“Sull’arte di baciare un saiyan e tutte le complicazioni”
di
Lilly81
Baciare
è un’arte che si affina con l’esperienza: nessuno al primo approccio ne detiene
già la tecnica.
Un
dilettante, che per la prima volta accosti la bocca ad
uno strumento a fiato, non sarà capace di emettere neppure un sibilo scordato,
poiché il suono non riceve il primo impulso dai polmoni ma da un’aderenza studiata
delle labbra sulla boccola.
Nella
stessa misura, può accadere a molti che il primo bacio lasci un retrogusto
deludente.
Occorre
che si baci almeno una seconda volta perché il movimento diventi
quello giusto, una terza per raggiungere l’abilità di un allievo un po’ spavaldo,
una quarta per sentirsi padroni della disciplina: è a questo punto che la
tecnica è soppiantata dallo stile.
Baciare
è, non a caso, una forma di linguaggio, è questione di scioltezza, di cadenze
giuste, di pause ben calibrate, che coinvolge più o meno
tutto il corpo. Come un discorso improvvisato davanti ad una platea, può
catturare o lasciare l’interlocutore nella più totale indifferenza.
Dolce,
passionale, aggressivo, languido, con gli occhi chiusi o spalancati, con o
senza lingua, con un bacio si può dir molto e si può
non dir niente.
Baciare
è un ciak cinematografico dalle scenografie più disparate. Ogni luogo potrebbe
essere quello giusto se solo giusta fosse la disposizione dell’animo.
Un
divano di pelle rossa, una musica tecno in sottofondo, l’aria impregnata di
sigaretta e di alcool, il sudore dei presenti, difficilmente creano
l’atmosfera giusta; se poi la persona con la quale si viene a contatto è un
perfetto sconosciuto la possibilità che si realizzi un’armonia, una dialettica
o un momento da incorniciare è assai improbabile.
Bulma non
era andata a quella festa per farsi baciare, ma il ragazzo che l’aveva invitata
a ballare era davvero carino e dopo un bicchiere di vodka e qualche risata sciocca
sussurrata nell’orecchio, tra il pigiare della folla, aveva incominciato ad
avvertire il primo segnale di un capogiro e gli aveva chiesto di andarsi a
sedere.
Da
quando aveva lasciato Iamcha, era la prima uscita
mondana che si concedeva.
L’invito
era giunto dalla fidanzata di un compagno della sua squadra di
baseball, la quale le aveva suggerito, dopo averla incontrata per caso
all’uscita dal parrucchiere, che distrarsi un po’ le avrebbe fatto bene e che
non avrebbe corso il rischio di imbattersi nel suo ex impegnato in trasferta
con il resto della squadra.
Ora,
Bulma non era particolarmente sconvolta per la fine
della storia con il suddetto, ma se un’altrettanto perfetta sconosciuta le
aveva detto di trovarla pallida e sciupata, malgrado
la piastra appena passata sui capelli, c’era qualcosa in lei che davvero non
andava.
Chi
credeva, poi, di essere quella tipa col naso adunco e una borsa a tracolla da
firma contraffatta?
Dopo
aver precisato che, in ogni caso, non avrebbe temuto di incontrare Iamcha in quanto si erano già
detti tutto quanto c’era da dire, con un sorriso affettato e una stretta di
mano assassina aveva accettato l’invito, persuasa che, una volta tanto,
mescolarsi a gente qualsiasi, che sottostasse alle
forze gravitazionali esattamente come lei, le avrebbe dato l’illusione di far
parte di un mondo normale.
Maledetto
il giorno in cui aveva conosciuto Goku e tutto il suo seguito!
Lei
non era fatta per la guerra, i combattimenti, le invasioni aliene, i prodigi dei
draghi, le possessioni demoniache.
Tutto
questo l’aveva sciupata negli ultimi mesi. Il parrucchiere le aveva detto di
non averle mai trovato tante doppie punte.
Era
così assurdo pretendere una vita normale, con gente normale
che non avesse code mozzate, capacità da trasformista, dorsi di tartaruga sulle
spalle, sdoppiamenti di personalità?
