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Autore: Lampih_SJ    23/05/2012    3 recensioni
Scesi i pochi gradini che portavano al marciapiede e cercai un taxi per tornare al mio appartamento. Non sono mai riuscito a chiamarlo “casa”, perché “casa” è dove si lascia il proprio cuore, e il mio non era di certo in quel bilocale. Forse era caduto da un palazzo tre anni prima, ma non riuscivo ancora a capire se fosse morto o, almeno lui, si fosse salvato.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Sherlock Holmes , Sig.ra Hudson
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Lampih_SJ
Fandom: Sherlock BBC
Titolo: Per la seconda volta
Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes, Mrs. Hudson, Harriet Watson, Mary Morstan.
Introduzione storia:  Scesi i pochi gradini che portavano al marciapiede e cercai un taxi per tornare al mio appartamento. Non sono mai riuscito a chiamarlo “casa”, perché “casa” è dove si lascia il proprio cuore, e il mio non era di certo in quel bilocale. Forse era caduto da un palazzo tre anni prima, ma non riuscivo ancora a capire se fosse morto o, almeno lui, si fosse salvato.
Rating: Verde
Word: 6208
Generi:Drammatico, Malinconico, Triste
Avvertimenti: Missing Moments, Movieverse, One-shot, What if?
 
 
 

PER LA SECONDA VOLTA

 
 
 
 

- Oh, John... Guarda fuori da questa finestra... Guarda quanta calma, quanta pace, quanta tranquillità. E' tutto così snervante, John, così irritante.
- Vedrai che fra poco qualcuno suonerà il campanello, Sherlock. Bisogna soltanto saper aspettare.
Avevo lo sguardo immerso nella tazza di caffè che mi scaldava le mani. Ero seduto sulla mia morbida poltrona. Riuscivo a percepire la presenza di Sherlock che osservava la strada fuori dalla finestra con i suoi occhi vividi e attenti.
Alzai la testa per guardarlo, ma non c'era nessuno.
Dopo quattro mesi credevo di aver perso quella brutta abitudine.
E allora capii che probabilmente non stavo parlando con Sherlock, ma con me stesso. Vedrai, John, vedrai che fra poco qualcuno suonerà alla porta, devi solo aspettare. Forse sarà Harriet, forse Mrs. Hudson... forse Sherlock.
No, lui non tornerà. Non lo vedrò più in piedi alla finestra, non sentirò più la sua voce chiedermi aiuto.
Il primo mese lo passai chiuso nella mia nuova casa, lontano da Baker Street. Mi trasferii in un piccolo bilocale con una mansarda, che in una giornata riempii di più dell’intera casa. La riempii di scatoloni traboccanti foto, documenti, diari e ricerche di Sherlock che mi portai via da Baker Street.
Quando ebbi finito mi voltai per dare un ultimo sguardo alla mansarda, e in quel momento mi ricordai di quando Sherlock mi disse che la nostra mente è come una mansarda che non dobbiamo riempire di cose inutili ma dove dobbiamo mettere le cose veramente importanti. Chiusi la porta e non vi rientrai più.
Iniziai a ricevere alcune visite e alcune telefonate da parte di Mrs. Hudson e Harriet, ma io avevo ormai iniziato a nutrire una sorta di misantropia e di cinismo che mi distaccavano totalmente da mondo. Non aprire la porta a Mrs. Hudson o non rispondere alle chiamate di mia sorella non mi toccava minimamente nell’emotività.
La stoffa scura e spenta delle tende, dei tappeti e delle poltrone rispecchiava il mio umore. Le stanze vuote e senza luce rispecchiavano la mia anima.
Il secondo mese trovai la forza di mettere piede sull’ardente e duro asfalto della vita che continuava, iniziai ad uscire di casa e ripresi la mia professione di medico in un piccolo ospedale di Londra, giusto per riuscire ad arrivare a fine mese. Ma non cercai di farmi nuove amicizie.
Il terzo mese Harriet e Mrs. Hudson iniziarono a farsi sentire un po’ più raramente. Forse era passato quel periodo di compassione e pietà che sicuramente avevano provato per me dopo il funerale.
Intanto il tempo passava e arrivò il quarto mese, il periodo in cui mi ricordai improvvisamente di possedere un computer.
Senza un vero motivo (non avevo certo intenzione di mettermi a raccontare le mie ultime giornate) aprii la pagina del mio blog. Feci scorrere velocemente la pagina, senza la minima voglia di leggere ciò che avevo scritto in passato, quando notai che c’era un nuovo nome tra le persone che avevano commentato i miei post: si chiamava “Mary”.
Mi sentii come se qualcuno avesse soffiato via la polvere da un mio vecchio giocattolo a cui ero affezionato e ora me lo stesse mostrando bello com’era un tempo.
Incuriosito, andai a leggere i commenti che aveva scritto in alcuni miei post.
La vedevo coinvolta e interessata ai casi a cui avevo preso parte. Scriveva di essersi spaventata mentre leggeva, che avrebbe voluto essere lì con me, che scrivevo molto bene, che preferiva leggere quelle avventure sul mio blog che sui giornali.
Non so esattamente perché, ma decisi di inviarle un messaggio privato, in cui la ringraziavo per i bei commenti che aveva scritto e il supporto che mi dava. Era un messaggio sobrio, tranquillo, un semplice ringraziamento.
Passai la giornata a chiedermi se avesse letto e risposto a quel mio messaggio. Ogni tanto prendevo il computer e rileggevo i commenti che aveva scritto nel blog.
La sua risposta arrivo quella sera stessa, verso mezzanotte:
 
