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Autore: Sunshine Shadow    23/05/2012    0 recensioni
Mia long sui 49° Hunger Games. I personaggi sono completamente inventati, scordatevi dei - cari - Katniss e Peeta.
Spero che vi piaccia e... possa la fortuna sempre essere a vostro favore!
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La Mietitura.




Mi rigirai sudata nel letto.
Le coperte erano a terra, il mio volto completamente sudato. Mi svegliai di colpo, con gli occhi sbarrati, e la bocca spalancata, come se respirare fosse la mia prima priorità. Come se non avessi potuto più farlo dopo quella volta. Espirai e inspirai profondamente, tentando di calmarmi. Scavai sotto il cuscino, e trovai un piccolo fazzoletto di stoffa pulito. Lo presi a fatica, accorgendomi che le mie mani tremavano a più non posso. Tamponai la fronte, poi le guance. Il piccolo pezzo di stoffa era già fradicio, così decisi di alzarmi e prenderne un altro, sempre se ce ne fosse stato uno.
Cercai a tentoni i miei stivali da cavallerizza a terra. Eravamo troppo poveri per comprare delle pantofole, o almeno delle scarpe normali, così indossavamo quegli stivaletti sempre e ovunque. Li afferrai tra le dita che ancora palpitavano, e li indossai. Sentii subito la familiare pelliccia interna accogliere il piede. Mi alzai traballante, e mi diressi verso la cucina, se così potesse essere definita. La 'cucina' di casa mia era un semplice piano da cottura con un fornello, e un tavolo abbandonato al muro per mangiare. Niente di che, insomma.
Controllai il disordinato piano del tavolo: c'erano soprattutto funi, lazi e corde di ogni genere. Qua e là si notava qualche freccia spezzata in due, oppure un'ascia dalla lama completamente arrotondata. Iniziavo a sentire molto caldo. Lanciai in aria qualsiasi cosa si trovasse su quella superificie ruvida e marcia. Sollevai la freccia con rabbia, e nel farlo mi tagliai la falangetta dell'indice. Non me ne curai molto. In quel momento il mio obiettivo era soltanto quello di trovare un maledetto pezzo di carta con cui asciugarmi.
Non capivo bene come mai fossi così tesa. Certo, era il giorno della Mietitura, ma avrei potuto essere stressata solo se fosse stato il primo anno. Ormai era il mio terzo. Il mio nome compariva solamente tre volte, contro, per esempio, le venticinque del mio migliore amico, Christopher. Era una ragazzo alto e snello, con i capelli castani ramati e gli occhi color nocciola, le tipiche caratteristiche del Distretto 10.
Le mie poche tessere erano merito suo. Mi aveva sempre covninto a non farne uso, anche se io pensavo di averne un essenziale bisogno. Mi insegnò ad allevare gli animali, a ferrare i cavalli, a mungere le mucche e le capre, a cavalcare. Imparando tutto questo ero riuscita a trovarmi un piccolo impiego nella fattoria del Sindaco del mio Distretto, il signor Cander, che mi pagava abbastanza da arrivare, anche se con qualche aiuto vendendo le prede della caccia, a fine mese. Ero figlia unica, ma avevo entrambi i genitori da sfamare: mio padre era bloccato a letto ormai da sei anni per una strana forma di paralisi, che io ero sicura che quelli di Capitol City avrebbero potuto curare, se solo non costasse così tanto; mia madre invece aveva lavorato, fino a quando papà non ebbe l'incidente con quel maledetto cavallo. Da allora resta a casa e si prende cura di lui ventiquattr'ore su ventiquattro. Date le circostanze io dovetti arrangiarmi già dall'età di dieci anni, sempre con l'aiuto di Christopher, che nonostante la mia tenera età iniziò a portarmi con lui, senza mai pensare nemmeno per un attimo che potessi essergli d'intralcio.
Passai la mano sui bordi del tavolo e, in un cassetto che non era molto visibile, trovai un pezzo di Papirum, delle foglie assorbenti che si trovavano solo nei Distretti 9 e 10. Ne afferrai un paio, e le appoggiai sulla guancia e s
ulla fronte. Un senso di freschezza mi percorse all'istante il viso. Aprii un altra credenza, ed estrassi un piccolo pentolino, con il fondo decisamente consumato. Lo riempii d'acqua e lo appoggiai sulle ceneri del camino. Nell'attesa che bollisse, presi anche dello zucchero e delle foglie di camomilla. Misi nell'acqua ancora fredda mezzo cucchiaino di zucchero (ne avevamo molto poco, qui nel 10) e invece abbondai di camomilla, che era coltivata in abbondanza da Malù, la 'cestinara', come la chiamavano noi.
