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Autore: Nyappy    22/05/2012    1 recensioni
Utopia e Leviathan.
Delay si dibatte tra i suoi incubi. Bayou è intrappolata nel suo ruolo di Dea. Renaissance non ha scelta. Wit è solo.
«Delay» mi chiama lui, ma non aggiunge altro; si scosta i capelli biondi dal viso e fissa il mio braccio, non me. Pesco la siringa con le dita e la porto davanti agli occhi. L’ago non mi fa paura, è sottile ed indolore. Nemmeno la dose mi fa paura – dopo saranno solo sogni. Wit, fermami. Lasci tornare a casa da sola una ragazza in preda alle allucinazioni?
So dove conficcare l’ago e quanto in profondità andare. La vena giusta pulsa, aprire e chiudere le dita della sinistra è quasi doloroso.
Appoggio l’ago sulla pelle. Wit non mi sta guardando. Tiro la cintura con i denti e m’infilo l’ago nella carne. Non fa male; abbasso lo stantuffo e conto fino a due.

Brandelli di loro, di Utopia e di un Leviathan malato.
Genere: Dark, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash, Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Kvar · I hate you · Junk'
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Flower Blossom · Nasty Nice
A Martina

Secret Time

 
«Come hai fatto a procurartela?»
Il profilo di Wit si specchia sul vetro dietro di lui, sul tramonto. Nonostante mi abbia appena fatto una domanda, rigira il bicchiere di whiskey che ha in mano come se non gli importasse – non gli importa. Il rosso e l’arancione del cielo si riflettono sul vetro sbeccato del bicchiere, si impigliano nei suoi capelli raccolti, nell’elastico che gli ho prestato. Sembrano quasi di fuoco. Fuori dal vetro scorre il paesaggio sempre uguale, quella fitta rete di alberi interrotta ogni tanto da una torre o un tetto.
«Segreto» gli rispondo. La foresta si muove e non ci aspetta, anche se siamo noi a muoverci. Tra un po’ scenderò a Cherry Run, mentre Wit rimarrà sul treno finché ne avrà voglia.
Lui si passa una mano sulla guancia e sbadiglia – è da un paio di giorni che non si fa la barba, troppo occupato a bere. Siamo sul vagone migliore di questo treno che non si ferma mai, mai, continua ad avanzare ad una manciata di miglia all’ora. È l’unico posto in cui si possono acquistare e bere alcolici, qui a Tangle, ed è da un po’ di giorni che Wit non scende nemmeno, rimane qui al bancone a prendere da bere, con i piedi che penzolano inerti e gli occhi che gli restano aperti a fatica.
Il mio segreto non gli interessa.
Mi rigiro la siringa tra le mani e il liquido verde scivola da un capo all’altro del tubicino. Lui fissa il bicchiere come se contenesse la risposta a tutti i suoi problemi, come se l’unico cubetto di ghiaccio nel liquore lo avesse portato ad un’epifania. Cerca una grande idea e smetterà di bere solo quando la troverà, o crederà di averla trovata.
A Wit non importa di me.
La tettoia del vagone cigola e alzo per istinto gli occhi: è solida, reggerà. Ha sempre retto a tutto, anche alla pioggia più violenta. Nel cielo iniziano ad annidarsi dei nuvoloni scuri che non promettono nulla di buono, ma se Wit resterà qui abbastanza da vedere la pioggia, almeno starà al coperto. L’automa al bancone, simile ad una scatola con due braccina meccaniche, pulisce un bicchiere con un panno candido, instancabile, perché le persone hanno bisogno di riposare e le macchine no. Nemmeno il treno riposa mai.
«Cos’hai fatto ai capelli?» mi chiede Wit, senza nemmeno guardarmi. Almeno si è accorto che qualcosa in me è cambiato. Sposto una lunga ciocca bianca dietro all’orecchio e non riesco a trattenere un sorriso. Se n’è accorto. «Li ho decolorati.»
Lui accosta il bicchiere alle labbra e rimane immobile, senza nemmeno bere. Dietro alla sua fronte ampia e al naso dritto, dietro il profilo di quelle labbra sottili che vorrei vedere curvate in un sorriso, scorrono i tronchi ricoperti di muschio e gli intrichi di liane della foresta, tinti del rosso sangue del tramonto. Manca poco a Cherry Run.
«Dove hai trovato tutti quei soldi?» Le sue labbra sono ancora accostate al bicchiere ed il suo è un sussurro che appanna il vetro. Nulla lo tocca davvero, solo i soldi riescono a destare in lui un briciolo d’interesse.
Soppeso la siringa tra le mani; dai tavolini poco distanti arrivano sguardi colmi di brama per quel piccolo tesoro liquido che maneggio con tanta noncuranza. «Altro segreto» gli dico.
Parlami. Fammi più domande. Cerca di scoprire di più su di me, per te sono una sconosciuta anche se siamo amici da anni. Anni.
«Capisco.»
Fine della nostra conversazione. Ho gli occhi degli altri avventori puntati addosso, perché ho una siringa in mano e una dose di Marsh e i capelli decolorati, ma tutto questo non è abbastanza per attirare l’attenzione di Wit.
Non si ricorda nemmeno che io i soldi li ho e li ho sempre avuti, che potrei ancora tornare a Chirality e dimenticarmi di lui e delle altre in un soffio. Potrei, ma non voglio. Perché non voglio?
Appoggio la siringa sui jeans e mi sollevo appena la maglietta. Guardami, Wit.
Sfilo la cintura dagli ultimi due passanti rimasti, poi me la stringo attorno al braccio sinistro, sopra il gomito. Wit, vuoi davvero vedere mentre mi inietto questo veleno? Non vuoi fermarmi?
Lui mi guarda in tralice, senza dire nulla. Ha appoggiato il bicchiere sul bancone ma lo stringe ancora in mano. Una scossa leggera del treno mi fa appoggiare un piede a terra, ma non mi fermo.
