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Autore: Melie Devour    29/05/2012    1 recensioni
«Che diavolo ci fai qui?» chiese adirato il ragazzo, incrociando le braccia sul petto. Si era rilassato nel momento in cui aveva visto emergere un’esile ragazzina invece di un omòne incappucciato.
«Non denunciarmi, per favore.» Jane guardava la gomma sotto i piedi di lui, terribilmente in imbarazzo.
Genere: Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa è una FF che ho scritto per un concorso promosso dal forum di TeamWorld.
Il link è questo: http://forum.teamworld.it/forum1409/204773-mars-fan-fiction-il-gioco.html
Uno dei requisiti era inserire le cinque parole che troverete in grassetto. Spero vi piaccia, buona lettura e mi raccomando, recensioni brutalmente sincere :D
~Melie Devour


Titolo Fan Fiction: Runaway

Rating: Arancione

Disclaimer: Questa Fan Fiction non è scritta a scopro di lucro. Non detengo i diritti sui personaggi usati, tranne quelli inventati da me.

 

“Oh cazz..” Jane si abbassò velocemente dietro un cumulo di casse di legno con sù la scritta “fragile” e di altoparlanti da concerto più in fretta che poté. I due vigilanti effettuavano il loro giro di ricognizione chiacchierando tra loro, annunciandosi in tempo, fortunatamente per lei. Mentre stava china con le mani appoggiate sulla terra bagnata e sudicia, teneva gli occhi chiusi, sperando che non l’avessero sentita. Aspettò che le due voci fossero dirette altrove, allungò il collo oltre i monitor e poi si mosse nella direzione opposta, correndo accucciata finché non raggiunse un caravan dietro al quale nascondersi. Uno sguardo oltre lo spigolo verso la specie di campo nomade che è quell’accampamento di camper e bus dietro all’allestimento del palco, da cui proviene una musica fortissima. Sicuramente era un evento abbastanza rilevante, di quelli che solo sporadicamente venivano organizzati in quella cittadina degenera, in uno di quegli stati americani tra gli ultimi che vengono in mente, dovendo fare un elenco a memoria.

Niente si muoveva nel suo campo visivo. Via libera. Svelta saltò sui gradini di acciaio della roulotte di fronte a lei e allungò il braccio per tirare la maniglia. La sbatacchiò un paio di volte, era chiusa. Provò ad altre tre roulotte prima di trovarne una aperta. Non se l’aspettava e quasi cadde indietro quando la porta assecondò il suo movimento. Si ristabilizzò, si assicurò di non aver attratto attenzioni indesiderate e con un salto salì a bordo, chiudendo la porta dietro di sé. Quella doveva essere la roulotte del costumi e del vestiario. C’erano grucce e appendiabiti ovunque, con appese giacche, camicie bianche e pulite, t-shirts e blue jeans. C’era una specchiera circondata di lampadine che faceva molto camerino di Hollywood, agli occhi di Jane. Sentì una voce amplificata ringraziare il pubblico, e un insieme di urli adulatori seguire. Il concerto doveva essere giunto al termine.

 

Il giovane e biondo frontman si rifugiò dietro le quinte dopo l’ultimo saluto al pubblico. C’era gente movimentata, là fuori, non l’avrebbe immaginato, per una cittadina tendenzialmente fatiscente come quella. Infilò la testa in un asciugamano e si portò via il copioso sudore e mezzo trucco colorato dalle palpebre e dal naso, spargendolo sulle guance. Si rese conto solo allora di avere la maglietta completamente fradicia sulla schiena e sul petto. Non era una notte particolarmente calda. Anzi, sembrava più una giornata calda d’inverno piuttosto che una fredda di primavera. Ma i riflettori puntati addosso erano terribili. Il fratello gli corse dietro a ruota e gli assestò una pacca fin troppo energica sulla scapola, togliendogli per un secondo il respiro.

«Sei pazzo? Fai piano!» si lamentò il ragazzo.

«Sempre il solito divo!» se la rise Shannon mentre si allontana verso il suo camerino.

Delle voci femminili e concitate chiamano il nome di Jared poco più in là, da dietro le transenne. Tutte agitano per aria fogli, pennarelli e cd da autografare. Per Jared quella visione sarebbe stata perfetta, in qualunque altra occasione, ma pur essendo esausto e in condizioni pietose, non osò redimersi dall’avvicinarsi e accontentare ognuna delle fan presenti, elargendo grandi sorrisi sinceri.

