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Autore: Madtora    29/05/2012    1 recensioni
Ho provato a scrivere qualcosa di romantico dopo quasi un anno di stop dalla scrittura. Ne è uscito fuori un racconto come al solito un po' noir, ma che spero possa piacere. Spero che, anche solo per un attimo, vi affezionerete ad Evelyn.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La notte scivolava silenziosa, come un velo pronto a ricoprire le luminescenze del giorno. Troppa luce per quella presenza, la rendeva innaturale. La sua bellezza sfioriva col sole, si sciupava..svaniva quasi. La sua pelle così bianca, quasi trasparente, con la luce del sole non le rendeva grazia. La faceva sembrare trasparente. Ma io conoscevo la sua vera bellezza. Non appena la calda luce del sole lasciava il posto alle tenebre avvolgenti della notte, lei si risvegliava in tutta la sua maestosità. Lei, Evelyn. La sua candida pelle lottava quasi con lo sfavillante colore dei suoi capelli, rossi, di un colore non adatto alla natura. È lo stesso colore del primo fiotto di sangue che esce da una ferita, desideroso di fuoriuscire da un corpo che lo tiene imprigionato, ma che non sa che la sua vitalità si spegnerà non appena avrà contatto con l'ossigeno, che lo renderà scuro, sempre più scuro, fino a farlo accartocciare su sé stesso e diventare nient'altro che un grumo. I suoi occhi, di un colore indefinito, perché non saprei ben dire se erano blu con sfumature violastre, o viola con piccoli sprazzi di cielo nella notte in tempesta. Quando sorrideva sembrava quasi di scorgere come dei lampi in quegli occhi magnetici, e io fremevo, incurante del pericolo. Le sue labbra chiedevano baci, sempre, non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Il solo pensiero di poterle sfiorare mi riempiva il corpo di brividi caldi lungo la schiena, e socchiudevo gli occhi, posando le mie tenere labbra di infante su un bocciolo di rosa, desiderandola. La amavo, come solo un folle può fare. Per me lei era tutto, il mio mondo, la mia vita. Il mio sogno più perfetto.

Ma lei era grande, troppo grande per me. L'amavo da lontano.

La guardavo passeggiare tutte le sere, lontana dalla luce e dagli occhi della gente. Tutti sembravano quasi vergognarsi di lei, la tenevano nascosta. Io le avrei permesso di andare ovunque, passeggiare mano nella mano con me, alla luce del sole...far vedere a tutti chi lei fosse, quanto fosse bella. Avevo provato a chiedere a mio padre il permesso di portarla al mercato per esempio, per far sì che tutti potessero omaggiarla con doni incantati dalla sua presenza. Dapprima lui mi rispose gentilmente che non poteva uscire, ma più insistevo più il suo tono di voce aumentava, e le vene sul suo collo parvero voler uscire dal corpo di quell'uomo egoista, che voleva tenere una simile rarità solo per sé, poiché neanche io dovevo sapere di lei. La discussione finì con un bicchiere, ricolmo di vino rosso, scagliato contro il muro. Il liquido rosso, scivolò per qualche minuto contro la parete immacolata, e le lunghe strisce rosse, simili ad artigli, pronti a lambire con le loro grinfie il candore del mondo.

Dopo quella sera, non vidi Evelyn per diverso tempo. Stavo per impazzire. Ogni sera mi mettevo al solito posto, aspettando che lei iniziasse la sua passeggiata notturna tra i boccioli di rosa. Ma niente. Ero paralizzato dal terrore. Corsi come un matto tra le sale dell'enorme casa, non curante del rumore che avrei fatto, né delle persone che avrei svegliato. Nella mia mente c'era solo lei. La mia folle corsa era seguita da luci accese, e da grida soffocate. Arrivai nel giardino, cercando di trovarla, di sentire il suo profumo, di poterla vedere. Ma il profumo dei fiori era troppo forte, erano come dei soldati che difendevano quel luogo magico da un estraneo. Ma io non ero un estraneo, io amavo Evelyn, e lei era la regina di quel luogo...io ero..

I miei sensi si annebbiarono. I miei occhi si chiusero. Per un attimo mi parve di vedere il bagliore di un lampo, il fragore di un tuono. E una volce, dolce velluto, pronunciare il mio nome.

Mi svegliai dopo alcuni giorni, con una flebo al braccio. La testa mi doleva terribilmente. Portai una mano alla tempia e sentii la ruvida essenza della pelle, priva dei capelli che avrebbero dovuto ripararla. Il terrore mi stava per assalire, quando mio padre entrò nella stanza. Solo che non era lui.

Ben svegliato”

lo guardai con timore, ma uno specchio dietro di lui mostrava la mia faccia con disegnata sopra un'espressione di eterno stupore. Osservando meglio lo specchio, notai che la mancanza di capelli riguardava solo due parti della mia testa. Cercai di parlare, ma dalla mia bocca uscirono solo dei suoni insensati.

non si preoccupi, tra qualche giorno dovrebbe tornare a posto Mister Kas. Come richiesto da sua madre, abbiamo tentato su di lei una nuova tecnica per guarire i problemi come i suoi, diciamo così. È una tecnica sperimentale, ma il suo corpo ha retto bene. Ne siamo entusiasti”.

Non capivo. Mi diedero qualcosa da bere, e mi addormentai. Mi risvegliai dopo qualche giorno, e finalmente potevo nuovamente parlare.