Stringo la cintura tra i denti e blocco il sangue. Ho gli sguardi famelici di tutti gli altri puntati addosso. È Marsh: è rara, costosa e fa dimenticare, anche solo per un paio d’ore. Fa dimenticare.
Le vene del mio avambraccio sono gonfie e spuntano bluastre sotto la pelle.
«Delay» mi chiama lui, ma non aggiunge altro; si scosta i capelli biondi dal viso e fissa il mio braccio, non me. Pesco la siringa con le dita e la porto davanti agli occhi. L’ago non mi fa paura, è sottile ed indolore. Nemmeno la dose mi fa paura – dopo saranno solo sogni. Wit, fermami. Lasci tornare a casa da sola una ragazza in preda alle allucinazioni?
So dove conficcare l’ago e quanto in profondità andare. La vena giusta pulsa, aprire e chiudere le dita della sinistra è quasi doloroso.
Appoggio l’ago sulla pelle. Wit non mi sta guardando. Tiro la cintura con i denti e m’infilo l’ago nella carne. Non fa male; abbasso lo stantuffo e conto fino a due.
L’automa appoggia il bicchiere vuoto sul bancone e lo riempie con altro liquore. Wit devia per un attimo lo sguardo dal mio braccio al nuovo bicchiere vicino a lui.
Sfilo l’ago. Ti do altre due possibilità: altre due iniezioni, altri due buchi.
Faccio scorrere l’ago lungo la vena e lo conficco di nuovo. Non ho mai provato a tripartire una dose. Fermami, Wit, fermami.
Estraggo l’ago.
«Un giorno mi piacerebbe cogliere il tuo assoluto.» Non so cosa sto dicendo. O meglio, lo so, ma penso e parlo senza elaborare. E ne sono cosciente, in qualche modo.
«Prego?»
Anche la terza iniezione è andata. Butto la siringa a terra, sul legno macchiato, e sciolgo la cintura. Un ragazzino con i capelli biondi ed una camicia sformata si getta sulla siringa e sgattaiola via. Infilo la cintura nei due passanti dei jeans, anche se la potrei buttare via, dato che ha assolto al suo compito.
«L’uomo sa cogliere l’assoluto delle cose, no?» inizio a sentire la testa pesante. Ogni minima scossa del vagone è amplificata e tutti i colori del sole si riflettono sulle foglie della foresta. Il rosso si mescola al verde delle foglie e all’indaco delle nuvole, un bailamme visivo che mi fa sbattere gli occhi. «Ma l’uomo non è una cosa, no?»
Lui non dice nulla. Si porta le mani dietro la nuca e si rifà la coda con il mio elastico, lasciando che alcune ciocche più corte gli sfiorino le guance e gli coprano la fronte. Ha i capelli color dell’oro, come le spighe di grano, anche se non sa cos’è.
«Ogni uomo è un assoluto, un unico» continuo. «È figlio dell’entropia, perché la riconosce.» Non so nemmeno cosa sto dicendo. Qualcosa di sconclusionato di sicuro – eppure ogni volta sono lucida. So. «E io vorrei avere dentro di me un pezzo del tuo assoluto.»
«Va’ a casa.» Wit si alza dallo sgabello, mette le mani in tasca e si volta. «Non occorre che ti diverta a confondermi ogni volta.» Sparisce tra gli altri avventori del vagone, inghiottito da quei visi che non mi dicono nulla, dagli alcolici che scivolano tra i loro denti.
Wit sparisce e Delay resta seduta sul suo sgabello, mentre l’automa alle sue spalle pulisce un altro bicchiere, mentre la testa si fa pesante, sempre più pesante. Mi sento piacevolmente intorpidita.
Mi alzo in piedi anch’io e raggiungo la finestra. Il mio viso si fonde con la foresta, anche se quegli occhi scavati rimangono i miei, anche se quelle labbra aride sono le mie, sono le mie, sono le mie.
Inizio a sudare. La Marsh sta iniziando a fare effetto e io sono in un covo di lupi. Mi appoggio con una mano alla parete di lamiera, mentre una vampata di caldo mi colpisce il collo. Questa è la seconda dose in una settimana, non pensavo di farla davvero. Avanzo verso il grande squarcio nella parete, l’entrata del vagone.
Sono quasi a Cherry Run, ma dovrò raggiungere casa a piedi.
Mi sento cadere.
Ho il vuoto sotto i piedi, sono sospesa nell’aria – m’importa? Quando sognavo ancora, volavo ogni notte. Sono sospesa nell’aere e questo ha il colore del sangue e delle foglie, del cielo in fiamme e della notte che sta per arrivare.
«Ahi!» mi ritrovo a terra. Devo essere rotolata per il dosso delle rotaie, tra l’erba ed i primi cespugli della foresta. Sono sola, sta per farsi notte e Wit non mi ha fermata. A Wit non importa di me.
Ho i capelli pieni di terra, e la vedo perché sono bianchi. Bianchi. Bianchi.
Sento un formicolio piacevole al ginocchio, è caldo, non è male.
I miei capelli sono bianchi come la neve che inizia a scendere davanti ai miei occhi, come se fosse inverno – ma qui non esiste. Solo a Chirality insegnano ancora cosa sono le stagioni, cosa sono i capelli di grano di Wit, perché le sostanze stupefacenti creano dipendenza.
Tendo la mano per catturare un fiocco di neve, ma in realtà è un fiore. I suoi petali hanno il colore accecante del sole, un piccolo sole pulsante e vivo, percorso da una rete di arterie vermiglie. Scrolla i petali carnosi – vive? – e mi accorgo che il mio braccio è come in fiamme, fa male. Dal fiore spuntano piccole radici che si conficcano nella mia carne come aghi si fanno spazio tra i muscoli e le ossa, infiltrandosi dentro il braccio. Mi va a fuoco il braccio, ma non riesco a muovermi.
Le radici entrano ed escono dalla pelle, eppure non esce sangue. Lo stanno bevendo loro? È la mia vita, quella che scorre nelle vene del fiore?
Sto impazzendo. No.
Sono protetta da una cortina di foglie che mi nasconde gli ultimi secondi del sole. Sto morendo? Sono sempre sopravvissuta.
Wit, guardami.