Caro Dottor Watson,
Sono lieta che le mie considerazioni l’abbiano resa felice, ma ho solo espresso ciò che credo di lei e del suo amico Sherlock Holmes. Mi ha fatto piacere ricevere un suo messaggio. Spero non sia l’ultimo.
Con affetto,
Mary
 
Erano solo poche righe, eppure rimasi con gli occhi sullo schermo per almeno mezz’ora.
Quell’alone di mistero che tutta quella vicenda aveva mi lasciava un piacevole nodo allo stomaco.
Avevo intenzione di risponderle subito, mi sentivo quasi in obbligo (non sapevo bene se verso di lei o verso di me). Ma passò qualche ora prima che riuscii a trovare le parole giuste. Tanto ero certo che quella notte non avrei dormito:
 
Cara Mary,
Spero non sia un problema per te se ti chiedo di poterci dare del tu.
Non vorrei sembrare ripetitivo e monotono, ma ti ringrazio ancora. Questi ultimi mesi sono piuttosto difficili per me, per una serie di motivi, ma sto cercando di riprendermi.
Aspetto una tua risposta.
Un abbraccio,
John
 
Mi sarebbe piaciuto continuare quel messaggio scrivendo “Vorrei sapere chi sei, che viso hai, di dove sei, qualcosa di te, insomma”, ma decisi di lasciar perdere. Ci eravamo soltanto scambiati due messaggi privati tramite un computer, non volevo sembrare invadente.
Non so perché le scrissi che non stavo passando un bel periodo. Non ne avevo mai parlato davvero con qualcuno (Mrs. Hudson e Harriet non affrontavano mai esplicitamente la cosa, preferivano farmi compagnia parlando d’altro e distraendomi). Dopo averle inviato il messaggio lo rilessi e mi scappò un sorriso alla frase “per una serie di motivi”. Ancora una volta, mi sembrava di parlare con me stesso piuttosto che con qualcun altro, e che nemmeno io riuscissi ad affrontare il vero motivo di quel mio isolamento dal mondo.
 
Passò una settimana, durante la quale la mia vita era ripiombata nella solita monotonia, fatta di una casa vuota, un lavoro mediocre e una vita sociale inesistente.
Ma dopo quei sette giorni ricevetti un altro messaggio da quella donna:
 
Caro John,
Sono felice ce ci si possa dare del tu, per me non è affatto un problema.
Mi dispiace molto del tuo difficile periodo. Non vorrei sembrarti invadente, ma se hai bisogno di parlare con qualcuno conta su di me. Puoi scrivermi quando vuoi, io cercherò di risponderti il prima possibile.
In quanto a me, credo sia giusto raccontarti un po’ chi sono, non voglio sembrare un fantasma misterioso che ti scrive nel cuore della notte: abito in un piccolo monolocale di Londra, da sola, da dopo la morte dei miei genitori e il trasferimento di mia sorella in Scozia; ho 36 anni e per il momento sono disoccupata, anche se riesco ad arrangiarmi con qualche lavoretto come babysitter o lezioni private per bambini.
Spero di non averti annoiato… e di ricevere una tua risposta, ovviamente!
Con affetto,
Mary
 
Rilessi quel messaggio più e più volte. “… ma se hai bisogno di parlare con qualcuno conta su di me”. Avevo bisogno di parlare con qualcuno? Sì. Decisamente.
E non so se fu per quello o perché mi piaceva parlare con lei, ma fatto sta che iniziammo a scambiarci sempre più messaggi.
Quando iniziarono a passare i mesi, la cosa era diventata ormai un’abitudine. A volte riuscivamo a scriverci anche cinque messaggi al giorno, altre volte invece lei spariva per giorni interi, se non settimane. E in quei casi mi mettevo a rileggere i nostri vecchi messaggi, e scoppiavo a ridere.
I messaggi iniziarono subito a farsi lunghissimi. Parlavamo di tutto, anche delle cose più stupide.
Non affrontavo mai davvero il problema della mia tristezza nemmeno con lei, ma avere qualcuno con cui parlare rendeva tutto più sereno.
I primi tempi rimanevo stupito e confuso da alcune domande che mi faceva. Voleva sapere come fosse andata a lavoro, cos’avessi comprato al mini-market, di che colore fossero le pareti della mia casa, come fossi vestito.
Quando arrivammo al settimo mese di conoscenza mi sembrò fosse passato abbastanza tempo per chiederle una sua fotografia. Non che in tutto quel tempo non mi fossi già fatto un’idea di lei, ma rimaneva comunque qualcosa di astratto, di immaginario.
La sua risposta non tardo ad arrivare, e mi mandò tre sue foto. Nella prima era seduta sulla panchina di un parco, in mezzo agli alberi e ai fiori; nella seconda stava ridendo mentre mangiava in una pizzeria; nella terza era con un gruppo di amiche in un viaggio a Parigi. Aveva dei lunghi capelli biondi, un viso candido e delicato e due occhi cangianti bellissimi. Dalla foto del parco riuscivo a vedere il celeste e il verde che si mischiavano nelle sue iridi come fanno i colori di un quadro perfetto.
 
