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Autore: LairaWolf    25/05/2012    8 recensioni
Dopo un periodo di inattività dovuto alla scuola, sono tornata con questa One-Shot! Se è scritta male, chiedo perdono, ma non è facile scrivere in incognito durante le ore di informatica!
Genere: Drammatico, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Gwen, Trent | Coppie: Trent/Gwen
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
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La notte era fredda, come lo può essere una notte di ottobre nella città di Toronto. La ragazza esile, dai capelli neri leggermente arruffati, con delle mechès blu sbiadite, vagava in una strada al chiaro di luna. Era la sola in quel luogo e la sua ombra si stagliava lunga e lugubre.
La ragazza camminava con passo lento e incerto. Il cappotto nero pesante, leggermente sporco, le stava molto largo, le maniche scivolavano oltre le sue mani, e era troppo lungo: le arrivava fino alle ginocchia.
Il volto mostra due occhi pieni di tristezza e di niente, la bocca contorta in una smorfia di fastidio e la pelle bianca come la neve.
Con passi lenti camminava senza una meta. Camminava e basta, fin dove la portavano le gambe. O forse no.
Vedeva delle luci in un locale: uno di quei locali che vengono affittati per conferenze e festicciole. La ragazza sperava che ci fosse una festa. Nelle feste lasciano un sacco di avanzi, se era fortunata avrebbe potuto fare razzia di nascosto quando tutti i partecipanti se ne fossero andati. Le andava bene anche un piccolo sandwich, dopotutto, con qualche caloria e qualche proteina le bastavano per tirare avanti una settimana.
Si avvicinò lentamente al locale: dalle finestre sudice arrivavano luci e ombre di tante persone e in sottofondo si sentiva una musica.
“E’ una festa” si disse.
Guardò in una finestra, per vedere che cibo era presente, ma anche per curiosità.
Tante persone ridevano, discutevano. Ce ne era una che saltava in giro come se fosse impazzita, e un’altra (forse una ragazza, dato che si distingueva una coda) che strangolava un ragazzo piccolo di statura.
Sputando sulla manica, la ragazza cercò di pulire la finestra per vedere meglio. Non sapeva perché, ma le interessava molto guardare in faccia quelle persone.
Dopo aver ottenuto un lavoro accettabile, guardò attentamente.
E un ragazzo guardava attentamente lei. Un ragazzo alto, coi capelli neri e occhi verde prato.
Si guardavano. E si riconobbero.
La ragazza venne presa dal panico e cercò di scappare da quel locale. Correva sulla strada deserta, ma non per molto: quel ragazzo era uscito e la inseguiva, chiamandola e incitandola a fermarsi. Ma lei non lo ascoltava, correva e basta.
Solo se non fosse stato per un marciapiede leggermente rialzato rispetto al normale.
La ragazza inciampò sul marciapiede e cadde a terra, strisciando sull’asfalto per un paio di metri. Le faceva male tutto e si era grattugiata per bene il ginocchio destro. Lo vedeva che sanguinava. Il ragazzo la raggiunse ed era visibilmente preoccupato. Le prese la mano e la fece sedere, inginocchiandosi vicino a lei. Si guardavano ancora o almeno, finché la ragazza non abbassò gli occhi.
-    Da quanto tempo... –  disse il ragazzo. – Ti ho cercato tanto Gwen. –
Lei rialzò gli occhi e guardò quelli verdi del ragazzo.
-    Perché? Che bisogno ne avevi? –
-    Mi sei mancata... –
-    Sei troppo romantico. –
-    Sei ferita al ginocchio... mi dispiace moltissimo. –
-    Non è colpa tua. Ho passato di peggio. –
-    Ma dove sei stata? Anche Leshwana e Bridgette hanno fatto di tutto per cercarti e contattarti, ma sei praticamente sparita per un anno. –
-    Un anno? È passato così tanto tempo da quando potevo considerarmi un essere vivente? –
-    Ma perché dici così? –
-    Niente Trent, tranquillo. –
-    Vuoi che ti riaccompagni a casa? –
Gwen guardò Trent e con tono di scherno disse:
-    Ma quale casa?? Spero che tu stia scherzando. –
-    Ma no! Sei strana Gwen... perché parli in questo modo? Che stai cercando di dirmi? –
-    Trent... è da un anno che vivo in mezzo alla strada, non l’hai capito? –
Non risponde. Rimane lì, fermo, guardandola negli occhi, come se chiedesse ulteriore conferma.
