Volcano
1
Evangeline Smith si fece strada nella folla
a passo di marcia. Il lunedì mattina era sempre uguale: c’erano studenti che si
ammassavano davanti ai cancelli della scuola e che non si muovevano di un
millimetro, c’erano insegnanti che scendevano dalle loro utilitarie con
valanghe di libri e c’erano le immancabili bidelle con la scopa sempre tra
mani. E purtroppo c’era anche quel fastidioso chiacchiericcio che metteva
Evangeline di cattivo umore. Odiava quelle stupide ragazzine che si scambiavano
gossip come i bambini piccoli facevano con le figurine, ma aveva capito che,
anche se le disprezzava, non sarebbero scomparse di punto in bianco.
Manca
poco, dai. Pensò. Ancora un anno in questa scuola di merda e te ne vai.
Strinse i pochi libri che aveva al petto e
si fece coraggio. Varcò la soglia della St. Mitchell High School con la faccia
di un condannato a morte. La sua voglia di studiare si era rintanata chissà
dove ed Evangeline non aveva tempo da perdere a cercarla.
-Ah, eccoti, Smith- la voce della
professoressa Ferner le piombò sulle spalle come un macigno. Tuttavia si voltò
con un sorriso, uno dei più falsi che avesse mai indossato.
-Buongiorno, Mrs. Ferner. Mi cercava?-
La Ferner annuì con vigore. –Sì, alla prima
ora devo fare un compito a sorpresa nell’altra sezione. Andresti a fare le
fotocopie al posto mio?-
Ma
anche no. Questo era quello che avrebbe voluto
risponderle, ma non lo fece. Si limitò ad assentire e a tendere una mano, in
attesa che la prof le passasse i fogli da fotocopiare. Magari per rimediare
avrebbe potuto fare un salto nell’altra classe e avvertirli del compito, ma poi
rifletté bene sulla sua idea. Che senso aveva? Che andassero tutti al diavolo.
-Grazie mille, Smith. Sei sempre molto
gentile, terrò conto di questo- le disse la Ferner.
Evangeline sorrise fino a quando la
professoressa non le voltò le spalle, poi alzò il medio nella sua direzione. Si
affrettò verso la fotocopiatrice per evitare di arrivare in ritardo alla prima
ora –aveva quello strazio di donna della Johel, l’insegnante di letteratura- e
si rese conto che la Ferner non le aveva detto il numero dei compiti che doveva
fare. Nell’indecisione, preferì abbondare e stampò trenta fogli, pensando a
quanto la Ferner fosse una donna con la testa tra le nuvole.
Raccattò la sua roba e filò dritta verso la
sala professori, dove lasciò le fotocopie sulla scrivania della Ferner.
Dopodiché si recò quasi correndo nella classe della Johel, che fortunatamente
per lei non era ancora arrivata. E non erano arrivati nemmeno i suoi compagni
rompicoglioni, ma quello non poteva che essere un bene. Aveva ancora- guardò
l’orologio al polso- cinque minuti prima che la campana suonasse e le voci
stridule di quegli illetterati le trapanassero i timpani.
Quel giorno evidentemente doveva andare tutto
storto, perché la campanella suonò nel momento esatto in cui appoggiò la testa
sul banco, pronta per godersi i suoi ultimi istanti di tranquillità. Fu così
che Evangeline imprecò in tutte le lingue che conosceva.
Ed eccoli: come una mandria di bufali
inferociti della peggior specie i suoi compagni entrarono in classe. Dal suo
angolo in ultima fila, Evangeline distinse Marcus Lewis e la sua ragazza
Abigail Nelson che entravano a braccetto. Poi Adrianna Collins che intenta
com’era a sistemarsi uno sbavo invisibile del rossetto cremisi non si curava
della coda di ammiratori idioti che sostava alle sue spalle. Poi ancora Caesar
Sanchez e il suo fastidioso odore di sudore e molti altri. Evangeline non li
aveva mai considerati tanto né loro avevano provato ad avvicinarla. Solo la sua
presenza pareva metterli a disagio.
Una volta che furono tutti al proprio
posto, entrò la professoressa Johel. A prima vista era una persona carina. Con
quei capelli biondi e quegli occhi azzurri pareva un angelo sceso in terra, ma
non appena apriva bocca ci si accorgeva che non poteva essere che un diavolo
emerso dai gironi più profondi dell’Inferno.
La Johel –che di nome faceva Cassandra-
posò la borsa sulla cattedra e si sedette con una calma inaudita. Compilò il
registro, verificando con una sola occhiata i presenti e gli assenti, quindi
puntò i suoi gelidi occhi su Sanchez, che sedeva ad un banco di distanza da
Evangeline.
-Sanchez, la lezione scorsa abbiamo
spiegato il concetto di Sublime- esordì facendo sobbalzare il povero Caesar
–Spiegamelo, magari arricchendo il tuo discorso con validi esempi-.
Scena muta. Il ragazzo si torceva le mani
sudate, ma non parlava. Poi, non sopportando più lo sguardo che la Johel gli
aveva piantato addosso, scosse la testa, a conferma del fatto che non sapeva la
risposta.
La Johel non commentò, limitandosi a
cambiare il suo bersaglio. –Magari ce lo sai dire tu, Smith?-
Evangeline se lo aspettava, per questo
aveva passato tutto il pomeriggio precedente a ripassare. Con un respiro
profondo si accinse a incominciare, sapendo in cuor suo di conoscere ciò che le
era stato chiesto. Non poteva sbagliare.
