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Autore: Ghevurah    30/05/2012    7 recensioni
Se potesse scegliere non cambierebbe nulla della propria esistenza. Perché certe cose qualcuno le deve fare per forza e lui non vorrebbe mai che un simile fardello gravi su qualcun’altro.
Poi, però, ci sono giorni in cui guarda suo fratello dormire. Avvinghiato nelle coperte, con uno spicchio di volto irradiato dalla luce fredda della luna. Piccolo e candido. Minuscolo.
Lo guarda e si sente egoista. Allora, della propria esistenza, della loro, vorrebbe poter cambiare tutto. Vorrebbe poter passare le ore a rincorrersi, a giocare e strillare e ridere fino a non avere più aria nei polmoni, la gola secca.
Sasuke.
Per fortuna che c’è Sasuke. Per sfortuna, allo stesso modo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Itachi, Kisame Hoshigaki, Nuovo Personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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Disclaimer: Itachi e Kisame appartengono a Masashi Kishimoto, così come l’intero universo di Naruto. Nessuno scopo di lucro è qui inteso.

Voglio avvertire chiunque si avventurerà oltre le note che nella fan fiction qui di seguito NON verranno segnalati i discorsi diretti tramite virgolette, trattini o quant’altro. Saranno bensì parte fluida del testo, introdotti da spazi o da parole, ma NON da segni grafici. Ora, questa non è follia, ma una precisa scelta stilistica che affonda le sue radici nelle opere di Joyce e si è sviluppata nel corso del Novecento grazie a diversi autori. Se pensate di non riuscire a leggere un testo simile o se trovate troppa difficoltà nel farlo, non sforzatevi e - vi scongiuro - evitate di scrivermi che mi sono “dimenticata delle virgolette”. Non ho dimenticato niente, l’ho fatto apposta.
Grazie per l’attenzione e - se vorrete - buona lettura.






Recite di vita




Se le regole che hai seguito ti hanno portato fino a questo punto,
a che servono quelle regole?

Cormac McCarthy, Non è un paese per vecchi







Eccolo, il ragazzino. È pallido e magro, affogato in un ombra che non gli appartiene. Si trascina appresso i rimasugli di un’esistenza sbrindellata, il peso di una maledizione che lui stesso ha lanciato.
Eccolo. Non ha bisogno di erigere una barriera invisibile fra sé e il mondo, gli basta indossare una maschera. È vuota e scavata, muta e immobile. È la sua barriera, il suo scudo, la sua salvezza. Talmente ben costruita che sembra una seconda pelle, che è facile dimenticarsela addosso e convincersi che sia lei a recitare la parte dell’essere umano.
A tredici anni il ragazzino ha già ucciso più persone di quanto se ne possa ricordare, la sua famiglia dice di essere orgogliosa, il suo Hokage anche. I suoi superiori, i suoi compagni, i suoi amici, un intero villaggio sono tutti, estremamente, orgogliosi.
Lui non dispensa parole di circostanza, non sorride né ringrazia. Fa un cenno debole col capo e si riconosce nell’assassino che è.
Se potesse scegliere non cambierebbe nulla della propria esistenza. Perché certe cose qualcuno le deve fare per forza e lui non vorrebbe mai che un simile fardello gravi su qualcun’altro.
Poi, però, ci sono giorni in cui guarda suo fratello dormire. Avvinghiato nelle coperte, con uno spicchio di volto irradiato dalla luce fredda della luna. Piccolo e candido. Minuscolo.
Lo guarda e si sente egoista. Allora, della propria esistenza, della loro, vorrebbe poter cambiare tutto. Vorrebbe poter passare le ore a rincorrersi, a giocare e strillare e ridere fino a non avere più aria nei polmoni, la gola secca.
Sasuke.
Per fortuna che c’è Sasuke. Per sfortuna, allo stesso modo.
La vita che scivola sulla superficie impermeabile della sua maschera, si infrange su Sasuke. Si incastra, sbatacchia, coagula. Ma lui non indossa una maschera, no. Lui è come un nervo scoperto, un osso spezzato che sbuca dalla carne. Lui è tutto ciò che il ragazzino ha smesso di essere da che ha memoria. Per questo è così prezioso.



