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Autore: PiccolaWriter    26/05/2012    3 recensioni
Sam ed Emily si sposano, Bella ed Edward sono spariti nel nulla, Leah cade in depressione e Jacob s'improvvisa psicoanalista.
Una raccolta di One-Shot incentrate sulla coppia Jacob/Leah, a volte un po' melodrammatica, a volte un po' ironica, senza nessun senso e nessuna pretesa.
Genere: Commedia, Drammatico, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jacob Black, Leah Clearweater | Coppie: Jacob/Leah
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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« Tra gli stupidi gli infelici sono rari »

- G. B. Shaw




Eppure, Leah non pensava che le parole potessero fare così male.
Non credeva potessero essere più affilate del vetro, più aguzze di un coltello, più urticanti dell’olio bollente. E la cosa peggiore era che lei non avrebbe saputo difendersi: contro le parole, che t’entravano dentro come niente e allo stesso modo ti facevano a pezzi, non c’era arma che valesse, che lei potesse adoperare. Non sarebbero servite a nulla le sue zanne da lupo, i suoi artigli, tutta la sua forza sovraumana. Non sapeva difendersi, non ne era proprio capace.
Non era pronta. Non era forte, quando il suo avversario erano le parole.
Sapeva già di non avere scampo.
Lo sapeva già, quando sua cugina le si fermò di fronte, con le spalle magre contratte, i capelli che le scivolavano appena s’un lato del viso sfregiato, sulla carne deforme della guancia, adesso più rossa d’imbarazzo. I suoi occhi non si nascondevano. Luccicavano, timidi, sotto le lunghe ciglia. Erano grandi, troppo grandi, e pieni d’amore. Troppo amore.

- Ecco - aveva mormorato Emily, porgendole, impacciata, una busta pallida.
Leah l’afferrò meccanicamente.
Emily era molto, molto imbarazzata, molto impaurita da lei. Le sue dita tremavano, i polpastrelli avevano strusciato umidi di sudore sulla carta ruvida quando gliel’aveva ceduta. Il suo cuore, stretto fra i polmoni, sembrava sul punto di implodere; palpitava all’impazzata dentro la cassa toracica, ogni suo battito rimbombava dentro la testa di Leah come un colpo di pistola, come il boato di un tuono.
Il respiro di Emily era corto, forzatamente silenzioso e singhiozzante. Cercava di tenerlo buono, provava a soffiarlo lento fra i denti per non apparire più agitata di quanto già non sembrasse. Sforzo inutile: non teneva presente, forse, che nessun suono sfuggiva all’udito perfetto della mutaforma che le stava di fronte. Leah, comunque, aveva notato che quando alzava lo sguardo dall’invito che stringeva fra le dita, per fissare la cugina - anche se sapeva di non avere alcuna espressione calcata in volto, di non avere niente che le potesse insaporire sguardo, di non avere parole nella bocca, perché si sentiva totalmente vuota dentro - sentiva chiaramente come il fiato l’abbandonava, fuggiva dai suoi polmoni.
Solo quando Leah riabbassava quello sguardo opaco, puntandolo nel vuoto, al suolo, o su quell’insignificante straccio di carta, la sentiva tornare a respirare, col suo respiro zoppicante, incerto.
Il fatto era che Emily la temeva, temeva lei e temeva moltissimo la sua reazione. I suoi occhi grandi, scuri, erano fissi sulla sua mano, che stringeva ancora la busta chiara. Non l’aveva aperta, non sembrava avere l’intenzione - la forza - di sollevare quel piccolo lembo di carta e leggerne il contenuto.
Leah non disse nulla. Si barricò dietro il suo silenzio, perché temeva ancora le parole. Temeva il dolore che avrebbe potuto infliggerle una semplice frase, un minuscolo vocabolo. L’idea di ricevere altre coltellate verbali la terrorizzava; si lanciò una veloce e vuota occhiata intorno, stanca, demoralizzata, angosciata. Sapeva di non avere scampo.
Quando Emily si schiarì appena la gola, in evidente imbarazzo, Leah non la guardò neppure.

- Sarai la mia damigella d’onore?