Malù era una donna anziana e minuta, ma quando lavorava i sottili rami di vite, le sua mani si muovevano ad una velocità impressionante. Secondo Capitol City era una vecchia disoccupata che creava cestini, ma lei in realtà curava un piccolo orto dietro la sua casa, dove coltivava piante medicinali e curative, che vendeva a Holystar, il farmacista di città. Aveva anche un discreto giro di affari alla Fogna, la piazza principale del Distretto, sede in pratica del mercato nero, come in tutti i Distretti poveri.
Mi accuattai di fronte al fuoco, con le ginocchia rannicchiate al petto, dondolandomi avanti e indietro, gli occhi fissi su quel lieve bagliore rossastro prodotto dalla cenere. Dopo un po' di tempo vidi le prime bollicine affiorare in superficie. Tolsi il pentolino dal fuoco, misi sul tavolo un panno per non bruciare il legno, e vi adagiai sopra il pentolino, aspettando che l'acqua si tingesse del tipico colore giallo della camomilla. L'aroma calmante della pianta era già nell'aria, ma il liquido era ancora trasparente. Presi il cucchiaio che avevo usato per dosare lo zucchero, e mescolai.
Che sciocca, come potrei mai essere chiamata per la Mietitura? mi ritrovai a pensare, mentre mischiavo la tisana. Qui nel 10 siamo tantissimi, e io sono tra quelle che ha meno tessere in assoluto. Non posso uscire proprio io.
Quando scacciai dalla testa quei pensieri, mi accorsi che giravo il cucchiaino freneticamente. Ero evidentemente stressata. Sbirciai il contenuto del pentolino, e, anche se ancora non era perfettamente giallognolo, decisi che era pronto. Afferrai una tazza dalla credenza, e vi versai dentro la tisana fumante. Lasciai tutto sul tavolo, senza nemmeno affannarmi a mettere le cose che avevo usato nel lavandino, e mi trascinai in camera.
Arrivata di fronte alla porta della mia camera (un piccolo soppalco al quale si accedeva da una rampa di scale davanti all'ingresso), notai subito che era socchiusa.
L'avevo lasciata aperta... ricordai. Ma non mi soffermai troppo su quel pensiero, anche perchè probabilmente mi stavo sbagliando.
La aprii, sentendo il familiare cigolio dei cardini vecchissimi. Poi un colpo di aria fredda mi investì in piena faccia. Guardai la finestra spalancata, senza tende. In un attimo capii. Spostai lo sguardo sul letto, e notai una figura slanciata, leggermente ingobbita dal pesante lavoro.
- Chris. - bisbigliai. - Sempre alla solita maniera, eh? - Il mio migliore amico aveva l'abitudine di entrare in camera mia, nel cuore della notte, o se era particolarmente felice, o se aveva un grosso problema. Viste le circostanze, optai per la seconda scelta.
- Tra qualche ora saremo alla Mietitura. - disse gelido, tenendo gli occhi puntati sulla piccola sveglia che avevo sul comodino. Guardai per la prima volta l'ora, e mi accorsi che erano le cinque e mezza di mattina.
Annuii, sospirando, senza dire una parola.
- Andrà bene. - aggiunse lui. Io lo fissai un po', cercando di capire se la sua era una domanda o un'affermazione. Probabilmente entrambe.
- Beh, sì, immagino... - sussurrai poco convinta. Il fatto era che non volevo rivelargli che era seriamente preoccupata per le sue venticinque tessere, e che le probabilità che venisse estratto erano davvero alte. Feci bene a non parlare, perchè lui aggirò immediatamente l'argomento 'Mietitura'.
- Andiamo a cavalcare? - chiese, tentando di abbozzare un sorriso.
- Certo. - risposi io, felice di cambiare argomento. - Sono già pronta tanto, dammi solo il tempo di bere la ti... - non finii la frase, perchè mi resi conto che la tazza tra le mie dita era diventata fredda. - Okay, niente tisana. Possiamo andare. - terminai, scrollando le spalle.
