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Autore: PollyTheHomeless    28/05/2012    4 recensioni
Sei sempre stato tutto per me. Il mio mondo, il mio universo, la mia famiglia, la mia anima, la mia vita. Tutto.
Sempre allegro, solare, pieno di vita. Di quella vita di cui andavi fiero, che non avresti mai scambiato per nulla al mondo.
Quella vita che eri felice di vivere per le piccole cose.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aoi, Uruha
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Pandora  


 “The thing you loved most… 

 
 
Sei sempre stato tutto per me. Il mio mondo, il mio universo, la mia famiglia, la mia anima, la mia vita. Tutto.

Anche per me è sempre stato così.

Sempre allegro, solare, pieno di vita. Di quella vita di cui andavi fiero, che non avresti mai scambiato per nulla al mondo.
Quella vita che eri felice di vivere per le piccole cose.

Sono proprio quelle che rendono migliore la vita, no?
 

“Buongiorno amore”
Qualcuno mi strappa dalle braccia di Morfeo, donandomi un dolce bacio sulla fronte.
“ Oggi è una bellissima giornata!”
Delicatamente scosti le tende in lino finemente ricamate, da te tanto amate.
Mi rigiro stancamente nel letto in tua direzione. Alzo un braccio per proteggermi dai raggi solari che prepotenti e fastidiosi s’insinuano tra le palpebre ancora socchiuse.
“Come fai ad essere sempre così pimpante di prima mattina?
Volgo il mio sguardo allo schermo della grande sveglia elettronica, abbandonata sul comodino alla destra del letto matrimoniale in ferro battuto. Appena le sette e trenta.
“E tu come fai a startene ancora a letto con questa splendida giornata? Guarda quant’è bella Tokyo oggi!”
Il tuo sguardo vispo spazia estasiato all’esterno della grande finestra del nostro appartamento.
Un sorriso raggiante si apre sul tuo viso, illuminandolo al pari di una preziosa stella.
 

 

Ricordo come fosse ieri il giorno in cui venisti a vivere insieme a me. Come potrei dimenticarlo? Sarebbe impossibile amore mio. Tu ricordi ancora?

Certo che ricordo.

Forse non esiste un modo per esprimere a parole quanto ero felice in quel momento. Ogni parola, frase o modo di dire sarebbe troppo scontato, banale, blando.
 

“Avanti, entra”.
La tua testolina mora spunta timidamente da dietro la porta. Ti guardi intorno. In questo momenti sembri un piccolo cagnolino smarrito, appena accolto in un nuovo ambiente completamente estraneo.
“Umm… Con permesso…”
Con passo incerto varchi la soglia di casa, trascinandoti dietro un grande trolley nero, contenente parte del tuo guardaroba.
“Ehi, perché fai così? Guarda che ormai questa è anche casa tua!”
“È che… è strano, ecco.”
Sbuffo una risata, coprendomi il volto con la mano.
“Perché è strano? Siamo una coppia, mi sembra normale vivere insieme”.
Sei ancora fermo dinnanzi la porta, ormai chiusa alle tue spalle.
“Si, questo lo so… Però sono un po’ a disagio… Insomma, una cosa è stare insieme e vederci quando ci pare, un’altra è stare sempre insieme, condividere tutto... Sono un po’ nervoso ecco.”
Mi avvicino a te. Affondo una mano tra i tuoi capelli, avvicinandoti di più a me, al mio viso. Mi inebrio per qualche istante del tuo profumo; il più bello del mondo, a mio giudizio.
“Ti sei pentito della tua scelta?”
Il mio tono è calmo. Ripongo troppa fiducia in te per dubitare anche solo per un istante.
“No…” soffi flebilmente poggiando il capo sulla mia spalla.
“Allora non hai nulla per cui essere nervoso… Io non mi stancherò mai di te, se è questa la tua paura. Ricordalo, mai. Non potrei essere più felice di condividere tutta la mia vita con te.”
 

 
Sai, non te l’ho mai confessato, ma anch’io ero nervoso il giorno in cui ti trasferisti da me.
Non lo diedi a vedere.
Perché vedendoti dall’esterno probabilmente non si direbbe, ma sei una persona molto sensibile, estremamente sensibile.
E in una coppia se non ci si sostiene a vicenda, si cade; inesorabilmente.
In quel momento avevi bisogno di un punto di riferimento, un pilastro, una colonna a cui poterti aggrappare, che ti infondesse coraggio.
E io ero al tuo fianco per ricoprire quel ruolo. Volevo essere quella colonna che ti avrebbe sorretto nei momenti più difficili della tua vita, che ti sarebbe stata accanto per sempre.

Nulla dura per sempre idiota, imprimitelo bene in mente.
 
Abbiamo sempre trascorso parte della nostra vita a suonare.
Per te come per me, la musica era libertà, gioia, dolore, rabbia; tutto.
La musica nasce dai sentimenti di chi la crea. Saper suonare un qualsivoglia strumento non significa solo rimembrare l’ubicazione delle note, pigiare qualche tasto o pizzicare una corda. No.
Suonare è sentimento, è passione. È lasciarsi travolgere dalle note, dal suono. Diventare un tutt’uno con il proprio strumento. È la musica ad avere il possesso su di te, non il contrario. Lei ti trasporta, ti guida.
Chi crede di poter dominare la musica è un illuso.
È come una valvola di sfogo.