Ci scambiammo messaggi al computer per quasi due anni.
Senza che me ne rendessi subito conto, il tappeto verde scuro del mio salotto divenne rosso vivo, la lampada nera sulla scrivania si colorò d’azzurro, le pesanti tende grigie si trasformarono in morbido tessuto arancione.
Nonostante lei dicesse di abitare a Londra e non avere particolari impegni, non organizzammo mai un appuntamento. Ma sentivo, nel profondo, che un giorno sarebbe successo.
Quando quel giorno arrivò, non mi sentii stupito della richiesta in sé, ma impreparato e insicuro. Le conseguenze del non avere relazioni né di amicizia né di qualunque altra natura iniziavano a farsi sentire.
Mary iniziò a chiedermi se potessimo incontrarci, magari in un parco o a casa mia.
Quando lessi il suo messaggio buttai istintivamente lo sguardo in alto, verso la mansarda.
Per una serie di motivi sapevo che non sarei riuscito a farla venire a casa mia. Mi sarei sentito troppo in imbarazzo. E anche se ormai la conoscevo bene, erano anni che non restavo da solo con una donna in casa.
Ma avevo bisogno di un luogo familiare, un luogo che mi desse sicurezza. Il solo pensiero di doverla incontrare in un posto aperto, pieno di persone, mi faceva mancare l’aria. Decisi quindi di optare per un parco londinese che conoscevo bene da anni.
Nel nostro ultimo messaggio online ci scambiammo i numeri di telefono per poterci trovare facilmente.
“Io indosserò una sciarpa blu e un cappotto scuro. Le mie foto le hai viste, quindi sai come sono fisicamente. Spero non avrai difficoltà a trovarmi” mi scrisse.
Non avrei avuto difficoltà a trovarla tra tutta quella gente, ne ero sicuro. L’avrei riconosciuta tra tutti gli abitanti di Londra.
Le dissi che io avrei indossato una camicia color rosso porpora, una giacca nera e un paio di jeans.
 
La notte prima del nostro appuntamento sognai che ero un bambino nudo al centro di una mansarda. Sentivo dentro di me che quella era la mia casa, abitavo da sempre in quella mia piccola mansarda. Era vuota, oltre a me non c’era nulla, eppure mi dava l’idea che fosse pulita, ordinata e curata. Stavo aspettando qualcuno, ma non riuscivo a capire bene chi fosse. Sentivo che lo aspettavo da tanto tempo e che mi aveva raccomandato di rimanere lì perché sarebbe tornato a prendermi. Ma nonostante tutto l’impegno che ci mettessi per ricordare, non riuscivo a capire chi stessi aspettando. Improvvisamente, sentii un rumore e la porta della mansarda si aprì. Entrò immediatamente una fortissima luce e notai, con gli occhi socchiusi, una figura alta e rassicurante che mi guardava dall’uscio. Ero disperato, perché non capivo chi fosse, volevo saperlo. Sentivo di essere felice per il ritorno di quella persona, ma dentro di me il dubbio, che non riusciva a farmi mettere a fuoco quella figura avvolta dalla luce, mi dilaniava.
 
Il giorno del nostro appuntamento mi sedetti su una panchina del parco, nel punto in cui avevamo deciso di incontrarci.
Ero in anticipo e, mentre la aspettavo, notai che alcune persone, passando davanti a me, si giravano a guardarmi. Due di loro, in particolare, mi osservarono un attimo, si guardarono tra di loro e uno sussurrò all’altro qualcosa. Riuscii solo a capire: “… quello che si vedeva sui giornali qualche anno fa, insieme al tipo con il cappello strano e i capelli ricci…”. L’altro mi lanciò un’occhiata credendo che non lo stessi guardando, poi fece un cenno di dissenso all’amico e gli rispose che si stava sbagliando.
Poi arrivò Mary. La notai avvicinarsi alla panchina a passo svelto, con la sciarpa e il cappotto che mi aveva descritto e i suoi lunghi capelli biondi che contornavano gli occhi cangianti. Notai le sue gote arrossate dal freddo e risaltate da un bellissimo sorriso che le illuminava il volto.
Mi alzai per salutarla e ci demmo un bacio sulla guancia insieme ad un forte abbraccio.
Eravamo entrambi visibilmente emozionati e impacciati come succede tra adolescenti.
Camminammo nel parco sorseggiando del caffè bollente e chiacchierando del più e del meno, come facevamo di solito. Mi sorprendeva come riuscissi a trovare tante cose della mia vita da raccontare e, ancora di più, di quanto lei ne fosse interessata.
Senza che ce ne rendessimo conto, passammo l’intera giornata a passeggiare per le vie di Londra.
Quando si fece sera decisi di accompagnarla a casa. Eravamo arrivati davanti alla porta, quando lei mi disse:
- Ho passato davvero una bella giornata, ti ringrazio. Mi ha fatto piacere vederti di persona. Ti confesso che era da tanto che mi sarebbe piaciuto incontrarti.
Ero stordito dai mille pensieri che si sovrapponevano nella mia mente e li sentivo urlare dentro di me. Ma dalla mia bocca semiaperta non usciva nulla.
- Buonanotte, John - Disse lei con il suo solito, bellissimo sorriso.
Ci avvicinammo l’uno all’altro per abbracciarci. Ci demmo un paio di baci sulla guancia e rimanemmo per qualche secondo con i nostri visi l’uno vicino all’altro, perdendoci nel reciproco respiro.
Ci staccammo e sussurrai:
- Buonanotte, Mary.
Scesi i pochi gradini che portavano al marciapiede e cercai un taxi per tornare al mio appartamento. Non sono mai riuscito a chiamarlo “casa”, perché “casa” è dove si lascia il proprio cuore, e il mio non era di certo in quel bilocale. Forse era caduto da un palazzo tre anni prima, ma non riuscivo ancora a capire se fosse morto o, almeno lui, si fosse salvato.
 
