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Autore: miseichan    24/05/2012    1 recensioni
Era curioso, Stefano. Curioso di natura.
Per impensierirlo perciò, sarebbe bastato già il fatto che quella ragazza fosse l’unica a non fare dolcetto o scherzetto.
C’erano però altri fattori, non meno importanti.
Ad esempio il fatto che si stesse allontanando dalla calca, incamminandosi per l’unica strada che portava in campagna.
O ancora che in mano non avesse alcun cestello, bensì una vanga.
E per finire, ultimo non per importanza, il particolare che la ragazza era Micaela Serrante.
Genere: Comico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ali di vetro

 

I cuori

 non saranno mai una cosa pratica

 finché non ne inventeranno di infrangibili

 

 

Era impossibile vedere la luna.

Piena, ecco com’era. Un’irreprensibile circonferenza. Bianca al punto da risultare vagamente accecante.

Una luna perfetta per sognare, per baciarsi, per dormire all’aperto lasciando lo sguardo libero di perdersi nell’immensità del cielo. Una luna perfetta per quella notte.

Perché solamente una luna piena è degna di allontanare le tenebre nella notte di Halloween.

Era pensiero comune che fosse giusto così. E tutti si chiedevano perché allora non si facesse vedere.

Gli occhi erano puntati verso l’alto, fissi sulla coltre di nubi che sembrava non finire più. Non un solo spazio, neanche la più piccola fessura a interrompere le fila di nuvole scure.

Come poteva quella luna così pallida e innocente sconfiggere tale forza di oppressione?

A Stefano della luna, delle nuvole e della loro lotta per la supremazia non importava niente.

Stefano aveva dei bellissimi occhi, profondi, magnetici. Erano verdi, tendenti al grigio. Per colpa degli occhiali tuttavia, quasi nessuno li notava. Tutti si soffermavano sui suoi particolari capelli rossi, o sulle lentiggini che gli punteggiavano le gote, o ancora sulla cicatrice che gli spezzava a metà il sopracciglio.

Della bellezza degli occhi invece, nessuno era a conoscenza.

Ed erano proprio loro, due insospettabili smeraldi, a non guardare la luna che non c’era.

Stefano ignorava ciò che gli accadeva attorno. Non prestava attenzione ai bambini, alle risa, alle urla. Era come se non vedesse i colori smaglianti che lo circondavano, i costumi impensabili e le zucche luminose.

Una mano sull’elsa della spada, le sopracciglia aggrottate in un’espressione pensosa, gli occhi di Stefano erano puntati sulla figura che in quel momento si appropinquava a voltare l’angolo della strada.

Era curioso, Stefano. Curioso di natura.

Per impensierirlo perciò, sarebbe bastato già il fatto che quella ragazza fosse l’unica a non fare dolcetto o scherzetto. C’erano però altri fattori, non meno importanti, a destare in lui il desiderio di saperne di più. Ad esempio il fatto che si stesse allontanando dalla calca, incamminandosi per l’unica strada che portava in campagna. O ancora che in mano non avesse alcun cestello, bensì una vanga. E per finire, ultimo non per importanza, il particolare che la ragazza era Micaela Serrante.

Il ragazzo sentì un sorriso incurvargli le labbra mentre, lo sguardo trasognato, si affrettava a seguirla.

«Micaela!» gridò, il mantello che gli sventolava sulle spalle «Micaela, aspetta!»

La ragazza non accennò minimamente a rallentare il passo, continuando imperterrita per la sua strada. Stefano non si lasciò intimidire, affannandosi a percorrere i metri che li separavano. Le luci cominciarono ad affievolirsi, le case che diminuivano e i rumori che scemavano d’intensità. Si allontanava dalla città, correndo, avvicinandosi un istante dopo l’altro sempre più a Micaela.

Chiunque altro sarebbe stato assalito da un - seppur fievole - dubbio, in quella particolare situazione. Stefano no. Era consapevole di star seguendo una ragazza fuori città. Consapevole che lei stringesse una vanga fra le dita e anche che il paesaggio circostante fosse ormai rappresentato unicamente da alberi scuri e inquietanti nel loro tenebroso silenzio.

Nonostante ciò Stefano interruppe la sua corsa solo nel momento in cui ebbe raggiunto Micaela.

Sospirò, fermandosi e piegandosi sulle ginocchia per riprendere fiato. Il respiro mozzo, la guardò con tanto d’occhi quando lei continuò placidamente a camminare.

«Micaela…» riuscì ad articolare, i polmoni che bruciavano per lo sforzo.

Scuotendo la testa si rimise in posizione eretta, affrettandosi ad affiancarla. Le trotterellò vicino, il respiro ancora affaticato. Voleva parlare, ma sapeva che se non avesse aspettato un po’, il suo sarebbe stato un ben misero tentativo. Abbassò lo sguardo, attendendo in silenzio che il battito cardiaco riprendesse un ritmo vagamente normale.

Stefano approfittò del silenzio forzato per osservare di sbieco la sua improbabile compagna. La squadrò dall’alto in basso: dal cappello a punta fino ai tacchi sottilissimi. Avrebbe potuto soffermarsi sui leggiadri riccioli neri che le incorniciavano il viso, sul pallore delle gote, sulle rossissime labbra a forma di cuore o anche sugli incantevoli occhi neri. Avrebbe potuto indugiare sul trucco appena accennato, sul vestito nero che arrivava appena alla coscia, sulle calze a rete o, ancora una volta, sulla vanga.

Gli occhi di Stefano invece non si attardarono su alcuna di queste cose: esitarono sui tacchi.

Come diavolo faceva, si chiese Stefano, a sostenere un’andatura da maratona se ai piedi aveva trampoli di quel tipo?

«Sei una bellissima strega.» mormorò, la voce roca che palesava ammirazione.

«E tu un banalissimo Zorro.» rispose lei, senza degnarsi di guardarlo in faccia. Continuò a camminare, soddisfatta che l’unico rumore nei dintorni fosse il ticchettio delle proprie scarpe. Ignorava il giovane al suo fianco, concentrata unicamente sul luogo che doveva raggiungere.

«Micaela?»

Non rispose, non mostrando nemmeno di aver sentito. Stefano continuò lo stesso, la voce allegra come quella di un bambino che gioca con il suo amichetto preferito:

«Dove stiamo andando?» chiese, aggiustandosi gli occhiali sul naso.

Micaela alzò gli occhi al cielo, osservando di sfuggita le nubi che le oscuravano la visuale.

«Devo fare una cosa.» rispose, secca.

«Cosa?»

«Non sono affari tuoi, Moranti.» lo fulminò con lo sguardo, serrando subito dopo le labbra.

Stefano sospirò, giocherellando con la spada che gli pendeva lungo il fianco. L’ipotesi di salutarla educatamente e girare i tacchi non gli passò neanche lontanamente per la testa.

Che lei lo volesse o no, sarebbe andato avanti.

Il ragazzo era sovrappensiero, il capo che ondeggiava ritmicamente, quando casualmente si accorse di una statuetta di marmo. Era piccola, raffigurante un angioletto. Posta su un pilastro, visibile solo grazie ad uno strano gioco di luci. Stefano non si era mai interessato particolarmente alla scultura.

C’era però qualcosa in quella statua che avrebbe insospettito chiunque.

Il ragazzo tentennò, rischiando di muovere un passo falso, alla vista di quel putto. Lo conosceva bene l’angioletto: lo associava a una frase ben precisa, un’asserzione che ogni volta gli procurava un brivido.