Le ragazze soddisfatte si erano allontanate, e lui poté raggiungere un posto tranquillo dove lavarsi. Salì il paio di gradini all’entrata, lanciò un’occhiata a Shannon che era intento a berciare commenti sullo spettacolo con Solon e Matt, ed andò a chiudersi nel piccolo bagno.

Tempo di farsi una doccia veloce, per scrollarsi di dosso l’odore salato del sudore e il resto di tinta dal viso, e si avviò verso il van da viaggio, intenzionato ad infilarsi nella cuccetta calda.

«Dove te ne vai? La notte è giovane, andiamo a berci qualcosa in centro!» lo additò Shan.

Jared gli rivolse uno sguardo teneramente glaciale «Stavolta passo, sono esausto.»

«Sei una pippa, Jared!» Risero Solon e Shan, continuando a chiacchierare tra loro, mentre Jared scendeva i gradini nell’aria fresca della notte.

 

Jane se ne stava seduta sullo sgabello tondo posto davanti allo specchio, girando su se stessa a destra e a sinistra, con un orecchio sempre teso verso l’esterno della roulotte. Individuò nel riflesso della sua maglia larga una piccola macchia scura sulla manica destra. Abbassò lo sguardo verso la sua spalla, con disappunto. Il concerto era finito da una mezz’ora abbondante e qualcuno sarebbe potuto venire a cambiarsi in ogni momento. Si alzò, avvicinandosi alla sfilza di grucce appese in serie ad un’asta d’acciaio orizzontale. Scorse con la mano le maniche pendenti delle giacche e delle maglie, per poi sceglierne una a caso da prendere e guardare. Era una t-shirt nera, sul petto c’erano i quattro simboli dei Led Zeppelin. Qualcuno appartenente alla band o alla troupe doveva avere degli ottimi gusti musicali, pensò la ragazza, mentre riappendeva la gruccia al suo posto. Scorse qualcosa muoversi oltre la plastica della piccola finestra con la coda dell’occhio, e fu catapultata di nuovo alla realtà da delle voci squillanti si stavano avvicinando. Svelta aprì un’anta di un armadio alla sua sinistra, e vide degli scaffali pieni di scarpe da lavoro e sneakers. “Merda”

Svelta aprì quella accanto, infilandosi infine velocemente dietro all’appendiabiti e chiudendo l’anta a persiana dietro di sé, col cuore a mille e l’adrenalina che le rizzava i peli delle braccia.

Proprio nel momento in cui lo sportello si chiudeva attutito dietro di lei, dei ragazzi facevano il loro ingresso non proprio aggraziato nel van, facendolo dondolare un po’. Vociavano discutendo su dove andare a bersi una birra. Jane se ne stava accucciata e rannicchiata su se stessa, aspettando con ansia che i tre si fossero cambiati. Da uno spiraglio riusciva a scorgere una striscia di stanza, e poté scorgere la schiena di uno di loro liberarsi della maglia. Il ragazzo castano e per niente alto si voltò all’improvviso, e con conseguente imprecazione mentale della ragazza, spalancò entrambe le ante dov’era nascosta. D’istinto lei chiuse gli occhi e abbassò la testa sui ginocchi, aspettandosi il peggio. Era già emotivamente pronta ad essere presa a urli e insulti o ad essere tirata per un braccio e buttata fuori a calci dal campo, o peggio, scortata alla polizia. Smise anche di respirare, mentre ascoltava la conversazione scorrere normalmente. Le grucce di abiti erano talmente fitte tra loro che nonostante a dividerli ci fossero solo delle maglie e camicie, lui non si era accorto della sua presenza. Lei non osò alzare lo sguardo neanche per un secondo. Sentì la maniglia del van scattare, e lo sportello aprirsi, facendo infiltrare uno spiffero fresco. Intravide delle converse un po’ logore sotto dei jeans dai bordi strappati salire i gradini.

«Siete ancora qui, voi tre?»

«Stiamo andando» rispose Solon

«Ultima occasione per aggregarti, fratello! Andiamo a farci una birra al pub qui di fronte.»

«Te l’ho detto, sono stanco. Prendo un plaid e me ne vado a letto.» così dicendo percorse tutta la lunghezza del van ed esplorò brevemente una cassettiera.

