollecito affinché raggiungesse qualcosa di più che un’esplosione potenzialmente letale.
Afferrò la bottiglia per il collo, quasi la stesse incolpando e punendo dell’insuccesso, e versò nuovamente il liquore. Ingollò l’intero bicchierino di whisky percependo solo il bruciore del liquido sul palato, neppure lontanamente paragonabile a quello della sconfitta subita. L’ennesima.
Sprofondò nel divano, abbandonando le braccia lungo i fianchi. Sentiva ancora le orecchie fischiare per colpa del violento spostamento d’aria che aveva gettato a terra tutto e tutti.
«Di nuovo… di nuovo… perché?» biascicò, la voce che oscillava tra l’urlo e il pianto dirotto.
Tentò di schiarirsi le idee traendo qualche profondo respiro, ma il misto di alcol e polvere che gli graffiava la gola lo fece tossire. Scagliò l’incolpevole bicchiere nel focolare, mandandolo in frantumi, e tornò a nascondere il volto tra le mani. Premette con forza i palmi sulle palpebre, obbligando gli occhi ad un’oscurità fasulla che presto fu invasa da forme imprecise che emanavano una flebile luminescenza.
Non era la prima volta che un suo esperimento falliva, ne avrebbe avuti una sfilza da raccontare, tanti da poter annoiare l’intero Parlamento per settimane, senza bisogno di ripetersi. Coniugare gli studi di eonica e di meccanica era qualcosa di talmente elevato e superbo negli intenti, da poter essere perpetrato solo attraverso catastrofici vaneggiamenti e azzardi sconsiderati. E ciò induceva la gente ad additare chi li eseguiva come buontemponi e perditempo, nella migliore delle ipotesi. Più di frequente, erano visti come ciarlatani e truffatori da cui tenersi alla larga, se si voleva aver cura del proprio patrimonio.
Ma quello tentato poche ore prima aveva ben poco a che vedere con tutta la passata storia dei suoi fiaschi da ricercatore in Meccanica Trascendente. Era andato così vicino al coronamento delle sue ricerche, da aver avuto l’impressione di poter allungare la mano e coglierne il frutto.
«Errori… variabili non integrate… non esiste la sfortuna, è inutile che lei dica così. Non esiste» mormorò rivolto all’uomo lontano sulla De Dion-Bouton.
Al suo fianco, allungato sul divano, c’era un grosso gatto. Il lungo mantello color avorio era ornato da marcature bruno scure, che terminavano in piccole chiazze bianche sulla punta delle zampe4. Disteso in modo tale da occupare più posto di quanto convenisse ad un animale domestico, si dedicava con grande perizia alla pulizia della sua zampa anteriore destra, apparentemente indifferente allo scorno del padrone.
Per un attimo, Thomas fu tentato di afferrare il felino per la collottola e scagliarlo lontano, all’altro capo della stanza. Il suo totale disinteresse per qualunque cosa di diverso dai suoi cuscinetti e la punta candida delle dita lo irritava profondamente, ma quasi avesse udito i suoi pensieri, il gatto smise istantaneamente di leccarsi. Iridi color zaffiro si spalancarono sull’uomo, arcane e indagatrici. Pareva quasi gli stesse rivolgendo una domanda tipo “desideri conversare con me?” o “mi stai accusando di qualcosa in particolare?”.