Io ero come tu sei, tu sarai come io sono.

Un’incisione inquietante cui il piccolo angelo in questione era solito fare la guardia.

«Micaela» sussurrò Stefano, la voce che vacillava impercettibilmente. La ragazza sorrise, un sopracciglio che le s’inarcava sospettosamente.

«Perché…» tentò il ragazzo, la voce che gli moriva un attimo in gola «Perché il cimitero?»

Stefano sentì lo stomaco che si contorceva man mano che si avvicinavano al piccolo putto marmoreo. Lo guardava con terrore, non arrivando a capire perché si stessero dirigendo proprio lì, verso il cimitero.

Attese con il cuore in gola la risposta della ragazza, ma non arrivò, impedita dalle labbra chiuse di lei.

«Micaela» provò ancora, le labbra che gli tremavano mentre superavano l’imponente cancello di ferro. Non gli piaceva il cimitero. Affatto.

Serrò le dita attorno al fodero della spada e strinse i denti. Non era più al fianco della ragazza, bensì alle sue spalle. La seguiva, camminando con indecisione. Osservava, solo quello.

Si chiedeva da dove mai provenissero gli sprazzi di luce che di tanto in tanto illuminavano i dintorni.

Guardava, ma non indugiava su alcuna cosa in particolare.

Le fronde pendenti dei salici piangenti, l’erba tagliata che odorava di primavera, il pallore delle lapidi… erano queste ultime a inquietarlo più di tutto. Le lapidi. Pezzi di pietra, marmo o granito che emergevano dal terreno, punteggiando la penombra di chiare macchie indefinite.

Stefano sentiva che respirare diventava sempre più difficile: lanciò un’altra occhiata davanti a sé e solo in quel momento si rese conto di essere rimasto indietro. Sobbalzò, affrettandosi a ricongiungersi con lei.

Fece lo slalom fra le lapidi, arrivando a scavalcare l’ultima della fila per finire con lo scontrarsi contro Micaela. Lei lo fulminò ancora una volta con gli occhi, fissandolo come se desiderasse solo vederlo sotto terra. Stefano si strinse nelle spalle, rispondendole in maniera contorta.

Arretrò di un passo, lisciandosi con le mani i pantaloni neri.  

«E ora?» domandò «Dobbiamo per caso compiere qualche rito satanico?» concluse, un sarcasmo greve nella voce.

Micaela si era fermata in prossimità di un grande salice, proprio davanti a una piccola lapide chiara. Aveva conficcato la punta della vanga nel terreno e se ne stava appoggiata all’arnese, le mani incrociate sotto il mento. Osservava la lastra di marmo con aria assente, le labbra dischiuse.

Stefano la guardava senza capire.

Vide chiaramente le diverse espressioni che le passarono sul viso: prima un dolore sordo, poi un attimo di riflessione, seguito subito da una fievole speranza. A spaventarlo non fu nessuna di queste, ma l’ultima: quella che le animò i tratti, facendola sorridere in maniera preoccupante.

Un’aria di sfida, ecco cosa sembrava aver ridato vita a Micaela. La ragazza si era rimessa in piedi, le mani che stringevano la vanga con decisione. Sorridendo si avvicinò alla lapide, gli occhi che brillavano.

«Stai scherzando.» mormorò Stefano, afferrandole istintivamente un polso per fermarla.

Micaela gli sorrise, guardandolo senza davvero vederlo.

Liberò il polso dalla sua stretta e conficcò la vanga con decisione nel terreno.

«No.» sentenziò, applicando una forza sul manico della vanga «Voglio assicurarmi che sia morto.»

Stefano aprì la bocca, lasciando che l’aria pungente della notte gli pervadesse i sensi.

«Sei fuori di testa!» sbraitò improvvisamente, sorprendendo sia Micaela che se stesso «Stai cercando di profanare una tomba, te ne rendi conto?!»

La ragazza si era bloccata, non aspettandosi un attacco proprio da lui. Ci mise poco tuttavia per riprendersi:

«Sì, che me ne rendo conto!» rispose, il tono di voce che saliva un po’ alla volta «Perché diavolo credi che sia venuta qua?! Avevo una vanga in mano, te ne sei accorto, razza di cervello in disuso?!»

«Certo che sì, ma non pensavo certo che volessi disseppellire un corpo!»

«Lo faccio solo per assicurarmi che il corpo ci sia davvero!»

«E per quale diamine di motivo non ci dovrebbe essere?!» gridò lui, le parole che venivano portate via dal *vento. Una brezza fredda, leggera, che sembrava essersi sollevata in quell’esatto momento.

Micaela fece per rispondere: le labbra tremanti, gli occhi lucidi. Voleva farlo, spiegarsi.

E lo avrebbe fatto, con tutto il fiato che aveva in corpo, se non avesse sentito quella voce.

Parole, parole di vento.

Parole che sembravano essere state trasportate dal vento. Che anzi, sembravano essere fatte proprio di quel vento. Soffici, pungenti. Cantate.

 

I never thought I'd die alone 

I laughed the loudest whod have known? 

 

I due ragazzi si fermarono insieme. Bloccati, pietrificati da quello che sentivano.

Si guardarono attorno, i movimenti rallentati, cercando di capire da dove provenisse la voce.

Era divertita, come a volerli prendere in giro. Sembrava provenire da nessun luogo e da ogni parte.

Canticchiava, la voce, stonando su qualche punto, soffermandosi su qualche altro. Giocava, ridendo di loro. Stefano chiuse gli occhi, sentendo il vento che, sempre più forte, lo colpiva in pieno.

Quando riaprì gli occhi, trovò quelli neri di Micaela fissi nei suoi.

«Adam’s song» sussurrò lei, una lacrima incastrata fra le ciglia «E’ dei Blink 182, lo sai?»

Stefano le si avvicinò di un passo, chiedendosi se fosse il caso di darsi un pizzicotto e scoprire finalmente che era tutto un sogno. La guardò, non riuscendo a ricambiare il sorrisetto compiaciuto che lei gli stava rivolgendo. Il vento non accennava a diminuire, provocando scompiglio attorno a loro.

Il prato sembrava un piccolo oceano, increspato da tante onde trasversali. I rami dei salici si agitavano, sfiorandosi e legandosi fra loro. Il paesaggio da statico e morto quale sembrava, era come se si fosse improvvisamente animato, ribellandosi per riottenere la vita che non aveva avuto.

E le parole continuavano. La canzone andava avanti, canticchiata in modo sempre irriverente, scherzoso.

Ciò che a Stefano piaceva sempre meno era il tono di sfida che c’era in sottofondo. Un accenno che forse sentiva solo lui, eppure riusciva a raggelarlo, tanto più perché Micaela sembrava accoglierlo.

Il vento cessò d’improvviso.

Scomparve. Come se non si fosse mai alzato.

Tutto tornò alla calma, fermo com’era sempre stato, bloccato nella staticità della morte.

Delle parole, della canzone, non rimaneva che un pallido ed etereo eco.

Fu proprio grazie alla ritrovata immobilità che si accorsero immediatamente del movimento.

Le teste scattarono subito verso l’alto, gli occhi puntati sull’immensità nera che li sovrastava.

Un puntino bianco, ecco cosa sembrava all’inizio.

Un puntino in avvicinamento, che scendeva piano, ondeggiando lievemente.