Patchouli Horizon

«Delay.»
Qualcuno mi sta chiamando. È una voce familiare, anche se al momento mi sfugge a chi possa appartenere. Strizzo gli occhi – bruciano, anche se non per la luce. Sono sdraiata su qualcosa di duro e appuntito: mi fanno male il ginocchio e la spalla. Apro e chiudo le mani: almeno mi è tornata la sensibilità.
«Ehi, Delay.»
«Che c’è?» bofonchio. Strano, non ricordavo di raschiare così tanto con la gola. Appoggio i palmi a terra e mi sollevo: mi sento pesantissima e le braccia mi fanno male.
Mi stropiccio gli occhi con il dorso della mano. Bayou è davanti a me, con le braccia incrociate dietro la schiena ed un sorriso preoccupato. Indossa il vestito nero che le ho regalato un paio di settimane fa, con la gonna a palloncino e la scollatura piena di pizzo. Se avessi trovato anche un ombrellino coordinato l’avrei comprato subito, ma nell’entroterra di Tangle arrivano solo gli scarti, e non capisco perché. Chirality è pronta a dare tutto all’isola, ma i mercanti portuali fungono da filtro e acquistano beni senza una logica. Non capirò mai la mentalità degli abitanti di qua. Non capirò mai Wit e Bayou e Renaissance.
Lei mi porge la mano e l’afferro, alzandomi in piedi. «Grazie» mi esce simile ad un lamento. Ho male ovunque, come se avessi dormito sui sassi – cosa che in effetti ho fatto. Lei abbozza un sorriso. «Sei ancora viva?»
Annuisco, pettinandomi i capelli con le dita per togliere la terra e le foglie. Il cielo blu è ancora percorso da quelle nuvole minacciose; un lontano gocciolare, unito al fruscio delle foglie, fa sì che non ci sia silenzio.
«Come hai fatto a trovarmi?» le chiedo. Lei mi fa cenno si seguirla e si volta, sistemandosi i ricci. L’ho convinta a tingersi i capelli di rosso scuro e quel colore le sta un incanto, è davvero bello.
Costeggiamo i primi alberi della giungla, umidi di pioggia e ricoperti da uno strato soffice di muschio. Devo stare attenta a non inciampare nelle radici che spuntano dal terreno.
«Ti ho cercata per tutta Cherry Run.» La raggiungo a fatica, sono ridotta ad un rottame. Oltre ai dolori che mi pervadono il corpo, ho pure fame; lo stomaco mi brontola senza dignità. «Poi ho seguito le rotaie finché non ti ho vista. Pensavo di chiedere aiuto a Wit.»
Faccio una smorfia senza volerlo. A Bayou importa di me, a Wit no – ricordarlo non è mai piacevole.
«Andiamo a casa?» domando. Mi si chiudono gli occhi: sono esausta anche se ho dormito, dormito, dormito in preda alle allucinazioni della Marsh. Bayou disapprova, ma dato che sono io a mantenerla, rimane in silenzio; anche se non dice nulla come Wit, sono sicura che lei mi fermerebbe, se ne avesse la possibilità. Se ci fosse stata lei, sul treno, mi avrebbe strappato la siringa di mano e l’avrebbe buttata fuori dal finestrino, causando la morte di quei poveracci così disperati da tuffarsi fuori dal finestrino per prenderla, come quel ragazzino con la camicia sformata. Ma anch’io mi sono gettata dal treno in corsa. Quindi anch’io sono una povera disperata?
«Delay» mi chiama. Alzo gli occhi ed incrocio i suoi, che sono scuri e caldi come un abbraccio di notte. «Mi hai sentita?»
Scrollo il capo. «Scusa, no.»
Gli effetti della Marsh perdurano per circa un paio di giorni, quindi sono scusata. Bayou sospira, chinando lo sguardo, e mi lancia un’occhiata di rimprovero. Quando fa così mi ricorda tanto mia madre – non è buffo? Eppure dovrei essere io la madre per lei, anche se abbiamo appena un paio d’anni di differenza. Io però ho vissuto a Chirality, mentre lei è cresciuta qui a Tangle, dove vent’anni di conoscenza sono appena un anno di quello che si può apprendere nella Città del Progresso.
«Dicevo, ho bisogno di parlarti da sola.» Distoglie lo sguardo e si liscia le maniche del vestito nero. Niente Renaissance? «Ti faccio fare un bagno caldo da mio fratello e ti faccio mangiare qualcosa.»
«Poi andiamo nella foresta?» chiedo. Bayou ama la foresta, quell’infinita varietà di foglie e di fiori, i grappoli multicolori che profumano così tanto da far spuntare un sorriso. Ama anche i resti delle operazioni di recupero di Chirality, tutti quei rottami che la vegetazione sta inghiottendo pian piano.
Bayou annuisce con uno scintillio negli occhi e sorrido a mia volta, nel vederla così contenta.
 
Dalle foglie filtrano solo poche gocce di pioggia, che mi scivolano sul viso e mi fanno rabbrividire dal freddo. Bayou si sta arrampicando su un albero ed è già riuscita a cadere, macchiandosi i pantaloni della tuta. Se non le avessi detto di cambiarsi, adesso imiterebbe una scimmia con il vestito di pizzo.
«Delay!» alzo gli occhi. Bayou è in piedi su un ramo, con le braccia cariche di fiori. Siamo nella zona più colpita dalle mutazioni della Guerra: qui gli alberi sono così rigogliosi da non vivere mai l’inverno, e producono fiori e frutti ad un ritmo spaventoso. «Ecco!» spalanca le braccia e le corolle volteggiano con grazia nell’aria. Un fiore rosso molto profumato, con i petali ondulati, mi sfiora il naso. I boccioli del glicine mi si impigliano nei capelli, mentre chiudo gli occhi ed alzo il viso al cielo. Una pioggia di fiori.
«Ne vuoi ancora?» mi domanda. Bayou è convinta che mi piacciano i fiori. Regalarmene uno è il suo modo per ringraziarmi, per ricordarmi che lei c’è, lo so. Un giorno, ancora anni fa, le ho detto che ogni fiore ha un significato. A Chirality sono cose che si trovano nelle vecchie librerie antiquarie, quelle con i volumi ancora di carta, ma qui a Tangle i pochi libri che circolano non riguardano cose così leggere. Bayou ha associato un significato ad ogni fiore che conosce. Non hanno nomi specifici, specie e categorie sono sconosciute, anche perché ogni giorno spuntano nuovi incroci. Sono fiori, solo fiori. A nessuno importa raggiungere il loro vero assoluto – se non a Bayou.
Solo lei.
 