L’uomo ripensò a quando aveva incrociato quello sguardo per la prima volta. Era in Birmania, al seguito di una spedizione scientifica indetta dal suo mecenate, quando nella capitale era scoppiata una rivolta per motivi mai ben chiariti. Ricordava il drappello di soldati della guardia reale scontrarsi con le milizie di Sua Altezza, la disparità a dir poco imbarazzante degli armamenti e la cacofonia degli ordini strillati per le strade. Era stato in una di queste che, durante il precipitoso rientro all’ambasciata inglese, qualcuno gli aveva gettato addosso una cesta piena di oggetti minuscoli e pungenti. Era riuscito a liberarsene continuando a correre come un forsennato, scagliandoli ovunque, senza capire di cosa si trattasse finché non ebbe tra le mani l’ultima di quelle armi improvvisate, che tentava ostinatamente di restargli agganciata alla giacca. Il miagolio pacato, quasi indispettito del gattino, lo costrinse a fermarsi e a guardare indietro. Aveva decimato la cucciolata nell’arco di pochi isolati. E quell’ultimo superstite, lungi dall’accusarlo o dal supplicarlo di aver pietà della sua fragile vita, era rimasto lì, aggrappato alla tasca della giacca. Gli occhietti azzurri lo interrogavano in una lingua fatta di sillabe sconosciute e chiarissimo senso. La battaglia rombava alle loro spalle, gli spari via via più vicini, le urla che crescevano d’intensità nel dolore. E Thomas che, a pochi passi dai cancelli dell’Ambasciata, si domandava come poteva non aver cura di entrambi dopo ciò che aveva fatto.
Ora, dopo quasi sette anni, il gatto era lì, ad interrogarlo un’altra volta, ieratico e beffardo come gli dei delle terre da cui proveniva.
«Scusa, Hermes5. Tu non centri niente» disse, sinceramente dispiaciuto, grattandolo fra le orecchie.
La bestiola si lasciò coccolare senza mostrare alcun risentimento. La sua beatitudine però non riuscì a contagiare Thomas, che riprese a torturarsi. Doversi scusare con il gatto di casa era avvilente ed un modo sicuro per comprendere quanto profonda fosse la sua confusione.
Pur lasciando vagare lo sguardo nel salotto, continuava a rivedere attimo dopo attimo l’accaduto. La sua mano che abbassava una dopo l’altra le sei leve del circuito. Il vapore che dalla caldaia passava sibilando nei condotti per raggiungere la turbina. Il frullo sempre più acuto delle pale rivestite d’argento indiano. Il tremito dei vetri delle finestre. Il frizzare dei conduttori sul pavimento di legno. La campana di vetro che si riempiva di minuscoli lampi. Le letture in linea con i parametri che aveva ipotizzato per settimane.
Ricordava di aver rivolto un sorriso carico di aspettative al proprio ospite, ricevendo in cambio un’espressione neutra, vaga, quasi apatica.
Subito dopo, il contenitore si era riempito di luce. Per un attimo aveva creduto di vedere il manufatto al suo interno muoversi. Le punte dell’estrattore avevano cominciato a vibrare. Poi, il finimondo. Oggetti che schizzavano nell’aria, scoppi, vapore bollente, grida, dolore. La risposta che sfuggiva come sabbia tra le dita.
«Davvero non riesco a capire. I calcoli erano esatti, ne sono certo».
Ripassò mentalmente ogni giorno di ricerca, le ore trascorse nel formulare ipotesi, i minuti durante i quali si era riempito le dita d’inchiostro. I secondi di fugace illuminazione.
In ogni ricordo, Hermes compariva come un’ombra silenziosa. Spesso gli saltava in braccio e si distendeva a mo’ di segnalibro fra gli incartamenti o sulle pagine dei libri che stava consultando. Altre volte balzava sulla scrivania, rovesciando penne, schemi e modellini, ostentando un vago fastidio per la loro presenza. Oppure sedeva sulla porta del laboratorio, le orecchie appiattite sul capo e gli occhi socchiusi, quasi provasse orrore per l’odore nella stanza. Eppure, spesso i suoi giochi gli avevano consentito di fare passi avanti considerevoli, come la volta in cui guardandolo dare la caccia ad un passero, aveva compreso in quale modo scaricare il flusso di spinta nella campana di contenimento.
«Potrebbe trattarsi di una cricca nel metallo delle tubazioni? Un cedimento delle guarnizioni di tenuta? Carenza di energia nella cella di accumulo?» si domandò Thomas, continuando distrattamente a grattare la testa di Hermes.
Se l’avesse guardato, probabilmente avrebbe pensato che il gatto lo fissasse con penosa commiserazione.