Quale
fosse poi il concetto di “normale”, ancora non le era chiaro.
Iamcha,
in fondo, diventava un uomo qualunque quando andava in palestra e sbavava
dietro i sederi rassodati dall’aerobica.
Non
l’aveva lasciato, forse, per questo?
Allora,
non era questione di normalità, ma di voltare pagina e soffermarsi su quella più
interessante, a patto di trovarla prima che le parole
si sbiadissero e la carta si sbriciolasse.
La
lingua di quell’uomo incominciò ad esplorare la sua
bocca e lei si ritrovò a subire quell’invasione senza neppure riuscire a
chiudere gli occhi.
Che strana sensazione sentire qualcosa di umido
attorno alle labbra e meditare nel frattempo quale tipo di carrozzeria applicare
al nuovo jet in costruzione.
Era
convinta che fosse soltanto Iamcha, nell’ultimo
periodo, ad averle fatto scoprire che pure lei poteva disporre
di un potere simile al teletrasporto, quello dell’ubiquità… mentale.
Quando
poi la mano dell’uomo risalì dal polpaccio e si infilò
sotto la gonna, allora capì che neppure questa pagina era quella giusta e si
affrettò a voltarla con la stessa velocità con cui le sue dita schioccarono
sulla faccia dell’uomo.
Stordita
dal tum tum tum della musica, faticò a mettersi in piedi e impiegò
almeno cinque minuti per farsi strada tra la calca e
raggiungere l’uscita.
La
brezza notturna che la investì appena fuori la porta le fece emettere un respiro
di sollievo, ma la vista di un altro uomo che pomiciava sulle scale di granito
con due ragazze sbronze le accrebbe il senso di malessere allo stomaco.
Non
la scandalizzava, di certo, l’audacia di un giovane che ci aveva provato, né la
sfacciataggine di qualche ragazza che per dare spessore al cervello non poteva
fare altro che bere e imbibirlo come una spugna, ma sentire che questo tipo di normalità non le suscitava il benché
minimo interesse.
Troppe
cose aveva visto e troppe avventure aveva vissuto per
credere che fosse facile mescolarsi tra gente comune e trovare compiacimento nell’attenzione
di un tizio… qualunque.
Iamcha
aveva smesso di interessarle quando aveva capito che il suo essere diverso
dagli altri non andava oltre la capacità di librarsi nell’aria.
Il
baseball, il cinema, il teatro, le feste, le passeggiate, qualsiasi cosa un
tempo l’avesse sedotta con facilità, erano divenute di
colpo prive di qualsiasi attrattiva.
Sbirciò
l’orologio e, visto che erano soltanto le 22.57 e la sua casa distava da lì di
un isolato, decise che quattro passi a piedi sarebbero stati salutari.
Quel
ragazzo non era niente di speciale, rifletté incamminandosi.
Con
quella fila al lato era veramente ridicolo! Per non parlare della camicia a
fiori!
A
proposito, ma da quando non gli piacevano più i ragazzi biondi con gli occhi
azzurri?
Sospirò
con frustrazione al pensiero che gli anni stavano passando pure per lei, mentre
il tum tum tum della musica degradava nel condotto uditivo in un
fischio acuto ed insistente.
La
luce dei lampioni indorava la sua chioma; e l’asfalto, sottostando al ritmo
cadenzato dei suoi tacchi, lasciava fuoriuscire, come una chiazza di petrolio
sull’acqua, un’ombra vibrante ed inquieta.
Un’auto
si accostò davanti ad un cancello, ne scese una ragazza che, nell’atto di
congedarsi, mandò un bacio al giovane conducente con la mano svolazzante.
Questi la seguì con lo sguardo fino a quando non fu rientrata
in casa.
Ecco:
l’amore è fatto proprio di questi piccoli dettagli. Non c’è niente di più
tenero del senso di protezione che una donna può
ispirare al proprio uomo.