“Kami, datemi una chitarra!”

 
Spesso, al ritorno dalle prove della band, stanco e stressato per il troppo lavoro, afferravi la tua chitarra acustica e cominciavi a suonare brani dolci, lenti. Ti aiutavano a rilassarti.
 

Sei seduto sul tappeto nero, quello grande e morbido su cui ti piace tanto stenderti.
Gli occhi chiusi, completamente rapito dalle note da te create.

“Hei, posso unirmi anch’io?”
Non ti volti, né mi guardi. Fai solo cenno di si con la testa.

 
 
 E allora io ti seguivo, Mi posizionavo lì, accanto a te e con la mia acustica seguivo la tua melodia, beandoci entrambi dell’effetto calmante che aveva sui nostri nervi.
Quelle volte in cui invece ti arrabbiavi, rischiavamo di farci buttare fuori dagli inquilini dei piani adiacenti al nostro.

“Io quel nano lo ammazzo!”
“Dai, non lo avrà mica fatto di proposito!”
“Si invece!”

 
Sfogavi la tua rabbia sulle corde della chitarra pesantemente distorta, il volume dell’amplificatore a livelli appena sopportabili.
Dieci minuti e tutto finiva.
Erano quei momenti, così carichi di sentimenti ed emozioni, che tiravano fuori il meglio di te. A volte rimanevo colpito dalle melodie che riuscivi a creare così spontaneamente.
Mi piacerebbe rivivere quei giorni, essere qui con te, poter suonare nuovamente insieme, per ore.

Perché non farlo? Coraggio, prendi la chitarra, so che la porti sempre con te.

 Scusami, ma davvero, non posso.

Perché no, Kou?

Perché da quel giorno non ho più avuto il coraggio di toccarla.

Non dire così ti prego… Fallo per me, un’ultima volta.

Sono anni ormai, che non suono più…

Non cercare scuse, amore. Ti chiedo solo una canzone, voglio risentirla almeno un’ultima volta, ti prego.

Come faccio a negarti quest’ultimo desiderio?

Mi alzo da terra, dalla pungente erba appena falciata, e mi dirigo verso l’auto parcheggiata qualche metro più in là. Apro il cofano posteriore, sospiro. Prendo il coraggio a due mani e mi decido a prelevare dal fondo del bagagliaio la grande custodia in stoffa, contenente lo strumento per me più prezioso del mondo.
Una volta richiusa l’auto torno sui miei passi e mi risiedo su quel freddo prato che ormai mi vede qui quasi ogni giorno da anni a questa parte.

Beh, cosa aspetti a tirarla fuori?

Sei sicuro?

Certo che sono sicuro!

Apro lentamente la custodia, per paura di rovinare in qualsivoglia modo l’oggetto contenuto al suo interno. Lentamente lo estraggo e me lo porto in grembo, accarezzandolo come fosse un delicato bambino appena nato.
Eccola…

Quanto tempo è passato… Mi sei mancata tanto, piccola…

Sai, è mancata anche a me in tutti questi anni…

Cassis.

Eh?

Suonala, per favore, voglio risentirla dalla mia bimba e dal mio uomo.

Quindi posso considerarla come una figlia, giusto?

So che non mi risponderesti mai.
Prendo un bel respiro; chiudo gli occhi.

 Le prime note della ballata si spargono nell’aria, vengono trasportate lontane dal mite venticello primaverile, congiunte ai vellutati petali di ciliegio che abbandonano leggiadramente il loro nido.
Così le lacrime abbandonano lentamente i miei occhi, andandosi a posare sulla tua bambina.


Continuo a piangere silenziosamente, fino alla fine del brano.

Perché, perché è così difficile accettare? Sono passati anni, eppure non ci riesco!
Perché doveva succedere a te? A noi.

È successo e basta, non deve esserci un perché.

La vita è troppo crudele a volte.

Falsa, ingannatrice.

 Pandora.

 
Alla pari di ella, splendore dalle sembianze di una vergine, che portò dolore, sofferenze, malattie e morte nella vita degli esseri umani, vissuti fino ad allora serenamente in un connubio perfetto tra umano e divino, così essa portò in dono a noi quel fatidico vaso, prospettiva di sciagura e dolore.
Mi chiedo perché gli dei abbiano sempre provato rancore verso l’essere umano. Loro ci hanno creati, ci hanno donato la vita per qualsivoglia motivo: diletto? Capriccio? Bontà? Solitudine?
Nessuno può saperlo.
Ci hanno donato la Terra, con la speranza –o la promessa- di poter vivere per sempre in pace, felici.
Ci hanno illuso.

C’è sempre stato un qualcosa che li disturbava, che li infastidiva. E allora se la prendevano con noi, poveri esseri umani, loro creature.
Così arrivarono le malattie, le sofferenze. E la meta ultima: la morte.
 
La nostra Pandora fu la musica.

Ricordi?