La fece alzare, prendendola per mano e portandola in un parcheggio.
-    Dove mi stai portando Trent? – chiese Gwen mentre lui la conduceva verso una Ford nera.
-    A casa mia, è ovvio. Starai da me finché vorrai. –
-    Ma che stai facendo? Non c’è bisogno davvero! –
-    Non ti lascerò mai qui. Se me lo avessi riferito prima che avevi bisogno di una casa, non ti avrei negato la mia. E adesso non ho alcuna intenzione di lasciarti fuori al freddo, non me lo perdonerei mai. Tu vieni con me e basta. –
Gwen non osò ribattere e si arrese a seguirlo. Trent frugò nelle tasche della sua giacca e estrasse delle chiavi, con le quali aprì la Ford. Aprì la portiera di destra e lei si sedette sul sedile. Con le mani sfiorava il sedile e il cruscotto, beandosi della loro morbidezza.
Trent entrò nell’auto e avviò la macchina. Passarono nel centro di Toronto, superarono negozi, night club e passanti, fino ad arrivare dall’altra parte della città. Arrivarono a un grande palazzo interamente illuminato.
“ Sicuramente,” pensò Gwen. “questo palazzo sarà di un’azienda importante.”.
Trent guidò verso il palazzo che stava di fronte a quello grande: era decisamente più piccolo, ma faceva anche lui la sua porca figura.
Entrarono in un garage sotterraneo dove Trent parcheggiò la Ford. Scesero e lui guidò Gwen su per una rampa di scale che sembrava non finire mai.
-    Scusami per tutte queste scale- disse Trent. – Ma l’ascensore si è guastato stamattina. Il mio appartamento è all’ultimo piano, quindi abbiamo ancora molte scale da fare. –
-    Vivi qui? Davvero? –
-    Certo... tempo fa non lo avrei mai pensato, ma guarda fon dove sono arrivato. Mi stupisco di me stesso. –
-    Io non mi stupisco affatto. –
Trent girandosi lentamente, guardandola con un misto di gioia e profondo ringraziamento. Riprendono la scalata finché non arrivano davanti a una porta di quercia scura. Lui estrasse dalla tasca un altro mazzo di chiavi con le quali aprì la porta e fece accomodare Gwen all’ingresso, che si guardava intorno, con meraviglia e sbalordimento: sembrava (e dopo ebbe la conferma che era) un attico. Era enorme, illuminato. Sembrava che tutti i muri, i mobili dicessero “Ricchezza, ricchezza”. Gwen era a bocca aperta, mentre lui la guardava divertita.
-    Beh, benvenuta a casa mia! –
-    È... fantastica... bellissima... –
-    Vuoi farti una doccia? –
Lo guardò incredula. Una doccia! Qual’era l’ultima doccia che si era fatta?
Prima che vivesse sulla strada. Quindi un anno fa.
-    Posso davvero?? –
-    Ma certo! Perché me lo chiedi? –
-    No... nulla lascia stare. Dove posso poggiare la roba? –
-    Dove vuoi. Dammi il cappotto. –
-    Preferirei di no. È sudicio. Lo butto via. –
-    Tranquilla faccio io: non sono schifiltoso. Tu vai pure... ah, il bagno è là in fondo a sinistra. –
-    Ho capito... grazie Trent, grazie... –
Stava per scoppiare in singhiozzi e lui lo capì. La abbracciò e le sussurrò:
-    Non devi ringraziarmi di nulla. Sono io che devo ringraziare te... perché sei tornata. –
Non rispose. Rimase tra le braccia di lui, trattenendo a stento le lacrime.
