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Autore: WhiteWinterLady    23/05/2012    1 recensioni
Il mio nome è Victor e sono malato.
Dalla nascita sono tormentato da un male incurabile, costretto in una clinica all’avanguardia per colpa del mio caso più unico che raro. Mi hanno detto che è genetico, frutto di un errore mai verificatosi prima. Per cui hanno studiato me e i miei genitori per anni e anni, sborsando una marea di soldi, finiti per lo più in tasche poco propense alla generosità. Non certo nelle mie.
Genere: Drammatico, Generale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il mio nome è Victor e sono malato.

Dalla nascita sono tormentato da un male incurabile, costretto in una clinica all’avanguardia per colpa del mio caso più unico che raro. Mi hanno detto che è genetico, frutto di un errore mai verificatosi prima. Per cui hanno studiato me e i miei genitori per anni e anni, sborsando una marea di soldi, finiti per lo più in tasche poco propense alla generosità. Non certo nelle mie.

Non ricordo nemmeno più quando ho visto per l’ultima volta i miei genitori; sono morti da parecchio.

I medici dicono che ho il corpo di un trentenne, quando in realtà dovrei essere vecchio e rugoso. Perché è questo che mi affligge: io resto sempre giovane. L’hanno definito morbo del Sempre Verde, che mi rende una sorta di Peter Pan, anche se io, di Peter Pan, ho solo l’aspetto. Dentro mi sto logorando.

Fin da piccolo tutti credevano che avessi qualche handicap fisico che mi impediva di crescere. Insieme ai miei genitori, dunque, visitai i più importanti ospedali non solo del paese, ma di tutto il mondo, finché, quando sulla carta avevo dodici anni, mentre il corpo ne dimostrava sì e no sette, Philip Norman, che all’epoca era considerato il miglior esperto in materia, si arrese e consigliò alla mia famiglia una lunga trafila di test di ogni genere. Ebbene, dall’indagine genetica, l’ultima carta rimasta ormai da giocare, scoprirono che il mio DNA possedeva una serie di alterazioni che coinvolgevano più loci, facendo di me un essere speciale, predisposto alla longevità.

Qui è iniziato il mio dramma.

Chi non mi conosceva mi scambiava per un bambino prodigio. All’età di quindici anni, il mio viso sempre più giovanile del normale incuriosiva gli spettatori del concerto che insieme ad alcuni compagni di scuola, con i quali condividevo la passione per la musica, avevo organizzato nel garage di casa mia. Il batterista con il corpo piccino, che per poco scompariva dietro il suo strumento, faceva magie con quelle bacchette! Le facce di tutti erano estasiate dalla mia bravura, colme di ammirazione. Niente al mondo però mi potrà togliere dagli occhi l’orrore e la compassione di coloro che sapevano, o che venivano a conoscenza, che in realtà il bambino avrebbe dovuto essere un adolescente con la faccia butterata dall’acne e tanto di barba. Le ragazze, poi, non provavano nemmeno ad avvicinarsi: quante mi hanno calpestato il cuore senza nemmeno saperlo... Qualcuna prima o poi è venuta a cercarmi, ma mai nel momento giusto. Dentro maturavo, crescevo. Fuori restavo sempre uguale.

Una volta però ho avuto una ragazza. Ma, ve lo giuro, non mi innamorerò più.

Il suo nome era Ophelia e dentro gli occhi aveva il mondo. Non so cosa me lo facesse dire, era lo sguardo che parlava, comunicava un senso di immenso e un avvenire che sembrava non finire mai...

Quando ci conoscemmo aveva ventitré anni. Naturalmente, io ero molto più vecchio, ma l’apparenza convinceva tutti che fossimo coetanei. Se qualcuno mi chiedesse cosa mi colpì tanto di lei, parola mia, non saprei dare risposta. Era come se fosse circondata da un’aura serena e rassicurante che contagiava chiunque si avvicinasse... Una sensazione che in verità non ho mai saputo spiegare nemmeno a me stesso.