«Come vuoi, pippa.» ribadì Shan scandendo bene l’ultimo vocabolo. A Jared queste blande leve non facevano minimamente effetto. Assecondò con un sorriso di sufficienza la provocazione del fratello e ripercorse i suoi passi tenendo la coperta a quadri arrotolata sottobraccio. Passò davanti alle ante ancora pericolosamente spalancate del suo nascondiglio. A mezza bocca, il ragazzo rispose «Tanto tornerete tra breve, e al povero Solon toccherà trascinarvi tutto da solo fino a qui.» Quest’ultimo rise e Shan si sentì toccato nel profondo «Sei tu che non reggi mezzo bicchiere, che stai dicendo?»

Jared aveva già sceso il paio di gradini, si voltò appoggiato sullo stipite con un ghigno beffardo.

Jane poteva distinguere dalla fessura quei capelli biondi dalle radici scure e quegli occhi liquidi e chiari che aveva visto qualche volta in televisione, quella bella voce gentile che aveva sentito intervistata alla radio. I due ragazzi coperti da magliette fresche e delle giacche di jeans lo seguirono fuori dalla roulotte e lo sportello di chiuse alle loro spalle. Jane non uscì dall’armadio, né si sporse per chiudere le ante. Appena oltre lo strato di plastica della porta sentiva ancora chiaramente le voci dei ragazzi. Le sembrò di udire qualcosa simile ad un “Buonanotte, pippa”, e poi silenzio. Per un attimo tirò un profondo respiro di sollievo, considerandosi ormai fuori pericolo.

Proprio mentre aveva appoggiato il palmo sul pavimento per sollevarsi da terra, però, lo sportello si aprì di nuovo. Jane sentì non più di due passi lievi sul pavimento di linoleum. La stessa voce gentile di prima, ma decisa e un po’ seccata esordì nella sua direzione.

«Vieni fuori.» 

“Dannazione” Jane sospirò, e con faccia sommessamente colpevole sbucò da dietro il vestiario, senza dire una parola.

«Che diavolo ci fai qui?» chiese adirato il ragazzo, incrociando le braccia sul petto. Si era rilassato nel momento in cui aveva visto emergere un’esile ragazzina invece di un omòne incappucciato.

«Non denunciarmi, per favore.» Jane guardava la gomma sotto i piedi di lui, terribilmente in imbarazzo.

«Questo lo vedremo. Intanto andiamo dalla vigilanza e parliamo con loro.» e così dicendo girò i tacchi e fece per scendere, ma la ragazza scattò verso di lui e gli afferrò il braccio, e con voce supplicante disse «No no no, ti prego, aspetta. Posso spiegarti.»

«Bene. Sono tutt’orecchi.»

Jane si guardò intorno, preoccupata. «Non voglio far male a nessuno. Ma andiamo da qualche altra parte, per favore.»

Jared sbuffò, ma fece un cenno di assenso con il capo. Lui per primo si affacciò verso l’esterno e si assicurò di non essere visti. Poi con un gesto delle dita le intimò di seguirlo. Pochi passi fuori dalla roulotte e raggiunsero il van da viaggio. Di nuovo, Jared sondò la situazione all’interno del bus e poi la fece entrare, chiudendo la porta dietro di loro.

Si sedette su un divanetto dall’altro lato del van, poi, dopo aver incrociato le braccia al petto e portato la caviglia sull’altro ginocchio, la guardò negli occhi, in attesa di una spiegazione.

Jane deglutì a disagio. Quel ragazzo non era particolarmente imponente o pauroso. Ma era comunque più grosso di lei, fragile com’era. E in più gli sarebbe bastato cacciare un urlo per chiamare gli scimmioni della sicurezza.

Si guardò un attimo intorno, poi aggrappò lo schienale di una sedia e la tirò verso di lei, sedendosi e tenendo lo sguardo basso.

«Ora puoi spiegarmi tutto.»

«Prometti di non chiamare la sicurezza?»

«No.» Jane lo guardò un po’ contrariata, ma proseguì comunque.

«No volevo rubare niente, giuro.»

«Sei una fan della band?» ipotizzò lui.

Jane fu incerta sulla risposta da dare. Magari se avesse detto di sì, si sarebbe addolcito. Ma la sua esitazione rispose per lei. «Il tuo tempo sta per scadere. Trova una scusa convincente.»

In quel momento Jane ripercorse il flusso di idee che l’aveva portata a decidere di entrare in quel campo dietro al concerto, in quella roulotte e nascondersi in quel maledetto armadio, maledicendosi da sola per la sua stessa stupidità. Alzò lo sguardo in quello chiaro di lui, allungando un angolo della bocca e cominciando ad agitare una gamba su e giù a ritmo psicotico.