«Non mi hai mai detto perché sei venuta qui.»
C’è una grotta, dietro al grande albero di ciliegio che dà il nome a Cherry Run, che nessuno conosce. È il piccolo segreto di Bayou e me, un’insenatura dietro alla collinetta della città.
A terra ho steso cuscini e coperte, così possiamo sederci o stenderci a piacimento. C’è anche il mio cuscino preferito, quello con il mio nome ricamato sopra e la traduzione in tutti gli alfabeti di Cohomology.
Bayou è seduta sullo sgabello del grande organo che ho fatto portare nella grotta. Occupa l’intera parete rocciosa, con le sue canne, ed il bello è che nessuno di noi due lo sa usare. Nel legno lucido mangiato dei tarli, pochi giorni fa, ho scoperto delle insenature nascoste, protette da piastre metalliche. Sistemo l’ultima candela ai sali di cobalto vicino al primo tasto e attivo il chip al suo interno con uno schiocco di dita.
«Bee~llo!»
È un piccolo miracolo della chimica, la fiammella blu che assomiglia ad un fuoco fatuo, un frammento di ricordo che qua a Tangle deve essere ancora appreso. Un filo di vento fa ondeggiare la fiammella blu; ripongo le altre candele nella tracolla e l’appoggio a terra, vicino allo sgabello.
«Sono venuta qui dove?» le chiedo, sedendomi sul mio cuscino preferito, poco distante da lei. Il leggero gocciolare della pioggia sulla roccia, fuori, è quasi rilassante.
«A Tangle.» Bayou mi fa spesso questa domanda. Non si stanca mai di sentir parlare di Chirality, come non si stanca mai di andare nella foresta a fare incetta di foglie e fiori.
Però sì, in effetti non le ho mai detto perché sono fuggita dall’Utopia in terra per venire qui. Cos’è Tangle? Un covo di reietti, auto-esiliati che hanno dimenticato i perché che li guidano; i loro figli si dibattono del nulla, condannati dai genitori, si dibattono nel nulla. Non c’è miseria, c’è indolenza – e Chirality vuole aiutare. Il Paradiso dei diritti sociali e delle libertà personali vuole aiutare quest’isoletta sperduta in mezzo all’oceano, collegata con il resto del mondo da una nave mercantile alla settimana.
«Perché lo vuoi sapere?» Fuori dalla grotta, la pioggia rende impossibile scorgere persino il ciliegio.
«Mmh.» Bayou ruota sullo sgabello e calcia l’aria con le gambe, mentre i ricci le finiscono sul viso. «Non lo so, è che mi sembri un po’…» inclina il capo, guardandosi le ginocchia «strana.»
Strana? «E allora?» mi sistemo meglio sul cuscino e resisto all’istinto di incrociare le braccia. Non si fa, non si fa.
«Nulla.» Lei si scosta i capelli dagli occhi e mi guarda. La luce blu delle candele s’impiglia nei suoi capelli rossi e le tinge la pelle nuda del collo, facendola assomigliare ad uno spettro incredibilmente vivo. «È che sei distratta, in questo periodo. Sembra quasi che tu stia pensando ad altro. Non vuoi andartene, vero?» aggiunge in fretta.
«No, tranquilla.» Mi sdraio sui cuscini e mi metto comoda, su un fianco. Fuori dalla grotta il ticchettio della pioggia si fa più intenso, chissà se smetterà in tempo. «Tu piuttosto» le dico.
«Io?» Bayou scivola sui cuscini vicino a me, con il suo solito sorriso. Sorride al mondo, lei, ignara. Forse è per questo che è così bella.
«Hai contrattato con un demone e riesci a sorridere lo stesso?»
Lei si solleva di scatto – ahia, l’ho punta nel vivo. «Renaissance non è un demone» precisa subito.
Renaissance è una ragazzetta che mi sono portata a casa in un momento d’intensa filantropia. Me la sono ritrovata davanti alla porta mesi fa, in una giornata di pioggia come questa, e da allora scorrazza libera per casa con tutto il suo carico di problemi.
«Meglio darle del demonietto che qualcosa di peggio, no?» Ne sto parlando tranquillamente, ma in sua presenza divento sempre nervosa. Ha la straordinaria capacità di farmi sentire a disagio in casa mia.
«Qualcosa di peggio…» bofonchia Bayou, guardandomi storto.
«Lo vedi dal suo viso» replico. C’è qualcosa, nel viso di Renaissance, che parla per lei, come se il suo cervello lavorasse con ritmi diversi rispetto al corpo, facendo muovere i muscoli sbagliati. «O dalla sua camminata o dal modo in cui tiene le mani.» I suoi comportamenti parlano più di mille parole, come se la sua mente non riuscisse a controllare il suo corpo. La sua mente divisa in due.
«Anche Wit, allora, non cammina in modo normale ed ha sempre una faccia strana» ribatte lei. È vero: Wit ha una camminata strascicata e le spalle sempre curve, e i suoi occhi lacrimano sempre perché alterna settimane intere al computer con giornate a bere.
«Lui è diverso. Lui, anche se è esausto, non vuole dormire. È il suo corpo a non riuscire a tenere il ritmo della sua mente, non il contrario» le spiego. Sto facendo la sua apologia e non mi può nemmeno sentire.
«Sembra uno spirito» è il suo ultimo, debole contrattacco. Bayou sa di aver perso e si limita a mantenere il broncio per un paio di secondi, prima di iniziare a giocherellare con un filo del cuscino.
«Allora Renaissance sembra una bestiolina. L’hai lasciata a casa da sola?» Perché mi voleva parlare senza di lei, poi?
Bayou stringe le labbra e annuisce, con lo sguardo chino. Si sente in colpa? Scommetto di sì.
Restiamo un po’ in silenzio, con le gocce che picchettano contro la roccia e si scontrano con le foglie. La pioggia ha un bel suono, quando non è troppo forte, sembra quasi… fresca. Sì, fresca – e piacevole quando non c’è vento.
«Ho sentito che Chirality ci vuole invadere» mi dice Bayou a bruciapelo, torcendosi le mani. Cosa?
«No, è impossibile» rispondo subito, sollevandomi a sedere. «Chi ti ha detto questa sciocchezza?»
Lei si scosta la frangia rossa dal viso e sospira. «Wit, sul treno. Sembrava ubriaco.» Appoggia il mento sulle braccia incrociate e continua, con lo sguardo fisso: «Gli ho chiesto dov’eri e dopo avermelo detto, ha iniziato a bofonchiare qualcosa sulle armi batteriologiche e su un’invasione imminente. Ha detto che non inizierà una guerra perché Tangle non è abbastanza forte, ma tutti tranne i bambini ed i vecchi verranno usati come soldati e…»
Non riesce a stare ferma con le mani: se le torce e poi tamburella le dita sui cuscini, poi si scosta ancora i capelli dal viso.
«…e?» le dico. Solo lei può ritenere vero quel mucchio di sciocchezze.
«E tu vieni da Chirality, quindi magari sai qualcosa» risponde, con gli occhi spalancati e tristi. «E…»
«Aspetta» la interrompo. Provo a collegare i pezzi: crede che me ne andrò via perché Tangle sarà invasa, oppure crede che tutti noi diventeremo soldati per difenderci da Chirality? «Stai correndo troppo.»
Bayou stringe le labbra. «Non so nemmeno cosa sia un’arma batteriologica» borbotta. Provo a semplificarle il concetto nella mia mente. «Un ordigno che avvelena l’acqua, la terra e l’aria» le spiego, accompagnandomi con un gesto della mano, prima di aggiungere «Comunque, Chirality non avrebbe nessun interesse ad invadere Tangle.»