Il
ragazzo alla guida ripartì, rallentò all’altezza di Bulma,
le fece un fischio di approvazione e se ne andò.
La
verità era che non si trattava del colore dei capelli, della fila a lato, né
della fantasia della camicia o del sapore di vodka al melone di
quell’uomo; neppure dell’imbecillità dell’ultimo esemplare di maschio appena incrociato.
Era
che sentiva che in nessun posto del mondo sarebbe stata bene come alla Capsule Corp.; e non erano i giardini lussureggianti, la piscina ad
idromassaggio, la sauna, i laboratori o qualsiasi altro confort installato, né
l’ingegno di suo padre o la testa tra le nuvole di sua madre a farle desiderare
di ritrovare al più presto conforto nell’intimità e nella familiarità della sua
casa.
Neppure
lontana dalla Terra, su un pianeta dai colori ribaltati, aveva sentito tanta
nostalgia di quelle mura come nell’istante in cui una decappottabile sfrecciò
con cinque ragazze a bordo che cantavano e si divertivano a squarciagola.
Tutto
quello che c’era al di fuori di queste apparve d’un tratto
così vano e superfluo che un brivido freddo le attraversò la spina dorsale e le
fece riannodare il foulard alla gola.
Le
sere di fine estate sono sempre piene di insidie: una
coltre sottile di umidità era già calata sulle auto parcheggiate fuori le
abitazioni e tra il groviglio di una boungaville
quasi avvizzita, nel giardino di una graziosa casetta prospiciente la sua, scorse
il gazebo, teatro di molte grigliate all’aperto, ormai smantellato.
Non
appena varcò il cancello della Capsule Corp., il
cespuglio delle gardenie fu l’unico posto più vicino nel quale vomitare gli
stuzzichini e la vodka al melone che aveva bevuto.
Ancora
in ginocchio, si slacciò il foulard e con questo asciugò il sudore freddo della
fronte.
Attraversò
il giardino appena rischiarato dalle luci a neon, poggiò con stanchezza un
polpastrello sul pannello dei comandi, superò l’uscio automatico, si tolse le scarpe di vernice con un movimento prima di un
piede e poi dell’altro, gettò la borsa sul divano insieme al foulard e a piedi
nudi si incamminò in cucina.
Sciacquata
la bocca sotto il getto freddo della fontana, riempì una tazza con del latte
scremato; dopo averla tenuta per trenta secondi nel
microonde, si spostò nel soggiorno attiguo sorseggiando la bevanda.
Sull’impiantito
a scacchi la luna piena gettava un fascio d’argento sufficientemente ampio per continuare
a tenere le luci spente e a godersi meglio il silenzio.
Dall’ampia
vetrata lasciata aperta si accorse, allora, dell’ombra che, incurante
dell’umidità, se ne stava adagiata su di una sdraio,
con le braccia incrociate dietro al capo e le ginocchia appuntate.
Sembrava
distante anni luce, approdato su chissà quale pianeta
mentale e con sé portava via, ogni volta, qualcosa di ciò che lo circondava.
Il
lettino, la dracena nel vaso di terracotta che stava accanto, il posacenere
lasciato da suo padre lì per caso e persino il metro quadro di pavimento che
occupava la sua ombra, avevano smesso in quel preciso
istante di appartenere alla Terra.
Allo
stesso modo Bulma, ogni volta che era al cospetto del
principe dei saiyan, sentiva di fluttuare in
direzione di mondi distanti, di alleggerirsi di quel vuoto incombente sulle
spalle e che pure pesava.
Sorvolava
e guardava con distacco le cose terrene che andava
lasciando: Iamcha, il cinema, il teatro, le feste, le
passeggiate, la gente, la vita mondana.
Poteva
fare a meno di tutto, adesso. Chi lo avrebbe mai detto? L’egocentrica Bulma Brief!
Il
suo spirito di rinuncia era nato e si era forgiato durante queste trasvolate.
E
nulla era più emozionante quanto accorgersi, al ritorno, di non essersi mai
spostata ma che era l’universo intero ad essere
entrato nella sua casa.