Volava, portato da un vento che non c’era più. E scendeva, verso Micaela e Stefano.

E da puntino qual era mostrò pian piano le sue vere forme, i contorni prima indefiniti. Senza fretta, cosciente di avere la totale attenzione dei due ragazzi fermi sotto di sé.

Micaela sollevò un braccio verso il cielo ma Stefano ne intercettò i movimenti, bloccandola subito.

«E’ una piuma.» mormorò la ragazza, a giustifica della propria azione.

Stefano arricciò il naso, gli occhi ancora fissi sulla piuma che roteava nell’aria. Cullata da una brezza che non c’era, ondeggiava, abbassandosi sempre più verso di loro. Bianca, elegante, danzava nella notte.

«Presa!»

Trasalirono entrambi. Non avrebbero potuto fare altrimenti.

A parlare non erano stati né Stefano né Micaela. Era stata una terza voce: giuliva ed esaltata.

Gli occhi dei due ragazzi realizzarono con difficoltà quello che era successo: misero a fuoco la mano che si era sollevata davanti a loro, pallida e scheletrica; le dita che rapide si erano strette attorno alla piuma per poi ritornare ad abbassarsi, fulminee come un lampo nell’oscurità.

Stefano aveva già rischiato l’infarto vedendo apparire di colpo la mano estranea. Quando in seguito aveva compreso che la voce che si era espressa, era la stessa che poco prima stava cantando, temette seriamente che potesse esplodergli una coronaria.

Abbassò lo sguardo lentamente, intimorito da ciò che avrebbe potuto prospettarglisi davanti.

«Scusate, è mia. Devo essermela persa.»

Stefano fissò allibito il ragazzo che continuava a parlare. Era giovane, biondo e seminudo. Non erano queste le cose che lo inquietavano, tuttavia. A seccargli la gola, impedendogli di parlare, era la certezza che quel ragazzo se ne stesse seduto sulla lapide. Le gambe oscillavano, picchiettando ritmicamente sulla lastra di marmo; avvolte in un paio di jeans blu scuro, strappati all’altezza del ginocchio. Gambe che suggerivano a suon di battiti la canzone che poco prima stava cantando. 

Stefano lo squadrò smarrito: la zazzera di *capelli biondo cenere, gli occhi azzurri così chiari da tendere al bianco. Era a petto nudo, metteva in bella mostra gli addominali scolpiti; giocherellava con la piuma e guardava alternativamente i due che aveva davanti.

Stefano tentò di sorridere, riuscendo solo a deformare il viso con un’improbabile smorfia.  Era colpito: non perché l’altro era seminudo quando sarebbe stato consigliabile uscire da casa con una stufa addosso, né perché il colore delle sue iridi sfumava al punto da rendere difficile distinguerle dalla sclera.

Era colpito perché il giovane indossava il più bel costume da angelo che avesse mai visto.

«Ehy…» sussurrò, non appena riuscì di nuovo a parlare «Mi hai fatto prendere un colpo, amico, non ti abbiamo proprio sentito arrivare»

L’altro non rispose, limitandosi a puntare i suoi occhi blu alice in quelli di Stefano.

«Come hai… no, lascia stare. Io sono Stefano» disse, porgendogli una mano «E complimenti per il costume. Sono le ali più belle che abbia mai visto. Sembrano vere, accidenti»

Stefano tenne la mano orientata verso il giovane per diversi minuti. Solo quando gli fu chiaro che l’altro non l’avrebbe stretta, la tirò di nuovo a sé. Non riuscì a impedirsi di lanciare un’altra occhiata alle ali del biondo: stentava a credere a ciò che vedeva. Erano due ali enormi, grandi quasi il doppio della persona che le indossava. Bianchissime, accecanti. Fatte d’innumerevoli piume, soffici e morbide solo a guardarle.

Quando riuscì finalmente a distogliere gli occhi dalle ali abbacinanti, abbassando lo sguardo si accorse che l’attenzione dell’angelo biondo era tutta per la ragazza al suo fianco. Arretrò di un passo, così da poterli avere entrambi nel suo campo visivo: Micaela, ancora immobile e intontita, il biondino seraficamente sorridente. Fu questione di un attimo poi, un cambiamento così repentino da lasciarlo stordito: il volto di Micaela fu improvvisamente distorto dall’ira, mentre un grido soffocato le risaliva per la gola.

«Tu! Brutto pezzo d’idiota che non sei altro!» strillò, afferrando la vanga a due mani e lanciandogli contro manciate di *terra «Lo sapevo io che avevo ragione! Quale altra poteva essere la verità, eh?!» continuò a urlare, scagliandogli contro questa volta direttamente la vanga.

Stefano spalancò la bocca, preso totalmente in contropiede da quel nuovo atteggiamento.

Dopo il primo e alquanto innocuo lancio di terra, rimase piuttosto scioccato al lancio della vanga.

Rivolse immediatamente un’occhiata preoccupata alla vittima bionda, ma l’altro sembrava affatto scalfito dal comportamento di Micaela. Con pacatezza scese dalla lapide, lasciando che la piuma continuasse il suo volteggio fino al terreno. Una volta in piedi si lisciò i jeans, scuotendo con le dita il suo bianco piumaggio per far cadere il terriccio che vi si era poggiato sopra.

«Mi hai quasi preso, Michi.» ridacchiò, alludendo alla vanga che lo aveva mancato di poco.

Micaela irrigidì la mascella, allontanandosi da lui di un passo.

«Sono contenta.» sussurrò, guardandolo con odio «La prossima volta perfezionerò la mira.» aggiunse.

Il biondino alzò gli occhi al cielo, scuotendo piano la testa con fare sconsolato.

«Questo significa che ce l’hai ancora con me?» chiese, il tono di voce leggermente sarcastico.

Micaela sbuffò contrariata. «Hai anche il coraggio di chiederlo?»

«Michi…»

«Non chiamarmi così!» strillò lei, allungando le braccia davanti a sé a mo’ di protezione.

«Non fare così, Michi

«Ho detto di non chiamarmi così!»

Il biondino sospirò, avvicinandosi di un passo e spalancando le braccia.

«Mi dispiace.» mormorò, il tono di voce improvvisamente raddolcito. Gli occhi, le spalle… ogni parte del suo corpo aveva perso l’atteggiamento di sfida che mostrava fino a poco prima.

Non c’era più sarcasmo in lui.

Micaela inizialmente sembrò non averlo nemmeno sentito. Poi rilassò di colpo la postura, gli occhi che si riempivano di lacrime e il labbro che iniziava a tremare. Dopo aver scosso impercettibilmente la testa, con slancio gli si gettò fra le braccia. Allacciò convulsamente le mani attorno al suo *collo pallido, il viso che affondava nell’incavo della sua spalla.

«Mi dispiace, Michi» bisbigliò ancora, le labbra che baciavano i capelli della ragazza.

«Non sai quanto mi sei mancato» singhiozzò lei, il corpo che era tutto un tremore.

Stefano aveva smesso di respirare. Soggiogato da ciò che stava succedendo, concentrato al punto da non ricordare di dover inspirare. Osservava Micaela. Osservava il biondino. Li osservava entrambi.

E non capiva.

Si era trasferito in quel sobborgo cittadino più di tre mesi prima: dodici settimane in cui non aveva fatto altro che studiare la ragazza. Il suo comportamento apatico, indolente. I suoi modi bruschi, sarcastici. La sua corazza apparentemente impenetrabile. Ricordava tutti gli approcci che inutilmente aveva tentato…

E ora, così di punto in bianco, tutte le sue idee e convinzioni erano state spazzate via. Come tanti castelli di carta. Guardava l’abbraccio appassionato dei due e si chiedeva cosa gli fosse sfuggito.