-    Non volevi fari la doccia? –
-    Oh sì certo... –
Si riprende e va verso il bagno. Lo chiude e comincia a spogliarsi e quando avverte l’acqua calda sul suo corpo pallido e esile, arrossisce di colpo. Provava lontane sensazioni,  sensazioni che non provava da tantissimo tempo.
Nel frattempo Trent faceva quello che gli era stato chiesto: buttava via il cappotto lurido. Ma non resistette a frugare nelle tasche. Trovò un coltellino a serramanico, qualche spicciolo e un portafogli. O almeno pensava che lo fosse, ma scoprì che era un mini album di fotografie.
Erano ritratte lei, ancora giovane e sorridente insieme a un bambino più piccolo che le somigliava. In un’altra c’era lei con una donna, e poi tutti e tre. E un’altra, dove la faccia di un uomo alto era stata cancellata con un pennarello nero. Così in un’altra foto, dove c’era anche Gwen.
“Sicuramente,” pensò Trent. “Il ragazzino è il fratello e la donna è la madre. E quello cancellato... il padre. È comprensibile. Povera Gwen...”
Ma non solo: c’erano anche foto con lui. Ricordava che se le erano fatte subito dopo la fine del reality, erano foto scherzose. Si era appena mollata con Duncan (non poteva durare), lei, Leshwana; Bridgette e lui erano andati in giro per Toronto, durante l’estate. E allora Gwen era ancora felice.
Chiuse il piccolo album che poggiò su un comodino nella sala e buttò il cappotto in pattumiera.
Intanto Gwen aveva finito la doccia e si avvolgeva nell’accappatoio di Trent. Prese il phon ed ebbe un attimo di esitazione: non si ricordava più come funzionava. Ma per poco, e riuscì ad accenderlo.
Quando i capelli furono quasi completamente asciutti, Trent bussò alla porta e Gwen spense il phon.
-    Gwen sono io. Posso entrare? Ti ho portato il cambio. –
-    Sì certo. Grazie mille. –
Entrò con in braccio il cambio.
-    Scusami per la biancheria... ma non posseggo biancheria intima femminile. –
-    Tranquillo ne farò a meno. Ma la tua ragazza non fraintenderà? –
-    Puoi star sicura che non lo farà, per il semplice fatto che non ho una ragazza. –
Un breve silenzio colpì la stanza, interrotto solo dallo sgocciolare della doccia.
-    Beh, io vado... mi troverai in cucina. Ah, che vuoi mangiare? –
-    Aspetta... hai detto mangiare? –
Non ci poteva credere. Avrebbe MANGIATO davvero.
-    Sì, mangiare. Ovviamente niente eucalipto. Hai qualche preferenza? –
-    Io... no, mangio di tutto. Ma non devi disturbarti, tranquillo... –
-    Nessun disturbo tranquilla. –
E uscì. Gwen finì di asciugarsi e prese il cambio. Erano un vecchio pigiama di Trent, con un motivo di lunette.  Le stava leggermente largo, ma era così caldo e morbido, che non avrebbe indossato nient’altro al suo posto.
Rimise a posto l’accappatoio e cercò la cucina dentro a quell’appartamento enorme, finché non la trovò. Sul tavolo vedeva un piatto con della carne, Coca-Cola e del pane morbido. Le venne l’acquolina e una fame a lungo celata si risvegliò bruscamente.
-    Ah ciao! Mangia pure, non rimanere lì sulla soglia! –
Non se lo fece ripetere due volte: si fiondò sulla carne e la divorò con avidità. Trent si sedette vicino a lei, guardandola attentamente. Pensava:
“Si vede che ha molta fame. Chissà quand’è stata l’ultima volta che ha mangiato... e cosa ha mangiato.”
Gwen finì la carne, esclamando una sorta di gemito di soddisfazione.