Jared si spazientì definitivamente, con uno scatto si alzò dal divanetto.

«Ok, ok, fermo, ti spiego tutto!» ma lui non si arrestò e si diresse verso l’uscita oltre di lei.

Allora lei si alzò a sua volta in piedi e lo fermò posandogli le mani sul petto, mentre diceva «Volevo solo andarmene di qui.» Il ragazzo, che stava già scansandola da parte con il braccio, finalmente si fermò. Il sarcasmo s’impossessò della sua voce.

«E non hai trovato un modo più economico, giusto?»

«Cosa vuoi che ti dica? Mi dispiace, ho preso una decisione impulsiva! Devo andarmene da questa città prima possibile e non ho neanche un soldo, va bene?»

Quello scatto di carattere non piacque a Jared, che subito contrattaccò, territoriale come un gatto randagio. Afferrandole il braccio disse «No, non va bene! Questa è una tournée musicale, non una fottuta corriera per vagabondi e fuggitivi!»

Jane rimase senza fiato, gli occhi spalancati. Si aspettava che sarebbe schizzato via chiamando le guardie, invece rimase lì in piedi davanti a lei, quasi rimuginando sul quella sua ultima sfuriata.

Lentamente, allentò la presa attorno al braccio della ragazza, accortosi di averla stretta molto più del necessario.

Jane si sentì assalire da una profonda disperazione. Solo in quel momento realizzò che ormai la sua unica possibilità di fuga era svanita. A separarla dalla città più vicina c’erano dieci chilometri di deserto in tutte le direzioni. Non c’erano alternative, sarebbe dovuta rimanere in quel buco infernale. “No, non posso. Devo andarmene.” impose a sé stessa.

Approfittò dell’esitazione del biondino, in silenzio da qualche decina di secondi. Si ricompose posturalmente, espressivamente e mentalmente. Lo guardò dritto negli occhi, con un gesto deciso posò le mani sul suo petto e lo spinse indietro, contro il bordo del piano di lavoro della piccola cucinetta. Quella sua iniziativa lo destabilizzò, si trovò preso alla sprovvista e quasi batté la testa sulla maniglia della mensola.

Adesso la ragazza aveva fatto scorrere le mani ai lati dello sterno, mentre con le labbra si era avvicinata al profilo della mandibola leggermente ruvida del ragazzo, che ora si sentiva decisamente a disagio. Lui aveva afferrato e teneva stretto tra le mani il manico orizzontale della lavastoviglie dietro di lui, ogni muscolo, nervo e tendine teso. Per un secondo gli mancò il respiro, quando le labbra di lei gli sfiorarono il collo. Mormorò un sommesso e per niente incisivo «Ma che.. smettila..» con voce più profonda del normale. Le mani di lei erano scese verso i fianchi, e il suo petto era totalmente a contatto con quello di lui. Con un tono un po’ più sicuro disse «Fermati.» alzando le mani per cingerle le spalle. Prima che potesse allontanarla, lei dal fianco aveva insinuato una falange sotto la t-shirt del ragazzo, tra il bordo dei pantaloni e la pelle calda, ed aveva scorso fino a sotto l’ombelico, dove ora la mano si faceva spazio. Allarmato e all’improvviso completamente sveglio, Jared scattò di lato tenendosela lontana, e sconcertato gridò «Ma sei impazzita? Che ti è saltato in mente?! Cazzo!»

Jane arrossì violentemente ma la sua espressione non esprimeva vergogna. Cercando di risultare in qualche modo convincente, posò la mano sopra quella di lui che la teneva per le spalle e sussurrò «Non mandarmi via. Farò qualsiasi cosa.» Si sentì orribilmente per ciò che aveva detto.

«No!» Tolse la mano da sotto quella di lei «Tu sei da ricovero!» concluse. Si voltò e portò la mano alla fronte, pensando al da farsi.

Dopo quello, Jane non resse più. Tutto ciò ch’era successo in quella dannatissima sera, la paura, la rabbia, l’adrenalina, lo sconforto, la speranza, l’imbarazzo e la vergogna, le ricaddero addosso tutte insieme, e lei non aveva forza, non ne aveva più.

Jared sentì dei singhiozzi alle sue spalle, e si voltò. Jane si era lasciata cadere di fianco sul divanetto, e se ne stava con il viso tra le mani, in preda al pianto. Il ragazzo portò le mani ai fianchi,  sospirando ed inclinando la testa. Si prese qualche secondo per fare mente locale.