Per festeggiare l’uscita e il grande successo del nostro ultimo album decidemmo di farci un regalo.
Non esitammo un istante nel decidere la nostra meta: il negozio di strumenti musicali.
Entrati all’interno del grande locale brulicante di strumenti, diventammo come due bambini in un negozio di giocattoli –o caramelle-.
Trascorremmo ore lì dentro, tra una chiacchierata e l’altra con il proprietario –che ormai ci conosceva da anni- e la prova di varie chitarre, jack, amplificatori, distorsori –e chi più ne ha più ne metta-.

Uscimmo dal negozio all’orario di chiusura, il sole ormai basso stava per sparire del tutto alle spalle dei grandi grattacieli che si innalzavano verso il cielo, come se l’uomo costruendoli, avesse voluto raggiungere quegli dei tanto beffardi, che sicuramente continuavano a prendersi gioco di noi dall’alto della loro sacra ed irraggiungibile dimora.
Stavi riponendo i nostri nuovi acquisti nel bagagliaio della tua auto, quando il meccanismo che teneva sollevato lo sportello di quest’ultimo si ruppe, richiudendosi senza pietà sulla tua mano sinistra.
Non riuscisti a tirarti indietro in tempo.

In un attimo il mio cervello si riempì del tuo straziante urlo.
Intontito, corsi in tua direzione e quando mi resi conto di ciò che era appena successo, il panico prese possesso del mio corpo.

Lo sportello del bagaglio ormai completamente chiuso, macchiato in basso con il tuo sangue, che imperterrito scorreva copioso dalla tua mano. Tu, costretto in ginocchio dallo straziante dolore, stringevi con la mano destra il polso della gemella, imbrattandoti completamente del tuo stesso sangue.
 

“Yuu! YUU! Cristo santo, che è successo?”
Non so cosa fare. La vista del tuo corpo scosso da violenti tremiti a causa del dolore, mi paralizza.
Come la vista del tuo sangue sparso copioso sul nero asfalto.

Piangi. Piangi e urli, tanto che anche il proprietario del negozio si scapicolla fuori per vedere cosa stia accadendo.
“K-kou…”
Riesci a rispondermi flebilmente. Il tuo sguardo carico di sofferenza e paura è incollato a quella mano.
“L-la mia mano Kou…”
Mi avvicino a lui, lo abbraccio, cercando di confortarlo, di infondergli almeno un po’ di coraggio in un momento come questo.
“Sta tranquillo Yuu! Adesso ti porto all’ospedale, ok?”

Non mi rispondi.
Ti aiuto ad alzarti, e noto che ora come ora sei debolissimo. Hai perso troppo sangue; hai assolutamente bisogno di cure mediche urgenti.
Ignoro la piccola folla che si è venuta a creare intorno a noi –la gente a volte è troppo impaziente di farsi i fatti degli altri- ti carico in macchina e mi dirigo il più velocemente possibile al pronto soccorso più vicino.

Fortunatamente il più distante è lontano solamente qualche chilometro, ed in pochi minuti giungiamo alla nostra meta. Sei sempre più incosciente; cerco di tenerti sveglio parlandoti di qualunque cosa, la prima che mi capita in mente.
Arrivati in ospedale, subito iniziano a prestarti i primi aiuti.
Ti allontanano da me, che intanto rimango da solo in sala d’attesa, teso come una corda di violino, a torturarmi le mani, impaziente di rivedere te, il mio ragazzo.
Dopo due ore di snervante attesa, mi raggiunge un uomo sulla cinquantina, il corpo coperto da un pesante camice bianco.
“Lei era con quel ragazzo moro, giusto?”
“Si, sono con lui. Sta bene?”
“Intanto vorrei sapere il suo nome”
“Kouyou Takashima”
“Dunque, si, signor Takashima, il ragazzo sta bene, ma ha dovuto subire un’urgente trasfusione a causa della grande quantità di sangue perso e una complessa operazione”

Eh? Operazione?
“Operazione? Che intente dire?”
“Abbiamo dovuto rimuovere parte dell’arto sinistro. Quando è arrivato qui già l’indice era stato reciso. Medio anulare e mignolo non potevano essere recuperati. L’infezione creatasi avrebbe potuto espandersi al tessuto ancora sano e abbiamo quindi dovuto rimuoverle. Mi dispiace”

Non riesco a proferire parola.
Come ci siamo arrivati a questo? Non mi ero nemmeno accorto che la situazione fosse tanto grave. Ha praticamente perso quasi tutta la mano sinistra, e io non me ne ero nemmeno accorto! Ma cosa guardavo in quel momento? Le nuvole?
 “Posso vederlo?”
“È ancora sotto l’effetto dell’anestetico, ma tra poco dovrebbe svegliarsi. Prego da questa parte”.

Seguo l’uomo in camice attraverso gli stretti corridoi bianchi dell’edificio, fino ad arrivare in una piccola stanza, bianca anch’essa come tutto il resto, con un solo letto al centro, dove giaci temporaneamente addormentato.
“Vi lascio da soli”.
“Grazie”.

Sai, la parte del “malato” non ti si addice proprio. Tu, che con la febbre alta saltellavi per casa cantando!

Vederti sdraiato lì, immobile, il camice che gli infermieri ti avevano messo indosso probabilmente poco prima di portarti in sala operatoria, fu per me così inusuale. Al polso destro un sottile ago s’insinuava al tuo interno, riversando direttamente nel sangue la sostanza contenuta nel piccolo contenitore al tuo fianco, collegato al tuo corpo da un sottile tubicino in gomma, trasparente.