Consiglio spassionato se avete un cavallo e siete stressati: cavalcate. Non c'è niente che possa sfogare di più che una bella corsa mattutina, quando ancora nelle strade non c'è nessuno. Il vento fresco tra i capelli, quel brivido che ti percorre continuamente la nuca... semplicemente unico.
Io e Christopher cavalcammo per almeno due ore, senza sosta. Prima andammo avanti e indietro per le strade della città, in modo da far scaldare i cavalli per la vera corsa, nei boschi. Nei sentieri tortuosi della foresta erano in pochi quelli che non si perdevano. Chris e io eravamo tra quei pochi. Conoscevamo in pratica a memoria scorciatoia, anche le più improbabili e rischiose. Anzi, quelle difficili erano le nostre preferite. Sfrecciammo per parecchio tempo tra le fronde degli alberi e i mille colori che la natura ancora riusciva a offrirci.
Quando arrivammo al nostro luogo preferito - il 'Girasole, lo chiamavamo noi -, decidemmo di fermarci, anche perchè i cavalli ansimavano pesantemente. Smontai dalla sella, e lasciai libero Blackie, il mio cavallo nero, di bere al ruscello. Nel frattempo io e Christopher ci sdraiammo a terra, uno di fianco all'altra, invisibili a chiunque sarebbe passato da quelle parti, perchè eravamo interamente coperti da girasoli che, non so in che modo, in quel luogo fiorivano tutto l'anno. Rimanemmo per un po' così, in silenzio, a sentire il costante cinguettio degli uccelli, il mormorio delle cicale e il sospiro del vento. Questi tre suoni, se presi separatamente, potevano essere monotoni. Ma se ci si concentrava, nel complesso formavano una melodia dolce e candida. Sembrava di stare in Paradiso.
- Tu non hai paura, Sumpf? - mi chiese Chris, rompendo quel meraviglioso silenzio e riportandomi alla realtà.
Con i raggi del sole che mi scaldavano il viso e quel concerto della natura che assomigliava molto ad una ninna nanna, ero quasi sul punto di addormentarmi. Mi decisi a rispondere, invece che tornare a dormire, solo perchè mi aveva chiamata per nome. Lo detestavo, il mio nome. Sumpf. Difficilmente pronunciabile, e inoltre derivava dal nome di una pianta che, in un'antica lingua parlata dalle parti di una città che veniva chiamata Roma, era di genere maschile. Quando ci eravamo conosciuti, pochi mesi fa, a Christopher avevo subito detto di chiamarmi Sum, se proprio era costretto a darmi un nome. I miei sensi scattarono all'erta. Se aveva detto Sumpf, interamente, poteva significare solamente che fosse particolarmente teso.
Mi presi un po' di tempo per rispondere. - Un po', ad essere sincera. - confessai. - Ormai erano due anni che non mi spaventavo così tanto per la Mietitura. Non so perchè tutta questa ansia, all'improvviso. - dissi infine.
Era ovvio che la risposta non lo soddisfaceva, voleva saperne di più, ma dal mio tono aveva evidentemente capito che non volevo parlarne, e che non sapevo nemmeno io la causa di tutta quella preoccupazione. Dovevo essere davvero spaventata, se riusciva persino a capire che c'era qualcosa che non andava solo con uno sguardo, Christopher.
Passò ancora circa mezz'ora, e parlammo solamente di cavalli e piante. Io ero espertissima con le piante ormai, riuscivo a riconoscerle quasi tutte, e sapevo distinguere quelle velenose da quelle commestibili o medicinali all'istante. Christopher invece mi spiegava i diversi modi di sellare il cavallo, la posizione da tenere al trotto, e altre cose di questo genere, che io ora riuscivo a capire abbastanza. Il mio amico lanciò uno sguardo al cielo, e osservò il Sole. Decretò che era circa mezzogiorno, così si alzò in fretta, e mi guardò dritta negli occhi. Io dovetti portarmi una mano alla fronte, poichè si trovava in controluce.
- Devo andare... - disse evasivo.
