8. something in the way
Era
passata una settimana dall'ultima volta che avevo parlato con Mikey a
proposito di Bandit. Non volevo pressarlo.. stavo diventando quasi
noioso, in effetti, e se si era offerto di aiutarmi non era certo per
trovarsi sommerso dalle mie telefonate e messaggi paranoici. Che poi,
insomma.. “darmi una mano”.. era pur sempre stata un'idea sua, e
a dirla tutta era stata anche abbastanza geniale, siccome non so se
mi sarebbe mai passata per l'anticamera del cervello una cosa simile.
Eppure era passata una settimana, e ancora non se ne sapeva niente.
Non sapevo cosa ci stessero facendo con quel capello: forse cercavano
di riprodurre un Gerard in laboratorio, forse cercavano di trovare
qualche roba strana da scienziati e avevano il candidato perfetto, ma
in entrambi i casi, non potevano volerci sette giorni (e diciamo
otto, perché non mi aspettavo che mi arrivasse posta alle sei del
pomeriggio) per un semplice test del DNA. Erano più o meno queste le
uniche cose alle quali riuscivo a pensare ultimamente: non c'erano
molti attimi in cui mi potessi dire “libero”, finalmente
“sereno”, nonostante molti nodi fossero già venuti al pettine.
Forse stavo meglio quando dovevo semplicemente accettare il fatto che
quello che era successo, ormai era successo, e che se dovevamo vivere
come fidanzati-clandestini, allora l'avremmo fatto. Perché non c'era
via di scampo, e le cose dovevano andare così. Era un dovere. Anzi,
a dire il vero stare insieme non era un dovere: il dovere era tenerlo
in segreto. Il dovere era far tutti contenti, far sì che le cose
andassero come agli occhi di tutti era giusto che andassero. Era
anche bello sentirsi come dei martiri. Specialmente io, poi:
apprezzato da tutti per la “forza che avevo”, dicevano. “Perché
dev'essere davvero difficile semplicemente girare il capo e far finta
che non sia successo niente, rimanendo amici”. Tanto che mi sentivo
ripetere frasi del genere, avevo quasi cominciato a crederci. Cioè,
per modo di dire.. era solo che, quando arrivavano i tipici momenti
in cui non c'era nessuno, dovevo sempre farmi due calcoli mentali
prima di rendermi conto che sì, effettivamente, nonostante tutto,
eravamo ancora solo noi due. Ed era una forma di egocentrismo,
mettersi al primo posto rispetto a tutti, e oltre tutto, mi sentivo
anche piuttosto falso ad accettare tutte le pacche sulla spalla, gli
abbracci, i discorsi come quello di Bob come se proprio niente stesse
succedendo. Come se fosse tutto allo stesso modo in cui sembrava in
superficie, senza permettere agli altri di scavare, così che
scoprissero come in realtà stavano le cose.
Quella
spirale di pensieri sembrava consumarmi il cervello quasi quanto
l'asfalto, sul quale stavo camminando da ormai un'ora, sembrava
consumarmi le scarpe. Quelle logore, vecchie, comode. Seattle (o
almeno quel quartiere), sembrava la città più calma del mondo a
quell'ora del giorno, nonostante fosse venerdì. A quell'ora, i
ragazzi che per le sette e mezza/otto avrebbero riempito le strade,
erano ancora troppo occupati a prepararsi, e sui marciapiedi si
riversavano bambini e madri, i primi troppo intenti e presi dai loro
giochi, le seconde, troppo occupate a controllare che non si
uccidessero in qualche mistico modo per notarmi. Quella era l'ora
perfetta per passeggiare, almeno per me, anche perché nel quartiere
dove vivevo ormai da mesi, era difficile che qualcuno mi
riconoscesse, probabilmente perché era pieno di famiglie con figli
che per lo più erano lattanti, e perché quei pochi che mi avevano
riconosciuto, lo avevano fatto durante i primi giorni dopo il
trasferimento. Il cielo aveva una strana sfumatura di arancione,
quasi giallastro, e il sole che prima avevo osservato dalla finestra
di casa squarciare il cielo e le nuvole, ora sembrava come appassito,
morto dietro di loro e sotto quel manto colorato che era quasi
impossibile pensare stesse davvero così in alto. Non passavano
nemmeno le macchine per via della zona pedonale che istituivano per
almeno un week end ogni due mesi, e quella calma apparente, non
poteva sembrare più costruita di così. Era come camminare sul set
di un film, e quasi ci si aspettava che da un momento all'altro
saltassero fuori le telecamere, Brad e Angelina e tutti ci saremmo
resi conto che quel piccolo, finto idilliaco momento non era altro
che organizzato da un qualche stra-ricco regista, pronto a mettere su
pellicola quella che per lui era una realtà, ma che per noi abitanti
del posto, era un momento speciale, che nessuno contemplava dalle sue
case senza godersi.