E la tua mano sinistra… I copiosi bendaggi mi precludevano la sua vista, ma ero a conoscenza delle sue condizioni.

Avevo paura per te piccolo…

Paura della tua reazione.
Paura della tua sofferenza.
 
Perché la tua era anche la mia sofferenza.

Quando ti svegliasti, vagasti con lo sguardo tutt’intorno a te, cercando di capire in che luogo ti trovassi.




“Ehi…”
“Kou… che…”
La tua voce è un sussurro, timido pigolio di uccellino appena nato.
 “Va tutto bene adesso”
Rassicuro te; rassicuro me stesso.
Mi perdo per un attimo in quei tuoi ammalianti pozzi neri come la notte; scruto il tuo volto, cogliendo ogni più piccolo dettaglio che oramai conosco a memoria.
Noto solo due differenze: una piccola escoriazione al labbro inferiore, e due grandi occhiaie scure incollate ai tuoi magnifici occhi dalla forma allungata.

Carezzo lentamente il tuo braccio destro, stando attento a non spingermi troppo più in la del gomito.
Osservo l’ondeggiare della mia mano, come fosse l’oggetto più interessante di questo mondo.

La verità è che cerco di perder tempo. So che dovrò essere io a comunicarti la notizia.

A  distruggerti definitivamente.

 E non voglio.
“Kou…”
Alzo il mio sguardo e lo collego faticosamente al tuo.

Dolore.
Tristezza.
Angoscia.

“…Parlami, ti prego”
Hai già capito tutto, non è così? Il tuo tono di voce ti tradisce.
Se hai già capito perché vuoi costringermi a dirtelo?
Per avere un’ulteriore conferma?
“Ti hanno operato…”
 Una lacrima riga il tuo volto. Silenziosa, lascia la sua dimora per percorrere la tortuosa strada che la porterà alla fine del tuo viso.

“… le tue dita erano gravemente ferite e l’infezione stava prendendo piede così…”
Quella lacrima, prima solitaria, adesso non era più sola. Seguita dalla sua sorella, e poi da un’altra, e un’altra ancora, così, fino a sfociare in un pianto disperato, il volto oramai ricoperto di quelle lacrime salate.
“Non...”
Inizi flebilmente.
“Non potrò più suonare….”
La tua voce, rotta dal pianto, aumenta sempre più.
“Le mia chitarre…”
Per poi tornare ad un sussurro.
“La band…”
“La mia musica! Non potrò più suonare!
La tua voce esplode, disperata.
“Yuu, ti prego calmati…”
“Col cazzo che mi calmo! Come faccio adesso? Era tutto perfetto! Perfetto!”
Stai ancora urlando. Ti abbraccio, cercando di rasserenarti.
“Come farò, Kou?”
Riprendi a piangere, soffocando i tuoi singhiozzi nel mio abbraccio.
“Andrà tutto bene Yuu…”
 

Fu l’unica cosa che riuscii a dirti in quel momento.
Forse avrei dovuto rispondere più adeguatamente. Non so, confortarti maggiormente, darti qualche speranza. Ma se così fosse stato sarei stato un bastardo, non trovi? Sarebbe come dire ad un ragazzo cieco dalla nascita: “tra qualche tempo potrai vedere il mondo intorno a  te!”

Crudele realtà.

Tornammo a casa dopo qualche giorno di ricovero.
Eri cambiato: non più il ragazzo allegro e spensierato di qualche settimana prima, ma un uomo triste, spento, morto.
Cercai di starti vicino il più possibile; sarebbe stata certo dura i primi tempi, ma con il passare del tempo forse avrei riavuto il ragazzo che tanto amavo.
Riunimmo la band, per dare a tutti la notizia.
 

“Potete trovarvi un altro chitarrista. I The GazettE non possono finire così!”
“E invece e proprio così che finiranno. Senza di te non potremmo mai più essere la band di prima!”
Takanori è sempre molto diretto.
“Non voglio che perdiate tutto per colpa mia…”
“Per colpa tua? Cristo Yuu, qui la colpa non è di nessuno!”
Interviene il nostro leader.
“Ci stiamo ritirando in un momento perfetto. E poi, siamo sul palco da troppi anni; è ora di lasciare la scena ai giovani! Noi ormai siamo troppo vecchi per il j-rock!”
Akira cerca a suo modo di sdrammatizzare. Poco dopo infatti, tutti ridacchiano divertiti.
Tutti tranne te.