- Trilly? - chiesi, ridacchiando. Trilly era la sua cuginetta. Una volta abitava nel Distretto 13, ma quando era andato distrutto lei aveva perso tutta la sua famiglia. Era riuscita a salvarsi perchè, fortunatamente, durante i bombardamenti lei era nel nostro Distretto, per imparare da Christopher a cavalcare. Ora che non aveva più i genitori nè altri parenti, le rimaneva solo lui. Così il mio migliore amico, nonostante avesse anche sua madre e un fratellino piccolo a cui badare, l'aveva presa a vivere con lui. Era una ragazzina di dodici anni, sveglia per la sua età, che nonostante tutto aiutava molto in casa. Christopher la considerava ormai una sorella, teneva tantissimo a lei.
- Sì. - rispose, arrossendo lievemente.
- Oh, allora vai. - concessi, sapendo com'era la sua situazione familiare. Sua mamma aveva una non so che disfunzione alle mani, per cui non poteva fare granchè. Suo fratello, invece, era ancora troppo piccolo, aveva solo sette anni.
- A dopo. - mi salutò Christopher, con un cenno della mano. 
- A dopo. - ripetei. - E possa la fortuna essere sempre a tuo favore! - esclamai ridacchiando. Odiavo quella frase, ma per sbollire la rabbia e l'ansia la citavo sempre, imitando lo strano accento di Capitol City.
Rimasta da sola decisi di tornare a casa per prepararmi. La Mietitura si svolgeva alle due, ma bisognava essere lì un po' prima per 'verificare la propria identità', come dicevano i Pacificatori. In pratica prelevavano un campione del tuo sangue, per assicurarsi che fossi tu la persona giusta. Se ti assentavi... Beh, non succedeva niente di bello.
Galoppai fino alla mia casa, che negli standard del Distretto 10 era fin accettabile. Entrai, e trovai mia mamma che dava da mangiare a mio padre.
- Ti ho preparato tutto il camera tua, non fare tardi. - mi raccomandò, sorridendo. Adoravo mia mamma. Nonostante la situazione difficile di papà, gli Hunger Games, le spese da pagare e il cibo da comprare, era sempre sorridente, e cercava di darmi il meglio. Io replicavo in continuazione che non ce n'era bisogno, ma lei ogni mese mi regalava una tavoletta di cioccolato ai cereali proveniente dal Distretto 6.
- Certo. - la rassicurai, salendo di corsa le scale verso il mi soppalco.
Ad attendermi trovai una tinozza piena d'acqua fumante. Mi spogliai e mi ci immersi completamente. Stetti per un po' sott'acqua, ad occhi chiusi. Lì sotto era un mondo completamente diverso, senza preoccupazioni. Quando non ebbi più fiato mi decisi a riemergere, e iniziai a pulirmi sul serio. Grattai via lo sporco dalle unghie dei piedi e delle mani. Mi massaggiai a lungo i capelli, eliminando la forfora che si era accumulata. Quando uscii dall'acqua mi asciugai e mi lavai i denti. Sul letto vidi un bellissimo vestito marroncino come le foglie autunnali, con un semplice pizzo bianco in fondo, e una cintura con un fiocco nel centro, anch'essi bianchi. Lo indossai con facilità, e mi guardai allo specchio sporco che avevo sulla parete. Quasi non mi riconoscevo. Non ero perfettamente in ordine, ma a me sembrava di essere appena uscita da un centro estetico di Capitol City. Indossai le scarpe nere che utilizzavo per le occasioni importanti, e mi fiondai giù dalle scale, per farmi vedere dai miei genitori.
A metà della rampa incrociai mia madre, che saliva.
- Sono pronta! - esclamai, sorridendo raggiante.
Mia mamma sorrise, come sempre, ma mi fece segno di ritornare in camera. - Non ancora. - disse. - Mancano i capelli. -
Io la guardai un attimo, ma poi ci scambiammo uno sguardo complice e tornammo in camera. Mi sedetti davanti allo specchio, e chiusi gli occhi. Sentii mia madre trafficare per un po'. Stava usando uno strano attrezzo, che probabilmente serviva a crearmi dei ricci. Lei sosteneva che fossero perfetti con le mie lentiggini.
- Puoi aprire gli occhi. - annunciò.
Io li aprii, e rimasi esterrefatta. Mi aveva pettinato i capelli in modo che i sottili ricci cadessero tutti da un lato, sulla spalla sinistra. La mia chioma castana risaltava benissimo sul vestito marroncino. Mi girai verso di lei, entusiasta, e la abbracciai.