Nella Città del Progresso la spazzatura viene miniaturizzata, ogni materiale possibile è riciclato e gli elementi non degradabili vengono riutilizzati. Chirality è il Paradiso dell’ingegneria tecnologica, l’Utopia di questa Terra malata. Vogliono aiutare Tangle, non conquistarla – sono gli abitanti di quest’isola che credono di essere i padroni del mondo, barricati nella loro fortezza d’ignoranza. Loro non sanno e non vogliono sapere. Ignorano la verità e si nutrono di quelle certezze così comode, così facili.
Non posso dire tutto questo a Bayou. Anche se lei ha gli occhi aperti e non si accontenta, è pur sempre nata qua. Utopia per lei è quest’isola di lupi.
«Tu sai» mi dice, seria. È vero, io so – nessuno mi ascolta, però. Perché so? I ricordi iniziano a danzare nella mia mente, mescolandosi. Forse è l’influenza della Marsh, forse voglio solo rassicurarla, ma inizio a raccontarle dei miei anni prima di raggiungere Tangle.
«A Chirality lavoravo come giornalista.» Davanti ai miei occhi spuntano, più vividi che mai, i grattacieli lucidi come specchi di Cardinal Place e gli alberi che cingono la piazza. Il cielo è coperto da una cupola di vetro, quella che ci garantisce aria pura, così sottile da essere quasi invisibile, così alto da non essere colpito dagli schizzi della fontana davanti al Wave News, un intrico di tubi e getti d’acqua. Mi sembra quasi di annusare il carburante delle intermoto – sì, è colpa dei residui di Marsh che ho nel sangue.
Scrollo il capo e continuo, allontanando quelle immagini «Mi ero laureata sui testi classici, sui grandi scandali, sui casi sensazionali che avevano scosso l’opinione pubblica.»
Bayou mi fissa senza dire nulla, quasi vorace. Aspetta da così tanto tempo la risposta alla sua domanda che si sporge verso di me, annuendo.
«Quando sono uscita dall’università, credevo di fare il mezzobusto sorridente, con le domandine già pronte, ed invece no.» Stringo i pugni e mi giro di schiena. Le candele blu, quei tremuli fuochi fatui, illuminano tutte le insenature della roccia nuda. La prossima volta voglio provare con il calcio.
«Dovevo lavorare, dovevo fare la spola dalla redazione alla città. Dopo un paio di mesi, avevo concluso una cosa.» Mi fermo e prendo un respiro profondo.
Avevo visitato ogni quartiere, avevo visto ogni strada, anche la più minuscola, non segnata sulle cartine. Avevo assistito al primo trapianto di chip oculare, nauseata dietro all’obbiettivo della macchina fotografica, nonostante l’assenza di sangue; avevo intervistato anziani, reduci dalla Seconda Guerra Nucleare; mi ero infilata nel sistema fognario per indagare su nuove specie di roditori.
Per mesi avevo sorriso davanti alle telecamere, con il trucco appena applicato ed i capelli raccolti, prima di capire una cosa.
«Chirality è perfetta» le dico «Chirality è davvero Utopia.» Gli oppositori non vengono eliminati, esistono e si fanno sentire, ma la loro voce è così debole – così debole… Chirality è mossa da un sentimento filantropico davvero ammirabile.
«E perché te ne sei andata?» mi domanda Bayou.
Io so la risposta, la so, eppure non l’ho mai formulata ad alta voce, come non ho mai espresso in un discorso compiuto i pensieri dei miei anni ad Utopia – nemmeno adesso l’ho fatto, ho rivelato a Bayou solo bocconi della Città del Progresso.
«Perché io…» provo «Io volevo che succedesse qualcosa, qualcosa di brutto. Una catastrofe.» Mi sento disgustosa solo nel ripensarci «Un caso sensazionale come quelli su cui mi ero formata.» le spiego.
In un’isola perfetta e invidiata da tutti, con la più alta aspettativa di vita e reddito in assoluto, il Paradiso di libertà e diritti sociali, io volevo il Male. Volevo qualcosa che squassasse la terra, che frantumasse le nostre cupole protettive. Volevo il crollo degli edifici, volevo sentire le macerie sotto i tacchi, mentre mi arrampicavo sui cumuli sfatti, con il microfono in mano e le telecamere dietro alle spalle.
Tutti conoscevano il mio nome – il mio vero nome, non “Delay”, la comoda maschera che ho indossato quando sono arrivata qui – eppure volevo di più.
Ero l’unico elemento fuori posto in quel tessuto armonico. Ero sbagliata.
Anche i miei colleghi desideravano tutto quello? No; sorridevano, si costruivano una famiglia, si occupavano dei casi di cronaca più leggera. Ora anch’io ho una famiglia, se così si può chiamare.
«Ma tu non sei cattiva.» Bayou si allontana per istinto da me, anche se cerca di difendermi. Non ho giustificazioni, piccola. Se non me ne fossi andata, avrei provocato davvero catastrofi. Le volevo, le bramavo. Ogni notte mi rigiravo i frammenti di una bottiglia rotta in mano, immaginando di trovarli conficcati nella gola di qualche amministratore.
«Tangle è più adatta a me.» Allungo una mano per accarezzarle una guancia. Il passato è passato, e ora che ne ho parlato ad alta voce, sembra ancora più lontano. Non mi tocca davvero più, in realtà – anche se le sto mentendo. Forse sto mentendo anche a me stessa e desidero lo stesso la tragedia.
Odio Tangle, forse ancor più di Chirality. Se quest’ultima è Utopia, la prima non è nemmeno paragonabile a Distopia. È un Leviathan malato, assente, la legge della giungla, quella giungla che ricopre tutta l’isola, così fitta da nascondere i centri abitati più piccoli.
Si vive di baratto, di frutti raccolti dagli alberi, di fiori cotti nell’acqua piovana. Ci si veste con gli scarti di Chirality, che fanno sembrare gli anziani piccole scimmie vestite da re. Cos’è il reddito, cos’è la tecnologia, cosa sono la fisica e la letteratura?
Non è davvero colpa degli abitanti. Loro sono stati cresciuti con questa mentalità, e per quanto mi dia fastidio ammetterlo, sono giustificati. Ma loro, loro, i fondatori di questa civiltà che si dibatte tra l’arretratezza ed il progresso, cos’avevano in mente?
«Tu odi Tangle, lo so.» Bayou si mette a sedere sui cuscini, con le braccia che le cingono le gambe.
Sì, io disprezzo Tangle, anche se mostro rispetto all’isola. «La odio abbastanza da volere la sua distruzione, ma la amo troppo per lasciare che questa avvenga davvero» rispondo, mentendo in parte. «Credimi, siamo salve. Chirality non ci vuole invadere, Wit dovrebbe bere meno e lavorare di più» aggiungo con una smorfia.
Wit è la ragione principale per cui vorrei che Tangle si salvasse. Lui, le sue idee bislacche e i suoi occhi sempre curiosi che sembrano non vedermi.
«Davvero?» Bayou accenna ad un timido sorriso. Le scompiglio i capelli «Davvero, davvero.»
«Grazie.» Mi sorride e sospira con sollievo. Si fida di me, anche se c’è qualcosa nel suo sguardo che mi sfugge. «Ero davvero preoccupata.»
Come per le iniezioni di Marsh, non dice nulla riguardo a quello che le ho rivelato. Posso indovinare tutti i suoi comportamenti, ma l’essenza dei suoi pensieri mi sfugge. Riuscirò mai a cogliere il suo assoluto?