La
donna contemplò quel cosmo in miniatura senza compiere un altro passo, col
fiato sospeso di chi alza gli occhi al cielo e vede un segno sconosciuto.
Non
era, forse, un dio se poteva far
tremare con un solo dito
Ne
aveva le sembianze nel suo aspetto distaccato: niente sembrava in grado di scalfirlo.
Quasi lo invidiava.
A
quel tempo, le era già chiaro che il suo fascino fresco e procace non sortisse
alcun effetto sulla razza dei saiyan: una spallina cadente
del vestito, la porta della camera da letto lasciata
appositamente accostata, il bikini indossato sul bordo della piscina, il
bicchiere rovesciato sulla camicetta leggera, niente era in grado di gettare
scompiglio tra i testosteroni di Vegeta, sempre ammesso che egli ne fosse
fornito.
La
stempiatura superba e il ghigno sottile non tramutavano davanti a niente; e se Chichi non avesse generato un figlio mezzosangue, avrebbe finito
per credere che i saiyan si riproducessero per
divisione mitotica.
Il
fatto, poi, ragionasse con predeterminazione sugli aspetti sessuali di questa
razza e sulle possibilità di successo delle sue strategie, dimostrava quanto la
scienziata fosse conscia che per applicare i suoi metodi di sperimentazione
esisteva una sola strada da percorrere.
In
che modo, se non su un letto o su qualsiasi altra superficie piana, si sarebbe,
prima o poi, consumata la passione per quel saiyan?
Bulma non
aveva mai avuto tanto poco romanticismo come quando pensava a Vegeta; ma il
romanticismo è solo la faccia più banale dell’amore, un’epidermide sottile che
si spella non appena scottata dai raggi del sole.
Il
tetro balenio del suo sguardo la riportò alla realtà nel momento in cui, superata
la porta-finestra, questi le passò accanto.
“Sono
rientrata presto”, mormorò come se a lui fosse importato qualcosa.
In
tutta risposta, l’alieno andò in cucina e ne venne fuori con una lattina di acqua
tonica.
La
trangugiò tutta d’un fiato prima di dire:
“Suppongo
sarebbe stato imbarazzante vomitare in un posto diverso da casa tua”.
“Non
sai nemmeno dove sono stata!”, replicò punta.
L’osservò
mentre andava a sedersi sul divano, laddove la luna tagliava in due parti la
geometria del tessuto.
Era
strano che non fosse in camera sua o non fosse andato a rinchiudersi non appena
l’aveva vista rincasare.
Perché
si tratteneva ancora?
Bulma riprese
a sorseggiare a disagio la tazza di latte.
Era
quasi come se avesse aspettato il suo ritorno.
“Volevi…
volevi dirmi qualcosa?”.
“Io?”.
Trasfigurato
da una calma quasi innaturale, appariva padrone di sé
stesso come non mai. Si era seduto di fronte a lei con le braccia incrociate e
aveva sollevato i piedi sul tavolino. Non era mutata la superbia della fronte
stempiata, né il broncio della sua bocca, ma diversamente da tutte le altre
volte si stava degnando di fissarla.
Forse,
era la penombra ad ingannarla, ma pareva che quella statua
marmorea guardasse proprio nella sua direzione e che un’occhiata tanto
insistente ed ambigua non potesse essere destinata al paesaggio ritratto dietro
le sue spalle.
Bulma
posò la tazza sul tavolino di vetro, si avvicinò al divano, recuperò la borsa
lì gettata e, in tralice, notò che lui continuava a guardare il punto da lei occupato prima.
Forse,
l’oggetto della sua attenzione era davvero quel dipinto.
L’alieno
tornò a spostare lo sguardo su di lei quando questa incominciò ad armeggiare con
la borsa e con esasperazione ne rovesciò il contenuto
sul divano.