Pioveva da tre giorni. Tre giorni d’acqua che impiastricciava le casacche e scivolava sotto la stoffa e tamburellava sulla tesa di paglia del sugegasa1, gocciolando lungo il velario di carta che celava il volto.
Si fermarono sotto le fronde di un cedro piegato, timido, dallo scrosciare della pioggia.
Kisame sollevò Samehada, riparandosi con la sua mole abnorme dalla gocce che zampillavano tra le foglie.
Neh, Itachi-san, dici che lassù vogliono affogare il mondo?
Itachi alzò il capo verso il cielo. Una cappa densa e cerea.
Manca poco al prossimo villaggio, disse. Poi inclinò la tesa del cappello in avanti e avanzò nella fanghiglia.


Il villaggio non aveva nome. Era un agglomerato di case traballanti che parevano reggersi in piedi per caso. L’acqua sciabordava dalle rogge, allagando i viottoli sterrati. Il ticchettio della pioggia che sgusciava dalle grondaie e il lamento delle tegole torturate dal vento, erano gli unici suoni.
Kisame sbuffò.
Non c’è anima viva qui, disse.
Percorsero i vicoli accompagnati dallo scalpiccio debole dei loro passi, fino ad arrivare a quello che avrebbe potuto ricordare un izakaya2. All’ingresso, sorretto da due travi sbilenche, pendevano due akachochin3 spente. Le imposte erano serrate.
Scusatemi.
Una voce  mischiata allo stormire della pioggia, li fece voltare entrambi.
C’era un vecchio a qualche passo da loro, pallido e curvo sotto un ombrello che lo riparava a stento dall’acqua.
Scusatemi, ripeté. L’izakaya aprirà fra qualche ora, ma se cercate un riparo sono il proprietario di un ryokan4 a pochi isolati da qui.
Sul volto di Kisame si tese un sorriso affilato.
Bene, disse. Stavo iniziando a credere che questo fosse un villaggio di fantasmi.


Il vecchio chiuse l’ombrello, lo scrollò e aprì lo shoji5, facendoli entrare uno alla volta. Quando Itachi si sfilò il sugegasa, lasciando scivolare i capelli sul volto, vide il suo copri fronte sfregiato ma non si scompose né cambiò espressione.
Il centro della stanza d’ingresso era occupato da un irori6 sul quale bolliva una vecchia teiera di rame. Al di là del focolare, appoggiati contro la parete c’erano alcuni ragazzi. Li osservavano in silenzio, celando i loro sguardi tra le lingue tremule delle fiamme.
Kisame sorrise e appoggiò Samehada a terra con un tonfo sordo. I ragazzi sussultarono.
Chi sono? Chiese al vecchio.
Fuggiaschi di Iwa.
Perché li avete qui?
Il vecchio si chinò verso l’irori per ravvivarne le braci. Sul suo volto rugoso si rincorsero i riflessi luminescenti del fuoco.
Perché siamo un villaggio di fantasmi, disse. E i fantasmi non parlano.
Kisame carezzò l’elsa di Samehada e lanciò uno sguardo obliquo al compagno seduto al suo fianco.
Sai? Noi due, con i fantasmi, andiamo parecchio d’accordo.