 
Posso solo immaginare come ti sia sentito in quel momento.
Dal giorno in cui i The Gazette si sciolsero definitivamente, la nostra vita cambiò radicalmente.
Ci trovammo tutti un nuovo lavoro.
Yutaka trovò un ottimo impiego come capo cuoco in un ristorantino in centro città. Dopotutto era molto bravo in cucina; almeno continuava a fare qualcosa che amava.
Akira venne assunto come commesso in un negozio d’abbigliamento.
Per Takanori fu impossibile allontanarsi dalla musica. Tentò di intraprendere una carriera come solista, e stava anche riuscendo nel suo intento, ma abbandonò l’idea quasi subito. Ci spiegò in seguito che non se la sentiva di continuare da solo. “è più divertente quando sul palco si è in gruppo. Da soli è una noia!” Aveva commentato il nostro ex vocalist. Così finì a fare l’insegnante privato di canto e chitarra.
Io intrapresi la carriera da modello.
Durante i servizi fotografici per pubblicizzare i nostri singoli, album o concerti, i fotografi non facevano altro che ripetermi che ero un modello perfetto; una calamita per l’obbiettivo della macchina fotografica!
Dopo qualche tempo cercai di convincere anche te a trovare un lavoro, ma ti tiravi sempre indietro, ed io sorvolavo. Di certo non eri un peso per me, economicamente parlando. Ed entrambi avevamo messo da parte abbastanza denaro durante la nostra vita da “GazettE”, da poter vivere benissimo anche senza entrate mensili per un bel po’ di tempo credo.
Nella vita di tutti i giorni la mancanza delle dita della mano sinistra non si fecero sentire poi più di tanto; in genere usavi la destra per tutto.
La notte però, quando insieme ci posizionavamo sotto le coperte, ti avvicinavi a me e senza proferire parola, silenziosamente, le lacrime sgorgavano copiose dai tuoi occhi ormai quotidianamente rossi e gonfi di pianto. L’angoscia che si accumulava e che tenevi a freno durante il giorno, ti assaliva; e allora tu ti lasciavi dominare, infinitamente debole in confronto ad essa.
Fui costretto a togliere dalla tua vista le nostre numerose chitarre. Le avevamo sempre tenute in giro per casa; almeno fino a quel momento.
 

Un tonfo raggiunge le mie orecchie.
Corro nella stanza adiacente a quella in cui mi trovo al momento, per venire a conoscenza di chi o cosa ha provocato il suono poco prima udito.
Sei sul divano, la chitarra acustica abbandonata ai tuoi piedi. Probabilmente è stata quella a causare il rumore.
Piangi, senza emettere alcun singhiozzo, e stringi convulsamente la mano destra intorno ai resti della sinistra.
“Portale via…”
Sussurri. Alzi lo sguardo liquido sul mio, attonito.
“Portale via, ti prego…”

 
Più i giorni passavano, più ti osservavo appassire –come un delicato fiore al fine della sua primavera- più io morivo dentro, lentamente.
Ormai anch’io avevo smesso di suonare; per te, per non farti soffrire più di quanto non stessi già facendo. Non ho nemmeno più provato a farlo. Per te sarebbe stato come una pugnalata diretta al cuore: profonda, spietata, crudele.

La musica divenne per te –per noi- un incubo.
 

Scosto le tende, quelle di lino ricamate che ti piacciono tanto. Dal giorno dell’incidente non ti svegli più di buon umore come un tempo. Sono io a svegliarmi prima di te, sforzandomi di sorridere, di apparire allegro, per tentare almeno di sorreggerti in questo periodo buio della tua vita.
I primi timidi raggi di sole filtrano attraverso il vetro della finestra, andando ad illuminare la stanza.
Sei già sveglio, ma ti rigiri ancora pigramente tra le lenzuola.
Anche questa notte hai pianto tutte le tue lacrime, o meglio, quelle che ormai ti rimangono.
Come sempre ti ho tenuto stretto tra le mie braccia e quando ti sei calmato, mi sono lasciato andare tra le braccia di Morfeo, esausto anch’io.

Prima di cadere nell’oblio dell’incoscienza, i miei pensieri, vaganti, andarono a posarsi sulla nostra, sulla mia carriera da musicista, ai ragazzi, alle nostre canzoni. Per un istante venni assalito da un’angosciante nostalgia; nostalgia dei tempi andati, di quelli che sono passati una singola volta, e che non torneranno mai più nella vita.
Ancora adesso quel senso di angoscia, di mancanza di qualcosa, non è ancora andato via.
Ma sinceramente credo non andrà mai via.

Lo si può però contrastare, alleviare anche solo per pochi istanti; fuggire dal dolore per un fugace attimo, per poi ricadere in quell’abisso buio e profondo, senza vie d’uscita.

 
Il mio palliativo sarebbe potuto essere la musica.
Ma ancora una volta, la nostra amata fu causa del tuo dolore.
 

Accendo la radio, mentre termino di preparare la colazione per me e te.
Sei seduto al tavolo, ancora in pigiama, il viso oramai spento.
Quella luce che ti caratterizzava, quel baluginio luminoso nei tuoi splendidi occhi, si è spenta.
Guardarti In quello stato è per me come ricevere un potente pugno in pieno addome.

“Buongiorno Tokyo! Oggi è davvero una bellissima giornata! Bene, oggi iniziamo con una piccola chicca!”
Lo speaker alla radio parla ininterrottamente, sembra un tipo abbastanza logorroico.
“Ricordate i The GazettE? Ma certo, e come potremmo dimenticarli? Sono stati un pilastro per il rock giapponese. A pochi mesi dal loro scioglimento, vi proponiamo ora il loro ultimo singolo: Distress and coma!”
Le note della nostra ultima canzone si spandono per l’ambiente. Sorrido amaramente.