Non ero pronto per una relazione. Non quel giorno, per lo meno.
La prima sera che Mary ed io ci vedemmo la accompagnai fino alla sua porta. Dopo una settimana riuscii ad arrivare al suo letto. Mi sembrava impossibile che tutto ciò stesse capitando davvero a me. A fatica riuscivo a capire cosa stesse realmente capitando.
Accadde per qualche sera, e quasi sempre tornavo al mio appartamento. Entravo, chiudevo la porta e aprivo istintivamente la bocca, come per salutare qualcuno, ma mi fermavo. Poi guardavo in alto, verso la mansarda. Anche dopo tre anni.
 
Mary ed io ci frequentammo un’altra settimana prima che lei mi chiedesse di venire a casa mia.
Ero pronto a farla entrare? Sì, credo di sì.
Indossava un paio di jeans aderenti e una larga maglietta di un lillà che stava benissimo con i suoi capelli dorati. Suonò al campanello del mio appartamento ed io, dopo aver dato un’ultima occhiata veloce in giro, aprii la porta per farla entrare.
Si complimentò subito per il bel posto.
- È proprio come me l’ero sempre immaginato - Disse.
Mi chiese talmente tanti dettagli riguardo a cosa facevo e dove abitavo che mi sarebbe sembrata quasi un’offesa se lei avesse detto il contrario.
Avevamo organizzato la serata in modo da guardare un film a casa mia mangiando qualcosa. Mary si sedette sul divano.
Io portai in salotto un vassoio, sul quale avevo disposto in precedenza una teiera e due tazze di the caldo, insieme ad un piccolo contenitore per lo zucchero.
Mi sedetti sul divano, accanto a Mary, voltandomi verso il piccolo comodino alla mia sinistra su cui avevo riposto il vassoio.
In quel momento sentii qualcosa di strano alle mie spalle. Era Mary che piangeva. Aveva iniziato con alcune piccole lacrime per arrivare poi a scoppiare a piangere.
Le appoggiai una mano sulla schiena, mentre lei si copriva il viso e si sfregava in continuazione gli occhi rossi.
- Ehi, che succede? - Le sussurrai preoccupato.
- Perdonami, John… P- perdonami. Sono una persona orribile.
- Ma che stai dicendo, Mary? Non devi neanche pensare a cose del genere… Vuoi dirmi perché piangi?
- Non posso più vivere con questo peso… - Disse lei scuotendo la testa.
- Dimmi cos’è che non va, Mary… Di che peso stai parlando?
Mary portò le mani alle ginocchia e strinse forte i suoi jeans. Cercava di trattenere le lacrime, si mordeva le labbra e si perdeva in profondi respiri spezzati dal pianto.
Io mi staccai da lei dopo averle dato delle lunghe carezze sulla schiena. La fissai, facendole capire che ero pronto ad ascoltarla, e che niente me lo avrebbe impedito.
Lei mi lanciò un fugace sguardo, quasi avesse paura di ciò che stava per dirmi. Poi, dopo un ultimo respiro, disse:
- Sherlock Holmes è vivo.
Quelle quattro parole mi colpirono dritte nel petto e fecero risvegliare il mio cuore dal suo lungo coma. Ma subito dopo mi resi conto che quelle quattro parole, per quanto importanti come può esserlo un respiro dopo un’apnea, non erano abbastanza.
- Ma che cosa stai dicendo? - Sussurrai con lo sguardo perso.
- Mi dispiace tanto, so che avrei dovuto dirtelo molto prima… - Continuò lei.
- Ma tu che ne sai di Sherlock? - Le gridai alzandomi in piedi.
Rimasi un attimo intontito da quella parola così familiare. Sherlock… Era da tanto che non la pronunciavo.
Iniziai a sentirmi male, misi una mano tra i capelli in segno di ansia.
- Tu che ne sai? - Ripetei.