«Potrebbe esserci stato un accumulo di scariche statiche. In alternativa, uno degli ugelli di raccolta non ha funzionato a dovere, interrompendo la captazione del flusso e innescando l’esplosione» considerò, tracciando linee immaginarie nell’aria mentre simulava lo svolgimento del processo.
Ciò nonostante, anche continuando a mimare lo schema, tornò a convincersi che non si fosse trattato di un errore di calcolo.
Thomas non riusciva a togliersi dalla mente il pensiero di essere la causa del proprio fallimento. E pur essendo abituato a quel genere di contrattempi, sentiva che questa volta c’era qualcosa che gli sfuggiva e che rendeva, se possibile, ancor più insopportabile l’esito. Avrebbe desiderato poter dare la colpa ad una variabile qualsiasi – l’umidità, il freddo, un pezzo scadente dell’ingranaggio, un vetro troppo sottile, della polvere posatasi per un ignoto accidente – ma sapeva che alle spalle del presunto colpevole, grava un’ombra. E quell’ombra gli apparteneva: erano le sue mancanze, erano i controlli a cui era sfuggito l’elemento scatenante. Era stato superficiale. Avrebbe dovuto controllare meglio il materiale che componeva il sistema, testarlo, verificarne la resa almeno altre tre volte.  
La mia pazienza ed i miei fondi sono ampi, immensi, ma non infiniti, mr. Clayborn.
Le parole del suo mecenate tornarono nuovamente a galla.
«Anche la mia vita non è infinita. Se continuo a sbagliare, prima o dopo mi abbandonerà» rimbrottò alzandosi dal divano. «E allora, come farà? Come farà, mister? Dove troverà un altro altrettanto pazzo da imbarcarsi in una simile avventura?»
Hermes lo guardò, il capo inclinato da un lato ed il medesimo scarso interesse di poco prima.
«Non può pensare che mi bastino i suoi soldi!» ruggì Thomas, passando le mani tra i capelli precocemente ingrigiti. «Vuole che imbrigli “il sangue degli dei”, ma non c’è stata una sola volta in cui mi abbia dato un giudizio sulle mie ricerche! Non ho idea se mi stia prendendo in giro o gli interessino davvero! A volte penso mi abbia scambiato per un balocco… Hai presente? Una di quelle insulse marionette delle fiere di paese, dove basta tirare un filo perché facciano capriole o agitino una spada».
Di nuovo, il felino gli rispose con pacato distacco.
Arreso all’assenza di una reazione capace di spingerlo a riversare fuori di sé almeno una parte dello scorno che provava, uscì dalla stanza e si diresse al laboratorio. Lungo il tragitto da un capo all’altro della dimora seguitò ad interrogarsi e a tentare di dare un senso alle proprie colpe, stupendosi della caparbietà con cui insisteva su quella linea. Era incapace di colpevolizzare fornitori e laboratori.
A causa del continuo arrovellarsi, non si rese conto di aver raggiunto la stanza e di star fissando affranto lo sfacelo che vi albergava. Il vento gelido e umido s’insinuava dai vetri rotti, facendo arricciare i fogli degli appunti. Cassette di legno e ampolle giacevano in pezzi sul pavimento macchiato d’acqua, intervallati da pezzi di cavo bruciato e schegge metalliche. Pareva che dalla costa una tempesta avesse raggiunto Morass Hall, col preciso scopo di devastare quell’unico locale.
Grovigli di tubi ritorti e sventrati percorrevano pareti e soffitto, infilzando come spiedi una grossa caldaia a tre fuochi, il cui sportello sinistro penzolava dalle pesanti cerniere.
Tentò di ricollocare la chiusura al proprio posto, ma scoprì con costernazione che il cardine inferiore era stato spezzato in due e deformato in maniera irreparabile.
Scrollò le spalle abbattuto, ripulendo con la manica alcuni indicatori completamente sfasati. In un’occasione diversa avrebbe cominciato a verificarli per constatarne le condizioni e tentare un recupero del materiale ancora utile. Non quel giorno: si sentiva troppo avvilito per rimettere mano a ciò che aveva distrutto.