XXX Mutilated Me

«Ho tutti i vestiti sporchi!» «Corri, corri!» «Aah! Attenta!»
Bayou e io ripariamo sotto la tettoia di casa, fradice, con i pantaloni sporchi di fango fino al ginocchio. Raccolgo i capelli tra le mani e non posso fare altro che strizzarli, dato che sembra li abbia immersi nell’acqua della vasca. L’odore acre del decolorante mi fa arricciare il naso.
«Perché proprio ora?» si lamenta Bayou, che sta facendo lo stesso con i suoi ricci. Il rumore della pioggia non è più fresco, è opprimente: annulla tutti gli altri suoni, come una cappa sonora.
La terra battuta che circonda casa è ridotta a fango e pozzanghere. “Casa” è un termine sbagliato, anche se è comodo; abito in una torre incastonata in un’insenatura nella roccia rossa, poco distante da Cherry Run. Volevo fosse una costruzione simile ad un faro, ma poi ho optato per un edificio geometrico, completamente bianco. Sulla sommità c’è pure una campana, anche se ho dovuto nascondere la corda dopo che Renaissance ha cercato d’impiccarsi.
Siamo tornate a casa proprio per lei.
«È pioggia, se non è bastarda non è contenta» dico a Bayou, strizzandomi la maglietta zuppa, che da bianca è diventata di un indefinito color marrone. Lei ha già una mano sulla porta; si scolla i capelli dal collo e prende un respiro profondo.
Quando ha lasciato Renaissance da sola, questa dormiva; adesso ha paura di entrare. Un po’, in effetti, ne ho anch’io: ho il fiato corto per la corsa, ma il battito accelerato anche per l’attesa.
Il demonietto si è svegliato? Cos’avrà combinato? Il senso del dovere di Bayou l’ha portata a rinchiudersi in casa mesi interi per sorvegliarla, ed ogni volta che esce si sente in colpa. Se Renaissance avesse sentito della tanto temuta guerra, però, sarebbe stato peggio.
«Io entro» mormora. La maniglia cigola e lei viene inghiottita dal buio dell’unica stanza della torre. Appoggio una mano su una bolla nella pittura bianca ed entro a mia volta, frantumandola.
L’aria è quella solita di casa, perché la pioggia non è riuscita a spazzar via la polvere della terra nuda, intervallata da vecchie piastrelle scheggiate. Batto le mani e si accendono le candele, file e file di luci elettriche che percorrono a spirale la torre – un altro piccolo trucchetto da Chirality. Chissà come ha fatto Renaissance a spegnerle.
Bayou trattiene il respiro. Abbasso lo sguardo a terra, dietro di lei. Renaissance è rannicchiata in un angolo, da esserino imbrattato di fango e polvere qual è. Dal ginocchio le cola un rivolo di sangue ed ha la testa china, con i corti capelli ondulati che le nascondono il viso.
«Baa-baa» gracchia con la sua voce spezzata e solleva il capo. Ha gli occhi strabuzzati ed una ditata di sangue sulla guancia. I suoi denti sono ancora affondati nel dito che sta mordendo.
«Cosa stai facendo!» Bayou corre verso di lei e io divento una semplice spettatrice. È la sua missione, non la mia. Il mio istinto filantropico si è limitato a dare a quel demonietto un tetto sopra la testa – ma la voglio lo stesso aiutare.
«Stavo cercando di strapparmi il dito» risponde Renaissance con tutta l’innocenza di quella voce sgradevole, da vecchia, non da bambina – anche se in realtà non so quanti anni abbia.
Mi avvicino alla vasca nell’angolo opposto della stanza. La mia torre è una delle poche abitazioni a Cherry Run con l’acqua calda. Persino Wit, che da Chirality compra ogni sorta di cianfrusaglia utile al suo lavoro, viene da me per fare il bagno.
«Perché?» Bayou ha un tono quasi isterico. Perde subito la calma quando Renaissance le racconta tutta contenta delle nuove torture a cui ama sottoporsi.
«Non lo immagini? Se strappi una falange, poi vedi l’interno del dito. Vedi l’ossicino, no?»
«Non m’interessa.»
Mi appoggio alla vasca e ruoto al massimo la manopola dell’acqua calda; dopo un paio di secondi, sento un leggero tremore a terra e il getto sgorga con forza, bagnandomi la mano ancora sospesa in aria. Tappo lo scolo e mi asciugo le dita sulla maglietta che è ancor più bagnata. Cattiva mossa.
«E il sangue stilla. Chissà di che colore è la carne viva. Rosa brillante, forse?» continua Renaissance.
«Vieni» borbotta Bayou; io mi allontano ancora e appoggio la schiena al muro, poco distante dalla vasca. Il mio intervento non è richiesto.
«Guardati, sei tutta piena di fango. Cos’hai fatto?» Bayou cerca di non ascoltarla, ma Renaissance continua, con le mani strette al suo vestitino che era bianco, era. La luce dorata delle candele le illumina, tracciando pesanti ombre sui loro volti – quello tondo di Bayou, quello macilento di Renaissance.
«Oppure strappare un’unghia. Deve fare malissimo!» Renaissance è tutta sbagliata. Pronuncia con estasi i suoi deliri di sangue, invece che con l’orrore che si dipinge sul viso di Bayou – e sul mio, ne sono certa. Mi sto stringendo il dito nel pugno, cercando di non pensare alle immagini che suscitano le sue parole.
«E poi ci si può divertire a grattare via la carne che resta attaccata, no?»
No.
Bayou la tiene sollevata e si avvicina alla vasca, camminando goffamente. Lei non si dibatte, non si lamenta, si limita a fissarsi le unghie con un sorriso che mi fa venire voglia di tirarle un pugno. Demonio. Si volta e i suoi occhi divergenti per un momento si concentrano su di me, prima che Bayou le faccia toccare i piedi a terra e le afferri l’orlo del vestito.