Tra
il portafogli, le chiavi, il cellulare, la pochette col trucco e lo
specchietto, i fazzoletti di carta, lo scontrino del parrucchiere
accartocciato, il volantino con gli sconti ai grandi magazzini, una penna senza
tappo, un portafortuna a forma di ferro di cavallo, il kit di capsule, riuscì ad indovinare, al tatto, il pacchetto di chewingum
che stava cercando.
Non
si prese la briga di offrirgliene uno perché, l’ultima volta, l’uomo le aveva
risposto che non era nella natura saiyan azionare a vuoto i succhi gastrici e ruminare senza che lo
stomaco ne traesse nulla.
Allora,
Bulma si sedette anche lei, all’estremità opposta a quella dove stava lui.
Con
la testa reclinata sullo schienale, osservò la luna fare capolino dalla vetrata.
“Mi sbaglio o è più grande e luminosa del solito? E’ davvero bellissima!”. Lo
stupore mise in disparte la gomma masticante sotto un molare.
Ora
che ci rifletteva, suo padre, l’altro giorno, le aveva detto, scrutando le mappe
stellari, che ci sarebbe stato un perigeo lunare.
“Non
ti sbagli”.
Pure
la sua voce aveva una vibrazione diversa dal solito: non c’era irritazione,
sarcasmo, attesa, né urgenza, soltanto una calma inquietante.
La
percezione di essere cullata su di una zattera nel punto più profondo
dell’oceano e la coscienza che, per la prima volta, fosse l’altro a manovrare
il timone non le permisero di gustarsi quel momento di
silente condivisione come avrebbe voluto. L’orologio alla parete segnava le
23.32 quando Bulma, appiccicato il chewingum sul volantino degli sconti ai grandi magazzini,
si risolse ad alzarsi.
“Me
ne vado a dormire”, annunciò con uno sbadiglio. “E’ stata una
pessima serata. Avrei fatto meglio ad andare a quella conferenza al Nord
con mio padre, anziché mandarci quella svampita di mia madre. Non credi?”, chiese tanto per dire.
Ed invece
il saiyan rispose:
“No,
non credo”.
Adesso
che la luna si stava ritirando e la penombra aveva reciso con un colpo sbieco
la bocca, quella statua marmorea assumeva contorni quasi mostruosi: era una
specie di busto, senza testa né piedi, in grado di articolare parola. Sembrava
che la voce provenisse da una fenditura profonda del marmo scolpito e avesse il
timbro di un responso divino.
Bulma non
riusciva a vedere in quale direzione avesse inchiodato il suo sguardo.
E
intanto, quei monosillabi soppesati rafforzavano la sensazione che egli fosse
perfettamente consapevole di cosa stava per accadere.
La
ragazza, dando per scontato che più niente potesse farle rivalutare quella
serata, rinunciò ad addentrarsi in quelle acque torbide e placide; gli voltò le
spalle, ma prima che imboccasse il corridoio, si sentì chiamare:
“Bulma!”.
Allora,
sbarrò gli occhi perché era la prima volta, dacché era sotto quel tetto, che il
principe dei Saiyan la chiamava per nome.
“Avanti,
avvicinati!”, le ordinò.
“Cosa?”,
tornò a voltarsi.
Era
certa di aver inteso male, ed invece:
“Ti ho detto di avvicinarti. Non ti ammazzo mica…”, insinuò
mellifluo.
Considerato che lui aveva ancora le sembianze di un busto senza né capo né bocca, e
che l’atmosfera era stata, fin dal principio, carica di un oscuro disagio, le
venne spontaneo chiedere:
“Perché
dovrei fidarmi? E’ una minaccia che usi spesso”.
“Perché se volessi farti fuori, potrei farlo anche da
qui senza muovere un dito. Suppongo tu questo lo sappia”, fece con l’ovvietà di un dio.
Quanto
godeva nel pensare che la vita di un essere qualunque potesse dipendere anche
da un suo capriccio!
Nei
deliri di onnipotenza vedeva la sua mano rovesciare cataclismi di ogni sorta
sulla popolazione inerme; ed era inebriante meditare quanta fermezza avesse nel riportare certi propositi al punto di partenza.