 

Lo aspettavo, come tutte le notti, da quando era nato. Posavo la mia testa sul suo petto, aspettando che aprisse gli occhi, che mi vedesse. Mi accoglieva sempre con un sorriso, e mi chiamava con un nome che non era il mio, ma lo amavo anche per questo. Lo vedevo perdersi nei miei occhi, mentre le mie mani cercavano le sue, le mie labbra desideravano posarsi su di lui, come una volta. Ma dovevo aspettare. Una cosa facile da dire alla propria mente, ma non al proprio corpo, che ogni notte, ogni volta che lui mi guardava, si piegava di desiderio, per lui, per i ricordi che avevamo. O che meglio, avevo. Perché lui non ricordava. Non ricordava il nostro primo incontro, avvenuto in una serata d'inverno, quando in strada c'erano solo poche persone a causa del gran freddo. Ma io ero lì. In attesa. Che qualcuno mi comprasse. Lui passò a fianco a me, ignorandomi volutamente. Voleva sentirsi desiderato. Stetti al suo gioco, inizialmente perché quella sera non avrei avuto altri clienti. Lo seguii per le strade luride della città, fino all'entrata di un giardino botanico. La porta si aprì, e lui si inoltrò in quel sentiero di rose. La prima sera di tante, persi in quel gioco di inseguito e inseguitrice. La prima di sera di baci scambiati sotto la luna, di mani intrecciate in fretta e senza riguardo, di corpi che battono l'uno sull'altro, ricoperti di gocce altrui, o proprie, senza distinzione, senza preoccupazione. Notte dopo notte, il giardino sembrava fiorire sempre di più, come se il nostro amplesso giovasse a quelle piante così effimere, eppure così resistenti.

Passarono dei mesi così, amore mio. Io ormai non lavoravo più, vivevo per te, e solo te attendevo nella notte più buia. Mi cibavo del tuo amore per te. Quella fatidica sera, la notte, nostra testimone di nozze, voleva avvisarci. Nascondeva la sua oscurità dietro lampi luminescenti, e con tuoni fragorosi ci intimava di correre. Ma noi eravamo persi solo in noi. Non sentivamo i rumori della tempesta, sentivamo solo il battito dei nostri corpi che sbattevano l'uno sull'altro, creando gemiti di piacere. Non sentivamo le gocce di pioggia, nei nostri pensieri c'erano solo i nostri liquidi, che si univano in un amplesso più profondo del solito, più nitido, più completo. Nell'attimo in cui stavo per volare, gemendo più forte della notte che ululava sopra noi, che ci illuminava con la sua luce innaturale, sentii un fendente alla schiena, un dolore lancinante al cuore. Con gli occhi ancora appannati dal piacere, vidi una lama uscire dal mio petto, e che aveva colpito anche te, se pur di striscio, ma io non lo sapevo. Vedevo solo scorrere un oceano di sangue, e poco prima di chiuedere gli occhi, una voce femminile urlare disperata.

 

 

Aprii gli occhi dopo qualche ora, e vidi intorno a me degli uomini, che stavano osservando il mio corpo nudo. Uno spettacolo cui ero abituata. Quegli uomini estrassero la lama che mi aveva colpita, e vidi uscire dal mio corpo una parte del mio cuore. Senza quello non avrei potuto amarti, così scappai via, lasciando il mio freddo corpo inerme in balia di colore che volevano solo far tornare normale quel luogo. Corsi per la città, era pieno giorno, ma la gente non mi vedeva. La luce del sole rendeva la mia pelle trasparente, quasi eterea. Ma non mi importava. Desideravo solo vederti. Ci vollero diverse settimane, ma alla fine ti trovai. Così diverso, ma eri sempre tu amore mio. Solo che tu non lo sapevi. Eri rinchiuso in un luogo che tu chiamavi casa, ma che non era casa tua, insieme a colui che chiamavi padre, ma non lo era. Provai a correre in tua direzione, ma mi ignorasti. Il tuo corpo passò attraverso il mio, e sentimmo entrambi un fremito. Attesi la notte, la prima di molte. Perché solo durante la notte potevi vedermi. Dopotutto, il nostro amore era iniziato con lei. Mi chiamavi con un nome che non era il mio, ma l'amore era il nostro. Non potevamo toccarci, ma le rose facevano da tramite al nostro calore. Finchè quella donna non intervenii di nuovo. Era gelosa del nostro amore. E di me. Nonostante tu ora mi chiamassi col suo nome. Ma come potevo mio dolce cuore, lottare contro di lei? Lei poteva averti durante il giorno, io soltanto quando la notte era più nera. Lei poteva sfiorarti, accarezzarti, cullarti; io potevo solo lasciare parte di me su dei fiori. Lei era viva; io giacevo in qualche posto dimenticato da Dio. Lei era tua madre, e conosceva i migliori medici del paese. Io ero solo una puttana, e conoscevo solo il mio amore per te. E ormai non ero altro che un ricordo, fallato dai medicinali che ti costringevano a prendere, che creavano in te un ricordo fallaceo di noi. E il noi in te finìì in seguito a quell'orrida seduta di ellettroshock che ti fecero, in seguito alla quale, di me ti ricordavi solo il nome col quale mi chiamavi: Evelyn. Che era il nome di tua madre.

 

   
 
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