Un uomo era inginocchiato a terra e si muoveva con lentezza. Thomas lo osservò per qualche istante, oscillando tra gratitudine e rimorso.
«U?»
Il servitore si drizzò un poco. Nella mano destra teneva i cocci di vetro degli alambicchi di sedimentazione e dei contatori, disposti in un’ordinata piramide.
I capelli e la barba erano stati resi bianchi dagli anni, profonde rughe gli solcavano la fronte scura, ma lo sguardo era vivace e profondo. Il volto aveva tratti vagamente scimmieschi, se rapportati ai canoni occidentali. La pelle, che aveva il colore e la lucentezza del cuoio, lo faceva sembrare una scultura lignea. Le mani erano salde e lisce, ben curate.
Thomas l’aveva incontrato dopo i tafferugli che gli avevano fruttato la conoscenza di Hermes. U stava fuggendo dalla guerriglia e chissà, da un destino avverso, ma a differenza di molti compatrioti, lo faceva mantenendo un grado di dignità invidiabile. L’aveva scorto tra la folla che si accalcava lungo le banchine del porto: mentre la massa vociante implorava d’essere tratta in salvo fra le lacrime, lui stava in piedi, fumando una pipa lunga e sottile. Portava un grosso involto appeso alla schiena e null’altro. Thomas aveva commesso l’errore – ma lo aveva definito tale solo per brevi istanti quel giorno – di appoggiare sul molo una delle borse da viaggio. Prontamente, U l’aveva raccolta e trasportata fin sul piroscafo. Una volta raggiunto il ponte, il Comandante aveva rimproverato l’incolpevole ricercatore per il passeggero non segnalato, ma asserendo di comprendere la difficoltà del momento, non avrebbe comminato alcuna ammenda per il servitore. Così, U aveva raggiunto il Galles prima e Morass Hall poi, divenendo a pieno titolo non solo il servo di casa Clayborn, ma anche l’assistente ed il solo confidente delle pene del professore.
Thomas si avvicinò, inginocchiandosi al suo fianco.
«Stai bene?» domandò abbattuto.
Si sentiva tremendamente in colpa per avergli fatto correre un rischio simile. Per quanto riguardava lo spavento che si erano presi gli ospiti, poco importava, visto che si erano vantati d’essere avvezzi a catastrofi inimmaginabili.
Il servitore annuì svelto, accennando un sorriso rassicurante. U non parlava mai e spesso il professor Clayborn aveva sospettato fosse muto, tuttavia gli era capitato di udirlo mormorare frasi incomprensibili con un tono di voce talmente flebile da essere prossimo al silenzio.
«Probabilmente ti stai chiedendo chi diamine te lo fa fare. Dopo tutto, questo disastro è colpa di un mio errore, anche se non so quale» sospirò Thomas guardandosi intorno.
Notò solo in quel momento uno stelo di rame che pendeva dal soffitto, la cui parte terminale era stata ridotta ad una specie di pancake. Alcune schegge di vetro ormai fuso penzolavano dai suoi margini, imitando le stalattiti di ghiaccio appese alle statue in giardino.
Insieme ripresero a rassettare il laboratorio, muovendosi con cautela attorno all’ingombrante piedistallo di rame e legno di frassino, tempestato di diodi e magneti. Era miracolosamente intatto, nonostante l’esplosione della caldaia l’avesse investito in pieno.
Se la mente di Thomas fosse stata più recettiva, si sarebbe reso conto che quello era un segnale importante da inserire nelle ricerche: significava che una forza aveva reagito all’onda d’urto, bloccandola e salvaguardando l’oggetto posto alla sommità del sostegno. Tuttavia, la mente dell’uomo era ottenebrata dallo sconforto e dalla sfiducia verso le proprie conoscenze e capacità, e l’esaltante dettaglio divenne nulla più che una vaga sfumatura nella ridda dei pensieri.
«Non so che fare, U» sospirò, percorrendo con la punta dell’indice il bordo di una grossa scheggia di vetro.
Era liscia ed appiccicaticcia, incrostata di guano da un lato. Un pezzo della finestra, senza alcun dubbio.