Nonostante
sembrasse tutto tanto bello, per certi versi divertente, perché
cazzo, se non avete mai avuto quella classica capata di correre da un
lato all'altro della strada sperando di non essere mai investiti, o
non avete mai vissuto, o state mentendo. Certo, avendo quasi
trent'anni potevo anche evitarmela, ma mi sarei volentieri perso fra
quei bambini che giocavano a biglie nel bel mezzo della strada. Ecco,
quella poteva sembrare una foto. Una di quelle surreali, certo, un
pezzo di arte moderna, ma come foto avrebbe funzionate. Anzi, che
cavolo, l'avrei fatta io, ma se uno della mia età si fosse fermato a
fotografare dei bambini senza nessun preavviso o autorizzazione
speciale, una macchinetta costosissima e qualche zoom che sembra un
cannocchiale, allora l'avrebbero al novanta percento preso per un
pedofilo. E che schifo, potevo essere anche un po' checca, ma
pedofilo proprio no.
Tornare
a casa dopo un giro di quelli, di solito, mi portava sempre più
confusione di quanta non ne avessi avuta prima di partire, in
effetti: mi capitava spesso di sentire la necessità di uscire di
casa, da solo, camminare senza nessuna meta precisa e semplicemente
pensare, stampandomi un sorriso in faccia e cercando di entrare al
meglio in quel quadretto utopico mentre ,se qualcuno mi avesse aperto
la testa, sarebbe uscita abbastanza merda da rovinare l'intero
quartiere. Ero contento che comunque Emily me lo lasciasse fare, ed
era decisamente la più comprensiva fra tutte le ragazze che avessi
mai avuto in vita mia. Forse mi capiva meglio di quanto mi capissi io
stesso, alle volte, ed era così difficile pensare che forse sapeva
tutto quello che sapevo io, ma anche lei, come me, fingeva di
sorridere e lasciava perdere, perché infondo me l'aveva detto, mi
amava. Non eravamo proprio una tipica coppia io e lei: eravamo andati
a vivere insieme prima ancora di dirci (o meglio, che lei mi dicesse,
perché io tutt'oggi non avevo voglia di prenderla per il culo più
di quanto non stessi già facendo) una cosa del genere, che ormai per
molti sembra quasi normale, e accettavamo cautamente il fatto che
forse era okay anche se non era come per molti. Era diverso, ma
considerando che c'erano coppie che nemmeno si volevano bene, allora
eravamo davvero a cavallo.
Vidi
in lontananza la nostra cassetta delle lettere, gialla come tutte le
altre. Mi ero sempre chiesto perché si impegnassero così tanto a
fare tutto maledettamente uguale, in quei quartieri. Certo, nel
complesso ogni quartiere era diverso dall'altro, ma non c'era
speranza di trovare una cassetta che avesse anche solo una macchia di
colore in aggiunta, ed il massimo della creatività che si poteva
trovare, era il cognome della famiglia che abitava nella casa scritto
sopra. Diedi un veloce sguardo a casa nostra: il vialetto che
conduceva all'entrata così ben curato, il prato sempre (e dico
sempre) tosato, aiuole, fiori, pietre, che conducevano in linea retta
al porticato, in legno.. proprio come quello di tutti gli altri.
Certe volte, prima che ci trasferissimo definitivamente e andavamo
solo ogni tanto lì a Seattle ad organizzare la casa prima di
viverci, nemmeno la riconoscevo. E ad essere sincero, non avevo
smesso di avere problemi nemmeno i primi giorni. Io, ormai, per
fortuna davo già abbastanza nell'occhio (perché insomma, pur non
conoscendomi, bastava guardarmi le mani per pensare o che fossi uno
squilibrato, o semplicemente uno a cui piacciono i tatuaggi), ma era
brutto pensare che potevamo apparire a tutti come dei semplici
neo-sposini. Che nessuno avrebbe conosciuto la storia che c'era
dietro tutto quello che eravamo. Che nessuno, soprattutto, avrebbe
raccontato di noi due (io e Gerard), in un qualche libro come con
Romeo e Giulietta.. ed io in effetti non pretendo che scrivano un
libro su di noi, perché non siamo niente di così interessante, ma
che qualcuno ricordi. Che se nessun risultato fosse arrivato, o
ancora peggio, che un risultato positivo fosse arrivato (per quanto
impossibile), tutto quello che eravamo sarebbe morto con noi,
intramandabile ricordo di una storia d'amore che forse, pur essendo
durata anni, non è effettivamente mai nata.