Così
si confà ad un dio:
un dio attende, valuta, punisce
seguendo uno schema, concede persino misericordia.
Quella
terrestre non era, forse, viva perché lui così aveva voluto?
La
violenza cieca e distruttiva, invece, apparteneva all’enorme bestia rimasta
prigioniera senza scampo nel suo patrimonio genetico.
Sotto
la pianta dei piedi Bulma tornò a sentire il calore soffice
del tappeto.
Si
avvicinò con cautela, più che altro, per assicurarsi di non urtare contro lo
spigolo di vetro del tavolino.
Quando
fu alla sua altezza, il saiyan si alzò e finalmente
smise di essere un busto, senza né capo né bocca, per recuperare la sua
interezza marmorea.
Nella
penombra ora si distingueva bene la fronte stempiata e
superba, la linea tormentata della mascella, le cavità contorte delle scapole.
Era
lo scintillio dello sguardo che non si riusciva ad afferrare, quella specie di
brace che il sole sotterrava e la luna, più fulgida delle altre sere, smuoveva
appena.
“Che
cosa hai di tanto importante da dirmi? Sei… strano, stasera”.
“Cosa
ti fa pensare che io voglia dirti qualcosa?”.
“Guarda
che sei stato tu a chiedermi di venirti vicino”, obiettò irritata.
“Potrebbe
essere anche soltanto per toccarti”.
Allora,
quel sortilegio marmoreo, sgusciato dalle fibre dell’alieno, si
impadronì dei suoi piedi nudi e si estese agli arti superiori pietrificandoli.
“Quando mi invitasti
a venire qui”, continuò l’altro, “mi dicesti di tenere le mie mani lontane da
te. Te lo ricordi?”.
La
ragazza assentì con un movimento lento e sconnesso del mento. Pure le palpebre
avevano perso la sincronia con le ciglia.
Rammentava
bene la radura rigogliosa nella quale, per magia, si era ritrovata insieme ai namecciani sopravvissuti.
Ritrovare
la corretta combinazione di colori tra cielo e terra aveva sancito la fine di
una terribile avventura; e il cielo azzurro, rimasto all'oscuro dei pericoli
lontani, non le era mai parso tanto pulito.
“Ebbene,
non sono più sicuro di volerle tenere lontane, sebbene, sia chiaro, è un capriccio senza importanza. Non mi
sconvolgerei se domani questa voglia mi fosse già passata”.
Adesso
era un’impellenza che andava assecondata e basta, non con
una femmina qualunque, ma con quella
femmina: con quella sintesi curiosa di sfrontatezza, intelligenza, seduzione,
seccatura e tormento che Bulma Brief
era.
I
suoi occhi e le sue orecchie di saiyan avevano
incominciato a plasmare quella sintesi poco a poco; dall’atteggiamento seccante
con cui si intrufolava nei suoi allenamenti fino alla
seduzione che esercitava ad ogni movimento, passando per la sfrontatezza e l’intelligenza
con cui si rapportava a lui, ne era venuta fuori una creatura fuori dall’ordinario,
che valeva la pena di scoprire in
tutti i sensi.
Che
male poteva mai riceverne il principe dei saiyan a
spassarsela con una terrestre?
Una
distrazione a fine giornata sarebbe potuta essere
perfino salutare, aveva pensato qualche volta rigirandosi nel letto.
Per
altro, gli sembrava che lei da tempo non desiderasse
altro.
“Mi
stai chiedendo il permesso di toccarmi?”. Dal sortilegio marmoreo che ancora
imprigionava il suo corpo un sopracciglio attonito
scattò come una molla.
“Non
ti sto chiedendo il permesso. Sto valutando fin dove ti
conviene che io mi spinga”.
In
fin dei conti, non aveva voglia di ucciderla: il suo ingegno gli tornava troppo
spesso utile.
Misantropo
e solitario, Vegeta non aveva avuto molte femmine,
ma ricordava come quelle di razza più debole raramente fossero sopravvissute
all’eccitazione sua o degli altri due compagni.
