Titolo della fanfiction: Man muss noch Chaos
in sich haben
Titolo del contest: #1 Sherlock (BBC)
Pairing: Vago Sherlock/John
Personaggi: Sherlock Holmes, John Watson, Jim Moriarty
Generi: Drammatico, Introspettivo, Character Study
Warnings: None
Credits: La BBC mi ha per sempre
Beta Reading: Lady
Antares Degona Lienan
Note personali: La fic è basata, come
esplicato all'inizio, sul principio di astrofisica del Limite di Chandrasekhar e su una citazione del filosofo Soren Kirkegaard. Ciò nonostante
non ho resistito ad un tributo a Nietzsche, il titolo della fanfiction
è la versione originale tedesca della famosa citazione "Bisogna avere in sè il caos [per partorire una stella che danzi]".
E' un character study con
il perniciosissimo POV di Sherlock, e per qualsiasi
dramma sui miei deliri astrofisici basta chiedere, con tanto amore <333
Man muss noch Chaos in sich haben
« Quando la
morte si presenta con la sua vera faccia,
scarna e truculenta, non la si considera senza timore.
Ma quando, per burlarsi degli uomini che si vantano di burlarsi di lei,
avanza camuffata…allora siamo presi da un terrore
senza fondo »
Søren Kierkegaard
« Il limite superiore che può raggiungere la massa di
corpo
costituito da materia degenere (un denso stato della materia
che consiste di nuclei atomici immersi in un gas di elettroni)
rappresenta la massa non rotante limite che può opporsi
al collasso gravitazionale, sostenuta dalla pressione
di degenerazione degli elettroni; il suo
valore corrisponde
a 3·1030 kg, circa 1,44 volte la massa del Sole»
Enunciazione
del Limite di Chandrasekhar,
principio di Astrofisica
Londra
è tendenzialmente uggiosa, immota e immutabile tra una tazza di the e un
commento di circostanza, anche dalla cima di un cornicione. Il che è
fondamentalmente irritante perché basterebbe così poco, una così infima
attenzione, per capire che quel solaio su cui è stato appena steso del catrame
ha una sconnessione laterale imputabile ad un prossimo cedimento, così come ci
sarebbe da preoccuparsi per la colonia di gatti occupante l’appartamento del
terzo piano del palazzo a destra.
O forse è semplicemente irritante che non basta nemmeno il flusso dei miei
pensieri, costante e implacabile, a distogliermi dal vento che mi scorre sul
colletto. Da quanto è profondo il baratro.
La fascia di Roche, la fascia di Roche.
La fascia di Roche.
C’è qualcosa di estremamente pratico nella usuale ritrosia di John, inchiodato
a quella sorta di buona creanza –
come la chiama lui – tale da trattare la camera da letto in cui dormo a 221B
come un luogo in cui non può entrare a piacimento.
Ho smesso di dirgli quanto fosse ridicolo, perché a fin dei conti c’era
soltanto il mio letto poco usato e il mio armadio che può ovviamente sentirsi
libero di riempire se la lavatrice è un concetto così incombente, nel momento
in cui la sua riservatezza ha avuto una certa utilità.
Detesto quando mi mette in discussione, perché non ha senso. Perché se nemmeno Mycroft ci è mai riuscito, non davvero, non dopo i miei 12
anni, non vedo perché un suo pungolarmi dovrebbe spingermi a fare altro.
Assecondare è più comodo di rimuginare, quindi a fin dei conti un paio di libri
di astronomia li ho presi. Ma non occorre che John li veda, perché non è
qualcosa che mi resterà in mente a lungo. Lo so che sono inutili, so di avere
ragione. Ma mi direbbe che non ci ho manco provato, prima di etichettare, mi
richiamerebbe di nuovo quella maledetta questione della Supernova e della Terra
che gira attorno al Sole, e quando avrò la ribattuta pronta sarà meno
irritante.