-    Vuoi qualcos’altro? –
-    Sì... qualunque cosa. –
-    Che ne dici di una pizzetta? –
-    Va benissimo. Grazie, grazie, grazie!! –
-    Non devi ringraziare. –
Trent prese dal freezer una pizzetta congelata e la mise nel microonde; dopo un minuto la tirò fuori, la mise in un tovagliolo di carta e gliela offrì. Lei la mangiò in trenta secondi netti, e non la smetteva di ringraziare. Ma cominciava a sentire la stanchezza.
-    Hai sonno Gwen? –
-    Un po’... –
-    Ho un solo letto, te lo cedo. Io dormirò sul divano. Non farti problemi, è comodissimo! –
-    Trent, sicuro? Mi sento in colpa... –
-    Non devi assolutamente. Perché dovresti sentirti in colpa? –
-    Perché mi sento un’approfittatrice.-
-    Non lo sei affatto. È stata una scelta mia, io ti ho voluto portare qui. Tu non hai ribattuto. –
-    Mi dispiace lo stesso. –
-    Non devi. Allora vuoi dormire? –
-    Sì... ma ti devo chiedere una cosa... no, è troppo. –
-    Dimmi tutto. Non vergognarti. –
-    Non volevo dormire da sola... vorresti dormire insieme a me. –
Il cuore di Trent fece un sobbalzo.
-    M-ma certo... –
-    Va bene, non vuoi. –
-    No! Certo che voglio! Vado a... preparare la camera. –
Si alzò di scatto e si diresse nella sua lussuosa camera da letto. Aveva un balcone che dava sull’intera città e il letto era molto grande, con un copriletto verde smeraldo. Da un armadio, Trent prese un cuscino che sistemò sul letto. Si mise il pigiama e chiamò Gwen. Lei arrivò e Trent spense la luce. La prese per mano e la diresse verso il letto e si sistemarono sotto le coperte.
Gwen si sentiva su una nuvola morbidissima. Per tanto tempo aveva dormito sull’asfalto, sulle panchine, contro un muro. E ora un semplice letto era per lei un vero paradiso. In più la vicinanza di Trent, il suo calore, era un’altra beatitudine. E non sapeva perché, ma voleva che lui la stringesse, l’abbracciasse... e si avvicinò di più al suo corpo, nel tentativo di farglielo comprendere.
Lui comprese. E la strinse dolcemente.
Gwen si addormentò tra le sue braccia, cullata dal dolce respiro di Trent.


Quando si svegliò, Gwen non si era mai sentita meglio. Guardò l’orologio: le dodici e un quarto. Aveva dormito tantissimo.
Trent ovviamente non c’era e Gwen si alzò: si sentiva stranamente debole e le faceva male la gola. Non ci badò e si diresse verso il salotto, dove Trent era seduto ad un tavolo, sopra il quale erano presenti un mare di fogli e vicino al divano di pelle nera c’erano una dozzina di sacchetti di carta. Trent alzò la testa e le sorrise.
-    Buongiorno, ben svegliata! Stai bene? –
-    Sì. – disse mentendo. – E tu? –
-    Io bene grazie. –
-    Ascolta, non so come ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me... è veramente tanto. –
-    Ma dai, per così poco? Non devi ringraziarmi. A proposito, che vuoi mangiare? –
-    Tranquillo ora posso tornare sulla strada, non c’è bisogno che io resti qui a disturbarti. –
-    Tu non andrai proprio da nessuna parte o perlomeno non sulla strada. Se vuoi ti porto da una tua zia, amica o parente che ti può ospitare e che si prenda cura di te, altrimenti tu rimarrai qui con me. Non ti lascerò certo da sola! –
-    M-ma Trent, io... tu sei troppo buono... – e scoppiò in singhiozzi.