Fu per pura casualità se, spostando il peso da un piede all’altro, lo sguardo gli cadde inavvertitamente sulla piuma che era ormai arrivata a toccare il terreno. Il bianco piumino si era poggiato ai piedi della lapide, pochi centimetri sotto il nome che c’era inciso: Gabriele Serrante.

E Stefano cominciò a tremare.

Ci volle un solo secondo affinché collegasse il cognome del morto con quello di Micaela; tre secondi, invece, affinché i suoi occhi indugiassero sulla foto dai colori sbiaditi posta sotto il nome.

Una foto piccola, spiegazzata. Ingiallita dal tempo. Eppure, perfettamente chiara.

Raffigurava un giovane sui vent’anni, dai capelli biondi e gli occhi di un celeste scolorito. Sarebbe stato naturale pensare che il celeste fosse così pallido a causa dell’acqua che lo aveva colpito, del vento, o del tempo. Certo, sarebbe stato lecito pensarla a quel modo… se non si fosse avuto modo di guardare in viso il giovane in questione per attestare che invece no, erano proprio i suoi occhi a essere così pallidi e sbiaditi.

E Stefano aveva avuto la possibilità di guardarli, quegli occhi.

Ricordandosi improvvisamente di respirare, la mascella serrata per non far tremare i denti, si spostò il più silenziosamente possibile. In pochi passi riuscì a raggiungere le spalle del giovane biondo. Il giovane dagli occhi chiari. Il giovane che somigliava davvero troppo a quello della foto.

Non avrebbe saputo spiegare per quale motivo aveva deciso di girargli attorno, semplicemente lo fece.

Capì il motivo che lo aveva spinto a muoversi quando gli occhi misero a fuoco le ali.

Scese lentamente con lo sguardo, percorrendone l’intero piumaggio. Fino a che arrivò al punto cruciale.

Il luogo in cui si sarebbe dovuto vedere il modo in cui le ali erano state fissate. Stefano si aspettava dei fili di ferro, dello scotch, persino della colla o dello spago. Tutto fuorché il niente.

Le ali non erano attaccate in alcun modo alle spalle del ragazzo…

Semplicemente, fuoriuscivano dalla sua schiena.

Al tremore si aggiunse presto un violento giramento di testa. Le tempie pulsavano, la vista si annebbiava. Prima che se ne rendesse conto, crollava a terra come un peso morto.

 

«Bisogna tenergli le gambe sollevate?»

«Per quale diavolo di motivo dovremmo farlo, me lo spieghi?!»

Stefano sentiva le palpebre pesanti. Premevano sugli occhi, impedendogli di guardare in viso i due soggetti cui appartenevano le voci litigiose. Non che ce ne sarebbe stato bisogno.

«In seguito a una perdita di sensi, se essa è dovuta a forti emozioni, è consigliabile sollevare le gambe così da favorire il ritorno del flusso sanguigno verso la testa» espose con sicurezza la voce maschile.

«Ma sentitelo, il dottore!» lo rimbeccò l’altra, esibendosi in uno sbuffo scocciato.

«Non sbeffeggiare la mia erudizione» ribatté lui.

A quelle parole seguì un suono indefinito che Stefano, in qualunque altra situazione, avrebbe con certezza abbinato a una pernacchia. Poteva mai essere?

«Erudizione… tsk

«Invidiosa?»

«Di un pezzo di cretino?» chiese lei, «No, non credo»

«Invidiosa» approvò lui, mentre Stefano sentiva che le gambe gli venivano sollevate.

«Idiota»

«Non negarlo, è così. Non c’è insulto con cui tu possa controbattere, Michi»

«Tu dici?» si stizzì lei, la voce che saliva di un decibel «Razza di… morto!» esalò alla fine, il sorriso nella voce. Stefano sentì un nuovo giramento, accompagnato da successiva contorsione di stomaco.

«E’ un insulto sufficiente, Lele?»

Stefano sentì i battiti del cuore che acceleravano mentre i pensieri gli partivano per la tangente.

Aprì di scatto gli occhi, trovandosi due facce preoccupate a pochi centimetri dal volto. Una contornata da riccioli neri, l’altra da sottili capelli biondi. Entrambe pallide al punto da far invidia al putto dell’ingresso.

«E’ morto?» farfugliò, un sapore di sangue in bocca «E’ morto, vero? Le ali sono vere?»

Tentò di mettersi a sedere, ma non ci sarebbe riuscito senza l’aiuto della ragazza che, le labbra corrucciate, lo tirò verso di sé. Stefano alternò lo sguardo dall’espressione scocciata di lei, a quella esilarata del ragazzo al suo fianco. Micaela si era alzata in piedi, allontanandosi di buona lena, per poi sedersi sulla lapide.

Stefano la guardò con tanto d’occhi, attendendo inutilmente una risposta di qualche tipo. Quando capì che la risposta non sarebbe arrivata, portò gli occhi in quelli opachi dell’angelo biondo.

«Sei morto?» chiese, innocentemente, come se la domanda fosse riferita al tempo.

Il biondino ridacchiò, stringendosi nelle spalle. Aprì diverse volte le labbra, ma alla fine la spiegazione che gli uscì dalla bocca fu riassunta in uno scarno monosillabo.

«Sì.»

Il sopracciglio di Stefano schizzò verso l’alto, mentre le sue labbra si dischiudevano incredule.

«Starai scherzando, spero! Tu… tu sei morto! Il tuo corpo dovrebbe essere sotto terra, anzi sotto la terra che Micaela era ben intenzionata a smuovere e… e tu sei qui! Davanti a me! Con un paio di ali che ti fuoriescono dalla schiena. Parli, ridi, fai pernacchie! Tutto fuorché essere morto e…» 

Daniele s’interruppe un attimo, il tempo di riprendere fiato. Guardò in viso il ragazzo ma quello non diede segno di voler ribattere in alcun modo. Stefano lo squadrò allibito:

«Sei Gabriele Serrante, sì o no?» chiese alla fine, i pensieri che gli si scontravano vicendevolmente.

«Sì.» rispose l’altro, sorridente e tranquillo.

Stefano allargò le braccia con sconforto, non riuscendo a capacitarsi di star avendo per davvero una tale discussione. Stava per riportare lo sguardo sull’ultimo punto fermo che credeva di avere, Micaela, quando lei prese parola di propria iniziativa.

«Basta. Così non andiamo avanti!» sbottò, avvicinandosi nuovamente ai due giovani seduti sull’erba. Si fermò in mezzo a loro, le braccia conserte strette al petto: «Il qui presente cerebroleso è Gabriele Serrante, il mio suicida cugino. Mi spiace per la situazione Moranti, se preferisci andare via e fingere che non sia accaduto niente di tutto ciò, ti capisco e approvo. Tranquillo.» 

Stefano tentò inutilmente di riprendere aria, il sangue che gli saliva alla testa.

«Fammi capire…» cominciò, esitante «Ci sono due espressioni nella tua spiegazione che non mi tornano, Micaela. Come… come puoi abbinare le parole qui presente e suicida, proprio non lo capisco.»

La ragazza sbuffò, gli occhi che si alzavano al cielo.