Quindi astronomia. Purché lui non la veda. Tanto dorme troppo, non c’è sul
serio questione a riguardo.
«Due stelle poste in un sistema binario possono sperimentare il fenomeno del
trasferimento di massa. Laddove una delle due sia una nana bianca, il suo
accrescimento è possibile se il materiale dello strato esterno della compagna
arriva a superare, nella rotazione orbitale, la cosiddetta “fascia di Roche”»
Un mormorio costante a mezza bocca. Non posso dimenticarlo, sta solo occupando
spazio. Sapevo che avrebbe solo occupato spazio, ma la materia l’ho studiata lo
stesso.
La volevo, però, la risata di John. La volevo, e quindi perché non concedergli
questo mio piccolo fallo? Continuare a dargli quell’effimera sensazione di
sentirsi abbastanza a livello da non dovermi puntualizzare che non è un idiota.
E’ idiota da parte sua, pensare che il fulcro sia essere idioti.
Non starei qui ad esorcizzare pensieri portandoli a voce, solo per poi vederli
accompagnati dai miei stessi ricordi su di lui in sovraimpressione sul granito
del cornicione, se fosse un idiota. Non starei qui, e mi pare più che ovvio.
C’è qualcosa di fatalistico, nella dinamica e nell’evoluzione stellare. E’ come
l’evidenza ineluttabile di un omicidio ben congegnato, che resta in posizione,
pronto solo a farsi analizzare da qualcuno che sia davvero in grado di vederlo.
Non ovviabile, sarà lì che ti piaccia o meno, immutato da eventuali moralismi.
Non davvero riproducibile, ogni omicidio ben fatto è un’opera a sé stante, anche
in emulazione.
L’impressione che sento più spesso propinare quando si parla del cielo,
dell’Universo, è che sia inquietante e stordente concentrarvisi. Tutto perché è
infinito. Ma questa è un’idiozia perché solo una mente limitata si inquieta per
una volta stellata e non capisce la mancanza di limiti intrinseci
nell’inventiva, che non segue legge alcuna.
Io l’ho trovato frustrante, nelle notti in cui John dormiva al piano di sopra e
io leggevo, accompagnato dall’ignaro scricchiolio delle assi al suo voltarsi
nel sonno. E’ frustrante che qualcosa possa esistere in tutta questa
complicazione e non ci sia modo per toccarla, per guardarla, per avvicinarla.
Perché qualcosa deve esistere se non puoi risolverla, puoi solo impostarvi
modelli?
Eppure che una stella molto massiva viva per poco tempo, bruciando
convulsamente, ha un certo impatto. Così come una stella con poca massa
seraficamente vada avanti per svariati miliardi di anni nella sua tranquilla
fusione nucleare ha parimenti senso. Nessuna esplosione, nessuna fascia di
instabilità, nessun oscillare alla ricerca di un equilibrio e consumarsi con
inquietudine. Ha senso.
Mi chiedo se avrebbe avuto così tanto senso anche prima.
Una Nana Bianca. Una Nana Bianca.
Se me lo avessero chiesto prima, tanto per cominciare non avrei saputo che
cos’è una Gigante Blu e questo è scontato. Ma nel caso, forse mi ci sarei
identificato. Enorme, brillante, disperatamente bruciante, picco dello curva di
corpo nero, composizione spettroscopica delle righe si assorbimento in classe
O, B, A, e altre amenità che non riesco a togliermi dalla mente.
Non faccio mai errori di giudizio, gli errori di giudizio sono per le persone
che non riescono a pensare lucidamente e a non perdersi nelle banalità fallendo
sull’evidenza. Mi dà fastidio averlo fatto. E’ frustrante non aver capito che Moriarty è la Gigante Blu, e io sono solo una Nana Bianca.
Una Nana Bianca, solo una Nana Bianca.