I gesti. La sua gestualità era del tutto particolare. Come se fosse sospesa ad un palmo da terra anziché starci appiccicata come i comuni mortali. Il sorriso ti accarezzava il cuore, con le mani lambiva l’aria. Succedeva spesso che, nell’osservarla in qualunque gesto banale, mi persuadessi che non fosse una creatura di questo mondo. E glielo dicevo.

“Tu sei un angelo”.

Lei rideva con lo sguardo mentre mi baciava e aggiungeva: “Se sono caduta proprio qui ci sarà un motivo”.

Allora un calore che difficilmente avevo provato in passato si diffondeva in ogni angolo del mio corpo. Ophelia era capace di fare i miracoli. Non su se stessa, purtroppo.

Fin da subito le parlai della mia malattia. Misi le mani avanti, per così dire, per informarla di quello a cui stava andando incontro. Con quale razza di abominio aveva deciso di stare. La sua risposta mi risuona ancora nella testa: “ Non mi importa nulla. Io ti saprò guarire”.

E io ero certo che sarebbe stato così. Ma l’idea che il tempo l’avrebbe consumata, ingrigendo i suoi capelli, segnandole il volto di rughe e tristezza, mi tormentava giorno e notte. Non era di me che mi preoccupavo – ero l’ultimo dei miei pensieri – ma di lei: io avrei vissuto a lungo, solo il Cielo sa quanto, mentre lei sarebbe morta, ne ero sicuro, con il rimorso di non aver vissuto di più. Sarebbe stata tutta colpa mia... Solo mia... E non potevo permettere che il mio egoismo distruggesse la sua bellezza. E sia ben chiaro, sto parlando della bellezza unica che era in grado di diffondere e donare gratuitamente all’ambiente circostante. Un dono nient’affatto comune, che sarebbe appassito fintanto lei fosse rimasta con me.

Dovevo impedirglielo, dovevo farla ragionare.

“Ophelia, tesoro, dobbiamo parlare”. L’esordio era sempre lo stesso, per cui Ophelia capiva al volo anche l’argomento.

“Ancora non ti arrendi”. Un’affermazione, non una domanda. Una frase che, di dubbi, ne conteneva ben pochi.

A quel punto, la frustrazione, la belva irrequieta che mai smetteva di agitarsi nel mio cuore, balzava all’improvviso, scagliandosi su di lei.

“Ma non capisci che io non sono normale?”, gridavo al culmine dell’esasperazione.

Altra immagine che non scorderò mai: Ophelia che si addentra nell’anima dell’uomo che ha di fronte, con lo sguardo limpido, guastato soltanto da qualche minuscola lacrima rimasta impigliata tra le ciglia. Mi sarei ucciso, se solo me lo avesse chiesto. Avrei obbedito a qualsiasi suo comando, perché non valeva la pena che piangesse per uno come me. Proprio per niente. Ero un mostro, in tutti i sensi: non un comune mortale e ancora meno un uomo. Qualunque castigo sarebbe stato giusto, me lo meritavo. Eppure tutto quello che rispondeva, e che imperterrita continuava a dire ogni volta che si ripresentava la stessa identica questione, era: “È vero, non sei normale. Tu sei speciale. Ed è per questo che rimango qui”.

Ogni tentativo di replica moriva senza speranza di sopravvivenza. Ophelia mi rubava tutte le parole.

Dopo sei anni le chiesi di sposarmi. Ovviamente, accettò. In un modo tutto suo: mi osservò intensamente, controllando che il mio cuore lo volesse davvero; poi posò le labbra sulle mie, così, dolcemente, in un bacio dal sapore totalmente nuovo: c’era una casa, c’era un amore, c’era una vita racchiusi in un solo, singolo gesto.

Il giorno del matrimonio, l’abbandonai sull’altare.