Fu
proprio per questo che quando vidi Emily aprire la cassetta per
prendere chissà quale lettera, per un momento continuai a sperare. E
non era nemmeno una speranza tanto fondata, in effetti, ma più quel
tipo di speranza che arriva dopo continue delusioni. La speranza di
poter rivivere da capo tutto quello che si ha il diritto di vivere e
di godersi a pieno, perché io non ho potuto farlo. Non volevo che,
se fosse stato quello che pensavo che fosse, fosse lei ad aprire la
busta, perciò accelerai il passo, quasi corsi, raggiungendola in
poco.
-Non
ti preoccupare, faccio io!- Le sorrisi, facendole l'occhiolino e
mollandole un bacio sulla fronte prima di prendere al posto suo le
buste della spesa che portava. Ricambiò il sorriso, appoggiandosi
alla cassetta mentre continuava ad arricciarsi un ciuffo di capelli.
Non avrei mai capito l'ossessione delle ragazze per qualcosa che
anche se passi ore ad acconciare poi si rovinerà, ma forse per lei
era più un tic che altro.
-Che
gentleman.- Constatò, mentre, con la busta di plastica che quasi mi
tagliava il braccio in due, continuavo a cercare di armeggiare con la
chiave della cassetta, che mi ostinavo a portare con me ogni
santissimo giorno. Le risposi con un sorriso, impegnato in troppe
azioni (più di quante il mio cervello riuscisse a supportarne in un
momento tale) fra quello che provavo e quello che facevo. Finalmente
riuscii a prendere la lettera, chiudendo lo sportello di un giallo
improponibile senza farmi troppi problemi a sbatterlo. Lei si avviò
verso casa, ed io la osservai, consapevole che forse sarebbe stata
l'ultima volta che l'avrei vista. Presi un respiro profondo non
appena chiuse la porta sulle sue spalle, poggiando per qualche
secondo la busta a terra e concentrandomi ad aprirne un altro tipo,
di busta. Era dell'ospedale, e mi sarei quasi incazzato con Mikey per
non avermi chiamato per dirmi l'esito un po' prima, se non mi fossi
reso conto che probabilmente lo aveva fatto per farmi una sorpresa.
Presi un respiro profondo, sollevando lentamente il foglio dal suo
involucro cartaceo.
Negativo.
Bandit
non era figlia di Gerard, ed io non ero così contento da una vita.
Mi si
stampò in volto un sorriso, quasi automaticamente, quasi come un
riflesso, e provai (fortunatamente riuscendoci) a non piangere. Ormai
ne avevo abbastanza, ormai volevo, sinceramente, solo sorridere.
Sorridere così tanto da farmi venire i crampi alla mascella, ma
sapevo che non sarei riuscito a farlo se non mi fossi tolto un peso
dalle spalle. E sì, era brutto chiamare Emily “peso”, ma il vero
peso non era lei: erano tutte le bugie che avevo detto perché lei
rimanesse con me, nonostante non me la meritassi. Tutte le occasioni
che probabilmente le avevo fatto perdere. Tutte le persone che
avrebbe conosciuto se fosse rimasta a New York.. persone che forse le
avrebbero dato molto più di quello che ero stato capace di darle io,
ma ormai era andata. Ripresi in mano la busta, stringendo forte la
lettera e tornando a casa.
-Ems..-
Cominciai, chiudendo la porta alle mie spalle e osservandola. Si girò
verso di me, espressione così calma che mi sentii quasi in colpa a
rovinarle un momento del genere con una notizia come quella che stavo
per darle. Era strano come, da un momento all'altro sarebbe tutto
cambiato. La raggiunsi in cucina, poggiando la busta sullo stesso
bancone dove era seduta mentre beveva. Sembrava quasi che lo facesse
apposta, a prendersi tutto il tempo possibile. Come se volesse farmi
impazzire.
-Ehi.-
Commentò, con una semplicità quasi disarmante, prima di leggermi
nel pensiero. -Sei preoccupato per qualcosa?- Domandò, come se fosse
così facile risponderle. Certo che ero preoccupato per qualcosa, ma
al contempo, non so né come né perché, ero felice. Anche se non
l'avessi mai più vista, le sarei sempre stato riconoscente. Anche se
mi avesse odiato, io.. le avrei sempre voluto bene, in qualche
strano, stranissimo modo. Le porsi la lettera, e più leggeva, più i
suoi occhi si facevano enormi.