Una stella che ha già finito di fondere, che non ha qualcosa da bruciare, non
realmente. Ma rimanda la luce di tutto quel che le resta a fronte
dell’accumulato nei miliardi di anni. E bisogna cercarla, per trovarla davvero.
E’ lì, è ovvio che sia lì, ma se non la si cerca non la si può studiare. Ed è
quasi impossibile individuarla sul serio.
John è una Gigante Rossa.
E’ una Gigante Rossa e avrei voluto capirlo prima.
C’è qualcosa di disturbante, nella morte, ed è frustrante che la gente pensi
che io mi ci concentri in maniera incurante.
In realtà è più frustrante quando John non capisce e si arrabbia, scadendo ai
livelli di Anderson e alle sue idiote maniere di etichettare cose, persone,
situazioni, cadaveri, come se questo fosse meno indegno.
John è sempre qui, però. Quindi se solo ascoltasse dovrebbe capire, se solo
vedesse dovrebbe afferrare. Ma io lo so, che a volte c’è solo da lasciargli una
finestra di tempo.
Il suo periodo di pulsazione alla ricerca dell’equilibrio.
Non sono una persona paziente, giusto per il gusto di essere lapalissiani.
Forse col senno di poi, inutile come poche cose a questo mondo, ridicolo nel
valore che tutte le persone gli danno quando avrebbero potuto pensarci prima,
sarebbe normale che io mi dicessi che avrei voluto essere meno rancoroso.
Non è vero.
Non avrei voluto essere nient’altro rispetto a quello che sono stato, non
tirerei indietro alcuna riottosità, alcuna ritorsione per ogni volta in cui
avrei voluto leggere accompagnato dal letto scricchiolante nel suo sonno e John
non me l’ha concesso, andando altrove.
Non lo tirerei indietro perché ogni volta lui era se stesso nello scegliere di
correre per Londra con me invece di venir sballottato da donne di cui è il
primo a non ricordarsi il nome, e parimenti io ero me stesso nel volere lui e
non qualcun altro.
Un sistema binario è costituito da due corpi legati a reciproca attrazione
gravitazionale che orbitano attorno ad un centro di massa comune.
Informazioni inutili eppure essenziali.
Quale sia il centro di massa mio e di John credo di non averlo mai compreso
davvero.
E’ come sentirsi orbitare, sempre più forti, sempre più carichi, ad ogni
parola, ad ogni gesto.
Non è che non lo avessi capito, nell’intera escalation, come stessero andando
le cose. Era lampante nel tormento, ridondante nella caccia serrata, ma
l’entità della trappola è ugualmente troppo imprevedibile da non sentirla
scattare.
Un gioco, un continuo gioco, il ritmico appoggiare, spostare e cadere dei pezzi
su una scacchiera.
Un gioco che ho giocato fino all’ultimo, disperatamente a tratti anche se ha
poco senso ammetterlo ora.
Un gioco che mi sono goduto con tutta la sua adrenalina, con tutto il suo
brivido, ogni sua sfida mentale intricata, a chi pensa più machiavellicamente,
a chi guarda sei, sette, dodici, venti mosse avanti fissando il suo avversario
negli occhi.
Per certi versi me lo godo ancora, anche
se ha cominciato al contempo a farsi intollerabile.
Odio quel momento di cognizione, che tutti sembrano avere ma per me non arriva
mai così in ritardo. Eppure questa volta lo ha fatto, è stato procrastinato
fino all’ultimo secondo nella sua totale realizzazione.
E’ scattata la trappola, lo sai, John?
E’ scattata e mi ha preso dentro e se non voglio restarci l’unica opzione è il
mio ultimo colpo di coda, quel momento
in cui il tuo avversario pensa di averti dato il matto e invece il tuo re è
ancora in piedi.
Spero sia questo il caso.
C’è qualcosa di conturbante nel pensiero, nel concetto stesso di accrescimento
di massa. Con assai poco senso per quelle che sono alla fin fine solo parole di
rigore scientifico, modelli e tentativi di osservazione, risultano di turbamento.