Si avvicinò all’infisso scheggiato, scrutando il paesaggio. La vista delle colline imbiancate non attenuava il senso d’impotenza che l’invadeva. Si sentiva come il timido sole che cercava di forzare la cortina delle nubi per arrivare a lambire i terreni che giacevano inerti davanti ai suoi occhi.
«Pare che ogni tentativo di estrarre le particelle eoniche dalla scultura mi spinga sempre più verso un abisso che verso una rivelazione».
U si volse a guardare la statuetta di giada posta al centro del congegno, dove prima era stata la campana di vetro. Era alta un braccio, raffigurava una donna dai lineamenti orientali ed era priva di braccia. Il drappeggio dell’abito che indossava sembrava stringerla fin quasi a soffocarla. Tre spuntoni metallici anneriti dal fumo la indicavano dal basso. Un quarto giaceva sul pavimento, arricciato in un disegno impossibile.
L’uomo non aveva mai nascosto la sua antipatia verso l’oggetto che, secondo le ipotesi di Clayborn, gli riportava alla mente vicende dolorose della vita nella patria lontana. La detestava a tal punto da aver chiesto e ottenuto di essere esonerato dalla pulizia dei locali che ospitavano la scultura, qualora si fosse trovato solo in casa.
«Mister Egloffstein era estremamente contrariato, ma può dire quel che gli pare. Non m’importa. Non può essere più deluso di me!» sbottò Thomas, serrando con rabbia la mano sul vetro sudicio.
Grosse gocce scarlatte si allungarono verso il basso, imbrattando il pavimento già sporco.
U intervenne prontamente, afferrando la mano del padrone che si mordeva le labbra per non gemere. Il suo sguardo era carico di rimprovero, sebbene privo di commiserazione.
«Deve esserci una spiegazione. Deve esserci un modo per riuscire» insisté, ma la voce lasciava trasparire sia la mancanza di spunti che di speranze.
La stanchezza stava cominciando a cedere il passo alla frustrazione, privandolo della poca lucidità rimasta.
«Non so che fare, U. Non so che fare. Ho letto e riletto gli appunti, i trattati… ho persino prestato ascolto a leggende e fiabe per bambini dove si parlava di questi macchinari favolosi. Mi sto vergognando di aver cercato risposte nelle ballate dei bardi… ero convinto ci fossero delle risposte. Che ci fosse la verità, da qualche parte. Eppure, ogni volta che tento, qualcosa va storto. Sembra che qualcuno si accanisca contro di noi» disse il professore, sentendosi uno sciocco.
Il birmano gli sorrise, facendo una smorfia accondiscendente. Forse stava cercando di dirgli di non pensarci in quel momento, quando la delusione era ancora troppo forte per essere superata dal buon senso. I suoi muti consigli erano stati, in quegli anni, di enorme conforto per lo studioso, tuttavia, quel giorno pareva avessero perduto d’efficacia.
«Non so più che fare» mormorò Thomas, sull’orlo delle lacrime. «Non riesco a far funzionare l’estrattore eonico come dovrebbe! Non ci riesco! E non capisco perché stia accadendo tutto questo! Non era previsto!»
Le sue proteste si abbatterono con rabbia sulla pila di libelli e incartamenti che U aveva raccolto da terra poco prima. I fogli tornarono a sparpagliarsi ovunque con un fruscio ostile. Altri cocci finirono sotto le sue scarpe, spezzandosi in schegge ancor più minuscole. Una molla s’impigliò nell’orlo dei suoi pantaloni, strappandoli.
Il domestico lo raggiunse e lo fermò, tamponando la ferita con uno straccio. Scrollando le spalle, a cenni lo convinse a seguirlo, indicandogli il corridoio.
Mentre i due uomini si allontanavano tra borbottii sommessi e strascichio di passi, Hermes comparve sulla soglia della stanza. Per un istante le iridi azzurre si posarono sulla statuetta di giada, assottigliandosi. Tese l’orecchio alla voce del ricercatore, abbastanza lontana da dirgli che si trovava quasi in cucina. I passi del servo erano altrettanto distanti.