Eccola, la prima coltellata. Dritta in pancia, all’altezza della bocca dello stomaco. Precisa, micidiale, profonda. Senza sapere come, riuscì a non piegarsi in due dal dolore, a mantenere ostinatamente la schiena dritta, le spalle aperte. Riuscì ad alzare lo sguardo orgogliosamente. Non sorrise, non mosse un muscolo del volto - possedeva ancora un volto? - ma si limitò a mordersi la lingua a sangue. Non accennò a muoversi, non accennò a crollare davanti a quegli occhi intimoriti e speranzosi.
Ignara, Emily nel frattempo cercava di tirar su un sorriso fragile, ma gli angoli delle sue labbra tremolavano, non riuscivano a sorreggerlo per bene. Dal modo in cui la guardava, poi, risultava piuttosto evidente che cercasse di leggerle il volto, l’espressione innaturalmente neutra, fredda. Guardò un momento, con una certa aspettativa, le sue mani strette ancora alla busta bianca. Quel debole tentativo di sorriso vacillò e crollò miseramente quando Emily notò che la busta bianca stava cominciando a strapparsi, il cartoncino a polverizzarsi sotto la pressione delle sue dita immobili.
Tornò a fissarla in viso, turbata, ma non capì. Non poteva vedere bene. Non poteva capire appieno. Come avrebbe mai potuto comprendere ciò che le si stava scatenando dentro? La sua immaginazione non avrebbe potuto aiutarla.
Non sapeva, e non avrebbe saputo mai, perché non sapeva nemmeno di quanto Leah avesse imparato ad indossare una maschera, ad incollarsela bene sul volto. Era davvero brava a nascondersi. Ormai ci aveva fatto la pelle; sui suoi tratti d’ebano non v’era nulla che potesse far comprendere ciò che la stava annientando dentro, il dolore sordo che la stava sbriciolando lentamente, torturandola.

- Certo, Emily. Sarò la tua damigella d’onore.

Sorprese anche se stessa. Doveva essere diventata definitivamente pazza, pazza. Quel coltello gliel’aveva tolto dalle sue mano e se l’era conficcato lei, questa volta, dritto in pancia, anzi, nel petto, un po’ più su, proprio tra i polmoni sgonfi, tra le coste ridotte in poltiglia. Al centro di quell’ammasso di nervi e sangue e carne pulsante che stentava a contrarsi, che stentava ancora a tenerla in vita.
Quella che le uscì dalla gola, poi, fu una voce assente. Ma che voce pretendeva di avere? Una come lei, con il suo sguardo assente, con il suo corpo assente, con tutto assente, che pretendeva di avere? Nulla. Nulla di nulla. Anzi, per lei, nulla era anche troppo.
Tutto aveva perduto significato. Tutto era arido, morto. Non c’era più niente di vivo in lei. Non c’era la fiamma ardente della rabbia, non c’era il sapore amaro delle lacrime. Non c’era la voglia di andare avanti.
C’era solo lei, il nulla che la circondava e la riempiva, ed il coltello a cui si aggrappava con entrambe le mani, quel contello che continuava ad affondare dolorosamente nella propria carne.
Ma ormai non faceva quasi più male.
Lei non c’era quasi più.
Emily, comunque, non s’accorse della sua assenza - o più probabilmente finse di non essersene accorta. Azzardò un passo incerto, un altro, ed infine, dopo vari tentennamenti, le andò incontro. Un sorriso spontaneo le stava affiorando sulla bocca. L’avvolse con le sue braccia magre, la strinse in un abbraccio caloroso, al sapore d’affetto, di vera felicità. Qualcosa che Leah aveva disimparato a conoscere, qualcosa che la intimidì. Il suo istinto le suggeriva di mettersi sulla difensiva; trattenne a stento l’istinto di svicolarsi da quella presa debole ma quasi soffocante. Tuttavia, Leah non mosse un passo, si sforzò di rimanere lì, rigida, a sentire quelle braccia calde intorno al collo, alle spalle. L’aiutava molto il fatto di essere ormai ridotta in pezzi, in poltiglia, di non ricordare come fossero collegati i suoi arti, non ricordare come muovere le gambe per allontanarsi, come governare il proprio corpo - o i brandelli che restavano ancora, chissà come, incollati tra loro.

Emily sembrava tutta d’un pezzo, più che mai. Era accaldata, la guancia sfregiata più rossa del solito, gli occhi lucidi. Era tutta un cuore, palpitava insieme al suo respiro. Il suo cuore, contro il petto piatto e vuoto di Leah, vibrava ad ogni battito, sfarfallava di gioia.

- Oh, Leah... grazie, grazie - ripeteva Emily, abbracciandola.