Era passata poco più di un’ora, quando lo shoji d’ingresso si aprì con uno scatto improvviso. Il vecchio alzò lo sguardo dalle braci e corrugò la fronte, mettendosi in piedi lentamente.
Hirofumi-kun, chiamò. Sei in ritardo.
Dal corridoio fece capolino un ragazzo bagnato fradicio che avanzò nella stanza a passi svelti, stringendosi nelle spalle.
Scusa vecchio ma...
Le sue parole si spensero quando vide i due nukenin seduti attorno al fuoco.
Oh, disse, salve.
Itachi fece un cenno con il capo, mentre Kisame distendeva le labbra in una piega bieca.
Salve.
Il vecchio agitò un mano con aria infastidita.
Come vedi abbiamo ospiti. Asciugati e sbrigati ad aiutarmi.
Il ragazzo annuì e si avvicinò al gruppo di fuggiaschi che l’accolsero con un coro sommesso di saluti biascicati.
Si levò la felpa zuppa, sfregando le mani fra loro e allungandole verso il fuoco. Alzò lo sguardo, lasciandolo guizzare vivace dall’uno all’altro nukenin, senza nascondere alcuna curiosità. I capelli castani, tanto chiari da sembrare intessuti di nebbia, erano appiccicati alla fronte e gocciolavano sulla maglia in cui era affogato. Era un ragazzo alto, con le spalle larghe e robuste, ma il suo volto conservava i tratti morbidi di un bambino.
Eri di Konoha? Chiese ad un tratto e la sua voce fresca e gioviale irruppe nel silenzio come il guizzo di un lampo. I fuggiaschi gli lanciarono occhiate scioccate, mentre il vecchio si immobilizzava davanti all’ irori.
Itachi sollevò le palpebre quel tanto che bastava per rivolgergli uno sguardo opaco, poi Kisame fece schioccare la lingua.
Neh, ragazzo, quello che ha sulla fronte ti sembra il simbolo di cosa?
Il giovane scrollò le spalle.
Mi spiace. Non sono bravo a riconoscere i simboli dei vostri villaggi.
Kisame corrugò la fronte e il vecchio si intromise fra loro.
Non è di qui, disse. Viene da un paese dell’estremo sud.
Il ragazzo fece un ampio gesto d’assenso con il capo e il nukenin gli rivolse uno sguardo sorpreso.
Parli bene la nostra lingua.
Sono più bravo con la lingua che con i simboli. Tu invece da dove vieni, signore?
Il sorriso di Kisame si allargò quasi dovesse divorandogli il volto.
Vengo da Kiri, disse.
Non pensavo che un ninja di Konoha e uno di Kiri potessero andare in giro assieme.
È perché non siamo più ninja di Konoha, né di Kiri.
Beh, rimane comunque una cosa curiosa…
Il vecchio tolse la teiera dal fuoco e la appoggiò a terra con decisione.
Hirofumi-kun, chiamò. Basta infastidire i nostri ospiti. Ora sei asciutto, va' di sopra a preparare la loro stanza. Quando hai fatto torna giù e accompagnali.
Hirofumi sospirò e si tirò in piedi. Poi, senza aggiungere altro, si diresse verso le scale. I suoi passi riecheggiarono sino a perdersi negli scricchiolii della casa tormentata dal vento.


Il ragazzo li condusse lungo il corridoio che si allungava nel buio. In mano teneva una lanterna.
Mai vista una pioggia del genere, borbottava e Kisame dietro di lui ridacchiava e annuiva, mentre Itachi li seguiva in silenzio.
Il baluginio del lume scivolava sui panelli di carta, disegnando ricami di luce che subito venivano inghiottiti dall’oscurità.
Arrivati di fronte alla stanza, aprì il fusuma7 e cedette loro il passo.
Per qualunque cosa, disse, non esitate a chiamarmi.
Kisame inclinò la testa da un lato.
A chiamare…
Hirofumi. Ma potete chiamarmi Hiro.
Hiro-kun, ripeté il nukenin sorridendo, ti faremo sapere se avremo bisogno di te.
Quando il fusuma si richiuse, Kisame cercò la figura di Itachi in piedi davanti alla piccola finestra che si affacciava sulla strada.
È un ragazzo simpatico, disse. Deve essere poco più grande di Sas'ke-kun, neh Itachi-san?
Itachi non rispose. Gli diede le spalle e si sfilò la casacca umida di pioggia.