A rispondere fu Gabriele, ma lo fece con un’altra domanda.

«Dov’è il problema, scusa?» chiese, candidamente.

«Nella sequenza temporale»

Gabriele ridacchiò, divertito da quella risposta schietta e coincisa. Stefano non ci aveva pensato sopra: con naturalezza aveva esposto i fatti come stavano realmente. Il biondino si sentì perciò in dovere di ribattere.

«Vedila così, Stefano. Le cose che t’interessano sono poche: primo, che sono il cugino di Micaela; secondo, che un anno e mezzo fa, mi sono tolto la vita; e terzo che…»

«Ma allora è un vizio! Continuate a sbagliare i tempi! Non puoi dire: sono il cugino” se un anno e mezzo fa ti sei ammazzato e che diamine! Se sei morto non sei il cugino, lo eri! Non so se mi sono spiegato»

Stefano si alzò in piedi, le gambe che tremavano.

Aveva il respiro affannoso, gli occhi che lacrimavano. Continuava a fissare il volto del ragazzo che aveva davanti, eppure nella sua mente lo stesso viso non sorrideva, non respirava neanche. Nella sua mente c’era, bloccata e rifulgente, l’immagine di quel ragazzo immortalato in una fotografia. E quella foto era su una lapide, santissima la miseriaccia! Stefano chiuse gli occhi per qualche istante: si tolse gli occhiali con una mano, mentre con l’altra si massaggiò le palpebre. Era sicuro: presto gli sarebbe venuto un aneurisma.

«Sta delirando» sentenziò caustica Micaela, lanciando un’occhiata d’intesa al cugino.

Gabriele scosse la testa, negando con sicurezza.

«Scherzi, Lele? Guarda che davvero sragiona! Ammetto che è sempre stato strano, il ragazzo, ma mai fino a questo punto… te lo assicuro, secondo me la botta alla testa è stata più forte di quanto temessimo»

A quel punto Stefano non ce la fece più: inforcò di nuovo gli occhiali, aprendo di scatto gli occhi.

«Io sragiono?» chiese, guardando con rabbia Micaela «Io deliro?! Permettimi di correggerti, ti prego: non sono stato io ad andare al cimitero con una vanga. Non ero io a voler disseppellire un morto. Non sono io a litigare con il suddetto morto, che poi tanto defunto non è! E ancora, non sono io ad abbracciare il sempre più improbabile estinto, fingendo bellamente che non sia spuntato dal nulla e, soprattutto, che non abbia un appariscente paio di ali che gli fuoriescono dalla schiena!» gridò Stefano, gli occhi verdi che brillavano di una nuova luce, animati da una fiamma rinata dalle ceneri.

Micaela era rimasta pietrificata dalle sue parole. Non riusciva a credere che quel misero ragazzetto potesse cacciare tanto coraggio di punto in bianco. Lo fissava, un ricciolo nero che le solleticava il naso. E fu senza che nemmeno sapesse perché che gli assestò un potente ceffone sulla guancia destra.

Stefano aprì la bocca, il capo girato di qualche grado a causa della sberla appena ricevuta. Nell’aria, l’eco dello schiaffo ancora riecheggiava. Il ragazzo inarcò un sopracciglio, la mano che correva verso la guancia lesa. Fissò per qualche istante l’audace streghetta, quindi si voltò verso l’angelo biondo.

«Tu la capisci?»

«Anche da morto, ancora non ci riesco» rispose l’altro, stringendosi nelle spalle.

Stefano annuì, tornando a sedersi di fronte a lui. Le gambe incrociate, una guancia ormai rossa quanto i capelli, prestò interamente attenzione al Gabriele che se la stava ridendo sotto i baffi.

«Dì un po’, con gli zombie non hai niente a che fare, vero?»

Gabriele ridacchiò, scuotendo la testa.

«Angelo, demone, fantasma… aiutami, non so che pesci pigliare…»

«Limitati al fatto che non sono morto, okay?»

«Sì… sì, credo che seguirò il consiglio»

«Perché ti ha dato uno schiaffo?» s’incuriosì Gabriele «C’è sotto qualche sordido affare di cui non sono a conoscenza, per caso? Sai com’è, da morti non si riesce più seguire il gossip come si deve.»

«Nessun trascorso, sono spiacente. Credo che semplicemente le andasse così.»

«Oh, ma sarebbe terribile allora! Denoterebbe sadismo. Sicuro che non ci sia niente sotto?»

Stefano storse le labbra, il naso che si arricciava. Lanciò un’occhiata obliqua alla strega che, ferma a pochi metri da loro, li osservava allibita. La bocca della ragazza era dischiusa, incapace di credere a ciò che stava succedendo. Stefano scosse la testa, tornando a guardare il ragazzo che aveva davanti.

«No. Ti assicuro che non c’è stato niente. Nemmeno sa di che colore ho gli occhi»

«Davvero?» si scandalizzò Gabriele, allungandosi all’indietro per afferrare il polso della cugina e tirarla a sé: «Di che colore sono i suoi occhi, Michi?» le domandò, facendo sì che si sedesse fra di loro.

Micaela irrigidì la mascella. In un gesto di stizza portò le gambe al petto, le labbra corrucciate come quelle di una bambina cui si sta facendo un dispetto:

«Viola» soffiò, le dita della mano destra che carezzavano il profilo delle scarpe.

Gabriele ridacchiò, un’espressione incredula in viso.

«Viola?» le domandò, rivolgendo poi un’occhiata comprensiva a uno Stefano sempre più sconsolato.

«Sì, viola. Ho sbagliato, sono arancioni?» s’intestardì Micaela «Non capisco cosa ci possa mai essere di tanto importante nel colore dei suoi occhi, Lele!»

A rispondere non fu Gabriele, bensì Stefano, un sorriso amaro che gli incurvava le labbra.

«Sono verdi, ecco come sono. E no, hai ragione: non c’è niente d’importante nel colore. Che cosa vuoi che sia tale minuscola svista? Sono sottigliezze, o sbaglio? In fondo, come si può pretendere di conoscere qualcosa di una persona che conosci da poco più di dodici settimane?! Cioè… sono solo tre mesi, per carità! E’ un oltraggio pretendere che tu sappia di che colore sono i miei occhi, ma lo sarebbe anche pretendere che tu conosca il mio nome! Almeno questo lo sai? Lo sai come mi chiamo?»

Gabriele alternava lo sguardo fra i due. Stefano, accalorato, l’espressione ferita di qualcuno che è stato gravemente offeso ma tenta ancora di nascondere il risentimento. E Micaela: smarrita, il cervello che si affaticava per rincorrere chissà quale pensiero. Il gesto che seguì durò un attimo.

Un istante in cui la mano di Micaela si sollevava, tornando a infierire sulla guancia destra del ragazzo.

«E due» sghignazzò Gabriele, scuotendo divertito la zazzera bionda «Brutta serata per te, giovane»

Stefano si massaggiava la guancia, ignorando bellamente i commenti del terzo incomodo.

«Hai chiesto cosa c’è d’importante nel colore dei miei occhi» mormorò poi, rialzando lo sguardo per incontrare quello indecifrabile di Micaela «Non c’è niente d’importante, hai ragione. Eppure io certe cose le so. So che i tuoi occhi sono neri. So che sei di origini siciliane, che adori i film con Meg Ryan, che hai paura di guidare la macchina. So che ti piace andare al cinema, che ogni settimana cambi il colore dello smalto sulle unghie. E ti ho visto mentre accompagnavi il cane al parco, quando ridevi fino alle lacrime leggendo un libro… spiegami, allora… perché io so queste cose di te dopo appena tre mesi e tu non sai nemmeno di che colore sono i miei occhi?»