«Non voglio fare il bagno» protesta Renaissance, improvvisamente seria. Anche gli sbalzi d’umore sono compresi nel pacchetto.
«Lo farai, invece.» Bayou le solleva il vestito e le scopre il corpicino smagrito. Potrei contarle le costole o usare le sue vertebre come bottoni, da tanto sporgono. «E poi mangiamo, mmh?»
«No.» Quando è così categorica sembra quasi un’adulta; a volte, come in questo momento, credo che il suo corpo percorso da tagli e cicatrici non abbia età. Renaissance è morta? Qualcuno le ha dato la vita o si è generata così, spontaneamente, dalle idee malsane degli abitanti di Tangle, dagli scarichi tossici a cielo aperto?
Bayou la solleva di nuovo, stringendola con forza. Si dimentica delle sue cicatrici quando sono ricoperte di fango e non si vedono. Renaissance finisce nella vasca, con l’acqua che schizza a terra e sulla tuta di Bayou, e ripete «No» anche se è troppo tardi. «Perché mi fai tutto questo?» chiede all’altra, come se questa le stesse facendo un dispetto. Mi scappa una smorfia – demonio, demonio, demonio. Anche se non è colpa sua ed i miei sono pensieri sbagliati, non posso fare a meno di covarli, nel segreto della mia mente.
«Perché sei scema» è la risposta sentita di Bayou, che s’inginocchia davanti alla vasca e pesca il sapone dal cestino alla parete. «E non voglio che ti fai male.»
«Perché no?» domanda Renaissance. «È così… eccitante.»
Distolgo lo sguardo, percorsa da un brivido di disgusto. Bayou la pensa come me, ma inizia a sfregarle con forza il sapone sulla schiena, senza una parola. Con l’altra mano afferra i polsi sotto acqua di Renaissance e le fa appoggiare le braccia sull’orlo della vasca.
Sporco demonietto.
«Baa-baa, conosci l’arteria femorale?» Sono parole mie, o meglio, termini che la ragazzina mutua da me per poi sfruttarli in questi discorsi senza senso, peggio dei miei deliri da Marsh.
«Sì» è la risposta secca di Bayou, che appoggia il sapone sulle gambe e le raccoglie i capelli. Sono così impiastricciati di fango che dubito verranno davvero puliti.
«Stavo pensando… hai presente la pelle sottile che la fa trasparire, vicino all’inguine?»
L’altra raccoglie l’acqua nelle mani a coppa e le bagna i capelli raccolti. «Eh, Baa-baa?» Dei rivoletti scuri scorrono lungo il collo di Renaissance, dove i capelli si liberano di tutta quella sporcizia.
«Ho presente.»
Non credo sia il metodo giusto di fare, quello. Incoraggiarla è pericoloso. Ho incrociato le braccia senza accorgermene e mi ritrovo a tamburellare con il piede sul pavimento. Non agirò e Bayou non mi lancerà uno sguardo, non mi dirà nulla, come sempre.
«Dev’essere così facile da lacerare… pensa. Basta un minuscolo taglietto, no? Poi puoi scavare con il dito per arrivare sotto la vena… un attimo, è una vena, non un’arteria» mi copro la bocca con la mano e contraggo senza volerlo i muscoli della gamba. Stupido demonietto cavilloso. Abbasso lo sguardo senza volerlo, per controllare che i pantaloni della tuta non siano macchiati di sangue, che le mie vene non siano spuntate dalla pelle.
«Sta’ in silenzio» le intima Bayou, senza essere davvero convincente. Non riesco a vederle il viso, tutti quei ricci me lo nascondono.
«E poi, quando infili il dito sotto l’arteria o la vena, lo sollevi. Mmh…» quel suo gemito mi fa venire i brividi. I brividi. «Me lo immagino come un tubicino spesso e umidiccio. Chissà quanto sangue esce. E se tiri strappi tutto? Strappi tutte le vene che hai nel resto del corpo? Potresti premerlo e otturarlo…» «Basta
Non so come faccia, Bayou, a starle vicino. Chiude l’acqua della vasca e infila una mano dentro per togliere il tappo. Dovrà cambiare l’acqua, dato che Renaissance era ricoperta di terra.
«Baa-baa, perché non mi vuoi bene?» Il tono di questa è tornato infantile, ancor più fastidioso di quello finto-serio. L’alternarsi delle sue personalità non segue una logica.
«Ma io ti voglio bene» ribatte Bayou.
«Solo?» Renaissance torna seria. La sua voce gracchiante sembra scavare nella mia gola. «Io ti amo, invece, e ti amerò finché i vermi non scaveranno una via d'uscita dal tuo cadavere.»
Mi stacco dal muro e m’incammino verso la porta.
«Quindi quando morirò non t’importerà più nulla di me» è la risposta che arriva un paio di secondi dopo. Strano, non pensavo che Bayou prendesse sul serio quelle parole. Ha smesso di sfregarle la schiena e ha le mani raccolte in grembo. Il sapone è a terra, vicino a lei.
«Non ho detto questo. Rimarrò accanto ai tuoi resti per scaldarli, così se deciderai di tornare, il tuo cuore non sarà freddo e ti ricorderai di me.» Appoggio la mano sulla maniglia e l’abbasso. Le loro voci sono ridotte a fioche eco. Non voglio sentire, non voglio vedere, non voglio.
E io, tornerò? Io credo nella vita?
«Imputridirò.» Lo farò anch’io, lo faremo tutti. Sento qualcosa che scava nel mio petto, qualcosa all’altezza del cuore che si mangia tutta la carne. Forse Bayou ha trovato uno scopo, ha trovato Renaissance. Con lei è felice, anche se segue dinamiche perverse che non voglio approfondire. E io? Mi stanno escludendo da casa mia.
Ho lasciato la borsa nella grotta, ma nella tasca ho ancora una siringa con una dose di Marsh, giusto in caso, anche se piove.
«Marcirò anch’io.»
Anch’io.