A quattordici anni il ragazzino è il cardine di una guerra intestina. Il riflesso di una lama a doppio taglio, veleno, morte, disperazione. Abbandonato da chi era la sua guida, si è lasciato regalare un potere che pesa quanto il mondo.
A quattordici anni il ragazzino stravolge l’assioma per cui se sei assassino di nemici del tuo villaggio, sei un eroe per il tuo villaggio e per la tua famiglia. A quattordici anni è assassino della sua famiglia e criminale per il suo villaggio.
A quattordici anni ha conosciuto l’ombra di sé stesso, l’ha scoperta travestita da uomo profumato di leggenda. E nonostante sia l’incarnazione di tutto i motivi per cui è divenuto un assassino, si è sfilato la propria maschera e gli ha domandato aiuto.
Lo ha fatto perché non c’era altro modo. Lo ha fatto perché se non poteva costruire una maschera anche a Sasuke, se non poteva renderlo impermeabile alla loro vita, allora lo avrebbe obbligato ad imparare a respirarci dentro.
A quattordici anni il ragazzino si unisce a quelli che fino a qualche giorno prima considerava suoi nemici. Capovolge il proprio mondo con uno schiocco di dita.
Loro lo trattano come si tratta un proprio simile, rispettano il suo silenzio, il suo distacco. Alcuni si interessano alla sua storia così breve e così terribile, al suo potere. Ma al ragazzino non importa. Pensa a Sasuke. Sempre. Perché il suo io oltre la maschera è rimasto con lui.
In quei giorni si sveglia di notte sentendosi chiamare dal buio. Avverte passi scalzi accanto al futon e quando apre gli occhi vede il proprio copri-fronte sfregiato abbandonato sul pavimento. Lì non c’è null’altro che vada la pena di essere guardato.
Torna a dormire e anche nei sogni c’è solo Sasuke. Sasuke che lo chiama e dice che no, non può essere vero. Sasuke che si porta le mani alla testa, urla e piange cade a terra. E lo chiama ancora.
Nel sogno, il ragazzino vorrebbe dirgli di alzarsi dal pavimento per non sporcarsi del sangue sparso un po’ ovunque; ma non lo fa. Osserva i corpi di Fugaku e Mikoto, invece, piegati l’uno sull’altra ai suoi piedi. Fugaku e Mikoto che lo guardano estrarre la katana e si lasciano colpire. Lei con un sorriso, un bisbiglio. Va bene, va bene, dice. Se è per Sas'ke va bene.
Lui con lacrime che non piangerà mai intrappolate tra le ciglia, la solita espressione amara. Tace. Ma dopo il fendente si accascia al suolo fino a raggiungere il corpo morto di Mikoto.
Poi torna Sasuke. Lo rincorre tra incastri di vicoli addormentati, lo attacca con la disperazione folle di un bambino. Piange.
Sasuke e ancora Sasuke.



Lo strato di nuvole venne bucato dai raggi di un sole pallido come latte, mentre una penombra azzurrognola si alzava dalle case gocciolanti. Da quando aveva smesso di piovere il villaggio si stava lentamente popolando di vita.
Kisame sedette al tavolo lanciando un’occhiata alla strada, oltre la finestra aperta.
A vederlo ora, disse rivolto ad Itachi che aveva preso posto di fronte a lui, non sembrerebbe un villaggio di fantasmi.
Il ragazzo allungò le gambe e incrociò le mani in grembo, fermando il proprio sguardo sul volto del compagno.
Ti pare strano, continuò Kisame, che quel vecchio e il ragazzo non abbiano avuto la ben che minima remora ad ospitare due come noi?
Questo è un villaggio di confine in cui non si avverte né l’influenza di Konoha né quella di Iwa. Devono essere abituati ad accogliere chiunque.
Ma pensi che sappiano chi siamo?
Non credo che a questa gente importi della nostra identità.
Allora è davvero un buon posto. Ora che anche Suna e gli altri villaggi stanno dando la caccia ad Akatsuki è sempre più difficile trovare un posto come questo, disse poi carezzò la superficie lignea del tavolo voltandosi per occhieggiare la sala che si stava riempiendo di gente. Una donna si aggirava tra i tavoli con un vassoio.
Agitò una mano in sua direzione, quando dalle tende della cucina fece capolino il ragazzo di quel pomeriggio.
Hiro-kun, lo chiamò.
Il giovane alzò lo sguardo e gli sorrise. Districandosi nel labirinto di tavoli, arrivò fino a loro.
Vedo che vi siete asciugati.
Sì, ma ora iniziamo ad aver fame.
Non ho idea di cosa si mangi a Kiri o a Konoha, ma posso immaginare che comunque sia vogliate entrambi iniziare con del saké.
Kisame ghignò.
Qualunque sia il villaggio, il saké come il sangue ci unisce tutti, neh?
A meno che uno di voi sia astemio credo di sì, signore.
Saké, quindi. E una porzione di oden7 per me.
Del miso, aggiunse Itachi senza alterare quell’immobilità che caratterizzava i suoi tratti. E dei takoyaki8, per favore.
Il ragazzo assentì, ma prima che potesse allontanarsi Kisame lo richiamò.
Hiro-kun, di un po’… ti piacerebbe conoscere i nostri nomi?
Hirofumi sgranò gli occhi, rimanendo in silenzio per qualche istante. Poi sul suo viso comparve il solito sorriso accomandante.
Sai, signore? Il vecchio in questi casi ci raccomanda sempre di rispondere che nulla potrebbe interessarci meno dei nomi dei nostri clienti. Ma anche se conoscessi i vostri nomi, non avrei comunque idea di quale sia la vostra identità.
Il ghigno di Kisame tornò a tendersi. Una mezza luna molata e distorta.
Sei un ragazzo scaltro, Hiro-kun. Mi piacciono quelli come te.
Hirofumi abbozzò un mezzo inchino.
Grazie signore, disse e si dileguò fra i tavoli della sala come una nuvola di fumo.