Il ragazzo aveva parlato senza riprendere fiato neanche una volta. Gli occhi fissi in quelli di Micaela.

«Stefano…» sussurrò lei, torturandosi le mani, i capelli che le ondeggiavano attorno al volto.

Avrebbe continuato, l’attenzione del ragazzo tutta per sé, quando uno sbuffo esasperato la interruppe sul nascere. Gabriele fece ticchettare il dito indice sul polso sinistro, un piede che tamburellava sul terreno.

«Devo intromettermi nella conversazione» sentenziò, «Sono mortificato» aggiunse, ridendo per la sua stessa battuta. Quando si accorse dell’irritazione degli altri due, sospirò, affrettandosi a continuare:

«Vi assicuro che sono contentissimo: avete capito di dovervi chiarire, il che è un’ottima cosa. Ma il tempo sta per scadere, per cui ci terrei a non indugiare sugli allori.»

«Che tempo?» chiese Micaela, un’espressione improvvisamente allarmata.

«Niente, niente» fece Gabriele, il tono condiscendente «Possibile che tu colga subito anche le più piccole sfumature e poi non ti accorga della cotta che il tipo si è preso per te da tre mesi a questa parte?»

Micaela spalancò gli occhi, girandosi di scatto verso Stefano; il ragazzo era arrossito fino alla punta dei capelli, la testa che negava con convinzione: «Ma non è vero!»

Gabriele sghignazzò, alzando gli occhi al cielo: «Che mi tocca sentire» si lamentò ilare.

«Non è vero!» ripeté Stefano, il tono di voce sempre più acuto: «Micaela, devi credermi… non starlo a sentire! Cioè, sono più affidabile io che questo surrogato di cugino che si è…»

Non appena Stefano si era interrotto, quattro occhi tornarono a puntarsi su Gabriele.

«Perché… perché poi ti sei suicidato?»

«Ah, sì. Sono proprio curiosa di sentire la risposta, Lele.» mormorò Micaela, l’espressione truce.

Gabriele si strinse le spalle, allungando nel frattempo le gambe come per stiracchiarsi.

«Ma che sarà mai… ve la prendete tanto per delle inezie, se mi posso permettere»

«Tu che sai?» chiese Stefano a Micaela, indicando l’angelo biondo con il capo. La ragazza sospirò, gli occhi che s’impregnavano di una vena tormentata.

«Quello che mi hanno detto» sussurrò, lo sguardo che si faceva assente «Overdose di farmaci. Quando l’hanno trovato era troppo tardi. Non si sospettava niente, è successo così… da un giorno all’altro»

«Non ne sapevo niente» si lamentò Stefano, lanciando un’occhiata sorpresa al biondino.

Micaela ridacchiò, guardandolo con un misto di comprensione e superiorità:

«Non si raccontano cose del genere ai nuovi arrivati» affermò «E poi… è successo relativamente da poco… è un paese questo, Stefano. I panni sporchi si lavano in famiglia, non lo sapevi?»

«E’ successo più di un anno fa, Michi» s’intromise irritato Gabriele, le sopracciglia corrucciate.

«Hai ragione» concordò lei, accendendosi improvvisamente d’ira «E’ più di un anno che mi hai lasciato da sola. Più di un anno che ti sei arreso, senza sognarti nemmeno di parlarmi dei tuoi problemi!» aggiunse, inalberandosi di colpo, come sorpresa da nuovi pensieri «Non ho mai sospettato niente neanche io, Lele! Come credi che mi sia sentita? Ogni giorno. Passavamo ogni dannatissimo giorno insieme e mai una volta che tu ti sia mostrato triste. Sempre allegro, pimpante, rompiballe! Il perfetto contrario di come dovrebbe essere qualcuno deciso ad ammazzarsi, porco cane! Ho passato tante, troppe notti insonni… a chiedermi se avessi potuto fare qualcosa, se avesse sbagliato, se…»

La rabbia stava lentamente scemando, facendo sì che a emergere in superficie fossero la frustrazione, il dolore e i sensi di colpa che avevano angosciato la ragazza. Gabriele scuoteva la testa, i capelli biondi che gli ricadevano sul volto, cercando inutilmente di placare quella fiumana di parole.

«Micaela» la interruppe alla fine, stringendole una mano fra le sue con fare deciso «Micaela, smettila. Non è stata colpa tua. Non potevi fare assolutamente niente per fermarmi» Sorrise, asciugando una lacrima che aveva intrapreso la discesa per la guancia di lei «E’ stato merito tuo, anzi, se ho resistito tanto a lungo, lo sai? Fosse stato per me, avrei messo fine a tutto diversi anni fa… non ce la facevo, non riuscivo più a convivere con il dolore…»

Stefano cercava inutilmente di seguire il filo del loro discorso. Sapeva che in realtà, non avrebbe proprio dovuto essere lì. Non avrebbe dovuto ascoltare. Eppure non riusciva a farne a meno. Si sentiva soffocare dal dolore di Gabriele, ma non sapeva a cosa fosse dovuto. Era un estraneo, cui era concesso di capire solo parte di ciò che stava succedendo.

«Ogni mattina invece, c’eri tu. Con le tue parole, i tuoi sorrisi, quel bavoso del tuo cane… e mi dicevo che, sì, potevo resistere ancora per un po’»

«Mi hai lasciato sola, Lele» sussurrò, le lacrime agli occhi «Perché? Non potevi aspettare ancora? Non ero pronta… io non sono pronta. Chi ho qui? Avevo solo te! Te ne rendi conto?»

«Non è vero» ribatté il giovane, sollevandole il mento con un dito «Sei una ragazza forte, Michi. Credi che ti avrei mai abbandonato se non fossi stato certo che tu ce la potessi fare?»

Micaela singhiozzò, scostando il capo con fare brusco:

«Come fai a dirlo?! Tu hai avuto il coraggio di mettere fine a tutto: superate una volta le dosi consigliate di pillole, ti sei tolto ogni problema. Io come…»

Gabriele la rimbrottò, con rabbia:

«Non è stato coraggio il mio» sibilò, gli occhi che incatenavano quelli della ragazza «Siamo diversi, Micaela, riesci a capirlo? Tu hai dentro una forza che io non sarei mai riuscito a trovare.»

«Non ce la posso fare, Lele»

«E come vorresti risolvere? Una bella overdose anche tu?!» domandò lui, sarcastico. Avrebbe continuato con quell’atteggiamento caustico-aggressivo se non avesse visto con chiarezza la crescente vulnerabilità di Micaela. «Qual è il problema, Michi

La ragazza non rispose, alzandosi in piedi a fatica. Gabriele le teneva ancora stretta una mano, ma lei la liberò, facendo per allontanarsi. Il biondo chiuse gli occhi, il capo che lento si abbandonava all’indietro:

«Ricordi il mago di Oz, Michi

Micaela aveva mosso solo qualche passo. A quelle parole si fermò, senza accennare però a voltarsi.

«I cuori non saranno mai una cosa pratica…» citò Gabriele, lasciando che le parole continuassero ad echeggiare nell’aria: un richiamo a ricordi lontani.