“Cosa…
cosa vorresti dire?”.
“Che
se tu fossi stata una saiyan, non me ne sarei stato
qui ancora con le mani in mano; ma visto che hai forza
soltanto nella lingua, sto valutando l’opportunità di lasciar fare tutto a te. Ritieniti pure fortunata, è un privilegio che non ho mai accordato
a nessuno, né in battaglia, né sopra un letto”, incrociò le braccia con un
gesto mai tanto efficace.
Un
dio poteva permettersi ogni forma di indulgenza, compresa questa.
Bulma, alla
fine, comprese il senso delle sue parole: quel movimento rotatorio, contorto ed insistente, del suo parlare si arrestò su “letto” lasciandola
frastornata.
Non
riusciva ancora a credere cosa avessero sentito le sue orecchie; se stesse
tremando per l’emozione di un sogno che stava prendendo forma o per il panico
in cui l’aveva gettata la sua proposta.
Pensò
all’improvviso a Iamcha e rimpianse di non aver
voluto approfondire meglio certi aspetti del loro rapporto, di aver fermato
troppo spesso la sua mano perché il momento non le sembrava mai abbastanza…
romantico, che tanti anni di conoscenza si fossero persi tra litigi
adolescenziali e battaglie.
E
adesso cosa si ritrovava?
Un
saiyan che la fissava come un oggetto non
identificato proveniente da un altro pianeta e che le faceva intendere, a
chiare lettere, che tra loro non c’era compatibilità a livello fisico.
Lo
aveva sempre saputo che le sere di fine estate sono piene di insidie.
Sciolta
dall’incantesimo di marmo, urtò contro lo spigolo del tavolino e lanciò un
gemito di dolore.
“E’
esattamente quello che pensavo”, sogghignò Vegeta. “Ti fai male per un niente. Mi domando ancora come Kakaroth sia
riuscito ad avere un figlio da una terrestre”.
“Lo
stai facendo apposta per spaventarmi!”, si ribellò la donna, risvegliata dalla
fitta al polpaccio. “Ti distingue da me soltanto una coda di scimmia e neppure
questa possiedi più. E’gentile da parte tua…”, sottolineò con una smorfia sprezzante “mettermi in guardia,
ma ti assicuro che non ne ho bisogno! Il problema non è la
mia capacità di resistenza, quanto la tua capacità di saper compiacere una
donna!”.
Vegeta
spostò il capo all’indietro per studiarla meglio.
Non
aveva mai considerato il punto di vista di una donna. In verità, non sapeva
nemmeno che una donna potesse avere nell’intimità un punto di vista.
“Non
mi è mai interessato compiacere nessuno, meno che mai una femmina”, volle
precisare con franchezza.
“Non
sai allora cosa ti perdi…”, mormorò la ragazza, abbozzando una piega astuta
delle labbra.
L’unica
sicurezza che aveva da sfoggiare veniva proprio da quella fossetta ai lati
della bocca e contro di questa andò a cozzare e a spegnersi tutta la baldanza del
principe dei saiyan.
Sembrava
che la terrestre sapesse qualcosa che a lui non era dato sapere e intanto
continuava ad esercitare una seduzione senza far
niente, semplicemente standosene in piedi e reggendo con fermezza la sua
vicinanza.
Che
poi lei stesse attingendo chissà dove quella forza, scavando tra risorse
sfruttate solo in parte e assopite per troppo tempo, a lui non interessava
saperlo e neppure se ne era reso conto.
Il
senso di inadeguatezza che lo sopraffece durò solo un
istante, giusto il tempo di recuperare il piglio da canaglia di sempre e dire:
“Mi
sto chiedendo tu cosa sappia fare”.
“Molto poco… in verità”, ammise candidamente Bulma, incominciando a sbottonare con lentezza la
camicetta.
Nella
penombra le dita affusolate che armeggiavano con i bottoni sarebbero potute
essere due mani giunte nell’atto di un’implorazione; ma nel silenzio, che sopraggiunse
con la vibrazione di una corda che si spezza, il fruscio dei lembi che si aprivano
rimbombò dieci volte tanto.