Cosa è più osceno, più moralmente scorretto come piace dire a tutti quelli che
si riempiono di buona creanza e belle parole, di venir condotti alla morte e
alla rovina da quel che ha condiviso con te la tua esistenza, da quel che ha
stabilizzato la tua orbita.
Una Nana Bianca è una stella che ha già concluso la sua vita, che brilla di
pura emissione termica, di calore residuo, che rimanda quel che ha ancora da
dare. Tenuta su dal puro fatto che tutti gli elettroni sono nello stesso stato
quantico e non c’è gravità in grado di vincere il limite energetico.
Circa.
Una volta e quarantaquattro la massa del Sole. Tutto quel che si può chiedere
per una stella già morta che però nessuno ha ancora visto cambiare colore di
emissione o spegnersi in una Nana Nera, da quando l’Universo è nato.
Una volta e quarantaquattro.
Il Limite di Chandrasekhar è un principio crudele.
A voler essere onesto con me stesso, non sono certo di essermi fatto così tante
questioni su 1,44 masse solari, al primo acchito, e questo potrebbe non essere
del tutto un bene, potrebbe essere solo disattenzione.
Non per questo posso dire che non mi abbia colpito, tuttavia, che non abbia
continuato a pensare ai sistemi binari, alla luce disperata ma incrollabile di
una stella già morta.
Vorrei non pensarci proprio adesso, sulla cima di un cornicione, in un coagulo
di menzogne mentre mi tendi la mano e ti tendo la mano, John.
Sarebbe più comodo spesso, ormai innumerevoli volte, essere semplicemente la
norma e continuare a dirsi insistentemente, in maniera compulsiva, che vi sono
altre soluzioni, altri modi, che tutto si risolverà e la crudeltà non è una
delle forze portanti a questo mondo.
E l’infinita, patetica, rilassante abitudine di dare la colpa agli altri, di
essere vittime del mondo, di occupare più o meno abusivamente il brillante lato
di quelli “giusti”, oh. La meraviglia del conforto, le fondamenta della
normalità.
Ti brucerò via il cuore.
Questo
gioco l’ho voluto, l’ho cercato, l’ho combattuto fino all’ultimo secondo e fino
all’ultimo odore metallico del sangue che mi riporta dalle spalle l’aria del
tetto. Senza che ci sia niente di nobilitante in questo, perché so che non
avresti voluto e so che nonostante tutto non è colpa di Moriarty
e non è davvero lui che mi sta uccidendo.
Non sono nemmeno totalmente autonomo nel passare il collo di bottiglia
dell’unica scelta, l’unico modo rimasto e acutamente progettato alle spalle di
tutti quelli che non dovevano vedere.
L’avrei vinto, questo gioco, prima.
Prima di John, prima di trovare il mio centro di massa, prima di trovare un
punto debole di destabilizzazione.
Per certi versi è quindi l’inevitabile conseguenza dell’avere la mia Gigante
Rossa con cui passare l’esistenza in sistema, il superare la massa, superare la
sussistenza, superare il mio Limite di Chandrasekhar.
Poco importa quanto forte brilli l’esplosione a quel punto, quanto ogni
galassia possa vedere una Supernova di tipo Ia.
E’ l’ultimo lampo, il lampo definitivo, l’ultima volta, la distruzione di un
equilibrio.
Ma è anche l’ultima mossa del gioco, di questo dannato gioco, il chiudere il
cellulare e fare un passo avanti.
E’ il mio scacco matto all’altro re, al re nero steso in un lago di sangue alle
mie spalle.
Il re bianco deve restare in piedi.
Quindi non crollare, John.
Non crollare.
Nella mia inquietudine, in quello che non avrei mai provato senza di te, non
crollare.
Lasciami la meraviglia di un forse.