Cominciò quasi subito a piangere, commossa. Ogni tanto ingoiava male un respiro e rischiava di strozzarsi tra le lacrime, ma continuava imperterrita a sussurrarle grazie stringendola forte contro il proprio cuore in fibrillazione. Leah si sentì mozzare il respiro, a disagio, come se un pezzo di ferro le si fosse bloccato nella gola. Deglutì a fatica e cercando di non essere troppo brusca, sciolse l’abbraccio. Era più forte di lei, il dolore la stava sopraffacendo, il coltello affondava sempre di più nella carne e sembrava animato ora di una sua volontà. Non aveva bisogno di mani ad impugnarlo.
Proprio per questo, forse, il dolore era incessante. E lei non riusciva a sopportarlo.

Gli occhi di Emily erano colmi d’amore e lacrime. Con angoscia, Leah si vide riflessa in quello specchio umido, in quelle pozze luminose in cui sguazzavano buoni sentimenti, puri sentimenti - tutto il contrario di ciò che sguazzava nei suoi - e dopo un po’ distolse lo sguardo. In quel momento qualcos’altro le si spezzò dentro, poté quasi udirne il suono secco, come di vetro in frantumi, come ossa rotte.

- Grazie - sussurrò ancora Emily, asciugandosi un occhio col dorso della mano.

- Figurati. Non è niente.

Non appena chiuse la bocca, le venne quasi da sorridere amaramente.
In fondo, non aveva mai pensato che si potesse morire - morire di dolore, morire davvero - anche per un niente.


***



Quella notte Jacob le aveva sfiorato una spalla nuda, spigolosa, come faceva sempre quando era pensieroso. Mentre lo faceva le sue sopracciglia erano aggrottate sulla fronte bruna, folte e scure, minacciose come i nuvoloni scuri che riempivano il cielo. Jacob sospirò piano, gli occhi fissi sulle sue stesse mani.
Col dito aveva portato via una goccia di pioggia da quella pelle scura: sotto i suoi polpastrelli bollenti, accovacciata lì accanto a lui, Leah si sentì vibrare. Sembrava che la lupa dentro lei avesse cominciato ad agitarsi, dopo quel tocco fugace; sembrava che avesse cominciato a scalpitare, a muovere smaniosa le zampe, come se stentasse a resistere ad un antico richiamo.
Leah deglutì forte, strizzò gli occhi e si toccò la gola. Le ardeva, le doleva. Aveva gridato molto, aveva gridato troppo, quel pomeriggio.
Si volse appena, guardando di sbieco Jacob che le stava seduto alle spalle, con la schiena schiacciata contro la corteccia ruvida di un abete. Provò una grande riconoscenza nei suoi confronti - non gliel’avrebbe mai detto, ovviamente - e lo vide guardarla comprensivo e sospirare ancora, più silenzioso di prima.
Era stato maledettamente paziente con lei, l’aveva ascoltata, l’aveva capita suo malgrado. Le aveva dato un paio d’occhi in cui rovesciare tutto il suo dolore e due mani grandi e forti per sorreggerla, permettendole di aggrapparcisi tutta, con tutto il suo peso, col peso terribile della sua sofferenza.

- Non pensarci - continuava a sussurrarle Jacob da dietro l’orecchio.

- Non ci riesco, maledizione.

- E’ inutile sbatterci la testa. Devi sforzarti di non pensarci più.

Leah si girò di scatto, gli occhi assottigliati, con l’espressione di chi avesse appena trangugiato qualcosa di amaro. Qualcos’altro, poi, stava montando dentro di lei, si vedeva. Forse un misto di rabbia e irritazione, disperazione e angoscia.
Leah si ritrovò a guardare Jacob dritto in volto con ostinazione, incollata al suo sguardo nero senza battere ciglio, come se volesse entrargli dentro gli occhi, con tutta quella sua faccia da schiaffi.

- Allora dimmi come si fa, se lo sai - lo sfidò.

Non riuscì nemmeno a chiudere le labbra, che la bocca di Jacob era già scivolata su quella sua, rubandole un respiro a metà e mettendo a tacere quella che probabilmente sarebbe stata una dolce bestemmia.
Ma non frignò, non lo allontanò, non si lamentò troppo.
In realtà, anche se non gliel’avrebbe mai detto, quella risposta le era piaciuta abbastanza.



   
 
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