«…finché non ne inventeranno di infrangibili.» concluse la ragazza, le spalle che venivano percorse da un brivido. Non aggiunse altro. Le braccia strette al petto, s’incamminò fra le lapidi, distanziandosi da loro.

Stefano la guardava, incapace di distogliere lo sguardo da quella figura che riusciva a sconcertarlo: erano insite in lei una forza spiazzante e una fragilità insospettabile.

«Toto, hai capito?»

Stefano sussultò, alzando fulmineo gli occhi su Gabriele: «Come mi hai chiamato?»

«Toto» ripeté Gabriele, spolverandosi i jeans con aria distratta «Non ti chiamano così?» domandò poi, inarcando un sopracciglio.

«Mi chiamavano così.» mormorò Stefano, alzandosi a sua volta con mal grazia «Sbagliare i tempi verbali è proprio un vizio il tuo, eh?»

Gabriele gli fece segno di lasciar perdere il discorso con un cenno della mano: «Hai capito?»

Stefano scrollò le spalle con irrequietudine: «Cosa? Cosa, dovrei aver capito?!»

«Tienila d’occhio» rispose Gabriele, il tono di voce improvvisamente serio «Fallo per me, okay?»

«Non ti seguo…»

«Ha del Buscopan nell’armadio» fece Gabriele, l’atteggiamento cospiratorio «E ci dovrebbe essere del Farganesse nel mobiletto affianco a quello dei liquori» continuò, avvicinandosi a Stefano. Gli poggiò le mani sulle spalle, incrociando lo sguardo con il suo «Devi starci attento. Ora hai capito?»

Stefano iniziò a riprendere colore solo in quel momento. Annuì, le parole che litigavano con la lingua: «Io.. sì, cercherò… cioè, non immaginavo…»

«Toto» lo riprese Gabriele, scuotendolo per le spalle.

«Non la perderò di vista un secondo»

Gabriele annuì soddisfatto, la gratitudine che gli illuminava lo sguardo. «Ah, Toto…»

«Ragazzi! Avete sentito?»

Stefano fece per girarsi verso Micaela, spaventato dalla nota di urgenza che trapelava dalla voce della ragazza, ma Gabriele gli impedì il movimento.

«Posso regalarti una penultima perla di saggezza, Toto?» chiese, un sorriso scaltro a increspargli le labbra.

«Non chiamarmi Toto» soffiò l’altro come risposta, tentando ancora di capire cosa volesse Micaela. Sentiva i passi della ragazza farsi sempre più svelti e sempre più vicini.

*«Gran parte dei nostri sogni li viviamo con maggiore intensità della nostra esistenza da svegli»

Stefano sorrise, credendo che l’altro scherzasse. Voleva girarsi, chiedere appoggio a Micaela, ma qualcosa nello sguardo di Gabriele lo bloccò. Schiuse le labbra, affrettandosi a chiedere spiegazioni:

«Cos…»

Rischiò di perdere l’equilibrio, sbilanciato dal corpo di Micaela che gli si lanciava contro.

Le avvolse i fianchi con un braccio, sorreggendola: «Che succede, Michi?»

«Non hai sentito?» chiese lei, volgendo con ansia lo sguardo a sinistra. Stefano scosse la testa, cercando di prestare maggiore attenzione a ciò che lo circondava. Aveva appena chiuso gli occhi, nella speranza così di poter individuare prima il rumore estraneo, quando un fascio di luce lo investì in pieno.

«Tutto bene, ragazzi?»

Arretrarono insieme: un grido soffocato Micaela e un battito in meno Stefano. Ci misero qualche secondo a capire che il fascio di luce era di una pila; e ancora un paio di attimi per riconoscere l’uomo quale uno dei poliziotti del servizio per la ronda notturna. 

«Non dovreste essere qui» continuò, l’espressione di un padre che rimprovera i figli «Sapete che ore sono? E’ pericoloso! In questa notte dell’anno più che mai: ci sono malintenzionati in giro, cosa vi dice la testa?»

Stefano annuì distrattamente. Non lo ascoltava davvero. Non lo vedeva neanche.

Non riusciva a distogliere gli occhi dal punto in cui fino a un attimo primo c’era Gabriele.

Sentì il respiro accelerato di Micaela su collo e, subito dopo, il suo sussurro concitato:

«E’ sparito»

 

Una tortura psicologica.

Ne era convinto: la sveglia non poteva essere niente di diverso.

Si avvolse meglio nelle coperte, tirando le lenzuola fin sulla punta del naso. Stefano odiava svegliarsi: lo aveva sempre considerato un atto di violenza fisica oltre che mentale. Gli ci volevano come minimo tre quarti d’ora per riuscire a connettere. Altri dieci minuti poi, per iniziare a ragionare con fattibilità.

Appena sveglio sentiva sempre i pensieri che cozzavano: si accatastavano, scontrandosi ribelli, per ottenere attenzione. E quella mattina era peggio del solito: aveva appena aperto gli occhi che sentì la testa come scoppiargli. Un mal di testa lancinante, le tempie che pulsavano, un sapore di ruggine in bocca.

Si mise a sedere con difficoltà, sperando che la stanza provasse pietà per lui e si fermasse.

Cominciò a massaggiarsi la fronte, sperando che in qualche modo la confusione scemasse.

Si appoggiò alla testata del letto, le palpebre pesanti, pronto a darla vinta al sonno. Stava per riscivolare sotto le coperte, nel rifugio caldo e accogliente che gli avevano sempre offerto, quando lo sguardo gli cadde casualmente sul calendario a muro. Era il suo calendario preferito: quello dedicato ai Muse, con i testi delle loro canzoni. Stefano lo guardava e capiva che c’era un particolare, un qualcosa che gli sfuggiva.

Ne era sicuro: stava dimenticando qualcosa… guardò il mese, scorse i giorni, e finalmente capì.

Ottobre. Il 31 di Ottobre, porco diavolo! Halloween!

Stefano si mise di nuovo a sedere, questa volta con decisione. Si tenne la testa fra le mani, spossato dalle immagini che lo assalirono con brutalità; ricordò Micaela: la strega sui tacchi a spillo; ricordò la vanga, il putto, la lapide e il vento… ricordò la canzone, la voce, la piuma; e andò avanti così: immagine dopo immagine, fotogramma su fotogramma; Gabriele, le sue ali, le sue parole; il suicidio, i farmaci e ancora Micaela… la raccomandazione dell’angelo biondo e il fascio di luce della pila.

Stefano storse le labbra, sentendo nuovamente il senso di vuoto che lo aveva già assalito: quella sensazione di abbandono che lo aveva affondato non appena si era reso conto che Gabriele non c’era più.

«Sei sveglio, allora!»

Stefano sobbalzò, il flusso incoerente di pensieri che ancora lo avvolgeva. Si voltò verso la porta della stanza, fulminando con lo sguardo il ragazzino che l’aveva appena spalancata.

«Raffaele!» ringhiò, scostando con mal grazia le coperte e scendendo dal letto per raggiungerlo: «Quante volte ti ho detto di non entrare in camera mia senza bussare?!»

Il ragazzino si strinse nelle spalle, ignorando totalmente le parole del fratello: si sistemò in bocca un lecca-lecca e sorrise, divertito. I corti capelli gli cadevano davanti agli occhi, nascondendo due gemme verdi simili a quelle di Stefano: «Pronto a fare dolcetto o scherzetto, Toto?»

Stefano si stava togliendo la maglietta slargata del pigiama, quando quelle parole lo colpirono in pieno.