Una scena si ripeteva all’infinito nella mia mente: Ophelia che si specchia, con la pelle scavata dagli anni e dalla rassegnazione, mentre accanto a lei siede suo marito, decisamente più giovane, che non può fare a meno di posare gli occhi antichi su colei che ha amato e che continuerà ad amare nonostante i limiti del tempo, ma che non può sopportare il dolore che ogni giorno di più l’affligge e la porta lontano.

Non potevo regalarle una tale pena. Così, me ne andai.

Ho saputo che è morta l’anno scorso. Sola e di cancro. Tuttora continuo a piangerla e rimpiangerla.

Ma se solo fossi stato un comune essere umano, sano, non l’avrei lasciata andare così. L’avrei sposata e adorata per il resto dei miei giorni, in un arco di tempo che sarebbe trascorso con lo stesso ritmo del suo. E quando, ormai vecchi, ci fossimo svegliati l’uno accanto all’altra, la giovinezza appassita non ci avrebbe impressionati. Il rimpianto di non poter stare ancora a lungo insieme, perché prima o poi la morte passa per tutti, ci avrebbe forse avvilito, ma non abbattuto. Fino all’ultimo mio respiro io avrei vissuto per noi due, e, nonostante la sola parola mi facesse paura, l’avrei resa felice.

Quanto ho invidiato i miei genitori, che sebbene avessero avuto un figlio di cui doversi sempre preoccupare hanno trascorso i momenti più belli uniti, persino quando sembrava tutto finito. Spero che, in qualunque posto si trovino adesso, nessuno li abbia separati, perché se due anime sono state legate in vita, per quale motivo non dovrebbero esserlo nell’oltretomba?

Per me il destino ha scelto che fossi anormale e condannato ad un inferno terreno, chiuso in una clinica, circondato da persone linde e senza colore: tutte sanno il mio nome, nessuno mi conosce davvero. Per questo ringrazio le riviste scientifiche e i programmi tv, che gentilmente, almeno una volta al mese, sbattono la mia faccia sulle copertine o aprono dibattiti su quanto sia morale che l’uomo esiga l’immortalità. Ogni tanto qualcuno avanza la pretesa di aver risolto l’enigma che mi attanaglia, acclamando: “L’uomo che sfiora l’eternità dona all’umanità il segreto dell’eterna giovinezza”. Oppure: “Il Signor Infinito non è più un mistero per la scienza”.

Infinito, è così che mi chiamano. L’intero globo è incuriosito dal mio caso, specialisti di ogni nazionalità si sfidano a chi scova per primo una soluzione, ma nessuno è veramente interessato a me, nonostante le apparenze. Non c’è niente che desideri di più del poter vivere anche per poco come uno qualunque. E invece, al posto di trovarmi una cura, gli scienziati pensano a come estendere le mie malformazioni genetiche al genere umano. Non capiscono che un’esistenza come la mia uccide a poco a poco, con la lentezza dei momenti da dimenticare, quasi ci fosse un minatore che dall’interno del corpo scava disperatamente una galleria impossibile. E, come se non bastasse, più gli anni avanzano più il mio processo di invecchiamento rallenta. E chissà per quanto ancora l’anima sopporterà la vita, prima di lasciare la carne e raggiungere il Cielo...

A dir la verità non sono sicuro di aver mai creduto in Dio. Tante volte l’ho accusato di avermi fatto questo, ma in fin dei conti sarà davvero colpa sua? Forse, come tutto il resto, è un grosso sbaglio. Eppure nel profondo spero che esista, anche solo per poter riabbracciare in un altro mondo, magari migliore, i miei genitori.

Per poter incontrare Ophelia. Per umiliarmi davanti a lei per l’eternità fino ad ottenere il suo perdono. E iniziare insieme una storia in cui non sarà scritta la parola fine.

Perché il suo nome è tutto e i suoi occhi ancora di più. Io invece mi chiamo Victor e non sarò più malato.

  
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