-Non è
sua figlia.- Cercai di abbozzare un sorriso, poggiando le mani sul
bordo del bancone, ai lati delle sue gambe. Non smisi di guardarla
negli occhi, finché non fu la prima a cedere e abbassò lo sguardo,
e lì mi resi conto che forse dovevo dire qualcosa. -Emily.. io.. lui
non mi ha fatto niente, io voglio..- Mi fermai, e in quel momento
cedetti. Probabilmente saremmo potuti rimanere in silenzio da qui
fino all'anno prossimo, ma fu lei la prima a continuare.
-Ma tu
vuoi stare con lui. Perché per quanto tu mi possa volere bene, io
non sono niente rispetto a lui, vero?- Non lo disse con un tono
cattivo, nemmeno arrabbiato.. era quasi comprensiva, e annuii,
confermando ogni singola di quelle parole che ero stato troppo
spaventato per dire. -C'è qualcosa nel modo in cui vuoi lui che non
ti farà mai desiderare di stare con chiunque altro.. lo capisco. E..
io..- Si fermò un secondo, e alzai lo sguardo per notare che lei
aveva fatto la stessa cosa. -L'ho capito da quella sera alle Hawaii,
quando mi hai raccontato tutto..- Si morse il labbro, cercando forse
di non prendermi a parole perché cavolo, era chiaro che voleva
farlo. -Lo capisco Frank, è giusto che sia così.- Si strinse nelle
spalle, continuando a guardarmi come in attesa di qualcosa.
-Mi
dispiace..- Dissi, sinceramente. Non nascondevo il fatto che ci ero
anche io rimasto male per il modo in cui, per l'ennesima volta, era
finita. La abbracciai, e stranamente non mi rifiutò. Nemmeno si
allontanò, ma semplicemente poggiò il volto sulla mia spalla.. come
se niente, ma proprio niente, fosse successo. Mi sentivo un bugiardo.
Il peggiore dei bugiardi, anche. Nonostante fosse quasi un mio
diritto avere un minimo di felicità dopo quello che avevo passato,
non smettevo di pensare al modo in cui le avevo fottuto la testa con
tutta quella farsa. -Davvero.- Completai, cercando di sembrare più
convinto di prima.
-Non
devi dispiacerti. Devi essere felice.- Sorrise, come se non vedesse
l'ora che la lasciassi. Emily non era una brava bugiarda, e sì, era
visibilmente contenta.. ma non contenta che fosse finita, più che
altro, contenta per me. E lo apprezzavo davvero. -Sarei egoista se
cominciassi a piangere e pretendere che tu stia con me, perché me lo
merito, bla bla bla..- Continuò, alzando gli occhi al cielo e
scuotendo il capo, come a ricordare una sua esperienza simile a
quella raccontata. -Io te l'ho già detto cosa provo per te, ed è
ovvio che se facessi di tutto per vederti con me a costo di vederti
triste, allora sarei la più grande ipocrita del mondo.- Scese con un
balzo che veramente non mi aspettavo dal bancone, rimanendo
vicinissima a me.
-Sei
una delle persone più buone che esistano sulla terra..- Abbassai il
capo, arrossendo dalla vergogna per il modo in cui mi ero comportato.
Aveva appena descritto me, che pur di essere felice, la lasciavo lì.
E quello era proprio il termine giusto: “ipocrita”. Facendo farse
sull'importanza della felicità e su quanto mi fosse stata negata, ma
senza farmi troppi problemi a negarla a qualcun altro. -Posso fare
qualcosa per rendere la situazione un po' meno orrenda?- Domandai,
abbozzando un sorriso in preda ai sensi di colpa. Lei annuì,
avvicinandosi ancora di più.
-Una
cosa sì..- Mi lasciò un bacio sul collo, e quasi sobbalzai,
ripensando al modo in cui si era rifiutata di cedere alla mia
richiesta di “bacio di addio” più di dodici mesi prima. Sorrise, abbracciandomi forte.
-Pensavo
fossi contraria?- Quasi ridacchiai, incrociando il suo sguardo per un
brevissimo momento prima di perdermi in quello che, questa volta ne
ero sicuro, sarebbe stato il nostro ultimo bacio.
-Ma tu
mi hai cambiata.- Replicò, ed il mio cuore, in quel momento, fece un
salto su sé stesso.
Okkei, cavolo, siamo al penultimo capitolo. YOOOH.
Il titolo è ispirato alla canzone dei Nirvana. c:
Cioè, solo ora mi sono resa conto che i capitoli di questa storia (tutte e tre le ff comprese) sono tipo quasi 30 in totale, e che cacchio, mi è venuta una cosa. °-°
Boh, non lo so, sono contenta. (?) Cagatemi e ci sentiamo al prossimo capitolo, il prima possibile, CHE QUI QUALCUNO AVREBBE ANCHE GLI ESAMI. LOL.
Ciaociao. <3