Piangeva perché non poteva credere che fosse così buono da condividere pure la sua cosa con lei, nonostante quello che gli aveva fatto. Si sentiva un’usurpatrice, un’arpia. Aveva vissuto per un tempo che le pareva infinito nei sobborghi della città, tra persone schifose e approfittatrici, muffa, topi, merda e fumo. Per  non parlare degli spacciatori che accettavano qualunque moneta di scambio per della droga scadente. Anche lei era stata eroinomane per tanto tempo, ma da due settimane aveva smesso. E nonostante tutto, lei non si era mai prostituita, perché credeva che la sua verginità fosse l’unica cosa pura che aveva, e certo non l’avrebbe ceduta per denaro. O a quel mostro di suo padre.
Gwen fu avvolta da braccia delicate e un odore di dopobarba alla lavanda pervase le sue narici. Si calmò un poco.
-    Mi dispiace Gwen, non volevo farti piangere. –
-    Non è stata colpa tu, è che non sono degna di stare sotto il tuo tetto e mangiare alla tua tavola. Specialmente dopo quello che ti ho fatto passare. Mi hai dato la vita e io che cosa ho fatto per te? Niente. Non merito la tua pietà... –
-    Se lo faccio non è per pietà. È per dovere personale. Perché, tu lasceresti una persona alla quale vuoi molto bene in difficoltà, senza fare niente, limitandoti a guardare e basta? Io non lo farei mai. –
-    Nemmeno io... –
-    Ecco perché ti ho ospitato in casa mia, e ti posso assicurare che non è un disturbo: anzi lo faccio con gioia. Ed è un vero piacere aver un po’ di compagnia in questa casa silenziosa, specie se la compagnia è la tua. –
Le prese il mento tra le mani e alzò il suo viso pallido rigato di lacrime verso il suo. Gwen tirò su col naso e lo guardò.
-    Almeno adesso fammi un sorriso Gwen. È tutto quello che chiedo. –
Lei sorrise. Ed era un sorriso sincero, perché le brillavano gli occhi (e non era perché aveva pianto, le brillavano come scintille).
I loro visi si stavano avvicinando lentamente, ma inesorabilmente. Ormai erano a pochi centimetri di distanza ma Gwen  tossì violentemente, coprendosi la bocca col palmo della mano. Si piegò in due, tossendo sempre più forte e Trent si allarmò.
-    Gwen!| oddio che hai?? –
Non riuscì a rispondere, perché non la smetteva di tossire. Quando pensò che fosse passato si guardò il palmo della mano e vide del sangue.
Abbassò gli occhi, come in rassegnazione. Trent era sempre più preoccupato e vedendo la mano piena di sangue si allarmò ancora di più. Le prese le spalle e la costrinse a guardarlo negli occhi.
-    Ma tu hai la tubercolosi! Perché non me lo hai detto?? –
-    Perché credevo... che se ne fosse andata... un giorno fa... –
-    Oggi pomeriggio andiamo dal mio medico e non voglio discussioni. –
Fece sedere Gwen sul divano, avvolgendola in una coperta, mentre telefonava al dottore per prenotare un appuntamento urgente. Riattaccò e le si sedette a fianco; lei appoggiò la testa contro la sua spalla, e lui le accarezzò i capelli teneramente.
-    Alle tre dobbiamo essere in ambulatorio. Tranquilla, il dottor Spark è una persona molto gentile ed è un bravissimo medico. –
-    Si chiama dottor Scintilla? Promettente... – c fu un attimo di silenzio. – Trent mi dispiace moltissimo... –
-     Stai calma, non è mica colpa tua! Ora rilassati. A proposito, ti ho comprato della biancheria e dei vestiti. Conoscendoti ho preso tutto rigorosamente nero, ma non ho preso dei vestiti eleganti, solo biancheria normale, un paio di scarpe da ginnastica, una tuta, dei pantaloni, delle magliette e una felpa. Ma non ho potuto resistere dal comprarti un pigiamino di cotone blu notte, con delle stelle argentate. Secondo me, saresti molto carina con quello...  per fortuna mi sono ricordato tutte le tue taglie! –
-    Hai fatto tutto questo.. per me? –
-    Certo! E per chi altro altrimenti? –
Ci fu un altro momento di silenzio.