- Grazie mille, davvero. - mormorai.
Lei non disse niente, ma si limitò a passarmi una mano sulla schiena.
- Ancora una cosa. - disse gentilmente.
Senza esitazioni mi risedetti sulla seggiola. Nel vetro dello specchio vidi che mi infilava tra i capelli uno piccolo cerchietto, che quasi si mimetizzò nella mia chioma castana. Era di una delicata sfumatura verde. Mi piaceva.
- Il verde, il colore della speranza. Per ricordarti che esiste sempre. - mi spiegò continuando a sorridere, con gli occhi un po' lucidi.
Io mi rattristai. Evidentemente anche lei aveva capito che ero tesa, e cercava in ogni modo di tirarmi su.
- Grazie. - sussurrai per la seconda volta, con la voce leggermente incrinata.
- Sei bellissima. - decretò, guardandomi nello specchio. - Andrà tutto bene, vedrai. -
Io annuii, cercando di sembrare fiduciosa. Mi alzai, e scesi le scale insieme a mia madre. Mi diressi verso la cucina, dove si trovava mio padre. Arrivai davanti a lui, sorridente, e girai su me stessa. Lui esclamò un lieve Ooh! di ammirazione, e poi mi guardò fiero.
- La mia bambina. - mormorò, anche lui con gli occhi lucidi.
- Papà, non sono più piccola! - esclamai, ridendo.
Lui rise con me, poi però vidi che il suo sguardo si faceva serio e prudente.
- Qualsiasi cosa succederà, ricorda che esiste sempre la speranza. - disse, ripetendo le parole di mia mamma.
- Lo so. - annuii.
Ci fissammo per un po', fino a quando mia mamma disse che era ora di andare. Mio papà non poteva venire, perchè arrivare fino alla piazza era faticoso, così lo salutai.
- Andrà tutto bene. - assicurai io, questa volta.
- Lo so. - ripetè lui, abbracciandomi.
A malincuore mi divisi da quell'abbraccio, e uscii dalla porta. La familiare aria fresca mi investì in pieno. I miei capelli svolazzavano leggeri nel vento, ma non me ne curavo, sapendo che sarebbero tornati a posto. Camminai vicino a mia madre per tutto il tempo, muta. Non perchè ce l'avessi con qualcuno, o perchè fossi più agitata di prima. Semplicemente non sapevo cosa dire. Arrivammo abbastanza in fretta alla piazza, e dovemmo dividerci.
- Andrà bene, andrà bene. - continuava a ripetere sottovoce mia mamma. Forse ora stava cercando di convincere più se stessa che me.
- Sì, mamma. Ti prometto che ci vedremo tra poco. - le assicurai io, abbracciandola, fino a quando un Pacificatore non mi intimò che era l'ora dell'identificazione. Lo guardai in tralice, ma non mi opposi, e lo seguii verso un piccolo capannello allestito per l'occasione. Mi misi in fila, e aspettai il mio turno. Davanti a me c'erano ragazzi e ragazze di ogni età. Omaccioni di diciotto anni che avanzavano pesanti lungo la coda; bambini di appena dodici anni che tremavano da testa a piedi come delle foglie; adolescenti della mia età, alcuni cupi e freddi, altri ancora intimoriti dalla Mietitura. Io, quel giorno, mi rispecchiavo soprattutto nel secondo gruppo. Lanciai un'occhiata al Palazzo di Giustizia, e vidi che era stato minimamente pulito: i muri sembravano lievemente più chiari, le finestre rotte erano state riparate, e le travi che pendevano all'entrata erano state assicurate al soffitto.
- La mano, prego. - mi disse una voce. Mi ero quasi dimenticata che toccava a me. - La mano, prego. - ripetè la donna dietro il tavolo, impaziente.
Io allungai esitante la mano nella sua direzione, e lei l'afferrò di scatto, pungendomi l'indice con uno strano aggeggio. Sentii un lieve pizzico, poi poggiai il dito su un foglio, e uno scanner classificò il mio sangue. Sumpf Gliver, recitò lo strano macchinario. La donna mi scansò senza troppi complimenti, per ricominciare la sua cantilena. La mano, prego. La mano, prego. Come se fosse nostra, la colpa di essere lì.