-Teorizzato da Edmund Burke nel trattato
“Indagine sull’origine delle nostre idee di sublime e di bello”, il Sublime è
tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è
in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in
modo analogo al terrore. Può essere anche definito come l’orrendo che
affascina. Infatti, si prendono in considerazione gli aspetti più violenti
della natura, come i mari burrascosi o le eruzioni vulcaniche, con la
consapevolezza che questi saranno la fonte del Sublime perché esso produce la
più forte sensazione che l’animo sia in grado di sentire e … -
-Va bene. Ho capito che hai studiato- la
interruppe la Johel –Passiamo al prossimo argomento-
Evangeline si concesse un sorriso di pura
soddisfazione. Era riuscita a rispondere bene ad una domanda della Johel. Forse
la giornata non era poi così brutta come sembrava.
All’ora di pranzo, quando Evangeline si era
tranquillamente sistemata in giardino lontana dalla presenza irritante di
tutti, scoppiò il temporale. Il cielo, da terso che era, si fece
improvvisamente scuro e il vento cominciò a soffiare violento. I tuoni
precedettero la pioggia, che cadde scrosciante e inarrestabile, infradiciando
il terreno e rendendolo fangoso in meno di dieci secondi.
Con uno strillo, Evangeline gettò il suo
panino a terra. Raccattò la sua borsa e con uno scatto degno del miglior felino
si diresse correndo verso il luogo asciutto più vicino, ovvero la palestra.
Spalancò la porta dell’edificio credendo di trovarlo occupato dai fighetti che
tanto odiava, ma si bloccò quando lo trovò vuoto e stranamente tranquillo. Si
riscosse solo nel momento in cui l’acqua le entrò nelle scarpe, gelandole i
piedi, e si decise ad entrare.
Lasciandosi alle spalle una scia di
impronte bagnate sul parquet e noncurante dei rimproveri che quelli del club di
basket avrebbero potuto farle, Evangeline si diresse verso gli spogliatoi
femminili. Vi entrò e lanciò su una delle panche la sua borsa, che vi atterrò
con un tonfo sordo. Si mise quindi a frugare negli armadietti fino a quando non
trovò quello che stava cercando: un asciugamano abbandonato lì da chissà quanto
tempo.
Si avvicinò allo specchio e vide la sua
immagine riflessa, ma cercò di ignorarla perché Evangeline non odiava solo gli
altri, odiava anche lei stessa. Disprezzava i suoi capelli, di un rosso
innaturale che riprendeva in sé tutte le sfumature del fuoco vivo. Disprezzava
i suoi occhi neri come il carbone perché sembravano non avere pupilla.
Disprezzava la linea sottile della sua bocca, quelle labbra strette e pallide
che si seccavano sempre. Disprezzava il suo naso perché era troppo piccolo se
confrontato con gli zigomi pronunciati che risaltavano sul suo volto come
semafori.
Purtroppo ignorare il suo riflesso si
dimostrò quanto mai difficile. Come non notare le scie scure che il mascara,
sciogliendosi, le aveva lasciato sulle guance? Parevano strani tatuaggi: si
attorcigliavano sulla sua pelle come serpenti e si lasciavano cadere nel
lavandino quando la goccia aveva raggiunto il limite della mascella.
Presa da un moto d’ira violento, Evangeline
tirò l’asciugamano contro lo specchio e centrò con un pugno la parete,
facendosi un male cane. Ansimando, si impose di recuperare il controllo della
situazione. Con un sospiro si chinò per raccogliere l’asciugamano da terra,
quindi provò di nuovo a tamponarsi i capelli, cercando di togliere almeno
l’acqua in eccesso, ma qualcosa la fece fermare all’improvviso.
-Oh, porca puttana- disse a bassa voce
sgranando gli occhi.
Nello specchio c’era un altro riflesso
oltre al suo. Una figura scura, imbacuccata in un mantello bianco imbrattato di
quello che non poteva che essere sangue rappreso, si ergeva fiera alle sue
spalle. Quando questa persona –poteva essere una donna- allungò un braccio
completamente sporco di sangue fin oltre il gomito verso di lei, Evangeline
fece un salto di almeno due metri e sperò con tutto il cuore di avere le
allucinazioni. Doveva per forza
essere così.
-Ti avverto- mormorò in modo malfermo –Un
altro passo e chiamo la polizia!-
La donna –dopo aver visto le forme
arrotondate spuntare da sotto il mantello aveva avuto conferma della sua
teoria- non si fece lontanamente intimidire dalle sue parole, anzi parve non averle
nemmeno sentite e avanzò fin quando non riuscì a sfiorarle il braccio con la
mano insanguinata. Mentre la mano le risaliva lungo l’arto, Evangeline tremò,
sapendo di doversene andare da lì. Eppure, dentro si sé, qualcosa le diceva che
non aveva nulla da temere, che non le sarebbe stato fatto del male, perché come
se la donna stesse accertandosi della sua presenza. Come se fosse cieca.
Fu allora che la donna iniziò a parlare.
Disse poche parole, ma quelle furono sufficienti a mettere in subbuglio i
pensieri di Evangeline.
-Io sono Ker, la dea del destino-