-    Scusami per la mia presunzione Gwen... ma sai, adesso ti considero interamente parte della mia famiglia. –
-    D-davvero? Io per te... faccio parte della tua... famiglia?!? –
-    Sì e volevo chiederti... no, forse per questa domanda è meglio aspettare. –
-    Sono molto curiosa ma rispetto la tua decisone e... perdona stavolta la mia curiosità, ma cosa sono tutti quei fogli? – e indicò il tavolo sommerso.
-    Ah, quei maledetti fogli? Lavoro. –
-    Dove lavori? Sicuramente sei un pezzo importante, altrimenti non avresti questa fantastica casa. –
-    Guarda, lavoro proprio nel palazzo che sta di fronte a noi. Non so come spiegarti bene quello che facciamo, così te la semplifico in questo modo: è un’azienda di prodotti informatici. Si occupa di varie cose che non sto qui ad elencare. E in fondo sì, sono abbastanza importante. Sono il vicedirettore. Ma questo mi costringe a portarmi a casa il lavoro, e sbrigare pratiche anche di domenica! –
-    È domenica mattina? –
-    Sì... perché me lo chiedi? –
-    Trent, ho una domanda un po’ assurda... –
-    Dimmi tutto. –
-    Io quanti anni ho? –
-    Beh, sei nata il 4 febbraio del 1990, quindi hai ventidue anni. –
-    Ti ricordi del mio compleanno? E anche delle mie taglie di vestiti? –
-    Sì, ricordo molte cose di te. Non ti ho mai dimenticata. –


Ale tre e mezza, Gwen aveva finito la visita dal dottor Spark e ora aspettava tossendo in sala d’aspetto. Intanto dentro l’ambulatorio il dottore rivelava i risultati della visita a un Trent visibilmente preoccupato.
-    La ragazza, - cominciò il dottore. – ha una tubercolosi in stadio avanzato, ma è ancora curabile. Qui ti ho scritto le medicine che deve prendere e entro quanto tempo. – gli passò un foglio con una scrittura chiara (assolutamente  un miracolo per un medico!).  – Poi ho notato che ha un’alimentazione molto scorretta o non ce l’ha affatto. Deve fare un cambio radicale. –
-    Questo non è colpa sua: poteva mangiare solo quello che trovava, non so se mi spiego... non posso dire cose della privacy di qualcun altro. –
-    Capisco perfettamente e credo d aver anche capito la situazione. Era una vagabonda vero? –
-    Già... dopo il delitto degli Greendbold... –
-    Aspetta... non mi dirai che lei è la figlia di John Greendbold? –
-    Proprio lei. Prima del processo era sparita, e un anno dopo la ritrovo in mezzo a una strada. –
-    Povera ragazza... suo padre era un mostro. Comunque ho altre notizie: dalle analisi ho rilevato tracce di eroina, ma non sono recenti, di circa due settimane fa. Lo sapevi? –
-    No, non me lo ha detto... –
Trent era scosso, ma in fondo, chi era lui per poter giudicare?
-    Ma almeno c’è una buona notizia per te... visto che so bene che sei innamorato della ragazza! – e gli fece l’occhiolino.
-    E sarebbe? – tagliò corto Trent.
-    Tu sai bene che fine fanno le ragazze in mezzo a una strada vero? –
Gli venne un nodo allo stomaco ed esitò prima di rispondere.
-    Si prostituiscono. –
-    Esatto. Ebbene lei è ancora vergine. Che ragazza fenomenale, non ha ceduto alla tentazione... è da ammirare. –
-    Dice davvero dottore? –
-    Io non mento mai figliolo. Però un consiglio: vacci piano con quella povera ragazza, ha bisogno del suo tempo per riprendersi. –
-    Lo so BENISSIMO. -  disse Trent a denti stretti. – Per chi mi hai preso? –
-    Ehi, rilassati, stavo scherzando! Ti conosco molto bene, e so per certo che tu sei un bravo ragazzo. Ma ho altre notizie. –
-    Ancora? –
-    Ho notato che sui polsi ha due cicatrici. Perciò, fornendo una dettagliata descrizione della ragazza, ho chiamato l’ospedale di Toronto. Mi hanno confermato che una ragazza identica è stata ricoverata d’urgenza perché si era tagliata le vene. –
Trent abbassò gli occhi. Era dispiaciutissimo per Gwen e non poteva neanche immaginar quello che aveva passato per poter arrivare ad un gesto così sconsiderato. Poi ritornò a guardare il dottor Spark.