Hirofumi aveva servito loro il saké con gesti svelti e precisi. Tra una portata e l’altra ripuliva il tavolo, scambiando qualche parola con Kisame. Sorrideva. E si lamentava di quanto il vecchio fosse avido e spocchioso.
Era appena scomparso oltre le tende della cucina, quando lo spadaccino notò la figura di un bambino in piedi tra i tavoli. Li fissava in silenzio, senza muoversi né distogliere lo sguardo.
Neh, Itachi-san. A quanto pare qui i fantasmi ci sono davvero.
Gli occhi di Itachi indugiarono sul bambino, per poi socchiudersi appena.
È solo un bambino, articolò incolore.
Ci guarda da un bel po’.
Anche altri ci guardano.
Mmh.
Kisame bevve un sorso di saké, poi tornò a voltarsi verso il bambino, ma quando lo fece non  trovò altro che una porzione di pavimento vuoto e lo spigolo di un tavolo.
Corrugò la fronte, sentendosi tirare la stoffa della casacca.
Il bambino era a pochi centimetri da lui, il pugno chiuso sulla sua manica destra. Lo guardava da sotto in su con attenzione.
Signore, è la tua spada quella? Chiese, indicando con un dito il profilo di Samehada appoggiata contro la parete.
Kisame rimase per qualche istante a fissarlo in silenzio, poi scrollò il capo e ridacchiò.
Puoi scommetterci.
Come si chiama?
Non credo che dovresti saperlo.
Non vuoi dirmelo?
Non è che non voglio dirtelo… è che se lo dicessi ci sarebbero delle conseguenze.
Anche se me lo dici, non lo dirò a nessuno. Neppure ai ninja di Konoha, sussurrò  il bambino lanciando un’occhiata incerta ad Itachi.
Lo sguardo di Kisame cercò quello del compagno, prima di tornare ad abbassarsi.
Che sai tu dei ninja di Konoha?
Beh, vengono qui a fare delle domande a volte.
Ah, sì?
Sì, ma non ti devi preoccupare signore. Non dico niente a quelli lì, io.
Non ti sono simpatici i ninja di Konoha?
Non mi sono simpatici i ninja in genere. Però voi non siete più due di loro, no?
Il nukenin tirò le labbra in una smorfia, ma prima che potesse rispondergli, una voce si alzò dal fondo della sala.
Masaru!
Hirofumi avanzò verso di loro a passi svelti. Aveva il viso contratto in un espressione così tesa e adulta da dare l’impressione di essere un’altra persona. Afferrò il bambino e lo strattonò verso di lui.
Ti ho detto che non devi avvicinarti a nessuno! A nessuno, chiaro?!
Hiro-nii, ma loro...
Loro niente!
Kisame si dondolò sulla sedia, lasciando scivolare lo sguardo dall’uno all’altro.
Neh, Hiro-kun, è il tuo otouto questo?
Hirofumi spinse il bambino dietro di sé, quasi potesse fargli da scudo.
Se fosse? Domandò e la sua voce si tese e fremette come una corda.
È un bambino un po’ troppo socievole e...
Questo non è un villaggio di ninja, lo interruppe il ragazzo brusco. Siamo solo delle persone normali, vi prego di tenerlo a mente.
Lo spadaccino inclinò il capo su un lato. Un sorriso claudicante tornò a disegnarsi sul suo volto affilato.
Aprì la bocca per replicare, ma venne zittito dalla voce di Itachi.
Non è nostra intenzione farvi alcun male, disse. Il suo tono era pacato e deciso, mentre soppesava le parole una alla volta.
Hirofumi rimase a guardarlo negli occhi per qualche istante. Abissi più oscuri del buio. Poi diede loro le spalle e trascinò via il bambino in silenzio.