- Quando si è buttato dall’ospedale… - Disse Mary - non è morto davvero. Non so come abbia fatto, so solo che aveva un piano. Dopo qualche giorno da quell’episodio mi ha contattata tramite uno dei suoi amici senzatetto londinesi, poi abbiamo iniziato a scambiarci delle e-mail. Lui mi ha… mi ha pagata per starti vicino. Ha viaggiato per l’Europa durante questi ultimi tre anni, non so bene per quale motivo. Mi faceva avere dei soldi e io in cambio avrei dovuto scriverti e farti compagnia, perché mi diceva che sapeva che ti saresti sentito solo, ma non voleva farsi scoprire da gente che già lo conosceva. Ero io a scriverti quei messaggi al computer, però lui mi spiegava esattamente cosa dovevo domandarti, cosa voleva sapere di te, delle tue giornate, del tuo nuovo lavoro, della tua nuova vita. Poi io mandavo le tue risposte a lui, e questa cosa andò avanti per un po’ di tempo. Ma ad un certo punto mi chiese di non mandargli più le nostre conversazioni. Non mi spiegò esattamente perché, mi disse solo che non voleva più leggerle. Come aveva detto?... “Non ci riesco”, ecco cos’aveva detto. Però si faceva comunque sentire e mi chiedeva come stavi. Non so perché ha fatto quello che ha fatto, ma credimi: io ad un certo punto non volevo più farlo per soldi, te lo giuro, non è una questione economica… Io ti voglio bene, John, dico sul serio. Mi dispiace.
- Perché me l’hai detto soltanto adesso? - Sussurrai con un filo di voce impregnata di apatia.
Lei teneva lo sguardo fisso a terra senza rispondere.
- Perché, Mary? - Gridai - Non credere che sia così stupido da pensare che tu non me l’abbia detto adesso per un motivo preciso! Dimmelo!
Mary fece un ennesimo profondo respiro.
- Lui… è tornato qui, a Londra.
Eccolo, un altro colpo al cuore. Eppure sentivo che non si era ancora del tutto risvegliato.
Senza che mi diede il tempo di dire qualcosa, Mary continuò:
- Due mesi fa mi disse che gli avevano diagnosticato un tumore ad un polmone. So solo che gli rimane poco tempo, a questo punto credo sia questione di giorni. Qualche giorno fa mi fece sapere che oggi sarebbe venuto a Londra per salutare qualcuno… Mi disse dei nomi. Non me li ricordo tutti, solo “Mrs. Hudson”, non so chi sia. Ma mi pregò di non farti sapere nulla: tu lo credevi morto e lui non aveva intenzione di farti sapere non solo che era vivo ma che sarebbe morto sul serio. Sapeva che sarebbe stato un trama troppo forte per te.
Iniziavo a sentire gli occhi farsi gonfi e le lacrime chiedevano di uscire.
- E allora perché me l’hai detto? - Gridai.
- Perché da quando ci siamo incontrati non riesco a guardarti negli occhi senza pensare a questo orribile peso che ho dentro! Non potevo non dirtelo, John! Non sai quanto ho pianto per te.
- Immagino, Mary - Dissi con voce tranquilla - Ti sarai asciugata il naso con i soldi che ti sei guadagnata portandomi a letto.
- Non dire così, John! - Urlò lei - Io ci tengo a te!
Ma io ormai non sentivo più nulla. I rumori del mondo, la vita stessa mi sembrava troppo insignificante rispetto a ciò che dovevo fare.
Afferrai in fretta il mio giubbotto nero, aprii la porta dell’appartamento e corsi fuori.
Iniziai a correre il più velocemente possibile, senza badare a chi o a cosa potessi trovarmi davanti.
Girai angoli, attraversai strade, scansai persone, fino a quando non raggiunsi Baker Street.
Ero in mezzo alla strada. Davanti a me il 221B. Stavo ancora respirando affannosamente e con le gambe tremanti quando vidi la porta aprirsi. Uscì un uomo alto e robusto, con un elegante completo nero e una camicia viola, la sua camicia viola, i capelli scuri e ricci un po’ tagliati da come me li ricordavo, il viso più abbronzato ma con i soliti lineamenti marcati.
Sherlock chiuse la porta e si girò esattamente verso di me. Nonostante la lontananza, riuscii a notare la luce nei suoi occhi e l’espressione sorpresa sul suo viso quando mi vide. La mia non era diversa.
Sentivo un tamburo dentro di me. Forse era il mio cuore. Finalmente si era svegliato.
Sherlock rimase immobile a guardarmi come un ladro colto in flagranza.
Anche io non riuscii a muovermi. Non riuscivo a capire se ciò che sentivo dentro fosse felicità o rabbia.
- Sherlock!!! - Gridai a pieni polmoni.
Mi preparai a correre verso di lui, senza voler trovare più nulla che me lo impedisse.
Ma riuscii a fare un passo, uno soltanto. Poi un rumore forte, e cadde il buio.
 