Lollipop · Lucky, Fucky, Sucky Death

Sono un disastro. Sono davanti alla porta di Wit, con il dito sul campanello, ma non riesco a premerlo. Sono troppo impegnata ad odiarmi.
Ce l’ho tanto con quel demonio di Renaissance, ma io non sono meglio di lei. I miei occhi sembrano scavati nel mio viso e sono circondati da un brutto alone violaceo.
Nel breve tragitto tra i binari e la casa di Wit ho ritrovato la pioggia: ho tutti i capelli appiccicati al viso e al collo.
Sposto la mano sul pomello e apro la porta, senza annunciarmi; l’interno è sempre eccessivamente illuminato, brucia gli occhi. Li strizzo e cerco di individuare Wit.
La sua sala, se sala si può chiamare, è occupata da un generatore olografico: quattro colonne scheletriche, avvolte da fasci di cavi, reggono l’intera struttura, simile ad una scatola. Solo l’enorme computer di Wit è fuori dal campo olografico, con la sua decina di schermi e i suoi mille pulsanti. La sua sala mi ricorda sempre Chirality e la mia scrivania al Wave News.
Wit è nascosto dalla sedia, immobile, quasi sdraiato; la sua coda bionda e disordinata spunta dallo schinenale. Solo la sua mano si muove con lentezza sulla tastiera.
«Chi sei?» domanda con voce stanca. Spende giorni sul treno a bere e non fare nulla, per poi rinchiudersi in casa e sparire. Si dimentica persino di mangiare, troppo preso dal suo progetto – e non si gira per guardarmi. Forse sa già che sono io.
«Delay» rispondo. Chiudo la porta dietro alle mie spalle e mi accomodo su uno dei divanetti lerci vicino all’entrata.
«Cosa vuoi?»
Davanti al computer, all’interno del campo olografico, appare un corpo umano, allungato e flessuoso, né maschile né femminile. Sta programmando un altro personaggio per il suo progetto?
«Nulla, in realtà.» Volevo solo vederti e parlare un po’ con te, solo provare ad aiutarti e farti vedere che esisto, che sono viva e che la tua esistenza mi tocca. Mi fa male il fatto che tu non mi guardi.
Wit batte i tasti con un dito e con l’altra mano si stropiccia il viso.
L’essere olografico, sospeso in aria, si raccoglie su se stesso e un lampo di luce mi acceca, riflesso dai vetri sulle pareti. Davanti a me ora c’è una copia di Bayou, con i ricci morbidi di un viola caldo ed un anonimo vestito bianco, con le spalline sottili.
«Envy?» gli chiedo. Quello è l’ultimo nome che Wit le ha dato. Continua a cambiare, così come continua a modificare i dettagli di quella copia di Bayou. Il viso e le spalle sono spruzzate di lentiggini, ma sono sicura che un paio di giorni fa non ci fossero.
«Ho cambiato.»
Wit sta creando un mondo. Che idea bislacca, un mondo dentro un mondo. Non mangia, non beve e non dorme per elaborare nel dettaglio la storia della sua piccola dimensione virtuale, gli usi ed i costumi, gli abitanti, tutti diversi l’uno dall’altro – e poi c’è non-più-Envy, la Dea che cura da anni e che deve ancora inserire.
«Ora si chiama Maria.»
Envy-Maria, l’angelo guida. Non so perché lo faccia, non so perché continui a comprare da Chirality intere partite di componenti elettroniche, per poi utilizzarle in quello che a conti fatti è un gioco – oh, ma per lui non lo è.
Non ho voglia di sentire il suo solito discorso in merito, lo conosco fin troppo bene.
Lui è un Artista e quello che cerca è l’Arte totale – che originalità. Prima di lui l’hanno cercata centinaia e centinaia di altri illusi, però…
La sua Arte è un mondo nuovo, la pura evasione. “La comunione di tutte le Arti” mi ha detto, con gli occhi brillanti e le guance arrossate dal whiskey di troppo. Gli ho riso in faccia. Sta buttando via la sua vita per uno stupido gioco; a Chirality esistono già simulatori di vite parallele, piccoli mondi già elaborati dove si inizia da zero e la vita vera si mette in pausa, ma lui non si accontenta.
Vuole fare di testa sua, programmando tutto, ogni battuta, ogni rituale religioso, persino i libri di testo. Wit è un folle.
«Non stancarti troppo» mi limito a dirgli. Non mi ascolterà: è già esausto, tra un po’ crollerà sulla tastiera e rovinerà tutto come ha già fatto un paio di volte, riempiendo il cielo del suo mondo con tante gigantesche A o con serie senza senso di numeri.
«Non sono stanco.» Si sistema meglio sulla sedia e si appoggia con la schiena, senza smettere di digitare con un solo dito, lentamente.
«Dormi.» Non mi ascolterà.
«Non posso.» Infatti.
«Perché?» Credo di sapere già cosa mi dirà. È uno dei suoi discorsi preferiti, uno di quelli che ama ripetere più spesso – quando si accorge della mia esistenza.
«Ho bisogno di svuotare la testa» dice, ma non continua, e allora ci pensano i miei ricordi. “Ogni volta che produco qualcosa è come se mi venisse strappato un grosso pezzo di me” mi ha detto mesi e mesi fa, quasi anni. Anche il resto del discorso mi è rimasto impresso: “Le immagini, i pensieri ed i suoni vengono risucchiati fuori dal mio cervello e mi ritrovo solo, piccolo, al freddo” era seduto al bancone del bar, quando mi diceva questo, e ricordo che aveva appoggiato il bicchiere e si era stretto nelle spalle, come per rimpicciolirsi “accoccolato a terra sul pavimento freddo. Dovresti provare.”
Non l’ho mai fatto e mai lo farò. Potrei aspettare che Wit si stanchi e crolli a terra, esausto, per rinfacciargli la sua stupidità. Allora sarebbe mio, ma a che pro? Visita dopo visita, mi ignora sempre di più. È a Bayou che pensa, è lei il suo angelo, la Dea misericordiosa che assiste i poveri demoni.
È lei, non me.
«Vediamo se riesco a risolvere il problema…» borbotta. Si china a terra e raccoglie la pistola che ha comprato un po’ di tempo fa. Maria, nel campo olografico, ammicca con un sorriso e si ravviva i ricci viola.
«È per l’attentato?» chiedo. So che nel suo mondo, basato sul Ventunesimo Secolo, il punto di svolta nella storia mondiale è un attacco terroristico alla Chiesa della Dea. Ha recuperato armi antiche – che qua a Tangle sono così moderne – e le sta studiando proprio per elaborare l’operazione.
Wit annuisce. Toglie la sicura alla pistola e la punta al soffitto. «Non riesco a trovare la posizione giusta per cui il rinculo sia quello che mi serve.»
Lo sparo mi fa tappare le orecchie con le mani. Sono crollata sulle ginocchia per la sorpresa e… diavolo, mi manca il respiro. Guardo il soffitto: c’è un foro annerito e ancora fumante. «Visto? Sono bloccato» sbuffa.
Wit, perché hai tirato fuori la pistola? Perché hai sparato? Stai cercando di dirmi qualcosa o sono io che sto elaborando troppo? O è la Marsh che ho ancora nel sangue a parlare per me?
«Io non ho uno scopo» gli dico. Non so più nemmeno cosa sto facendo. Lo sparo mi ha lasciata stordita, tanto che devo davvero concentrarmi per tornare in piedi. Mi sembra una buona idea avvicinarmi a lui.
«Tu credi in quello che fai, hai dato uno scopo alla tua vita.» Mi inginocchio a terra vicino alla sua sedia e gli appoggio una mano sul palmo chiuso sulla pistola. Il mio pensiero si traduce subito in parola ed in azione. È la Marsh. Cosa sto facendo? «E quindi anche alla tua morte. Se tu morissi di stanchezza, la tua morte avrebbe uno scopo.»
Lui non mi sta guardando. I capelli biondi gli finiscono sugli occhi, che tiene socchiusi e puntati sull’arma che impugna. Non mi sta guardando.
Guardami.
«Sto pensando» ed è vero, la mia bocca segue perfettamente il ritmo della mia mente «che se io morissi per te, otterrei uno scopo.»
Sono sbagliata. Voglio il male a Chirality, Utopia, e sono fuori posto persino a Tangle, il Leviathan morente. Bayou ha uno scopo. Persino Renaissance ne ha uno, ne sono sicura, o non sarebbe ancora viva.
Guido la sua mano e punto la pistola contro la fronte. La canna è un disco tiepido di metallo che fa quasi il solletico. Non ho paura.
Non mi vuoi fermare, Wit? Lo devi fare. Di me t’importa, in realtà, vero?
«Non farlo» si limita a dire questo.
Appoggio il pollice sul suo dito, sul grilletto. «Dimmi, se io adesso sparassi, sarebbe suicidio o omicidio?»
Non dice nulla. Fissa la pistola con aria assente, mentre Bayou o Maria fissa il buco nel soffitto con occhi spalancati e quelle deliziose labbra socchiuse.
«Dimmelo.»
Niente ha un senso, quando si è intrappolati – ma forse è la droga che sta parlando per me.
Premo il grilletto.
La colpa è di chi...?

A Martina
Anche se doveva venire una cosa più allegra ed invece è strafatta
“Neid zu fühlen ist menschlich, Schadenfreude zu genießen teuflisch” {Schopenhauer}
Qui ci sono molte disgrazie su cui godere
Spero ti piaccia


Freud qui si divertirebbe un mondo. Ennesima shot strafatta, credo più frammentata e nonsense delle altre.
A protagonisti diversi si addicono stili diversi, dopotutto, no?

 
   
 
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