-    È tutto? –
-    Per ora sì. Non dimenticare mai le medicine e se ha qualche problema non esitare a chiamarmi. Ci vediamo figliolo. –
-    Grazie mille dottore. –
Si strinsero la mano e Trent uscì, sorridendo a una Gwen più morta che viva. La riporta a casa, mettendola subito a letto.
-    Tra tre ore ti sveglierò per darti le medicine. Tu stai al caldo e riposa. –
-    Grazie Trent... e deduco che il dottore... ti abbia detto tutto... –
-    Sì, lo ha fatto... mi dispiace moltissimo per te, non oso immaginare quello che hai passato. –
-    Non fa niente. È passato, giusto? –
-    Giusto. Ah, Leshwana sa che sei qui e voleva vederti assolutamente, ma visto che eri malata ha preferito rimandare. –
-    Solo lei sa che sono qui? –
-    No. Ha sparso la voce tra quelli del reality. –
-    Oh cazzo! Non verranno mica tutti qui spero! –
-    Lo spero anch’io, troppa gente in casa mi innervosisce. –
-    Scommetto che Courtney se la sta godendo. –
-    Affatto. Mi ha chiamato anche lei, ed era molto preoccupata. –
-    Ha la tubercolosi anche lei, non c’è altra spiegazione. –
-    Spiritosa. Ora dormi Gwen. –


Passò una settimana e Gwen migliorava di giorno in giorno e Leshwana era venuta a trovarla più volte, in lacrime (solo la prima volta), portandole regali e biglietti degli altri ragazzi, che le auguravano una pronta guarigione. Trent doveva andare al lavoro, ma voleva rimanere a casa per badare a lei: ma fu proprio Gwen che lo spinse ad andare al lavoro e che se la sarebbe cavata benissimo da sola. E così fu: non si dimenticò mai di prendere le medicine e quando si sentiva abbastanza bene, sistemava la casa e preparava da mangiare a un Trent stanco dal duro lavoro. Dopo una settimana stava decisamente meglio.
La sera del sabato, era in pigiama (quello con le stelline) sul divano insieme a Trent a guardare “Io & Marley”  e ogni tanto ridevano a crepapelle. Lei era sotto il braccio di Trent e si stringeva a lui. Mangiavano dei popcorn che pescavano in una scodella di vetro.
Quando il film finì, Gwen si asciugava le lacrime per il finale, mentre Trent le passava i fazzoletti.
-    Oddio, mi sento una bambina! –
-    Stai tranquilla, è normale. Anche io sono commosso. –
-    Sì, ma non stai piangendo! –
-    Ci è mancato poco! –
Si soffiò il naso e Trent sorrise.
-    Gwen senti, ti volevo fare una domanda... ma secondo me è indiscreta, quindi ti chiedo se posso farla o no. –
-    Prova. –
-    Perché sei andata a vivere sulla strada? –
Un silenzio imbarazzante piombò nel salotto. Trent si rese conto di aver sbagliato domanda.
-    Scusami, non dovevo farla... –
-    No, hai il diritto di sapere. Dopo che mio padre... aveva ucciso mia mamma e mio fratello, lo rividi in tribunale. Inveiva contro di me, diceva che se avessi parlato di lui e lo avessi incriminato, mi avrebbe stuprata e uccisa. Sai che ho parlato. E lo incriminarono. Avevo terrore delle sue minacce e prima del processo vero e proprio venni presa dal panico. Anche se lo avessero messo in prigione, sarebbe uscito. E se aveva l’ergastolo sarebbe riuscito a fuggire. Mio padre è un mostro, ma non è stupido: è la persona più astuta che abbia mai conosciuto e sarebbe riuscito ad evadere per uccidermi. Io... mi sono lasciata prendere dal panico. E sono scappata. –
Si prese il viso tra le mani, ma trattenne i singhiozzi. Trent l’avvolse con le sue braccia e lei allora si sfogò.