Si voltò, l’espressione di chi avesse appena ricevuto uno schiaffo: «Che hai detto?»

Raffaele inarcò un sopracciglio, arricciando le labbra: «Ti ho chiesto se sei pronto per fare dolcetto o scherzetto! E’ Halloween oggi, Toto!» ghignò il ragazzino, «Svegliamoci, su! Metti in moto il neurone.»

Stefano scosse la testa con forza. Non poteva essere.

«Stai scherzando?» chiese, correndo verso il calendario «Dimmi che stai scherzando, Raff!» esclamò, la voce che si alzava senza che se ne rendesse conto. Stefano scorse i giorni del mese con un dito tremante, gli occhi preoccupati del fratello puntati sulla schiena. 

«Oggi è il primo di Novembre» mormorò, fermando il polpastrello sulla casella del trentuno «Ieri… ieri era Halloween!» aggiunse, la voce che gli moriva in gola.

Raffaele si avvicinò, aggrottando le sopracciglia e togliendosi il lecca-lecca di bocca: «Stai bene, Toto?»

«Io… non mi prendere in giro, Raff. Oggi… che giorno è?» chiese, lo stomaco che gli si contorceva mentre una tremenda consapevolezza si faceva spazio nella sua testa.

«E’ il trentuno, Toto.» rispose il fratello, questa volta un’espressione seria a colorargli il volto.

«Non è possibile» sussurrò Stefano, crollando a sedere sul tappeto blu, la maglietta del pigiama ancora stretta fra le dita pallide «Ho già vissuto questa giornata… io… era ieri Halloween!»

Raffaele dischiuse le labbra, scuotendo impercettibilmente la testa. Si inginocchiò davanti al fratello, gli occhi che cercavano i suoi: «Vuoi che chiami la mamma?»

«No!» gridò Stefano, afferrandolo per il collo della felpa rossa «Voglio che mi dai ragione» soffiò, le dita che stringevano convulsamente la stoffa «Dimmi che era ieri il trentuno!»

Raffaele tentò di divincolarsi, un sorriso nervoso che gli incurvava le labbra: «Tu deliri. Sragioni, davvero»

Stefano lo lasciò andare, le forze che lo abbandonavano: «Me lo hanno già detto, questo. Ieri. Ieri che era Halloween.» un singhiozzo lo fece tremare «Me lo hanno detto un angelo suicida e sua cugina.»

Il ragazzino arretrò verso la porta, le mani che si alzavano in aria in senso di resa.

«Mi stai spaventando, Toto. Davvero.»

Stefano ridacchiò.

Una risata isterica, una risata da folle. Non era possibile. No, assolutamente no. Non era vero. Non stava succedendo, non poteva star succedendo.

«Ho sognato tutto?» chiese, rivolto al fratello che non era più nella stanza «Ho sognato ogni cosa?»

La risposta gli arrivò quando ormai non se l’aspettava più: attutita, a mala pena udibile. La voce acuta e nervosa del fratello lo raggiunse:

«Non lo so, Toto. Spero con tutto il cuore di sì. Lo spero per te.»

Stefano sorrise, infilandosi le mani fra i capelli.

Chiuse gli occhi, snervato. Halloween. La notte di Halloween doveva ancora arrivare…

Si alzò in piedi, cominciando a percorrere la stanza in lungo e in largo. Passeggiava. Avanti e indietro, le mani legate dietro la schiena, gli occhi puntati sul pavimento. Era stato tutto un maledettissimo sogno.

Un sogno. Niente altro che un… sogno.

Stefano sentì quella parola che gli riecheggiava in testa. Si ripeteva, vibrando. E sentì un brivido assalirlo.

“Gran parte dei nostri sogni li viviamo con maggiore intensità della nostra esistenza da svegli.”

Aveva sognato anche quelle parole? Se non esisteva un Gabriele… Scosse la testa, bloccandosi sul posto: gliele aveva dette Gabriele quelle parole. Le aveva citate lui. Nel suo sogno. Mancava qualcosa.

Un tassello, ne era sicuro. Continuava a sfuggirgli.

E fu a quel punto che lo vide: il tassello che continuava a mancare. Ai piedi del letto, seminascosta dalle coperte che aveva gettato a terra con disattenzione. Una piuma. La piuma.

Stefano la riconobbe all’istante: quasi si tuffò sotto il letto per afferrarla. La strinse con dita tremanti, rigirandosela in mano, incredulo. Era la piuma: quella del cimitero, quella che volteggiava. La piuma che apparteneva a Gabriele. Crollò a sedere, la schiena contro il materasso, il capo reclinato all’indietro.

Che significava? Cosa diamine stava a dimostrare quella dannatissima piuma?!

Che non era pazzo? Che non si era sognato ogni cosa? O che si era sognato tutto ma non…

Stefano gemette, la sensazione di star degenerando. Chiuse gli occhi, le labbra serrate e la gola chiusa.

“Toto…” Il ragazzo strinse ancor più gli occhi, convinto che il senno lo stesse ormai abbandonando. Non poteva essere. Non poteva essere la voce dell’angelo biondo. Si portò la piuma al petto, mentre la risata di Gabriele gli riempiva le orecchie. Dio… era da manicomio, non c’era niente da fare.

Ripensò alla sera prima, o meglio al sogno che aveva fatto sulla sera prima, e alle enigmatiche parole di Gabriele: “Posso regalarti una penultima perla di saggezza, Toto?” … Penultima?

Stefano rise, aprendo gli occhi e puntandoli al soffitto. «E allora?» chiese, conscio di star parlando al nulla, «L’ultima perla di saggezza che fine ha fatto, eh?!» si accalorò, giocherellando con la piuma.

La solita risata gli risuonò nelle orecchie, facendolo rabbrividire. E poi sentì la sua voce, quella che a rigor di logica si era solamente immaginato:  “Nessun sogno è mai solamente un sogno”

La piuma gli cadde dalle mani. Stefano sgranò gli occhi, la terra che sembrava franargli sotto i piedi. Cosa… Era nuova. La frase, la citazione o quello che diavolo era! La perla di saggezza era diversa! Non l’aveva mai sentita. Non l’aveva mai sognata!

«Stefano, tutto bene?»

Il ragazzo si voltò, lo sguardo assente, verso la porta della sua camera: ci mise qualche attimo per mettere a fuoco la madre. Annuì, sovrappensiero, ma lei non si allontanò: «Raffaele ha detto che…»

«Ignoralo, mamma» la interruppe, alzandosi in piedi sorridente «Va tutto benissimo. Alla perfezione.»

La donna acconsentì, incerta. «Che fai oggi?» chiese, ancora lievemente impensierita dal comportamento del figlio. Stefano si avvicinò all’armadio e afferrò in fretta una felpa. Si strinse nelle spalle, indossando una giacca scura. Sorrise ancora, uscendo dalla stanza. Rispose, quando ormai stava scendendo le scale:

«Profano una tomba.»

 

§

 

 

E’ una shot vecchia almeno un anno e, sinceramente, non riesco a ricordare il motivo per cui non la pubblicai a suo tempo.

Forse già sapevo che non sarebbe piaciuta a nessuno ;)

Fatto sta che, facendo pulizia fra i miliardi di documenti word, mi sono imbattuta in questo macello e mi sono detta: “massì!”

Ed eccola a voi. Un sentito grazie a chi riuscirà ad arrivare alla fine! ^^

Sara

 

 

 

   
 
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