Al ragazzino affiancano presto un compagno. Si rivolge a lui con un rispetto che non gli deve e porta con sé una spada animata.
Assieme vanno in giro per il mondo come spettri e non si fermano mai, quasi dovessero raggiungerne la fine per poi riprendere da capo a percorrerlo.

La vista del ragazzino inizia a spegnersi in quel periodo. Nebbia sotto le palpebre, ombre che scivolano sulla retina. Sa che è per via di quel dono pesantissimo.
Diventerai cieco, gli dice l’uomo che profuma di leggenda. Ci sarebbe un modo, lo sai. Se solo tu non avessi preso questa scelta.
L’unica scelta, pensa lui. Poi:
Morirò prima che la mia vista si spenga del tutto. Mi ucciderà Sas'ke e ucciderà anche te.
L’altro ride sotto una maschera che non ha niente a che fare con la sua. È tangibile e vistosa. Non serve a nascondere, è un volto per chi un volto non ce l’ha.
A diciotto anni il ragazzino torna al suo villaggio. Sasuke lo cerca e lo incontra.
Non è più il bambino che piange nei suoi sogni. È cresciuto, non abbastanza ma è cresciuto. Un ragazzino magro e pallido, come lui.
Lo chiama con una voce che non riconosce. Ha le labbra impregnate d’odio e gli si getta contro. 
Vincerlo è facile quanto prendere un respiro, ma imprigionarlo tra sé e il muro, parlargli, ingannarlo di nuovo, è quanto di più difficile si possa immaginare.
Sasuke.
Quando il ragazzino e il suo compagno lasciano il Paese del Fuoco, la sua vista è peggiorata.
I suoi incubi anche.
C’è Sasuke un po’ ovunque. Frammenti di lui incastrati sotto le palpebre, conficcati nel petto, nella testa. Sasuke e la sua sete di vendetta. Sasuke che ora non è più un bambino. Sasuke che ha occhi rossi simili, sì, ma non ancora uguali ai suoi.
Sasuke.
Sarebbe bello, si dice il ragazzino, se non avesse bisogno dei miei stessi occhi per uccidermi.