Avevo appena aperto gli occhi che già una forte luce metallica mi abbagliava la vista. Una volta messa a fuoco la lampada a neon sopra di me girai lentamente il viso a destra e a sinistra per capire dove mi trovassi.
L’odore che sentivo nell’aria, gli oggetti e i rumori mi erano familiari, eppure non mi sentivo del tutto tranquillo.
Una forte luce pomeridiana penetrava dalla finestra e le tende bianche ondeggiavano lievemente.
Alla mia sinistra, vicino ad un tavolino con dei fiori e dei blister di medicinali, notai l’asta che reggeva la flebo e seguii il lungo e sottile cordoncino di plastica che andava a finire nel mio braccio sinistro.
Indossavo un leggero pigiama bianco, così come bianche erano le coperte che mi avvolgevano le gambe.
Quando ripresi perfettamente i sensi percepii qualcosa alla mia mano destra. Mi girai e vidi Sherlock che la stringeva e vi ci aveva appoggiato sopra la testa, addormentato chissà da quanto. Riuscivo a vedere soltanto la sua folta chioma riccia. Era seduto su una sedia di legno, alla destra del letto.
Sentivo le voci delle infermiere nel corridoio e i passi lenti dei pazienti.
Improvvisamente, Sherlock iniziò a muovere la testa e poi alzò lentamente il viso verso di me.
Quando mi notò sveglio fece sparire la sua espressione tesa e assonnata scuotendo la testa e mi lasciò la mano per sfregarsi  velocemente gli occhi rossi e lucidi.
- Ben tornato, John - Mi disse - Sono lieto di vedere che ti sei un po’ ripreso. Non sei cambiato dall’ultima volta che ci siamo visti.
Mi scappò un sorriso e cercai di nasconderglielo voltandomi dall’altra parte. Entrambi sapevamo bene che da tre anni a quella parte avevo decisamente perso dei chili e mi ero trascurato.
- Sembra ieri, Sherlock - Sussurrai con lo sguardo fisso verso la finestra - Eppure sono passati tre anni.
- Mi dispiace, John - Sussurrò lui - Ho avuto molto da fare. Non avevo idea che sarei dovuto restar via così tanto.
- Certo, e per farmi sapere che saresti dovuto andar via per un po’… hai finto di morire buttandoti da un palazzo.
- Ti ripeto, John: mi dispiace. Avevo intenzione di ritornare il prima possibile, ma poi c’è stato un… un imprevisto. Non avresti dovuto rivedermi, non secondo il mio piano.
- E sentiamo, quale sarebbe il tuo piano? Far sapere a tutta Londra che stai per morire di tumore tranne che a me? Era questo il tuo geniale piano? - Gli dissi alzando la voce e girandomi per guardarlo.
Ma lui teneva lo sguardo spento e in basso.
- Sì, più o meno. Vedevo che Mary stava facendo un buon lavoro, allora le chiesi di… trattenerti nel tuo nuovo appartamento, così che io potessi salutare alcune persone. Speravo di potermi fidare di lei… ma è una brava ragazza. Mi ha pregato di dirti che sarà qui tra qualche ora.
Tornai a ridere.
- Da quanto tempo sono qui? - Chiesi per cambiare discorso.
- Hai dormito per quasi tre giorni.
- E cosa mi è successo?
- Quando mi hai visto a Baker Street… eri proprio in mezzo alla strada… Senza che nessuno se ne rendesse conto in tempo una macchina ti ha investito e sei svenuto sul colpo.
Nonostante stessimo parlando di me, in quel momento avevo un’altra cosa per la testa:
- Un tumore al polmone… - Gli sussurrai guardandolo - Si vede che non c’ero più io a tenerti nascoste le sigarette. Sono stato lontano da te tre anni e ti sei beccato un tumore al polmone. Se avessimo aspettato un altro anno che sarebbe successo, Sherlock? Saresti morto?
Lui mi guardò negli occhi e un leggero movimento delle labbra mi fece capire che stava sorridendo. Eppure non c’era felicità sul suo viso.
- Credo che per quello bastino tre anni. Ormai ho perso il conto del tempo che mi rimane da vivere. Il tumore è diventato peggio di quanto ci si potesse aspettare. Ma John, nonostante io non avessi programmato di dirtelo, ora che siamo qui immagino sia giusto che tu lo sappia: non ho intenzione di morire per questo tumore. Voglio farlo a modo mio, quando e dove preferisco.
- Che intendi dire, Sherlock? - Chiesi con un filo di voce.
- Credo tu abbia capito, John. Oggi è l’ultima volta che ci vediamo, e questa volta per davvero.