Tra tutte quelle che ho composto questa è la canzone che mi piace di più.
In quell’assolo ci ho messo davvero l’anima.
Inizialmente l’avevo scritta solo per te. Sentivo il bisogno di trasmetterti i miei sentimenti, e l’unico modo efficace che conoscevo per farlo era la musica.
Quando venne il momento del mio piccolo assolo, ti commuovesti.
Evidentemente ero riuscito nel mio intento, e di questo ne fui immensamente felice.
Mi dicesti che era un peccato non usare questa canzone per il nostro album, ai fan sarebbe sicuramente piaciuta molto, e Takanori avrebbe sicuramente scritto un testo magnifico.
Alla luce delle tue ragioni, mi convinsi e proponemmo la melodia a Taka. Avevi ragione, creò un testo a dir poco spettacolare, anche se il messaggio lanciato era un po’ l’opposto della mia idea iniziale.


Finisco di preparare il caffè e il resto della nostra colazione.
Mi volto in tua direzione e ciò che vedo mi paralizza.

Piangi, ancora.
Gli occhi sbarrati fissano il vuoto di fronte a te.
Le tue spalle vengono attraversate da potenti tremiti.

Sono un idiota.
Abbandono le tazze piene di caffè sul ripiano in marmo e corro in direzione della radio, per far cessare definitivamente la tua tortura, il tuo dolore.
Ti raggiungo velocemente, stringendoti ancora tra le braccia.
 “Scusami”
 Ti sussurro tra i morbidi capelli corvini, carezzandoli dolcemente.

 

Da allora in poi non accesi più quella radio.
Quando sentivo la nostalgia sopraffarmi, uscivo di casa, per ascoltare un po’ di musica in solitudine, in modo che tu non la sentissi.
Quella situazione stava diventano stressante. Per te. Per me. Per il gruppo.
Più volte parlammo di te, della nostra situazione, della nostra Pandora.

 
“Perché non vi trasferite per un po’? Prendila come una specie di vacanza…”
“Secondo me Yutaka ha ragione… Magari ha solo bisogno di staccare la spina per un po’… Cambiare aria per qualche tempo non potrà che fargli bene”

 
Seguii il consiglio datomi dai miei amici.
Affittai una piccola villa in riva al mare; si affacciava direttamente sulla spiaggia.
Ti è sempre piaciuto il mare: la costante brezza marina che spira dall’orizzonte, l’odore di salsedine, fresco, pungente, i piccoli granelli di sabbia tra le dita.
Quando ne avevamo l’occasione passeggiavamo per ore sulla sabbia, al tramonto, osservando l’incresparsi delle onde sulla battigia, le sfumature  color d’autunno provocate dagli ultimi incandescenti raggi di sole che andava ad immergersi in quell’azzurra distesa infinita, spegnendosi lentamente.

 
Spazi con lo sguardo verso l’infinito, cercando di cogliere con lo sguardo quell’orizzonte nascosto tra cielo e mare.
“Uao… è bellissimo qui…”
Il tuo primo sorriso dopo settimane.
“Sono contento di piaccia”
Le nostre mani intrecciate tra loro non accennano ad abbandonarsi.
In momenti come questi sembrano fatte per rimanere così per sempre.
Volti il tuo viso in mia direzione.
La lieve brezza estiva scompiglia i tuoi lunghi fili di seta color dell’ombra.

“Quanto rimarremo?”
“Per tutto il tempo che vuoi”
Alzo le nostre mani intrecciate; le avvicino alle mie labbra, posando sulla tua un piccolo bacio.
“Grazie”

 
Rimanemmo in quella piccola casa per circa due mesi.
Sembravi migliorare di giorno in giorno; non piangevi più tutte le notti, e durante il giorno riuscivi a regalarmi qualche sporadico sorriso. Sembravi aver riacquistato faticosamente quella voglia di vivere che sembrava come sparita improvvisamente, portata via da un’entità malvagia, dedita solo alla sofferenza.

Illusioni.

Il velo di Maya.

Quando quella mattina mi svegliai, non trovai il tuo corpo accanto al mio. Mi parve molto strano. Erano mesi che ormai ero sempre il primo ad abbandonare il confortante calore delle lenzuola; ma su due piedi non ci feci poi tanto caso: ti stai riprendendo, magari eri tornato a svegliarti prima di me.
Sarebbe stato il colmo vederti entrare in camera tutto trafelato con una tazza bollente di nero caffè tra le mani, poggiarlo sul primo mobile nelle vicinanze ed andare a scostare le tende per permettere ai raggi solari di far capolino all’interno della stanza.

Ancora non avevo scostato quel velo.

Tendo le orecchie, per poter cogliere anche solo un piccolo suono provenire dalle stanze adiacenti.
Nulla.
Strano… Magari hai deciso di fare una passeggiata sulla spiaggia.
Girovago per casa per avere una conferma.
Ancora nulla.
Guardo allora fuori dalla finestra, spazio con lo sguardo lungo la spiaggia, per cogliere anche solo fuggevolmente la tua figura.
Deserta.
Dove sei finito?
Torno in camera; l’ansia si fa spazio in me, prendendo lentamente possesso del mio corpo.