Lanciò un solo soffio, rapido, deciso, gli occhi scintillanti di rabbia. Non ci fu alcuna risposta. Ogni cosa rimase al proprio posto. Persino il vento gelido della brughiera aveva smesso di spirare e le carte gettate alla rinfusa nel laboratorio non rabbrividivano più.
La statua era sempre là, sul piedistallo, immobile, tenuta sotto tiro dagli ugelli superstiti.
Soddisfatto, Hermes si diede una rapida pulita al muso prima di raggiungere i coinquilini umani.


1 Mynydd Preseli: zona collinare nel nord del Pembrokeshire, contea del Galles.
2 De Dion-Bouton: casa automobilistica francese fondata nel 1883. È stata tra le prime a produrre veicoli a vapore che portavano il nome della casa stessa.
3  Morass: acquitrino.
4 Si tratta di un Gatto Sacro di Birmania. La leggenda vuole il primo della specie appartenesse ad un anziano monaco, ucciso durante un saccheggio nel proprio tempio e per il quale il gatto aveva invocato vendetta. La dea venerata dal sacerdote, colpita da tanta devozione, aveva mutato l’aspetto dell’animale, incluso quello degli occhi, resi identici a quelli della statua del tempio.
5 Hermes: come si può intuire, il nome è derivato dal modo in cui ha incontrato Thomas e dal suo ruolo di “messaggero divino”, come si vedrà in seguito.




Recensione e punteggio

Failure. Già il titolo dice tutto, e se non è attinenza questa…
Ma andiamo con ordine, e partiamo dai personaggi.
Devo dire che mi sono piaciuti molto, tutti quanti: Thomas ha dimostrato una maturità rara persino negli anziani, non addossando alcuna colpa ai materiali o ai fornitori quanto a se stesso. Direi che è una maturità quasi patologica e ossessiva. E U, il servitore/amico birmano, silenzioso ma presente e insostituibile, è una figura di fondo perfetta. A piacermi di più, tuttavia, è stato il buon Hermes, in particolare per la scena che ha visto Thomas trovarsi questo micetto spaventato appeso al taschino. E infine, Mister Egloffstein è decisamente il più difficile da decifrare: come ha giustamente detto Thomas, non si riesce a capire a cosa miri davvero, se gli importi del risultato degli esperimenti o si diverta a guardare mentre lui si affanna a destra e a manca per ottenere dei risultati dagli esperimenti.
Esperimenti che mi sembrano tra l’altro molto complessi ed estremamente pericolosi, e che a quanto pare hanno attirato molto interesse. Ad essere sincero, non sono del tutto sicuro di aver compreso di cosa si trattasse, o di avere afferrato il reale scopo degli studi del nostro inventore, e questo ti è costato qualche punto. D’altra parte, le digressioni e i dettagli sui personaggi riempiono ogni buco, permettendo così di leggere con piacere questa One-Shot dal sapore steampunk.
Tornando alla mia battuta d’apertura, non trovo niente da obiettare: la canzone che hai scelto, che mi aveva sempre ispirato per l’appunto il prompt “Delusione e Amarezza”, viene rispecchiata (e anche reinterpretata, in un certo senso) appieno dalla storia. Sia il ricco vegliardo Egloffstein che Thomas riescono, chi più chi meno, a far trasparire una certa amarezza. Certo, il secondo in maniera più marcata.
E anche il secondo comando, “Studioso”, non suscita alcuna lamentela: come avevo detto, lo studioso poteva essere di qualsiasi genere, quindi non c’è molto da dire.
Sfortunatamente, il grosso delle penalità è dovuto ad alcuni errori che ho riscontrato leggendo. Niente di personale, anche perché la storia mi è piaciuta. Ottimo lavoro.
Punteggio:
-Grammatica, sintassi e ortografia: 7.5/10
-Sviluppo della trama: 12/15
-Caratterizzazione dei personaggi: 10/10
-Attinenza al tema e ai parametri proposti: 15/15
Totale: 44,5/60

   
 
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