Mi morsi le labbra e serrai gli occhi come per scacciare via disgustato l’immagine che Sherlock mi aveva proposto.
Volevo mettermi seduto, allora cercai di alzarmi facendo leva con le gambe e con le braccia, ma non ci riuscii. Guardai il mio corpo con gli occhi sgranati.
- Sherlock… Non riesco a muovere le gambe.
Sherlock guardava in basso senza riuscire ad incontrare il mio sguardo, quasi come se la causa fosse lui e se ne vergognasse. La mia voce e la mia espressione pacate nascondevano a fatica una grande preoccupazione. Preoccupazione che, come molte altre cose, Sherlock riusciva benissimo ad intuire.
- Basta segreti, Sherlock. Dimmi tutto ciò che sai, me lo devi.
Sherlock rimase un attimo in silenzio.
- Dopo alcuni controlli - Disse poi con voce pacata - I dottori hanno detto che, a causa dell’incidente, hai perso in modo permanente l’uso delle gambe. Speravano di riuscire ad operarle, ma stamattina hanno confermato che non c’è niente da fare.
Spostai un’altra volta la testa verso la finestra, illudendomi di riuscire a nascondere a Sherlock il mio ironico sorriso e le mie lacrime.
Permanente. La guerra, Sherlock, il 221B, Mary, il mio isolamento dal mondo. Nulla nella mia vita era mai stato permanente, nemmeno ciò che desideravo lo fosse. E non avevo intenzione di iniziare adesso.
- Sherlock, io non voglio… io voglio ancora camminare. Io devo ancora camminare.
- Io voglio ancora vivere, John. Siamo sulla stessa barca, ma non possiamo scendere, è inutile disperarsi.
- E invece non siamo sulla stessa barca, Sherlock! Tu morirai, non avrai più alcun problema, alcuna preoccupazione! Io intanto vivrò il resto della mia vita senza… senza gambe! Mi spieghi come farò ad andare avanti da solo?
- Avrai Mary.
- Ma io non voglio Mary!
Ci guardammo per un attimo negli occhi, senza parlare. Poi lui abbassò lo sguardo e mosse una mano verso le mie gambe, ma si fermò subito.
- È colpa mia - Sussurrò - Non sarei mai dovuto tornare a Londra, perdonami. Addio, John.
Sherlock si alzò dalla sedia.
- No, Sherlock! - Gli gridai deciso - Non te lo permetterò una seconda volta! Ora non sei in cima ad un palazzo, ora posso fermarti!
Non era vero. Non avrei potuto fermarlo, e non solo perché non sarei stato fisicamente in grado di alzarmi da quel letto e afferrarlo per un braccio, ma anche perché entrambi sapevamo che è impossibile far cambiare idea a Sherlock Holmes, per quanto stupida possa essere.
Mi arresi.
- Quando hai intenzione di…?
Lui si era girato di spalle, il viso verso la porta della stanza.
- Il mio piano originario era di farlo tre giorni fa. Ma ora, dopo aver constatato che stai bene, posso… posso andarmene.
- Ma io non sto bene, Sherlock! - Gli gridai - Non sono stato bene in questi tre anni e non starò bene nemmeno… dopo.
Mentre discutevamo, nella mia testa si formava un disegno, un’idea, una pazzia.
- Hai già deciso come farlo? - Gli chiesi tranquillo.
Lui, sempre di spalle, infilò una mano nella tasca dei pantaloni e mi mostrò due pillole bianche.
- Un amico chimico tedesco mi ha detto che, con una di queste, potrò morire entro dieci minuti al massimo, e non me ne accorgerò nemmeno. Per sicurezza, nel caso una l’avessi perduta, ne ho prese due.
- Una sola basterebbe, però…? - Gli chiesi.
- Sì… - Rispose Sherlock senza riuscire a capirmi fino in fondo.
- Allora, Sherlock… Se davvero stai per morire promettimi una cosa, una soltanto.
- Qualunque cosa, John.
- Aiutami a decidere della mia vita, così come vuoi fare tu. Voglio essere io a decidere cosa dev’essere permanente.
Sherlock non disse una parola. Si girò verso di me e mi guardò negli occhi. Una delle cose che mi piacevano di Sherlock era che, qualunque cosa ci fosse da dire, non avremmo dovuto farlo esplicitamente: lui mi avrebbe capito. Noi ci saremmo capiti.
- No, John. Questo non posso farlo.
- Per favore, Sherlock, è l’ultima cosa che ti chiedo. Me lo devi, dopo questi tre anni. Se te ne è mai fregato qualcosa, questo è il modo per farti perdonare.
Ci fu un attimo di silenzio, in cui lasciai Sherlock riflettere.
- Sei davvero sicuro di volerlo fare? - Mi sussurrò con una voce triste.
- Sì, Sherlock.
 