Noto un particolare che prima non avevo notato, troppo preso dalla tua ricerca: un candido foglio, ripiegato su se stesso e abbandonato inerme sul tuo cuscino.
Mi fiondo sulle lenzuola già spiegazzate; con mani tremanti recupero quel pezzo di carta. Lo dispiego lentamente.

 

Non so quando leggerai queste parole, magari non lo farai affatto.
Di sicuro quando lo farai, io non sarò lì con te.
Questi ultimi due mesi passati insieme sono stati davvero bellissimi.
Come lo sono stati gli anni passati al tuo fianco, prima come semplice amico, infine come compagno di vita.
Non potrò mai ringraziarti abbastanza per la felicità donatami, i bei momenti passati insieme.
Il tuo amore.
È stata la cosa più bella che mi sia mai capitata, dopo la musica.
È colpa sua se adesso sarai da solo a leggere queste righe, ma è andata così, non c’è nulla che io abbia potuto fare, e non ci sarà nulla che potrai fare tu.
La verità è che non ci sono riuscito; non sono riuscito a vivere senza di lei.
Io amo la vita. Continuerò a vivere, Kouyou.
In te, nei tuoi ricordi e nel tuo cuore, in quello dei nostri amici, dei fan dei The GazettE.
Perdonami se puoi; sono stato debole, non sono riuscito a sopportare il dolore che, prepotentemente, mi attanagliava il cuore, lacerandolo lentamente ogni singolo giorno dall’incidente.
Ogni volta che udivo anche solo una singola nota, il dolore aumentava a dismisura, insieme alla frustrazione di non riuscire più a fare la cosa che più amavo al mondo, probabilmente l’unica cosa che sapevo davvero far bene: suonare la chitarra.
Sono stato un peso per te da quel giorno. Ho visto come hai sofferto nell’essere costretto da me ad abbandonare la cosa che più amavi, come me.
Non l’ho sopportato; io non potevo più farlo a causa della mia condizione fisica; tu per colpa mia.
Non volevo essere la causa della tua sofferenza.
Ti amo davvero troppo.
Avevo già preso la mia decisione quando ci trasferimmo in questa casa. Decisi di godermi il tempo che mi rimaneva; volevo di nuovo essere felice un ultima volta con la persona che amo: e ci sono riuscito.
Non essere triste per me. Se avessi continuato a vivere, avremmo sofferto entrambi, e sarebbe stato sicuramente peggio.
È notte fonda adesso, stai dormendo beatamente sul nostro “talamo nuziale”. Sei davvero bellissimo con quest’espressione così rilassata e spensierata in volto.
Sono felice di vederti per l’ultima volta così.
Ricorda agli altri che li ho sempre voluti bene, anche se qualche volta litigavamo (specie con Takanori –quel nano malefico!-)
Questo è il mio addio definitivo.
Ti prego solo di non dimenticarmi mai. Se lo farai avrò la certezza di essere rimasto vivo in te.
Ti amo, davvero, con tutto il cuore.
Addio Kou.

 
Non riuscì a far altro che piangere.
Piangere, disperatamente.
Calde e dolorose lacrime scivolavano copiose via dai miei occhi, ricadendo sulle parole vergate dalla tua mano.
Il dolore che provai in quel momento non può essere spiegato con nessun vocabolo esistente.
Perdere una persona importante non è doloroso quanto rendersene conto.
Già, perché il dolore più grande sopraggiunge quando ti rendi conto che non potrai più vedere quella persona, non potrai più parlarle, toccarla, ascoltarla, passare del tempo con lei, ridere e scherzare insieme, litigare e poi far pace, coccolarla, abbracciarla, baciarla.
L’unica cosa che ti rimane è il doloroso ricordo, e l’amore nei suoi confronti, sentimento indelebile, duraturo se vero.
 

Corro sulla spiaggia, piangendo e invocando il tuo nome.
Esso risuona nell’aria mattutina, fondendosi con l’infrangersi incessante delle onde sulla battigia umida di sera.
La lettera ancora tra le mani, bagnata e scolorita in parte delle mie lacrime salate, formatrici di questo mare immenso.
Di te nessuna traccia, sembri sparito del nulla.
La disperazione mi assale prepotentemente. Colpisce i miei arti, che cedono sotto la sua pressione, facendo ricadere il mio peso sulla fine sabbia bianca, frutto del lavoro millenario della natura.

Vorrei fosse tutto un sogno.

I sogni sono illusione

In un fugace momento di lucidità, ripenso a qualche settimana prima, ad una delle nostre numerose passeggiate sulla spiaggia.
L’angoscia prende di nuovo il sopravvento al pensiero che non potremmo mai più vivere momenti del genere insieme; ma cerco di rimanere lucido, solo il tempo per riflettere e capire.
Ci inoltrammo in una zona difficilmente accessibile della spiaggia.
Tra le alte ed aguzze rocce trovammo una piccola porzione di paradiso terrestre: la sabbia stingeva sulle tonalità del rosa e del corallo, circondata tutt’intorno da scogli ricoperti dalla verde salsedine.
L’intenso profumo del mare rendeva l’atmosfera ancor più magica, specialmente al tramonto, dove il cielo sembrava prender fuoco.
Forse eri lì. Forse era tutto uno scherzo.


Forse eri ancora vivo.