“Non si direbbe che non sai fare niente. Sei sfacciata quanto basta”, fece
con compiacimento.
“No,
non sono sfacciata, sono coraggiosa”, disse con ardore, intanto che la
camicetta scivolava a terra. “E visto che siamo in
tema di confidenze, scommetto che tu non hai nemmeno mai baciato una donna”.
Vegeta
sentì un’altra volta quel senso di inadeguatezza
incombere sul suo capo alla stregua di una goccia insistente e gelida.
Ignorare
persino il significato di quello che lei andava dicendo scompigliò i suoi
pensieri più del ricamo di pizzo che risaltava adesso nel buio come due
mazzolini bianchi di primule.
Questa
volta fu lui ad indietreggiare, nel momento in cui la
ragazza, vicina come non mai, premette la bocca contro la sua e la trattenne
appena.
La
sensazione di aver sfiorato un cadavere ancora caldo la costrinse a fermarsi
per ritornare a guardarlo.
Neppure
un muscolo si era contratto intorno alla piega sottile delle labbra.
Bulma
deglutì come se da questo potesse trarre il coraggio di rinnovare lo slancio.
Quel
movimento gutturale, difatti, la spinse di nuovo in avanti e questa volta
premette le labbra più a lungo, schiudendo e assaggiando quel cadavere che si
stava svegliando e che le permetteva adesso di insinuare piano la lingua dentro
di lui.
Vegeta
si sentì avvolgere da una mistura umida di latte scremato e chewingum
alla fragola e scoprì che assecondarne il movimento era spontaneo come per un
neonato suggere una mammella.
Gli
piaceva e gli piaceva pure quella mano che si sentì
passare tra i capelli e stringergli la cervice con una mossa inoffensiva e
tuttavia paralizzante.
Quella
carezza era una forma di linguaggio che non aveva mai parlato, né sentito in
qualsiasi parte dell’universo fosse stato, ma le rispose nell’unica lingua che sapeva
parlare, allungando la mano dietro la sua schiena e strappandole con una
schiocca delle dita il reggiseno.
A
quel colpo di frusta Bulma tornò a staccarsi da lui.
La
brezza proveniente dalla porta finestra lasciata spalancata le raggelò la
schiena: le sere di fine estate sono sempre piene di insidie,
ma questo si è già detto.
La
durezza con cui l’alieno osservò la sua nudità non la fece demordere: prese la
sua mano – era calda, di un calore quasi innaturale per un essere umano – e se
la portò sul petto per tornare a stabilire un nuovo contatto, per fargli
sentire la velocità con cui stava pulsando il suo cuore.
E
Vegeta lo sentì, lo senti, eccome, mentre le sue dita
stringevano quella forma turgida come un frutto maturo e gustoso e la bocca si
protendeva per abbeverarsi a quella fonte con una sete mai provata prima d’ora.
Dove
si era dissetato fino a quel momento?
Aveva
attinto a pozzi aridi e contaminati, aveva scavato con le unghie nel fango per
trarne un sorso nauseabondo, si era astenuto come un asceta nel deserto.
Adesso
le sue fibre, rigenerate da quella nuova linfa, scoprivano l’ebbrezza di un
vino pregiato, appositamente conservato per
un’occorrenza importante.
E
nessuna occasione poteva essere buona quanto quella, assai rara, di brindare
con il principe dei saiyan.
Questa
consapevolezza aveva Bulma mentre schiudeva le gambe
e si preparava ad accogliere quell’alieno venuto da lontano, un po’ uomo e un
po’ bestia, che l’aveva sedotta semplicemente per l’esemplare fuori dal comune
che era.
Vegeta
attese un istante prima di farsi strada in lei, ma non
fu per cercare su quel divano un briciolo di tenerezza, che non avrebbe mai
trovato, quanto per offrirle un ultimo gesto di misericordia: rinunciare ad
essere dio e incarnarsi, una volta
tanto, in un uomo qualunque.
FINE