-    Scusami tanto, non volevo farti quella domanda. Ti ho sconvolto. –
-    N-no... tranquillo... –
-    Guardami negli occhi. –
Lei lo guardò.
-    Non devi aver più paura di niente. Forse non lo sai, ma tuo padre... è morto. Infarto in carcere. –
Gli occhi di Gwen si riempirono di speranza.
-    Davvero?? È morto? –
-    Sì, quindi puoi stare calma. Non ti può più perseguitare. E comunque ora ci sono io a proteggerti. –
Si guardarono. Trent aveva proprio detto quelle parole.
Allora Gwen lo baciò.
Lui non ci credeva, lei lo aveva baciato di sua iniziativa. Però in fondo sapeva che era solo spaventata, voleva solo conforto. Così la fermò, e lei ci rimase un po’ male.
-    Gwen, sei solo spaventata. –
-    Non è vero. Trent, io ti voglio molto bene e ti amo. Senza di te sono perduta. –
-    Sei spaventata, non ragioni. –
-    Perché mi vuoi ostacolare? Ah... non condividi il mio sentimento vero? –
-    No Gwen. Io ti amo, ti amo moltissimo. Ma so per certo che te ne pentirai quando sarai più calma. –
-    Non è vero. Da quando ti ho rivisto quella notte, in me si è risvegliato quel sentimento per te che avevo celato per tanto tempo. –
E lo ribaciò. Stavolta Trent non la fermò, ma si lasciò andare. Si baciarono con dolcezza, e Trent assaporava l’odore dei suoi capelli e il sapore della sua lingua. Si fermò un attimo, la prese per mano e la condusse sul letto. Si sedettero e si ripresero a baciarsi. La fece sdraiare e si mise sopra di lei, mentre la baciava e le accarezzava il viso e il collo. Fu preso da un forte desiderio e le tolse la parte superiore del pigiama. Gwen non disse niente anzi, lo agevolò. Lui le carezzava i fianchi e i seni, percependo la loro morbidezza. Si coccolavano teneramente, presi dalla passione. Ma quando Trent toccò i fianchi di Gwen e scese più giù, lui si fermò.
-    Gwen, dobbiamo fare le cose con calma. Non dobbiamo aver fretta. –
-    Hai ragione. Dobbiamo far maturare la nostra relazione al meglio. –
-    Vuoi dire che siamo insieme? –
-    Mi pare ovvio Trent. –
-    Allora volevo farti una domanda che avrei voluto farti una settimana fa. –
Non parlò subito, mise un minuto di suspense.
-    Vorresti vivere qui con me... per sempre? –
Gwen lo guardava con sconcerto e incredulità.
-    Trent... io... non ci posso credere... sì... lo voglio... ti amo, ti amo! –
-    Ti amo anch’io Gwen... –
L’abbracciò fortissimo. La portò sotto le coperte e spense la luce. Gwen nel buoi gli sussurrò:
-    Lo sai vero che mi hai salvato la vita? –
-    Perché dici questo? –
-    Se fossi rimasta sulla strada, sarei morta. Morta per anni, oppure mesi, dipende. Ma tu, mi hai ridato una nuova vita, mi hai fatto risorgere. –
-    Davvero? Io ho fatto tutto questo? –
-    Sì, lo hai fatto. Ti devo la mia vita Trent... –
-    Io ti cedo il mio cuore Gwen... –
Si strinsero il più forte che poterono e si addormentarono.



NOTE DELL' AUTRICE
Ehm....
Non è granchè, lo ammetto. Ma avevo voglia di scrivere... e durante le ore di informatica non è facile tirare fuori roba decente!
Stupida scuola...
  
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