Nonostante fosse pieno pomeriggio e la giornata fosse bellissima, il cortile dell’ospedale era vuoto. Meglio così: non ci avrebbe visti nessuno.
Sherlock riuscì a procurarmi una sedia a rotelle. I medici mi avevano riconfermato la mia situazione con la loro comune espressione assente e distaccata, come se fosse tutto normale, tutto tranquillo. Erano convinti che un paio di “Siamo addolorati” e qualche “Abbia forza” bastassero. Ma le mie gambe rimanevano immobili. E davanti a quella scenetta vidi me stesso con il camicie bianco e la cartelletta sottobraccio, e mi domandai quante volte avessi usato con i miei pazienti la stessa orribile espressione distaccata che quei medici stavano usando con me.
Percorremmo il cortile, pieno di distese di erba e alti alberi robusti, senza dire una parola. Mi pentii un po’ di aver scelto di indossare i jeans con una camicia blu scuro e un maglioncino senza maniche nero in una giornata così calda. All’inizio Sherlock cercò di spingermi da dietro, ma io lo fermai, dicendogli che preferivo fare da solo. Sentirmi un malato bisognoso di assistenza era l’ultima cosa che volevo.
Superammo molte delle panchine in pietra bianca poste lungo la stradina in ghiaia fine, ma ad un certo punto Sherlock si fermò ad una di quelle, facendomi capire che aveva intenzione di sedersi.
- Aiutami  - Gli sussurrai con le braccia aperte.
Ma lui era già vicino a me, con un suo braccio che mi manteneva da dietro e un altro che mi aiutava ad alzarmi dalla sedia a rotelle. Ci sedemmo insieme sulla panchina, rimanendo un attimo in silenzio a contemplare la calma e la pace che quel luogo riusciva a trasmettere.
- Benché con qualche… intoppo - Iniziò lui - Tu sei sopravvissuto alla guerra, John. Sei davvero sicuro di non riuscire ad affrontare anche questo nuovo problema? C’è tanta gente che non può… camminare. Sono certo che troveresti qualcuno pronto ad aiutarti.
- Nessuno sarebbe in grado di aiutarmi - Risposi - Sarei solo… così come lo sono stato in questi ultimi tre anni.
- Mi dispiace, John. Spero riuscirai a perdonarmi.
- L’ho già fatto, Sherlock. Ma cancellare una colpa non implica necessariamente riuscire a cancellare anche dei ricordi.
Seguì un attimo di silenzio, come se Sherlock avesse bisogno di tempo per continuare.
- Dimmi la verità… Ti è piaciuto avere Mary accanto in questi anni?
- Mi piaceva sapere che c’era qualcuno, da qualche parte, che voleva sapere come stavo, cosa mangiavo, cosa facevo e dove andavo - Gli dissi sorridendogli.
Lui abbassò il viso ricambiando. Poi divenne serio.
- Vuoi davvero morire, John?
- No. Ma non voglio nemmeno che muoia tu, Sherlock.
- Ma non sarebbe la stessa cosa.
- Per esperienza, Sherlock, posso assicurarti che invece sarebbe esattamente la stessa cosa.
- Questa volta sarà per sempre. Nessun segreto, nessun imbroglio, nessun ritorno.
- È proprio per questo che voglio prendere quella pillola.
Ci guardammo negli occhi, seri ma non del tutto sicuri. I nostri sguardi cercavano di infondersi sicurezza a vicenda.
Sherlock tirò fuori dalla tasca dei pantaloni le due pillole bianche e ne mise una sulla mia mano che gli stavo porgendo. Senza pensarci, appena lui appoggiò la pillola la mia mano si chiuse intorno alla sua. Tremavano entrambe. Ci guardammo ancora negli occhi, sperando un’ennesima volta che bastasse a cacciar via la paura.
Entrambi stavamo osservando le nostre rispettive pillole.
- Prima io - Sussurrai.
- No - Mi fermò lui. Lo guardai senza capire e lui solo dopo qualche secondo mi spiegò - Non voglio morire dopo di te e dover vederti soffrire. Dobbiamo farlo insieme.
- D’accordo.
Dopo un ultimo sguardo alle pillole, le ingoiammo.
Fu questione di un attimo, apparentemente non era cambiato nulla. Se in quel momento fosse passato qualcuno non avrebbe mai capito che stava guardando due persone che sarebbero morte entro dieci minuti.
Mi chiesi a cosa potessi dedicare i miei ultimi sguardi. Sicuramente nel cortile di un ospedale non potevo pretendere molto, ma quel poco che avevo mi bastava. Seguii con lo sguardo le foglie degli alberi muoversi al vento, alzai la testa verso il cielo azzurro e il Sole accecante, poi guardai Sherlock. Lui aveva lo sguardo fisso davanti a sé.
Chiusi gli occhi e cercai di rilassarmi.
- John… - Sentii che mi sussurrava - Anche tu inizi a sentirti… strano?
- Sì, Sherlock. Ma non è l’effetto della pillola.
- E che cos’è?
- È paura.
Bastò un leggero movimento della mia mano sinistra, appoggiata sulla panchina, per trovare la mano di Sherlock. E lui la afferrò subito, senza indugi. Non riuscivo a capire se anche lui avesse gli occhi chiusi, ma entrambi avevamo bisogno di sentirci, di far sapere l’uno all’altro che c’eravamo ancora.
Dopo un attimo di silenzio, Sherlock continuò a parlare, come per assicurarsi che lui, io oppure entrambi fossimo ancora vivi:
- Cosa credi che ci sia… dopo?
- Non ne ho idea, Sherlock. Ci ho pensato molto, tre anni fa, e speravo solo che, ovunque tu potessi essere, fossi felice.
- Allora forse sono già morto.
Chinandomi lentamente di lato, appoggiai la mia testa sulla sua spalla, percependo il suo profumo e i suoi muscoli. Improvvisamente mi venne da sorridere.
- Sento il tuo violino, Sherlock…
- Che cosa?
- Lo sento nella mia testa. Sento la musica del tuo violino, come se stessi suonando.
- Ma io non ho qui il mio violino.
- Suona per me, Sherlock. Fammi sentire che ci sei ancora.
Sherlock iniziò a fischiare. Non era proprio come un violino, ma riusciva a comporre una bellissima melodia che mi faceva addormentare con il sorriso stampato in faccia.
Ad un certo punto, sentii Sherlock colto da un sussulto e la sua mano strinse la mia.
- John!
- Sì?
- … Ci sei ancora?
- Sì, Sherlock.
- Dimmelo quando te ne vai.
- E come faccio?
- … Fischia. Fischia insieme a me, John. Anche io ho bisogno della tua musica.
Iniziai ad emettere alcuni suoni a caso, finché riuscii a fischiare componendo una melodia che, nelle nostre teste, poteva essere un violino, un flauto, qualunque cosa. Riuscivo a vedere, nel buio dei miei occhi chiusi, la luce delle due scie, la mia melodia e quella di Sherlock, che si rincorrevano, si abbracciavano e si lasciavano cadere insieme lentamente nel buio.
 




   
 
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