I forse non servono a nulla.
Con sforzo immane mi rialzo da terra  e comincio a correre verso la mia meta, ignorando i muscoli delle gambe e i polmoni che, stanchi e provati, imploravano pietà.
Quasi giunto al mio obbiettivo, il terrore mi assale, prendendo possesso delle mie membra.
Cerco di farmi coraggio, e con un ultimo sforzo raggiungo il nostro luogo segreto.
Sei seduto per terra, il busto poggiato su uno di quei scogli viscidi.
Il capo ricade abbandonato sulla spalla, insieme ai tuoi capelli un po’ scompigliati.
Le braccia inermi sulle gambe distese. Nella mano destra un lama, a tratti luccicante.
Il polso sinistro squarciato. Al di sotto, un lago color cremisi si estende, viscido, doloroso.

Sul tuo viso però non c’è traccia di quel dolore.
Sembri tranquillo, in pace con te stesso e con il mondo.
 Sembri felice.

Mi avvicino lentamente.
Le lacrime non hanno smesso per un momento di riversarsi sul mio viso.
Sfioro con mano tremante la tua guancia, innaturalmente pallida.

Nessun suono, nessun flebile movimento.

Nulla.

Solo morte.

E allora ti stringo a me, e per un ultima, straziante volta, invoco il tuo nome al cielo.

 

Sono passati sedici anni da quel giorno. Ricordo tutto come fosse ieri.

Non dovresti ricordare tutto questo, ma i nostri momenti felici.

 
Già, hai ragione. Ma sai, quelli non li ho mai dimenticati nemmeno per un secondo. Sono tutti qui, nei ricordi del mio cuore. Non potrò mai dimenticare.
Senza rendermene conto sono passate già delle ore. Quando sono arrivato il sole era ancora alto nel cielo, splendente come non mai; adesso sta per tuffarsi nuovamente in quell’immenso mare, tingendo il mondo intorno a se di un arancio abbacinante.
È arrivato il momento di andare adesso.
Strana la vita a volte. Chi l’avrebbe mai detto che avrei dovuto dire addio alla stessa persona -la più importante della mia vita- due volte?
Sono venuto qui quasi ogni giorno in questi sedici anni. Non credo tornerò più.

È giusto così.

Ho speso sedici anni della mia vita ad illudermi di poter stare ancora con te.
Ci sono voluti sedici anni per capire che ero accecato da un velo invisibile, che mi precludeva la visione della verità. Adesso ho finalmente capito.
O forse è meglio dire che ho finalmente accettato.
Voglio lasciarti qui la tua bambina, la tua tanto amata chitarra acustica. Spero almeno lei ti possa far compagnia quando io non ci sarò più.

Sappi che sei stata la cosa migliore che mi sia mai capitata, davvero.

Ti amo.

Addio.



 In questi sogni che dovrebbero finire, il nostro addio sta fiorendo.

  

 
…in the end has killed you”



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Dunque, rieccomi con una nuova fanfiction.
Di solito quando commento nel mio angolino personale, sparo una marea di boiate. 
Non oggi.
Intanto voglio specificare una cosa: non ho copiato nulla, tutto è frutto della mia immaginazione e dei miei sentimenti.
È la prima volta che scrivo qualcosa di così malinconico, e con un linguaggio più vario e complesso (chi ha letto le mie precedenti ff e Venomous Cell noterà la differenza).
Ho messo l'anima in questa storia; prima di tutto perché mi riguarda in maniera particolare: senza poter suonare non potrei vivere. Mentre scrivevo gettavo un occhio al pc, uno alla chitarra e uno al pianoforte; e piangevo. 
Piangevo perché si; perché ho amato dal profondo del cuore i personaggi e la loro storia.
Mi sono ritrovata a pensare come avrei reagito io al loro posto, così riversando tutto ciò che provavo all'interno delle parole. Spero che tutto ciò che volevo comunicare con questa storia arrivi a voi, davvero.
Quello del velo di Maya è un concetto espresso dal filosofo Arthur Schopenhauer. Per chi non lo conoscesse, ecco un link abbastanza esaustivo.
http://it.wikipedia.org/wiki/Pensiero_di_Schopenhauer#Il_velo_di_Maya
Poi non ho molto altro da dire: la frase finale è tratta da Distress and Coma e beh, accenno anche al mito greco di Pandora.
Ho scritto questa shot in un periodo relativamente breve (meno di un mesetto) ed era già pronta da qualche tempo, ma non l'ho pubblicata subito per un motivo molto semplice: volevo che prima di tutti, la leggesse la mia professoressa di lettere. Stimo molto questa donna; per la sua immensa cultura, per i suoi ideali, per tutto. Volevo un suo parere, obbiettivo, sincero; e stamattina l'ho avuto. Sono stata felicissima quando dalla sue labbra è fuoriuscita la frase: "mi è piaciuta davvero molto", il tutto adornato da un enorme sorriso.
Per me tutto ciò -scrivere la shot, ricevere questo commento, pubblicarla, sentire le vostre opinioni- è davvero importante.
Per il momento non ho altro da dire. Se mai mi verrà in mente qualcos'altro da scrivere qui, lo farò in futuro.
Un bacio,

Polly~

   
 
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