Mi avvicinai con calma al gruppo che si trovava a destra della piazza, quello delle ragazze. Mi feci strada tra la miriade di adolescenti, salutando qualche mia amica, e mi cercai un posto. Ironia della sorte, di fronte a me c'era Trilly.
- Ciao, Trilly. - la salutai, poggiandole una mano sulla spalla. Lei sobbalzò, ma quando mi riconobbe tirò un sospiro di sollievo.
- Pensavo fosse... - interruppe la frase. - Ciao. - mi sorrise.
Mi stava simpatica quella ragazzina. Era sveglia, si faceva gli affari suoi, parlava quanto doveva ed era molto disponibile.
- Tesa? - le chiesi con un risolino, tirnadole una leggera pacca sulla spalla.
- No. - mentì lei. Le si leggeva il faccia chiaramente la paura. In più, ora che la conoscevo bene, sapevo che quando era spaventata iniziava a muovere il piede sinistro.
- Allora tieni a bada il piede. - le feci notare, con un sorrisetto.
Lei all'inizio arrossì un po', poi si voltò, facendo finta di essere offesa. Ormai eravamo in confidenza, anche perchè io la trattavo più o meno come una sorella, visto che non ne avevo una. Le davo consigli sui vestiti, la aiutavo a sistemarsi i capelli e cose del genere. Ridacchai ancora un po', fino a quando un uomo di mezza età, con la pelle completamente giallastra, si avvicinò al microfono sistemato sul palco, e tossì. Era orientale, avevo sempre supposto, ma i suoi occhi erano stati evidentemente modellati da quelli di Capitol City, poichè non erano più a mandorla.
- Benvenuti! - squittì, con quell'odioso accento della Capitale. - Benvenuti ad un'altra edizione - la 49°, per essere precisi - degli Hunger Games! - Un inespressivo applauso si levò dal pubblico. - Oh, quanto calore in questo Distretto! - gridò ancora, come se fossimo tutti amici suoi. - Bene, prima di iniziare, vorrei, come di consuetudine, mostrarvi il filmato sui Giorni Bui, e sulla generosità di Capitol City! - esclamò, puntando gli occhi sul maxi schermo allestito sulla parete del Palazzo di Giustizia.
Generosità... come no. pensai sarcastica tra me e me. Ignorai completamente il filmato, sia perchè mi dava sui nervi, sia perchè ormai lo sapevo a memoria. Decisi di concentrarmi su qualcosa, per non vederlo. Guardai gli elaborati capelli di Travis, l'annunciatore che veniva sempre nel nostro Distretto, e mi chiesi se fossero veri o no. Optai per la seconda, perchè avevano una stranissima sfumatura verdastra, impossibile che fosse naturale. Il video si concluse con il tipico inno di Capitol City, e Travis scoppiò in un calorosissimo applauso, quasi con le lacrime agli occhi.
- Semplicemente stupendo! - gridò fuori di se. Noi lo guardammo impassibili, così decise di cambiare argomento. - Bene, allora estraiamo i Tributi di quest'anno! Partiamo dalle donne, com'è buona educazione. - così dicendo si avvicinò ad una grande boccia, contenente i nomi femminili. Girò dentro la mano, come per creare un po' di suspanse, e poi afferrò un bigliettino. Senza aprirlo, ritornò di fronte al microfono, e aspettò di avere la massima attenzione. Lo srotolò lentamente, e esitò un attimo prima di pronunciare il nome. Lanciai uno sguardo a Christopher, che socchiuse gli occhi e annuì, come per ricordarmi quelle due parole che tutti mi ripetevano dalla mattina. Andrà bene, mimò con le labbra.
Travis si schiarì la voce. - Trilly Jicklen! -

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Shadow's Notes: Eccoci qua! (?) Beene, ho finito questo primo capitolo, e devo dire che non mi aspettavo di farlo così 'lungo' (secondo i miei standard, ovvio u.u).
Beh, voglio solo dirvi alcune pronunce che possono risultare difficili: Sumpf è Sànf; Jicklen è Gichlèn; Gliver è come si scrive, ma il suono del 'gli' è duro, non come l'articolo; Cander è Sànder.
Basta, direi. Spero vi sia piaciuto e che lo apprezziate. Appena potrò scriverò il secondo... :)
A presto,
Sunshine Shadow.
   
 
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