Era notte quando il ragazzo bussò. Sapeva che erano ancora svegli perché vedeva i contorni delle loro ombre proiettarsi sulla carta di riso del fusuma, illuminato dalla lanterna accesa.
Fu lo spadaccino ad aprirgli. Spalancò l’anta con decisione, quasi sapesse già chi si sarebbe trovato di fronte.
Il ragazzo lo guardò: indossava abiti scuri e austeri, da ninja. E lui pensò che senza la casacca ricamata con cui lo aveva sempre visto, sembrasse ancora più imponente.
Hiro-kun, disse il nukenin. Che sorpresa.
Hirofumi scrollò le spalle.
Spero di non disturbare.
Il nukenin voltò il capo, lanciando uno sguardo all’interno della sala. Poi si scostò lasciandolo passare.
Direi di no.
Il ragazzo attraversò la soglia. I futon stesi sul tatami parevano intonsi, la finestra che si affacciava sulla strada era aperta. L’altro nukenin era appoggiato contro lo stipite a braccia conserte, gli occhi socchiusi. Il suo volto, scolpito dalla luce della lanterna era una maschera lattea. Anche lui non portava la casacca, ma a differenza del compagno, con addosso solo quegli abiti sottili, pareva più minuto e fragile. Un bagliore vacillante nella notte.
Sono venuto a scusarmi per oggi, scandì Hirofumi abbassando lo sguardo. Mio fratello non vi darà più fastidio.
Lo spadaccino gli lanciò un occhiata divertita e agitò una mano.
Anche io da piccolo era un bambino vivace, ridacchiò.
Sì, disse Hirofumi. Ma le mie scuse riguardano anche il mio comportamento. Non dovevo essere così aggressivo.
Ti ho detto che mi piaci, neh Hiro-kun? Quindi facciamo come se non fosse successo nulla.
Hirofumi fece un cenno col capo, per poi indietreggiare fino all'ingresso.
Bene, allora se non avete bisogno di altro…
Aveva appena appoggiato una mano sull’anta di carta, quando il nukenin più giovane lo fermò.
Aspetta, disse. La sua voce era roca e bassa così come la ricordava da quel pomeriggio e sembrava non ammettere repliche.
Hai detto di essere uno straniero e conoscere ben poco dei villaggi ninja, eppure tuo fratello era piuttosto informato.
È perché ascolta i racconti del vecchio, gli rispose Hirofumi, immobile davanti alla parete di carta. A me non interessa sapere di queste cose ma lui è un bambino curioso.
Il nukenin si staccò dallo stipite della finestra e avanzò verso di lui con movimenti lenti e controllati.
Non ricordo il nome del paese da cui venite.
Hirofumi cercò i suoi occhi e vi si specchiò, vacuo e inscalfibile così come l'altro.
Veniamo dalle Isole Kuda.
Sono piuttosto lontane.
Due giorni interi di viaggio. Quando nostro padre è morto, ho dovuto cercare lavoro e nel nostro Paese è difficile trovarlo se non sei un pescatore.
Dopo le sue parole calò un breve silenzio. Il nukenin si voltò e tornò alla finestra.
Ora puoi andare, disse.
Hirofumi si chiuse l’anta del futsuma alle spalle e attraversò il corridoio senza mai voltarsi indietro. Sentiva il fiato incastragli in gola, gelido e affannato, ma non se ne curò. Solo raggiunto il pianerottolo delle scale, cercò di regolarizzare il respiro. Si passò una mano sulla fronte e strizzò le palpebre.
Stai calmo, sussurrò fra sé. Stai calmo.













Glossario: (non ho riportato tutti i termini giapponesi utilizzati nel testo perché i glossari sono la cosa più noiosa del mondo credo che molti di voi abbiano già ben chiaro il significato di alcuni di essi. Se così non fosse, chiedetemi e vi sarà risposto).

1- Sugegasa tipico capello conico in paglia, assimilabile - a mio avviso - a quello indossato dai membri dell’Akatsuki nel manga.
2- Izakaya chiosco giapponese in cui si viene serviti al banco, sedendosi su degli sgabelli.
3- Akachochin le famose lanterne rosse appese all’esterno degli izakaya.
4- Ryokan locanda giapponese fornita di terme.
5- Shoji pareti scorrevoli di carta traslucida che separano ambienti esterni da quelli interni.
6- Irori focolare incassato nel pavimento.
7- Fusuma pannelli di carta di riso decorati e scorrevoli, fungono da porte tra stanze interne.
8- Oden brodo di tonno o alghe, con l’aggiunta di vari cibi tra cui verdure e uova, condito con salsa di soia.
9- Takoyaki polpette di polipo.

Sì, le Isole Kuda me le sono inventate di sana pianta… ma mi servivano a fini della trama, capitemi.
   
 
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