Poi afferrò la sedia e la trascinò più vicino al divanetto, sedendocisi ed appoggiando i gomiti sulle ginocchia.

«Perché vuoi così disperatamente andartene?» Ma la domanda la fece solo far piangere ancora più forte. Allora Jared aspettò ancora un minuto, poi riprovò. «Vuoi dirmi che è successo?»

Jane tirò su col naso e teneramente si strusciò gli occhi con il dorso della mano.

«Non è una storia molto allegra.» si commiserò un po’ Jane.

«L’avevo immaginato.» disse lui sospirando, cominciando a sentirsi un po’ in colpa per la sua reazione tutto sommato spropositata.

«Sto.. sto scappando perché ho fatto una cosa orribile.»

«Cosa puoi aver fatto di così terribile?» lei si alzò a sedere tenendosi stretta nelle spalle.

«Io.. ho ferito il mio patrigno.»

Jared rimase attonito a quell’affermazione. D’un tratto considerò che forse chiamare preventivamente la vigilanza non sarebbe stata una cattivissima idea. Si rese conto di essere più fifone di quanto non pensasse. Aspettò che continuasse, con una delle sue migliori facce da poker.

«Io e lui non andiamo d’accordo, ho paura che lui picchi mia madre. Stasera abbiamo litigato perché sono rientrata tardi ed avrei dovuto cucinare per lui, così mi ha aggredito. Ho avuto paura, voglio dire.. è molto più grosso di me. Ho preso quello che mi è capitato vicino, una forchetta, e gliel’ho ficcata nel braccio...» mentre parlava mimò il gesto dell’accoltellamento «E mentre urlava sono scappata via.»

Finì di spiegare, poi con faccia colpevole guardò il ragazzo negli occhi, in silenzio.

Jared aveva ascoltato un po’ scosso, ed ora era rimaneva fermo con la bocca un po’ dischiusa, come lì lì per dire qualcosa. Fu allora che notò la macchia rosso sangue sulla spalla di lei. Ammise a sé stesso, era spaventato.

«Perché non hai chiamato la polizia?»

«Mia madre non me l’avrebbe permesso. Mi stava urlando contro di andarmene e di non tornare, quando sono scappata via.» Si sporse verso Jared e disse con voce scongiurante

«Ho solo avuto paura! Non volevo fargli male! Cioè, sì, ma.. Mi avrebbe spezzato un braccio! Non è legittima difesa? »

«Suppongo di sì...» fece lui, mentre intanto appoggiava la schiena allo schienale della sedia, allungando un po’ le distanze tra di loro, con le braccia di nuovo incrociate sul petto, difensive.

Jane aggrottò le sopracciglia ed affinò gli occhi «Hai veramente paura di me?» disse incredula.

«No.» fu la risposta nervosa e incerta di lui. Lei rimase interdetta. Con un velo di sarcasmo alzò i palmi e disse «Guarda che sono disarmata.»

Lui, urtato nell’orgoglio gli abbassò con un gesto di stizza le mani.

«Qual era esattamente il tuo geniale piano di fuga?»

Jane s’imbronciò come una bambina «Nessuno. Me ne sarei stata rimpiattata finché non mi avreste scoperto, più tardi e più lontano possibile da qui.»

Una breve pausa di riflessione «Capito.»

«Jared, devi aiutarmi.» Sussurrò Jane. Lui alzò lo sguardo nel suo. Non le aveva detto il suo nome.  Anche solo per fama, alla fine lo conosceva.

«Devi andare alla polizia, e denunciare quell’uomo. Devi allontanarlo da tua madre.» Jane sentì il fiato spezzato in gola, e sentì che non sarebbe riuscita ad affrontare ciò che l’aspettava. Ma Jared continuò, tenendo gli occhi bassi.

«Appena saremo fuori città, ti accompagno alla prima stazione di polizia - esitò - poi decideremo cosa fare.»

Una piacevole strizza avvolse lo stomaco di Jane. Sarebbe andata via di lì. Strinse le labbra forte per non ricominciare a piangere, mentre una piccola lacrima di gioia si faceva spazio scalciando attraverso le palpebre. In quel momento Jared alzò lo sguardo, e con un grande sorriso le disse, con tono incoraggiante «Mi sembra di aver capito che non hai ancora mangiato, giusto?»

  
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